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Viganò tifa Trump: Covid e rivolte, è l’inferno firmato Nwo
Signor Presidente, stiamo assistendo in questi mesi al formarsi di due schieramenti che definirei biblici: i figli della luce e i figli delle tenebre. I figli della luce costituiscono la parte più cospicua dell’umanità, mentre i figli delle tenebre rappresentano una minoranza assoluta; eppure i primi sono oggetto di una sorta di discriminazione che li pone in una situazione di inferiorità morale rispetto ai loro avversari, che ricoprono spesso posti strategici nello Stato, nella politica, nell’economia e anche nei media. Per un fenomeno apparentemente inspiegabile, i buoni sono ostaggio dei malvagi e di quanti prestano loro aiuto per interesse o per pavidità. Questi due schieramenti, in quanto biblici, ripropongono la separazione netta tra la stirpe della Donna e quella del Serpente. Da una parte vi sono quanti, pur con mille difetti e debolezze, sono animati dal desiderio di compiere il bene, essere onesti, costituire una famiglia, impegnarsi nel lavoro, dare prosperità alla Patria, soccorrere i bisognosi e meritare, nell’obbedienza alla Legge di Dio, il Regno dei Cieli. Dall’altra si trovano coloro che servono se stessi, non hanno principi morali, vogliono demolire la famiglia e la Nazione, sfruttare i lavoratori per arricchirsi indebitamente, fomentare le divisioni intestine e le guerre, accumulare il potere e il denaro: per costoro l’illusione fallace di un benessere temporale rivelerà – se non si ravvedono – la tremenda sorte che li aspetta, lontano da Dio, nella dannazione eterna.Nella società, Signor Presidente, convivono queste due realtà contrapposte, eterne nemiche come eternamente nemici sono Dio e Satana. E pare che i figli delle tenebre – che identifichiamo facilmente con quel deep state al quale Ella saggiamente si oppone e che ferocemente le muove guerra anche in questi giorni – abbiano voluto scoprire le proprie carte, per così dire, mostrando ormai i propri piani. Erano così certi di aver già tutto sotto controllo, da aver messo da parte quella circospezione che fino ad oggi aveva almeno in parte celato i loro veri intenti. Le indagini già in corso sveleranno le vere responsabilità di chi ha gestito l’emergenza Covid non solo in ambito sanitario, ma anche politico, economico e mediatico. Scopriremo probabilmente che anche in questa colossale operazione di ingegneria sociale vi sono persone che hanno deciso le sorti dell’umanità, arrogandosi il diritto di agire contro la volontà dei cittadini e dei loro rappresentanti nei governi delle Nazioni. Scopriremo anche che i moti di questi giorni sono stati provocati da quanti, vedendo sfumare inesorabilmente il virus e diminuire l’allarme sociale della pandemia, hanno dovuto necessariamente provocare disordini perché ad essi seguisse quella repressione che, pur legittima, sarà condannata come un’ingiustificata aggressione della popolazione.La stessa cosa sta avvenendo anche in Europa, in perfetta sincronia. È di tutta evidenza che il ricorso alle proteste di piazza è strumentale agli scopi di chi vorrebbe veder eletto, alle prossime presidenziali, una persona che incarni gli scopi del deep state e che di esso sia espressione fedele e convinta. Non stupirà apprendere, tra qualche mese, che dietro gli atti vandalici e le violenze si nascondono ancora una volta coloro che, nella dissoluzione dell’ordine sociale, sperano di costruire un mondo senza libertà: Solve et coagula, insegna l’adagio massonico. Anche se può apparire sconcertante, gli