Archivio del Tag ‘Vengelo’
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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Krishna, Horus, Mithra: era già Natale, ben prima di Cristo
L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.La festa del solstizio d’inverno è sempre stata associata alla celebrazione della Rinascita della Luce e dell’attesa di un “parto” miracoloso della “Vergine celeste”, “Regina del Mondo”, con la nascita del suo divino “Infante”. Il Rito della Natività del Sole, celebrato in Siria e in Egitto, era molto solenne. Al solstizio d’inverno i celebranti si riunivano in particolari santuari sotterranei (hipógei), da cui uscivano a mezzanotte esultando: «La Vergine ha partorito! La Luce cresce!». Gli antichi egiziani rappresentavano il Sole appena nato, Horus, con una “Imagine” di un Infante in cera o argilla, che mostravano ai fedeli di Iside e Osiride. La figura di Iside col bimbo Horo somiglia talmente alla Madonna col Bambin Gesù che a volte ricevette l’adorazione inconsapevole dei primi cristiani (dal “Libro dei Morti” egiziano). Iside d’Egitto, come Maria di Nazareth era la Nostra Signora Immacolata, la Stella del Mare (Stella Maris), la Regina del Cielo e Madre di Dio, ed era rappresentata in piedi sulla falce della Luna e coronata di stelle. La figura della “Vergine” dello zodiaco (Virgo) nelle antiche immagini appare come una donna che allatta un bambino, archètipo di tutte le future madonne col divino fanciullo.In India, l’antichissima religione dei primi Brahmani vedici, nei più antichi inni del “Rig-Veda”, chiama Sûrya (il Sole) e Aghni (il Fuoco) il Regolatore dell’Universo, Signore degli Uomini e il Re Saggio,e la Madre Devakî è similmente raffigurata col divino Krishna tra le braccia. Per i babilonesi, la Madre Mylitta o Istar di Babilonia era raffigurata con la consueta corona di stelle e con il divino figlio Tammuz, la cui nascita veniva commemorata nelle rituali Sacee babilonesi, feste della nascita analoghe al nostro Natale. Il periodo del solstizio al 25 dicembre ricorre anche per la nascita verginale del principe Siddharta, che fu adombrato da Buddha (l’Illuminato) allo stesso modo in cui Gesù fu adombrato da Cristo. Per la storia dell’antica Cina, Buddha nasce dalla vergine Mâyâdevi. Per i persiani, al solstizio d’inverno nacque Mithra, divinità solare di origine indo-iranica, anch’egli “nato” in una grotta, da una vergine. Fra i suoi sacerdoti si ricordano i Magi citati nel Vangelo di Matteo, sapienti astrologi e discepoli di Zarathustra-Zoroastro, che attendevano da tempo il ritorno di Mithra-Maitreia, secondo antiche profezie.Per i nabatei, popolazione araba che nel I secolo a.C. dominò la Giordania Orientale, la divinità Dusares era unita al Sole, portava l’attributo di “invincibile”, congiunto a Mithra, e il suo giorno natalizio cadeva sempre il 25 dicembre. Nel 274 d.C. Aureliano fece erigere a Roma un sontuoso tempio in onore di Mithra, e numerosi “mithrei” sorsero e si conservano tutt’ora in altre zone d’Italia, noti sotto il nome di “Hipógei”. Nell’antica Grecia veniva celebrata la festa della “Ghenesìa” (il giorno del Natalizio). Il mito di Hermes (Mercurio) presenta particolari analogie con la figura di Gesù. Nato in una grotta, figlio di Zeus (Iuppiter: Giove-Padre) e da Maia (la maggiore delle Pleiadi), Hermes è spesso rappresentato con un agnello sulle spalle, da cui deriva il suo nome di Crioforo (portatore dell’agnello). E’ anche ricordato come Guida delle Anime nella dimora dei morti (Ade-inferno). Da tale funzione deriva il nome di Ermes-Psicopompo, “accompagnatore delle anime”, e in tali vesti servì di immagine ai primi cristiani per figurare il Buon Pastore, al punto che queste identificazioni si fusero con la figura del Christo.La data del solstizio d’inverno fu ripresa dal cristianesimo per il Natale di Gesù, in