schieramenti cui ho accennato si trovano anche in ambito religioso. Vi sono Pastori fedeli che pascono il gregge di Cristo, ma anche mercenari infedeli che cercano di disperdere il gregge e dare le pecore in pasto a lupi rapaci. E non stupisce che questi mercenari siano alleati dei figli delle tenebre e odino i figli della luce: come vi è un deep state, così vi è anche una deep Church che tradisce i propri doveri e rinnega i propri impegni dinanzi a Dio. Così, il Nemico invisibile, che i buoni governanti combattono nella cosa pubblica, viene combattuto dai buoni pastori nell’ambito ecclesiastico. Una battaglia spirituale della quale ho parlato anche in un mio recente Appello lanciato lo scorso 8 maggio.Per la prima volta gli Stati Uniti hanno in Lei un Presidente che difende coraggiosamente il diritto alla vita, che non si vergogna di denunciare le persecuzioni dei Cristiani nel mondo, che parla di Gesù Cristo e del diritto dei cittadini alla libertà di culto. La Sua partecipazione alla Marcia per la Vita, e più recentemente la proclamazione del mese di aprile quale National Child Abuse Prevention Month sono gesti che confermano in quale schieramento Ella voglia combattere. E mi permetto di credere che entrambi ci troviamo compagni di battaglia, pur con armi differenti. Per questo motivo ritengo che l’attacco di cui Ella è stato oggetto dopo la visita al Santuario nazionale San Giovanni Paolo II faccia parte della narrazione mediatica orchestrata non per combattere il razzismo e per portare ordine sociale, ma per esasperare gli animi; non per dare giustizia, ma per legittimare la violenza e il crimine; non per servire la verità, ma per favorire una fazione politica. Ed è sconcertante che vi siano vescovi – come quelli che ho recentemente denunciato – che, con le loro parole, danno prova di essere schierati sul fronte opposto. Essi sono asserviti al deep state, al mondialismo, al pensiero unico, al Nuovo Ordine Mondiale che sempre più spesso invocano in nome di una fratellanza universale che non ha nulla di cristiano, ma che evoca altresì gli ideali massonici di chi vorrebbe dominare il mondo scacciando Dio dai tribunali, dalle scuole, dalle famiglie e forse anche dalle chiese.Il popolo americano è maturo e ha ormai compreso quanto i media mainstreamnon vogliano diffondere la verità, ma tacerla e distorcerla, diffondendo la menzogna utile agli scopi dei loro padroni. È però importante che i buoni – che sono in maggioranza – si sveglino dal torpore e non accettino di esser ingannati da una minoranza di disonesti con fini inconfessabili. È necessario che i buoni, i figli della luce, si riuniscano e levino la voce. Quale modo più efficace di farlo, pregando il Signore di proteggere Lei, Signor Presidente, gli Stati Uniti e l’umanità intera da questo immane attacco del Nemico? Dinanzi alla forza della preghiera cadranno gli inganni dei figli delle tenebre, saranno svelate le loro trame, si mostrerà il loro tradimento, finirà nel nulla quel potere che spaventa fintanto che non lo si porta alla luce e si dimostra per quello che è: un inganno infernale. Signor Presidente, la mia preghiera è costantemente rivolta all’amata Nazione americana presso la quale ho avuto il privilegio e l’onore di essere stato inviato da Papa Benedetto XVI come Nunzio apostolico. In quest’ora drammatica e decisiva per l’intera umanità, Ella è nella mia preghiera, e con Lei anche quanti La affiancano nel governo degli Stati Uniti. Confido che il popolo americano si unisca a me e a Lei nella preghiera a Dio onnipotente. Uniti contro il Nemico invisibile dell’intera umanità, benedico Lei e la First Lady, l’amata Nazione americana e tutti gli uomini e le donne di buona volontà.