coincidenza con altre feste confluite a Roma, come il “dies Natalis Solis Invicti” il Natale del Sole Invitto (il sole invincibile), il Natale di Mithra, la Nascita di Horus in Egitto e quella di Tammuz a Babilonia. Storicamente la più antica fonte conosciuta, che fissa al 25 dicembre la nascita di Gesù, è di Ippolito di Roma (170 circa- 235) che già nel 204 riferiva della celebrazione del Natale, nell’Urbe, proprio in quella data; e soprattutto Sesto Giulio Africano (211 d.C.) nella sua “Cronografia” del mondo. Inoltre ci sono anche le prove, indirette ma evidenti, contenute nei Rotoli di Qumran (“Cronaca dei Giubilei”) che confermano la tradizione apostolica secondo la quale vi erano la festività dell’Annuncio a Zaccaria il 23 settembre, la festa dell’Annuncio a Maria sei mesi dopo (25 marzo) e la nascita di Gesù nove mesi dopo (25 dicembre).Ufficialmente la festa del Natale cristiano fu fissata nel 335 d.C. dall’imperatore Costantino, che sostituì la festa natalizia di Mithra-Sole del 25 dicembre con il Natale di Cristo, chiamato dal profeta Malachia “Sole di Giustizia” e da Giovanni Evangelista “Luce del Mondo”. Da Roma la nuova festa del Natale cristiano si diffuse rapidamente in Oriente (seppure con qualche resistenza), come attestato da San Giovanni Crisostomo nell’omelia pronunciata nel 386, in cui asseriva che la festa era stata introdotta ad Antiochia una decina d’anni prima (circa nel 375) mentre non era in uso né a Gerusalemme, né ad Alessandria, né in Armenia, dove invece nelle chiese locali osservavano già la festa della “Manifestazione” al 6 gennaio, cioè la triplice epifania del Salvatore: la nascita di Gesù, l’adorazione dei Magi, il battesimo nel Giordano (Christòs). Risulta quindi che verso la fine del IV secolo s’era esteso a tutta la Chiesa l’uso di celebrare l’anniversario della nascita di Gesù-Cristo, in Oriente al 6 gennaio e in Occidente al 25 dicembre.La Novena di Natale è strettamente legata al culto ufficiale, ma va precisato che il Natale fa parte di un ciclo di dodici giorni, conosciuto col nome di “Calende”, di origine molto antica. Infatti il Natale segnava l’inizio del nuovo anno. Nelle case dei nostri antichi avi si accendeva a Natale un ceppo di quercia, dai poteri propiziatori, che doveva bruciare per 12 giorni consecutivi, e dal modo in cui bruciava si intuivano i presagi sul nuovo anno in arrivo. Il ceppo doveva essere preferibilmente di quercia, perché il suo legno simboleggia forza e solidità. Simbolicamente si bruciava il passato e si coglievano i segni del prossimo futuro; infatti le scintille che salivano nella cappa simboleggiavano il ritorno dei giorni lunghi, la cenere veniva raccolta e sparsa nei campi per sperare in abbondanti raccolti. Si tratta di un’usanza le cui radici risalgono alle popolazioni del Nord Europa. Abbiamo la testimonianza di Lucano, nel “Bellum civile” (III, 400) in cui ha descritto come gli alberi assumessero un ruolo fondamentale nel culto delle popolazioni celtiche che i romani si trovarono a fronteggiare: un culto in cui simbolismo e ritualità si fondevano in modo straordinariamente armonico.In particolare i Teutoni, nei giorni più bui dell’anno, piantavano davanti alle case un abete ornato di ghirlande e bruciavano un enorme ceppo nel camino. Questi simboli sono sopravvissuti nell’albero di Natale, che rimane verde tutto l’anno e non perde le foglie durante l’inverno come fanno gli altri alberi. L’albero rappresenta anche il simbolo del corpo umano e più precisamente il suo sistema nervoso compreso il cervello, nel quale deve brillare la luce, ovvero la conoscenza che viene dal “cielo” del pensiero e dalla coscienza universale, simboleggiata dalla stella di Natale, che indica l’illuminazione, la conoscenza e la consapevolezza dell’amore che mantiene vivente il creato. Quest’usanza si è oggi trasformata nelle luci che addobbano