(Carlo Maria Viganò, “Siamo nella battaglia tra figli della luce e figli delle tenebre”, lettera che l’arcivescovo, già Nunzio apostolico negli Stati Uniti, ha fatto consegnare personalmente a Donald Trump. La pubblica il 7 giugno 2020 il sito “UnUniverso”, rinviando al blog di Aldo Maria Valli per la versione integrale della missiva).Signor Presidente, stiamo assistendo in questi mesi al formarsi di due schieramenti che definirei biblici: i figli della luce e i figli delle tenebre. I figli della luce costituiscono la parte più cospicua dell’umanità, mentre i figli delle tenebre rappresentano una minoranza assoluta; eppure i primi sono oggetto di una sorta di discriminazione che li pone in una situazione di inferiorità morale rispetto ai loro avversari, che ricoprono spesso posti strategici nello Stato, nella politica, nell’economia e anche nei media. Per un fenomeno apparentemente inspiegabile, i buoni sono ostaggio dei malvagi e di quanti prestano loro aiuto per interesse o per pavidità. Questi due schieramenti, in quanto biblici, ripropongono la separazione netta tra la stirpe della Donna e quella del Serpente. Da una parte vi sono quanti, pur con mille difetti e debolezze, sono animati dal desiderio di compiere il bene, essere onesti, costituire una famiglia, impegnarsi nel lavoro, dare prosperità alla Patria, soccorrere i bisognosi e meritare, nell’obbedienza alla Legge di Dio, il Regno dei Cieli. Dall’altra si trovano coloro che servono se stessi, non hanno principi morali, vogliono demolire la famiglia e la Nazione, sfruttare i lavoratori per arricchirsi indebitamente, fomentare le divisioni intestine e le guerre, accumulare il potere e il denaro: per costoro l’illusione fallace di un benessere temporale rivelerà – se non si ravvedono – la tremenda sorte che li aspetta, lontano da Dio, nella dannazione eterna.
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Bamiyan, Babilonia, Palmira. E adesso anche Notre-Dame
I Budda di Bamiyan erano stati distrutti da una setta intollerante che si dichiarava seguace dell’Islam. I buddisti in tutta l’Asia avevano pianto. L’Occidente non se ne era quasi neanche accorto. Quello che restava delle rovine di Babilonia e il museo annesso erano stati occupati, saccheggiati e vandalizzati dall’installazione di una base dei marines americani durante l’operazione “Shock and Awe”, nel 2003. L’Occidente non ci aveva fatto caso. Una vasta area di Palmira, la leggendaria oasi sulla Via della Seta, era stata distrutta da un’altra setta intollerante, che fingeva di seguire l’Islam mentre veniva protetta, a più livelli, dall’“intelligence” occidentale. L’Occidente aveva fatto finta di non vedere. In Siria, decine di chiese cattoliche e ortodosse erano state rase al suolo dalla stessa setta intollerante che fingeva di seguire l’Islam, sponsorizzata e armata, tra gli altri, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. L’Occidente non ci aveva neanche fatto caso. Notre-Dame, che per più aspetti può essere considerata il simbolo dell’Occidente, è stata parzialmente consumata da un fuoco teoricamente cieco. In modo particolare il tetto, centinaia di travi di quercia, alcune risalenti al 13° secolo. Metaforicamente, questo potrebbe essere interpretato come l’incendio del tetto sulla collegialità dell’Occidente. Cattivo karma? Finalmente?Ed ora veniamo al sodo. Notre-Dame appartiene allo Stato francese, che aveva prestato poca o nessuna attenzione ad un gioiello gotico sopravvissuto per otto secoli. Frammenti di arcate, chimere, rilievi, gargoyle cadevano in continuazione a terra e venivano conservati in un deposito improvvisato nella parte posteriore della cattedrale. Solo l’anno scorso, Notre-Dame aveva ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro per il restauro della guglia, che ieri è bruciata fino a crollare. Il ripristino dell’intera cattedrale sarebbe costato 150 milioni di euro, secondo il massimo esperto mondiale di Notre-Dame, che sembrerebbe essere un americano, Andrew Tallon. Recentemente, i custodi della cattedrale e lo Stato francese erano arrivati ai ferri corti. Lo Stato francese incassava almeno 4 milioni di euro l’anno, facendo pagare ai turisti il biglietto per l’ingresso ai campanili gemelli, reinvestendo però solo 2 milioni di euro per il mantenimento di Notre-Dame. Il rettore di Notre-Dame si era rifiutato di far pagare il biglietto d’ingresso alla cattedrale, come succede, per esempio, nel duomo di Milano.Notre-Dame sopravvive, essenzialmente, grazie alle donazioni, che servono a pagare gli stipendi a meno di 70 dipendenti, che devono non solo sorvegliare l’afflusso dei turisti, ma anche organizzare otto messe al giorno. La proposta dello Stato francese è quella di minimizzare la catastrofe organizzando una lotteria di beneficenza. Proprio così, privatizzare quello che è un impegno e un obbligo dello Stato. Quindi sì: Sarkozy e Macron e tutte le loro amministrazioni sono, direttamente e indirettamente, responsabili dell’incendio. Ora sta per arrivare la Notre-Dame dei miliardari. Pinault (Gucci, St. Laurent) ha promesso 100 milioni di euro del suo patrimonio personale per il restauro. Arnault (Louis Vuitton Moet Hennessy) ha raddoppiato, impegnandosi per 200 milioni di euro. Quindi, perché non privatizzare questo maledetto pezzo di raffinata proprietà immobiliare, in perfetto stile capitalismo dei disastri? Benvenuti nell’esclusivo condominio Notre-Dame, hotel e centro commerciale annessi.(Pepe Escobar, “Bamyian, Babilonia, Palmira, Notre-Dame”, da “The Saker” del 16 aprile 2019, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).I Budda di Bamiyan erano stati distrutti da una setta intollerante che si dichiarava seguace dell’Islam. I buddisti in tutta l’Asia avevano pianto. L’Occidente non se ne era quasi neanche accorto. Quello che restava delle rovine di Babilonia e il museo annesso erano stati occupati, saccheggiati e vandalizzati dall’installazione di una base dei marines americani durante l’operazione “Shock and Awe”, nel 2003. L’Occidente non ci aveva fatto caso. Una vasta area di Palmira, la leggendaria oasi sulla Via della Seta, era stata distrutta da un’altra setta intollerante, che fingeva di seguire l’Islam mentre veniva protetta, a più livelli, dall’“intelligence” occidentale. L’Occidente aveva fatto finta di non vedere. In Siria, decine di chiese cattoliche e ortodosse erano state rase al suolo dalla stessa setta intollerante che fingeva di seguire l’Islam, sponsorizzata e armata, tra gli altri, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. L’Occidente non ci aveva neanche fatto caso. Notre-Dame, che per più aspetti può essere considerata il simbolo dell’Occidente, è stata parzialmente consumata da un fuoco teoricamente cieco. In modo particolare il tetto, centinaia di travi di quercia, alcune risalenti al 13° secolo. Metaforicamente, questo potrebbe essere interpretato come l’incendio del tetto sulla collegialità dell’Occidente. Cattivo karma? Finalmente?