gli alberi, le case e le strade nel periodo natalizio. A tale tradizione si collega la celebrazione del Natale per indicare l’avvento della Luce del Mondo, che giunge a squarciare le pericolosità del Buio. È il Bambino, che venendo al mondo, inaugura una nuova vita, e porta la Luce a tutti gli uomini. Infatti le case e le abitazioni sono il simbolo della personalità che deve illuminarsi; per questo motivo in questo periodo le case e le città si riempiono di luci, perchè devono portare la conoscenza di sé stessi, l’amore e la giustizia tra gli uomini.E’ documentato che in Romagna, l’antica Romandìola, l’usanza di iniziare l’anno partendo dal 25 dicembre di ogni anno, durò fino ai tempi di Dante, come si riscontra dal “Codice di Lottieri della Tosa” – n. 217 – pubblicato a Faenza nel 1979 a cura di don Giovanni Lucchesi. Ogni anno al solstizio d’inverno accade qualcosa di magico e straordinario: nel giorno più corto dell’anno, il sole tocca a mezzogiorno il punto più basso dell’orizzonte, ovvero simbolicamente “muore”, per rinascere successivamente, dodici giorni dopo, al perigeo, quando il sole riprende il suo moto, perpetuando e rinnovando il ciclo infinito della vita. Per questo il solstizio d’inverno è considerato il giorno più sacro dell’anno e del bene che regna sul mondo. A partire dal solstizio d’inverno il nostro pianeta è permeato dalle potenti radiazioni della “Luce Cristica”, che continua a manifestarsi con forza fino all’Epifania.(Andrea Fontana, “Il Natale nella storia”, estratto da “Il presepio rivelato”, intervento pubblicato su “Scienze Astratte” il 25 dicembre 2011).L’etimologia del termine “Natale”, come sostantivo maschile, deriva dal latino “Natalis (nascita); “dies Natalis” significa “il giorno della nascita”. Il termine “nascere” proviene dal latino “noscere”, che significa “cominciare a conoscere” e ha le sue radici in altre lingue; è un termine collegato ai termini: notizia, nobile, celebre, konig, king. Il significato etimologico di Natale è quindi legato sia alla nascita, sia alla conoscenza. Per i Popoli del Nord, le notti dal 25 dicembre al 6 gennaio erano particolarmente sacre. Nei paesi scandinavi venivano celebrati i natali di Frey, figlio di Wodan (Wuotan: Odino), dio della natura, e di Berchta (Frigga: Holda) sua sposa, con la festa scandinava di Yule. Riservati al culto solare erano in epoca megalitica il monumento di Stonehenge (Inghilterra) e i Menhir di Carnac (Bretagna), orientati verso Est (il Sole levante). Fra i popoli celti si accendevano e si accendono tutt’ora il 25 dicembre dei sacri fuochi al dio Lug (luminoso) detto Griamainech (Viso del Sole), corrispondente al greco Hermes e al latino Mercurius. Questi fuochi sono ancor oggi conosciuti fra gli irlandesi e i montanari della Scozia, e vengono accesi in onore di Cristo.
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Morte e resurrezione: è tutto scritto nella Legge dell’Ottava
L’Ottava è la gestione, sapiente, di quello che noi definiamo intuito, e volendo anche preveggenza. Noi abbiamo sempre avuto dinamiche attraverso le quali ottenere l’intuito e amministrarlo, organizzandolo. Queste dinamiche esistono tuttora. Un modo con cui creare fenomeni di tipo intuitivo, nel mondo cattolico (che è uno dei più preparati, in questo senso, cioè a livello energetico), sono i Salmi, sono i canti gregoriani fatti in un certo modo. Quindi, la metodologia attraverso la quale porre certe domande e soprattutto ricevere certe risposte esiste da tempo: l’amministrazione di queste energie è chiarissima, da moltissimo tempo. C’è l’Ottava di Pasqua, c’è l’Ottava di Pentecoste. C’è l’Ottava nei Sigilli di Gioacchino da Fiore, che inserisce l’intera storia dell’umanità in un “salto d’ottava” finale che è pazzesco, e in quel modo crea – per l’umanità e per il mondo cristiano – l’ottimismo, che non esisteva. Non