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Della rivoluzione gialla abbiamo visto l’arco, non la freccia
Ho ascoltato con interesse l’incontro tenuto a Roma con Véronique Rouille e Yvan Yonnet dei Gilets Jaunes, presentato da Moreno Pasquinelli di “Programma 101”, con la presenza di Antonio Maria Rinaldi e Mariano Ferro. Ma la conferenza mi ha destato molte perplessità sulla reale efficacia di questo movimento, soprattutto quando Yvan Yonnet ha consigliato di boicottare le elezioni europee con l’astensionismo, sostenendo che se tale astensione raggiungesse il livello dell’80%, il sistema Europa crollerebbe sotto le proprie contraddizioni. Vero che in meno di due mesi il movimento francese ha dato un’ulteriore spallata al governo Macron e alle oligarchie europee, sconvolgendone il panorama politico. Vero anche che per diverse settime consecutive le dimostrazioni sono continuate in tutto il paese anche dopo le deboli concessioni di Macron, mentre ispiravano un’ondata di manifestazioni anche in paesi limitrofi come il Belgio e l’Olanda, e mentre i media corporativi cercavano di demonizzare il movimento nella speranza non si diffondesse altrove. Il fenomeno è nato spontaneamente e i metodi stessi della sua affermazione ne hanno rivelato anche le tante fragilità.I Gilets Jaunes si sono spesso radunati in luoghi molto frequentati, dove potevano trovare facilmente visibilità mediatica: gli Champs-Elysées a Parigi, le piazze principali di altre città e le numerose rotte del traffico ai margini delle piccole città. A differenza delle manifestazioni tradizionali, le marce di Parigi erano molto libere e spontanee, spesso le persone passeggiavano e si parlano, senza leader e senza discorsi. L’assenza di leader è inerente al movimento, e questo lo predispone al rischio di facili strumentalizzazioni. Dalla loro apparizione di circa due mesi fa, i giubbotti gialli hanno sventato tutti i canoni della mobilitazione sociale: nessun leader carismatico, nessun intermediario, nessuna organizzazione strutturale, nessuna solida coordinazione delle varie compagini territoriali. Invece, un solo colore improbabile, dipinto sui giubbotti catarifrangenti dei motociclisti. Però la guerra alle oligarchie finanziarie è cosa dura e grave, e se i Gilets Jaunes non si organizzano in tempo per vincere le prossime europee e controllare il Parlamento e la Commissione, vedranno cadere nel vuoto le loro rivendicazioni e le loro manifestazioni, che se pur clamorose e sorprendenti, appariranno come una montagna che ha partorito un topolino.Potrebbero fare la stessa fine di “Occupy Wall Street”, finito nel dimenticatoio di Wikipedia. Il fenomeno Occupy era troppo caotico, pericoloso e destrutturato. Insomma, troppo rivoluzionario. Nei suoi discorsi post-Occupy e nel suo ultimo libro “The end of protest: a new playbook for revolution”, Micah M. White ha deplorato il suo fallimento organizzativo. Dai movimenti anti-globalizzazione a quelli anti-guerra in Iraq, passando per le Primavere Arabe, No-Global, movimenti pacifisti, Black Lives Matter, ecc… tutti hanno mancato quegli obiettivi di cambiamento sociale che si prefiggevano. Il neoliberismo è vivo e vegeto, le oligarchie al potere non hanno perso la loro egemonia, mentre le disparità economiche sono aumentate. Il regime dominante si è evoluto per adattarsi al contesto, come un camaleonte, che cambia pelle e colore per mimetizzarsi e non cadere in balia dei predatori. “Occupy Wall Street” in questo senso ha insegnato comunque qualcosa, che le attuali forme di protesta non funzionano più, perché mentre con Occupy la protesta si era allargata a 82 paesi e dato vita a quasi mille “accampamenti”, eppure il cambiamento sociale non si verificò proprio per nulla.Gli attivisti di oggi hanno solo poche possibilità per conquistare la sovranità: continuare a protestare, vincere le guerre o meglio ancora vincere le elezioni. Infatti l’obiettivo finale dovrebbe essere un movimento che possa vincere le elezioni al fine di poter ottenere dei risultati concreti. Il 1° dicembre l’Arco di Trionfo è stato “vandalizzato” dai Gilets Jaunes che manifestavano a Parigi, e il fatto aveva destato l’immediata reazione di Macron, che dalla vetrina del G20 a Buenos Aires aveva dichiarato: «Nessuna causa può giustificare la brutalità verso l’Arco di Trionfo». Però l’Arco di Trionfo è simbolo della “Grandeur Francese”, della sua politica imperialistica, proiettata verso la conquista di un pezzo d’Africa, che continua a sfruttare e rapinare ancora oggi tramite il