esisteva, l’ottimismo, come non esiste nelle nostre vite quando siamo cocciuti, quando siamo ignoranti. Questi signori lo creano, l’ottimismo, inteso come “cose che puoi fare, devi fare, riesci a fare”. Fermarsi a dire che quello è mito, è poca roba. Non è mito, ma non solo la Bibbia: tutti i testi sacri sono questa cosa qua.I nostri sono un’evoluzione dei testi sacri ebraici, che a loro volta sono un’evoluzione di quelli egizi e mesopotamici. Lo Spirito Santo, quando ce l’hanno gli ebrei si chiama Ruach, e per loro è femminile – e giustamente: chi ti informa, infatti, è la parte umana del divino. La Legge dell’Ottava è un sapere che è presente da millenni, sulla Terra, ma non ne conosciamo la paternità. Ed è un tipo di sapere che faccio fatica a non ricondurre a una civiltà che abbia vissuto perlomeno millenni. Dimostra una proporzione evolutiva che è ben al di là del nostro progresso scientifico. Tutto il mondo biblico, comunque lo si voglia interpretare, contiene l’Ottava. Ce l’ha dentro, proprio: a livello numerico, mitico, descrittivo. Non è altro che una modalità con cui parlare dell’Ottava, sempre. E dato che, se viene interpretato in un certo modo, ha la capacità di esprimersi attraverso fenomeni energetici – che possiamo chiamate Pentecoste, resurrezione, o come volete. In molti casi, l’utilizzo della Bibbia e dei Vangeli è potentissimo, sotto il profilo intuitivo. I 150 Salmi hanno uno stra-potere, se recitati in ebraico, perché sono di per sé l’essenza di questa legge: contengono le tre energie da cui questa legge deriva. Ci sono Horus, Iside e Osiride, o comunque vogliamo chiamarli.L’evocazione dei Salmi corriponde alla percezione – nostra – di una forma emozionale che potremmo definire “morte e resurrezione”, ma in vita: sono le cose che ci fanno cambiare per sempre. Attenzione a non buttare via quello che c’è nella Bibbia: se vengono usate come si deve, quelle pagine, le interpretazioni sono plurime, come profondità. E questo, nel mondo cattolico lo sanno da duemila anni. E allora si va tranquillamente oltre gli Elohim di Biglino, ve lo posso garantire. Ve lo dico, perché ho fatto questo percorso su di me. Non mi intendo di Vangeli, non mi intendo di Bibbia o di cristianità, però mi intendo di simboli. E vi posso garantire che quello che succede osservando certi loro simboli – come è stato per me il Rosone di Collemaggio, la basilica dell’Aquila – si scopre che non c’è altro che l’impatto con questo tipo di energie, che vengono descritte. Per me, osservare quel rosone ha significato morire e rinascere. Già, perché noi abbiamo idea che si muoia solo quando questo avviene a livello fisico. Invece, durante la vita, ripetiamo continuamente ciò che la natura compie a livello pluridimensionale. Quando noi cambiamo, sentiamo la necessità reale di cambiare; il cambiamento è morte, e subito dopo c’è una resurrezione. E i meccanismi della natura, che sono sempre dentro di noi – siccome non li contempliamo e non ci vengono spiegati – quando arrivano ci spaventano.Certo, stare attenti e uscire dal coro ha un costo: richiede tempo, impegno, studio, applicazione. E siccome il mondo è questa roba qua, quando facciamo i seminari siamo sempre e solo una decina di persone, al massimo una ventina. Se invece prometti di far parlare il pubblico con i defunti allora non c’è problema, arrivano a migliaia. Quando capiamo qualcosetta della natura, del divino, di queste leggi (che esistono, e che noi non vogliamo studiare), allora quel percorso comincia. Tutte le nostre domande vanno canalizzate in un percorso ben preciso, questo sì. Ce lo vendono benissimo i russi e gli americani, ma gli amministratori principali di questo sapere sono stati gli italiani, sempre. Noi viviamo in un mondo pratico, talmente pratico che si dimentica di Dio, e così poi siamo tutti seduti dallo psicologo. Abbiamo trascurato il mondo metafisico per un bel po’ di tempo, coinvolgendo anche la scienza, che un tempo partiva proprio dal mondo metafisico per arrivare a quello fisico. Noi invece siamo ripartiti dal mondo fisico, per poi arrivare a capire che gli elettroni si parlano tra di loro. Abbiamo avuto un momento di completa confusione, per poi tornare finalmente verso il mondo metafisico.Al di là di questo, l’applicazione della Legge dell’Ottava, e quindi il coltivare dei momenti emotivi di un certo tipo, nella nostra vita quotidiana a volte dà dei risultati. Quei meccanismi poi vanno a raffinarsi e diventano “fede, speranza e carità” (il tricolore italiano) e possono essere applicati nel quotidiano. Sono le frequenze che non tempriamo, perché non sappiamo più che c’è un meccanismo, una tabella attraverso la quale tutti i giorni fare esercizi per il cuore – perché poi, quella roba là, va tutta a finire nel cuore. La fortezza, la pietà: sono tutte cose che, nell’arco della giornata, interpretiamo, bene o male. Quando poi ci sediamo in banca e firmiamo un mutuo di trent’anni, credo sia un’operazione che va al di là della fede, della speranza e della carità. E ci vanno veramente fortezza, giustizia e timore di Dio – inteso come banca, in quel caso! Non è una cosa che si compra in farmacia. L’Ottava è un percorso. E va fatto, per forza, con grande fatica – per forza, perché “lei fa noi”, se non siamo noi a fare lei. Dietro c’è la conoscenza delle modalità con cui emozionare il tempo, la percezione degli altri luoghi (delle altre dimensioni); le modalità con cui inscrivere i nostri desideri in una cosa che si chiama “campo”, che è la coscienza.C’è tutta una serie di meccanismi. Ma l’utilizzo del simbolo, cioè il percorso del sapere che riguarda il simbolo, ha un’unica funzione. Non vi è nulla di materiale, nell’Ottava, e nello stesso tempo è tutto materiale. O meglio: nel momento in cui il percorso del simbolo sta solleticando delle sinapsi che non usiamo mai, che sono quelle dell’intuito e dell’immaginazione, noi facciamo questa operazione: pensiamo. Ma se pensate che lo facciamo, nell’arco della giornata, vi sbagliate di grosso. Noi ci facciamo pensare, da tutto quello che ci circonda. Nel momento in cui, invece, siamo noi a pensare – perché abbiamo una meta, una modalità pensante (un libro, un quadro, un simbolo) – allora in quel momento pensiamo veramente. E quando pensiamo, noi “siamo”. E questo non lo dico io, ma l’ha detto qualche secolo fa un signore che si chiamava Cartesio. Cogito, ergo sum: è il percorso del pensare, quello che porta all’essere. E il percorso dell’essere è quello che porta al fare.Gli shock addizionali? Sono un momento della Legge dell’Ottava. In ambito musicale, tra le note, ci sono momenti in cui le frequenze cambiano passo e si abbassano – tra il mi e il fa, e tra il si e il do. Sono due momenti in cui, realmente, le frequenze di abbassano, per tornare poi nella loro normalità. Quelli sono i momenti in cui, nella nostra vita, avvengono dei fatti. Lo shock addizionale è qualcosa che noi dobbiamo aggiungere, ad un momento emozionale, perché venga superato. Sono i momenti in cui, nel mondo spirituale, si invoca l’aiuto dello Spirito Santo, pensando che esistano momenti ben precisi in cui invocare l’aiuto di una forma energetica – lo Spirito Santo, appunto – che dia la possibilità, a livello psichico, di dare uno shock addizionale alla sua Ottava (intesa come capacità di credere in Dio, nel caso specifico), affinché questa capacità non venga mai meno. Come avviene? Io chiedo di avere fede. La risposta quale può essere? Uno strumento? Un’immagine? Una parola? Un sogno? Noi, poi, queste cose le colleghiamo al caso, mentre c’è una forma energetica ben precisa – che non si chiama “caso” – che è evocativa e soprattutto evocabile, con una preparazione ben precisa. Nel caso nostro può essere lo studio