franco Cfa, l’eredità coloniale che controlla di fatto le economie di 14 paesi africani, secondo norme stabilite 70 anni fa. Un’area monetaria che ricorda la nostra tragica esperienza dell’euro. Quindi la violenza contro l’Arco assume una sua valenza politica ben precisa: il 99% dei miserabili, diseredati dalle politiche neoliberiste del turbocapitalismo, portano la guerriglia urbana contro il simbolo dell’imperialismo francese, oggi soprattutto finanziario.Voluto da Napoleone I, dopo la battaglia di Austerlitz (strana coincidenza proprio il 2 dicembre 1805), il quale disse rivolto ai suoi soldati: «Si tornerà alle vostre case solo sotto archi di trionfo». Difatti un decreto imperiale datato 18 febbraio 1806 ordinò la costruzione di un arco trionfale dedicato appunto alle vittorie conseguite dall’esercito francese. I manifestanti però hanno saccheggiato anche altri emblemi del potere: il busto di Napoleone e quello di Luigi Filippo, i cui occhi sono stati colorati di rosso. Hanno sfondato un altorilievo allegorico che illustrava la partenza dei volontari del 1792, ribattezzata “la Marsigliese”, e scolpito da François Rude nel 1833, nella parte nord dell’Arco. Hanno cercato anche di distruggere un dipinto che rappresentava l’ingresso del catafalco di Victor Hugo al Pantheon. Perché tutti questi simboli? Forse per attaccare il rifiuto napoleonico alla libertà? Il rifiuto di Louis-Philippe all’uguaglianza? Come mai questi manifestanti, che sventolavano il tricolore, hanno attaccato i Volontaires del 1792? E soprattutto, perché Victor Hugo, l’autore di “Les Misérables”, il politico che, a differenza di tanti altri, andava da destra a sinistra, finendo la sua carriera da repubblicano, rifiutatosi inoltre di condannare i comunardi del 1871?Purtroppo la direzione politica dei Gilets Jaunes è ancora disorganica e incerta, per ora abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia. Cerchiamo di non trascurare oltre la parte del caso, né della provocazione, né di quella stupidità che ha un ruolo molto più importante nella storia di quanto potrebbero ammettere gli stessi storici; tuttavia il senso di un’insurrezione è anche rivelato dai segni che lascia intatti oltre a quelli che distrugge. E il segno rimasto intatto è quello dell’anonimato di questi gialli francesi… chi li guida, chi li organizza, come si sono strutturati, quali programmi hanno pianificato e soprattutto quali obiettivi immediati si sono proposti? Perché se la ‘rivoluzione gialla’ si ferma alla protesta, se le masse che si sono mobilitate, anche con esiti straordinari per caparbietà ed efficacia negli scontri di piazza, non riusciranno a tradursi in un partito politico che influirà profondamente sulle prossime europee, avremo assistito all’ennesima protesta improduttiva e sterile. Se i giubbotti gialli sono i sans-culottes di oggi, come quelli che divennero i partigiani rivoluzionari della Rivoluzione Francese, alla fine avranno bisogno di un club giacobino. Se la storia è maestra di vita, i Gilets Jaunes dovrebbero imparare dal passato, e ascoltare le parole di Lenin: «Non sostenere il degrado del rivoluzionario al livello di un dilettante, ma elevare i dilettanti al livello dei rivoluzionari».(Rosanna Spadini, “Della rivoluzione gialla abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia”, da “Come Con Chisciotte” del 14 gennaio 2019).Ho ascoltato con interesse l’incontro tenuto a Roma con Véronique Rouille e Yvan Yonnet dei Gilets Jaunes, presentato da Moreno Pasquinelli di “Programma 101”, con la presenza di Antonio Maria Rinaldi e Mariano Ferro. Ma la conferenza mi ha destato molte perplessità sulla reale efficacia di questo movimento, soprattutto quando Yvan Yonnet ha consigliato di boicottare le elezioni europee con l’astensionismo, sostenendo che se tale astensione raggiungesse il livello dell’80%, il sistema Europa crollerebbe sotto le proprie contraddizioni. Vero che in meno di due mesi il movimento francese ha dato un’ulteriore spallata al governo Macron e alle oligarchie europee, sconvolgendone il panorama politico. Vero anche che per diverse settime consecutive le dimostrazioni sono continuate in tutto il paese anche dopo le deboli concessioni di Macron, mentre ispiravano un’ondata di manifestazioni anche in paesi limitrofi come il Belgio e l’Olanda, e mentre i media corporativi cercavano di demonizzare il movimento nella speranza non si diffondesse altrove. Il fenomeno è nato spontaneamente e i metodi stessi della sua affermazione ne hanno rivelato anche le tante fragilità.