di un certo tipo di percorso, che in qualche modo, man mano, ti svela, ti dice, ti fa fare progressi di un certo tipo. I perscorsi sono diversi, anche se poi portano tutti allo stesso posto.La precessione degli equinozi? L’evento precessionale contiene al suo interno i numeri dell’Ottava. Questo perché la legge è unica, è unico in modo in cui Dio crea: quei numeri si ritrovano anche nella fisica del movimento. Semplicemente, la precessione significa parlare dell’Ottava per X volte. Ma la precessione, così come la intendiamo noi, è una cosa molto limitante. Sarebbe utile interpellare un simbolo come lo Zodiaco di Dendera, che è egizio e appartiene da sempre, come altri, a questa strategia conoscitiva. Fa capire come la precessione sia un evento “sottile” che riguarda l’atto creante, e che soprattutto è ottemperato dalla nostra galassia, come da tutte le altre galassie. E’ sbagliato limitarsi al sistema solare, tantomeno alla Terra e al suo movimento. Se si parte da questo presupposto – e gli egizi lo sanno dire con molta precisione – allora, forse, anche la questione del misterioso pianeta Nibiru va affrontata in modo diverso (sul tema Nibiru, però, non ci sono risposte definitive).(Michele Proclamato, dichiarazioni rilasciate a Michele Stedile nella diretta in web-streaming su Skype “Domande e risposte” del 14 marzo 2018, pubblicata su YouTube).L’Ottava è la gestione, sapiente, di quello che noi definiamo intuito, e volendo anche preveggenza. Noi abbiamo sempre avuto dinamiche attraverso le quali ottenere l’intuito e amministrarlo, organizzandolo. Queste dinamiche esistono tuttora. Un modo con cui creare fenomeni di tipo intuitivo, nel mondo cattolico (che è uno dei più preparati, in questo senso, cioè a livello energetico), sono i Salmi, sono i canti gregoriani fatti in un certo modo. Quindi, la metodologia attraverso la quale porre certe domande e soprattutto ricevere certe risposte esiste da tempo: l’amministrazione di queste energie è chiarissima, da moltissimo tempo. C’è l’Ottava di Pasqua, c’è l’Ottava di Pentecoste. C’è l’Ottava nei Sigilli di Gioacchino da Fiore, che inserisce l’intera storia dell’umanità in un “salto d’ottava” finale che è pazzesco, e in quel modo crea – per l’umanità e per il mondo cristiano – l’ottimismo, che non esisteva. Non esisteva, l’ottimismo, come non esiste nelle nostre vite quando siamo cocciuti, quando siamo ignoranti. Questi signori lo creano, l’ottimismo, inteso come “cose che puoi fare, devi fare, riesci a fare”. Fermarsi a dire che quello è mito, è poca roba. Non è mito, ma non solo la Bibbia: tutti i testi sacri sono questa cosa qua.
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Il Re Cristiano: Alarico era giudeo, chi glielo spiega a Hitler?
Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città, si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inultilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?Avete sempre scavato dalla parte sbagliata, scrive Carpeoro, perché Alarico non era un barbaro germanico: era romanizzato e cristiano, sia pure di confessione ariana. E forse addirittura ebreo, discendente nientemeno che dalla Maddalena e da Giuseppe di Arimatea, il misterioso armatore che riscattò il corpo di Cristo da Pilato. L’oscuro Giuseppe di Arimatea, cioè l’uomo che poi, si racconta, nel Primo Secolo guidò la spedizione navale che portò in Europa il Cristianesimo, tramite lo sbarco in Provenza delle “Marie venute dal mare” guidate proprio da Maria di Magdala, il cui vero nome – Miriam – è quello che tuttora i Gipsy attribuiscono alla loro regina, consacrata ogni anno a Saintes-Marie-De-La-Mer, in Camargue. Ma che c’entrano, i Goti, con i profughi palestinesi di origine semitica, probabilmente giudei, che raggiunsero le coste meridionali della Francia dopo i fatti di cui parlano i Vangeli? C’entrano eccome, se è vero che i Goti discesi dal Baltico e spintisi a ovest del Danubio – i Derving – poi cambiarono nome, secondo l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, adottando la “M” di Miriam per diventare Merovingi, dinastia regale. E’ così strano pensare che un popolo erratico di origine baltica, poi attestatosi in Francia, sia entrato in contatto con i proto-cristiani di Palestina? Certo che no, se si pensa che i Goti furono in gran parte cristianizzati, già nel Quarto Secolo. Ma attenzione: non erano cattolici, erano seguaci di Ario.Corrente gnostica, secondo cui Cristo è “figlio di Dio” esattamente quanto noi, ciascuno avendo in sé la propria quota di divinità, l’Arianesimo (bocciato nel 325 dal Concilio di Nicea insieme a tutti gli altri cristianesimi non cattolici) ebbe un vastissimo seguito, specie nell’Europa balcanica popolata dai Goti, all’epoca reduci dal Medio Oriente turco: il loro primo vescovo, Wulfila, a partire dall’anno 348 tradusse la Bibbia in lingua gotica. E’ proprio lui, Ulfila, che apre il romanzo meta-storico di Carpeoro, svelando al giovane Alarico il senso profondo e segreto della sua missione: conquistare la regalità nella giustizia, proprio nel nome della mitica antenata Miriam. Simbologo e studioso dei Rosacroce, Carpeoro fa discendere quel “mandato ancestrale” (il governo terreno illuminato dall’alto) direttamente dalla Bibbia: è il compito che Abramo riceverebbe dal misterioso Melchisedek, “Re di Giustizia”, al quale chiede di essere autorizzato a regnare sugli ebrei. E’ il mandato che poi Giuda riceverà a sua volta da Giacobbe-Israele, che descrive le doti del figlio con i tre colori della bandiera italiana. Nella tradizione, proprio il bianco, il rosso e il verde designeranno il contenuto simbolico della discendenza di Davide, fino a tradursi nelle virtù teologali cristiane (fede, speranza e carità). Valori che il potere del mondo ha bandito, ma che qualcuno – in nome di Cristo – ha provato a restaurare? Anche indossando i panni, germanici ma romanizzati, dell’inquieto sovrano dei Goti dell’Ovest?E’ la tesi attorno a cui si interroga Carpeoro, avvicinando il lettore ai primissimi secoli attraverso l’espediente letterario del noir, impersonato dall’anomalo ricercatore milanese Giulio Cortesi, appassionato di musica e soprattutto di cucina. Come già nel “Volo del Pellicano” e poi in “Labirinti”, Cortesi è vegliato dal suo ruvido angelo custode, il commissario Amedeo Bertossi, il cui mestiere non è inseguire fantasmi del passato, ma brutali assassini in carne e ossa. Killer contemporanei, che questa volta fanno fuori un professore – tedesco – che aveva scoperto qualcosa di sconcertante sulla vera identità di Alarico. Un’intuizione fondamentale, imbarazzante e molto pericolosa, che porta dritto anche alla precisa ubicazione della leggendaria sepoltura del condottiero. Se Cosenza è tuttora alla ricerca del Tesoro di Alarico su quella che era la riva pagana del Busento, Carpeoro – che è cosentino di nascita – cita il conterraneo Vincenzo Astorino per suggerire che le spoglie del sovrano vanno cercate sulla sponda opposta del fiumicello, quella che all’epoca era cristiana, dove sorgeva l’antichissima chiesetta di San Pancrazio, oggi interrata dai detriti alluvionali. Secondo la leggenda – e la poesia di August von Platen, tradotta da Carducci – quel piccolo corso d’acqua avrebbe addirittura sommerso il Re dei Goti, inumato (come poi Attila) insieme al suo cavallo nel letto del torrente, deviato per l’occasione.A decrittare anche quei versi ottocenteschi – scomponendoli, in un gioco enigmistico – provvede, nel romanzo, la favolosa équipe di cui si avvale Cortesi: il professore torinese e il suo amico simbologo, l’anziano architetto milanese che tiene in casa un Caravaggio non censito, e poi il vero “aiutante magico”, Fra’ Tommasino, il decano dell’Abbazia di Chiaravalle, “coadiuvato” (in