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Sorvegliati via smartphone: Singapore, governa Big Data
«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.L’analisi di Derrick de Kerckhove, presentata su “Avvenire”, parte dall’esempio di una città-Stato, Singapore, dove il modello di gestione è fondato sulla tecno-etica. «Ho definito quest’organizzazione “datacracy”, perché è una civiltà che si fonda sui dati e apparentemente permette di vivere in un luogo ideale senza rapine né furti». Tutto è regolato secondo un nuovo ordine che parte dalla raccolta e dall’analisi dei dati. «Il protagonista di questo nuovo modello è lo smartphone, perché ci identifica molto più del nostro passaporto, della nostra carta di credito o del nostro certificato di nascita». Il telefono palmare, infatti, «contiene tutto ciò che riguarda ciascuno di noi ed è sempre pronto a condividere contenuti con chiunque abbia le giuste capacità tecniche, anche se non possiede requisiti giuridici o diritti legali». Di noi, lo smarthone registra tutto, cosa che «ormai è di dominio pubblico». Follia? No, è solo l’ultimo gradino della scala che stiamo scendendo, da anni: «Dall’arrivo di Internet – scrive il sociologo – abbiamo iniziato a perdere privacy e anche il controllo delle nostre idee, scritte o discusse. E presto, forse, perderemo anche l’esclusiva sui nostri pensieri».Le tracce che ciascuno di noi lascia, continua de Kerckhove, sono raccolte da banche dati e poi riutilizzati per tanti scopi. Scandaloso? Ma anche ineluttabile: «Quello che sta accadendo dopo l’adozione globale di Internet è una graduale diminuzione delle libertà civili e delle garanzie che associamo con l’idea di democrazia occidentale», ammette lo studioso. «La privacy svanisce più velocemente nelle società dove le garanzie per l’individuo sono meno sacre o addirittura inesistenti; ne è prova l’evoluzione di Singapore, dove Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kuan Yew, continuando l’opera del genitore ha abilmente usato la tecnologia per mettere sotto sorveglianza permanente i suoi cittadini». E guarda caso, «Singapore è la città-Stato con il più alto tasso di penetrazione al mondo di smartphone». Fino a che punto il fine può giustificare i mezzi? «Singapore si pone come Stato precursore del controllo urbano attraverso la sorveglianza fondata su Big Data e smartphone». Un modello di vita basato sulla tecno-etica: «I cittadini di Singapore, come la maggior parte di noi, trascorrono molta della loro vita attiva di fronte a uno schermo, lasciano tracce: sono geolocalizzati, si sa cosa scrivono e dicono. Le istituzioni di Singapore hanno deciso senza pudore di fare pieno uso di tali informazioni al fine di garantire ordine sociale e comportamenti corretti. Nessuno sporca la città, nessuno trasgredisce la legge».Nella metropoli asiatica, rilva il sociologo, la tendenza alla sorveglianza occhiuta si manifesta tra il 1965 e il 1990, quando Lee Kuan Yew (premier e padre dell’attuale capo di governo), istituisce regole draconiane per ripulire la città e per gestire le tensioni tra i quattro gruppi etnici che popolano Singapore. Tante le imposizioni: vietato masticare chewingum fuori casa, sputare per terra; non azionare lo scarico nei bagni pubblici. Bacchettate sulle mani per gli autori di graffiti, fustigazione per gli atti vandalici. Idem per l’ambito privato: zero pornografia, illegale il sesso gay (due anni di carcere). E’ illegale persino camminare nudi, in casa, fuori del bagno. Questo regime ha un nome, si chiama “democratura”. E oggi sta diventando anche “datacracy” o “governo di algoritmi”. «L’imposizione di una trasparenza completa permette di sapere il più possibile su tutto e tutti». Salito al potere nel 2004, Lee Hsien Loong ha imposto nuovi divieti e onnipresenti telecamere di sorveglianza: «Siamo alla ricreazione di Argus, il gigante della mitologia greca che tutto vede con i suoi 100 occhi. L’attuale capo del governo ha sostituito la democratura del padre con la datacrazia: siamo al “governo dell’ algoritmo”. E questo significa che dai dati raccolti e analizzati viene automaticamente il responso e, nel caso, la pena».Nuovi sensori e telecamere poste su tutto il territorio di Singapore raccolgono dati e informazioni per consentire al governo di monitorare ogni azione o evento, controllare pulizia degli spazi pubblici, tassi d’inquinamento, densità di folla e movimento di tutti i veicoli. «La sorveglianza è completa grazie ai dati raccolti da smartphone, social media, sensori e telecamere pubbliche». Il sistema «assicura l’immediato giudizio, il verdetto e l’esecuzione della pena (multe o peggio)». E le persone? «Sembrano soddisfatte della situazione, che assicura pace e ordine, pulizia, e attrae investitori», senza contare «salute e tutto il benessere possibile». A Singapore, scrive Derrick de Kerckhove, «si respira un senso di armonia sociale di cui i cittadini sembrano essere orgogliosi». Tutti d’accordo? No, ovviamente: esiste «una frangia di dissenso», peraltro «già sotto stretta sorveglianza». I critici sostengono che l’uso di Internet non è sicuro e quindi le persone tendono all’auto-censura, preferiscono tenere la bocca chiusa. Anche perché i blogger dissidenti sono perseguitati: Amos Yee, 16 anni, è in carcere dal maggio 2015 per commenti offensivi. Ong e informazione libera sono scoraggiati, la tv è monopolio statale, la stampa è fortemente controllata.«La narrazione politica sulla supposta armonia interculturale impera», sottoinea de Kerckhove, «ma il razzismo continua, soprattutto nelle assunzioni». Intanto, «i simboli del passato vengono soffocati da opere moderne, senza rispetto per la storia della città», che viene «riscritta, nei testi scolastici, per soddisfare la propaganda di Stato». A maggior ragione, «l’accesso agli archivi governativi pubblici è limitata». Secondo il sociologo, «ci avviamo al punto di non ritorno di un cambiamento radicale, paragonabile solo al Rinascimento europeo. Questa volta, però, mondiale». De Kerckhove cita Marshall McLuhan, secondo cui l’elettricità è l’infrastruttura della rivoluzione: «Dispositivi d’informazione elettrici sono gli strumenti per la tirannia e la sorveglianza universale, dal grembo materno alla tomba. Nasce così un grave dilemma tra il nostro diritto alla privacy e la necessità della comunità di sapere. Le idee tradizionali legate ai pensieri e alle azioni private sono minacciate dai modelli di tecnologia meccanica che grazie all’elettricità permette il recupero istantaneo delle informazioni». Fascicoli zeppi di notizie e pettegolezzi che non perdonano: «Non c’è redenzione, nessuna cancellazione di “errori” di gioventù». Alla fine, conclude Derrick de Kerckhove, dovremo «trovare un equilibrio tra le esigenze di vita privata e quelle sociali». Cos’è peggio, la vecchia “democratura” o la nuova, inquietante “datacrazia”, ovvero il «potenziale tirannico di un governo dei Big Data»? E soprattutto: «Abbiamo ancora una scelta, in materia», o si tratta di un destino inesorabile?«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.