sogno) da Cecilia, la ragazza amata dall’immenso pittore Giorgione, sulla cui “Tempesta” la critica non ha finito di arrovellarsi. Una trama agile e avvincente, piena di colpi di scena giocati tra Milano e la Calabria, riesce a trasportare il lettore tra le brume meno esplorate degli ultimi decenni dell’Impero Romano, dato già per morto quando invece era ancora enorme l’impronta di un grande imperatore come Teodosio. E’ proprio nella guerra di successione che si inserisce l’apparente outsider “germanico” Alarico, che contende Galla Placidia al figlio del suo altrettanto apparente antagonista, il generale Stilicone, accanto al quale ha anche combattuto per difendere Roma. Alarico? Era sì il Re dei germanici Dervingi, ma anche un cittadino romano, promosso addirittura governatore dell’Illiria. E non era pagano: era cristiano. Di più: era ariano, devoto al vescovo Ulfila.Se poi il termine “ariano” ha assunto tutt’altro significato, lo si deve all’Uomo Nero, Hitler, che – in nome del mito della purezza razziale – spedì a Cosenza gli archeologi di Himmler e cercare, inutilmente, le spoglie (e il tesoro) del loro presunto campione germanico. Quello è il modo in cui la lettura distratta della storia può deviare dalla verità, coniando stereotipi e luoghi comuni che poi innescano dinamiche che finiscono sempre nello stesso modo, cioè con una strage di massa. Ne sa qualcosa il sinistro Rudolf von Sebottendorff , il vero fondatore del nazismo “etnico”, il cui spettro si presenta puntuale all’appuntamento coi lettori di Carpeoro – che non è uno storico, ma un simbologo: nella storia, cerca quello che gli storici non dicono, e forse non sanno. Per esempio: perché Alarico, conquistata Roma, porta con sé Galla Placidia? E perché, se voleva dirigersi in Africa, non è salpato da qualsiasi porto tirrenico, spingendosi invece fino a Reggio Calabria, cioè verso la rotta ionica del Medio Oriente? Aveva forse con sé qualcosa di prezioso, che – come poi i Templari – doveva essere “rimesso al suo posto”, cioè nel Tempio di Salomone a Gerusalemme, simbolo dell’unità pacifica di tutti i popoli della Terra?“Il Re Cristiano” (l’acronimo è R+C, Rosacroce) è un romanzo per chi ama le domande, più che le risposte. E’ il sequel della storia che lo precede, “Labirinti”, e in fondo disegna un altro dedalo: come Teseo ha bisogno dell’amore di Arianna per uscire vivo dal labirinto del Minotauro, il valoroso Alarico deve avere al suo fianco Galla Placidia. Non riuscirà a portare a termine la missione, morendo ancora giovane senza poter instaurare il suo “regno di giustizia” a Roma? Ma la storia non finisce lì, avverte Carpeoro. Vi siete mai chiesti chi fosse, davvero, Galla Placidia? Perché era così ambita, importante, decisiva? Vi siete mai domandati perché si fece erigere lo spettacolare mausoleo funebre a Ravenna, poi scegliere di essere sepolta altrove? Cosa nasconde, allora, il Mausoleo di Galla Placidia? E perché proprio lì, a due passi – come fosse un “guardiano della soglia” – volle farsi seppellire Dante Alighieri, amico dei Càtari e dei Templari, nonché capo della confraternita iniziatica dei Fidelis in Amore? Sono solo domande, non risposte. Ma quelle, del resto, spesso mancano anche agli storici. E appunto, a proposito di Goti: qualcuno s’è mai chiesto perché si chiamino “gotiche” le meravigliose cattedrali che ornano le capitali europee, erette mille anni dopo Alarico? E cosa salterebbe fuori, a Cosenza, se qualcuno prima o poi si decidesse a gettare la rete “dall’altra parte”?(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il Re Cristiano”, Melchisedek, 272 pagine, 22 euro).Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città (non saccheggiata da lui, ma dai detenuti liberati) si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inutilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?