Archivio del Tag ‘vintage’
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Perdo dunque esisto, senza futuro la fiction della Basilicata
“Quando ti rendi conto di aver perso anche la Basilicata”: impietosa, la titolazione di “Scenari Economici” dopo l’esito delle regionali in Lucania. Senza anestesia anche il collage fotografico, dagli studi de La7 parati a lutto: parlano da sole le maschere funebri di Mentana e Damilano, più altri aedi minori del politicamente corretto, il mondo pre-gialloverde su cui il maninstream aveva fondato per decenni la leggenda del centrosinistra, creatura mitologica teoricamente opposta all’altrettanto mitologico centrodestra. Due esemplari estinti, come il dodo, ma tenuti in vita artificialmente dalla narrazione politica quotidiana. Zoologia fantastica, ora riesumata ma solo per un giorno, a scopo ludico-giornalistico, come una fiction mediocre e abbondantemente scaduta: il vintage di una Seconda Repubblica più virtuale che reale, palesemente defunta, stra-rottamata dagli elettori. Il centrodestra versione 2019? Dev’essere un giochino per la playstation: il videogame del vecchio Silvio, l’highlander. Ma la finta concorrenza, se possibile, è ancora più surreale: chi se lo ricordava, il centrosinistra? Eppure dev’essere esistito veramente, da qualche parte, se oggi si legge che “ha perso anche la Basilicata”.A questo è dunque servita l’ultima tornata regionale, a riesumare la memoria: il fiabesco invertebrato, riverniciato di fresco dal tenace carrozziere Zingaretti, un tempo ebbe vita propria almeno sul piano dell’apparenza mediatica, corroborato nei fatti dalla piccola geografia pensinsulare delle poltrone. Non che sia meno grottesca quella del volenteroso neo-presidente insediato a Potenza, l’ex generale della Guardia di Finanza scelto dall’omino della playstation: gli piacerebbe riunire in modo spettacolare, in una convention “made in Sud”, la famigliola dispersa – nonno Silvio e l’enfant terrible Matteo, insieme all’ornamentale Giorgia. Per fare cosa? Ovvio: per ricordare agli affezionati, agli appassionati cultori di storia patria (spazzatura inclusa), che un tempo esistette – regolarmente registrato all’anagrafe politica – anche il leggendario centrodestra, uscito dalle catacombe della Prima Repubblica e riformattato ad Arcore. L’esperimento vide la luce grazie a un prodigioso lifting, spettacolare e meno casereccio di quello del centrosinistra, l’animalone altrettanto tombale nato dalla clonazione di individui a loro volta ibernati, provenienti dalle retrovie delle parrocchie e dalla dirigenza transgenica del partito che aveva lasciato l’Urss, o almeno l’icona del comunismo storico, per transitare armi e bagagli nel peggior avamposto del campo nemico, ma senza dirlo ai propri elettori.Oltre che tra i Sassi di Matera (“perdo, dunque esisto”), il centrosinistra sembra sopravvivere – come venerata reliquia – almeno nello studio televisivo di Fabio Fazio, il conduttore che prima si genuflette di fronte al suo presidente (Macron) e poi celebra il party delle lacrime fondendo i giovanissimi Rami e Adam con i bravi carabinieri che li hanno salvati, nell’hinterland di Milano, dalla follia di un senegalese aspirante kamikaze. Nient’altro da segnalare, in fondo, eccetto il sontuoso video hollywoodiano (“citofonare Al Gore”, ha detto qualcuno) che mostra migliaia di giovanissimi intonare “Bella Ciao” in inglese, per la recita internazionale modellata sull’edificante storiella della piccola fiammiferaia Greta. Il resto è grisaglia: Cottarelli, Mattarella, l’ectoplasma di Tajani. Ce lo chiedeva l’Europa, eccetera. Guai a voi, anime prave: non isperate mai veder lo cielo. L’han ripetuto tutti, in questi anni, dalle divinità di Bankitalia a quelle della Bundesbank e della Bce, che poi in televisione sembrano avatar identici emanati dallo stesso pantheon. Apparizioni eteree, severissimi profeti dell’altrui sventura: qualcosa di amarissimo da somministrare, al volgo timorato, in virtù di misteriche conoscenze superiori, inaccessibili al comune mortale.Spenti i riflettori sull’inutile soap-opera lucana, in scena resta solo lo sceriffo Salvini, in compagnia del sorriso tirato e un po’ cinese di Di Maio. Niente di speciale, diranno i meno indulgenti – ma abbastanza, comunque, per convocare ad Aquisgrana il cast per uno spaghetti-western sul Sacro Romano Impero. Quanto ancora reggerà, il cerotto gialloverde, sulle piaghe di un’Italia deliberatamente retrocessa – con frode – dai numi dell’Olimpo tecno-totalitario? Non avrai altro Elohim all’infuori di me, tuonò la voce dal finto cielo. E così fu, per un buon quarto di secolo. Verità storica cercasi: c’è da riempire un cratere. Non ci sono alternative: un mantra bugiardo, spacciato per metafisico e durato venticinque anni. Il dogma nero, adottato da tutti – liberisti, sindacati, professori, anchorman – ha fatto morti e feriti, e ancora oggi diffonde rabbia e ostilità, innescando livide vendette. Il vero guaio, dicono voci eretiche come quelle di Gianfranco Carpeoro e Mauro Scardovelli, è che votiamo “contro”, ancora e sempre – contro qualcuno, non per qualcosa – senza capire che la nostra è l’animosità dei manzoniani capponi di Renzo, destinati ai fornelli.C’è da riempirlo di parole e idee, il vasto cratere spalancato dal meteorite neoliberale. Impresa estrema, alla portata di astronauti visionari. E il modulo spaziale chiamato Movimento Roosevelt sembra proiettato verso un altrove inafferrabile, in cerca di vita intelligente: a Londra, per esempio, dove il 30 marzo verrà allestita una stazione orbitale chiamata “New Deal per l’Europa”. A bordo saliranno gli economisti Rinaldi e Pisauro, Galloni e Grossi, la cosmonauta Ilaria Bifarini, lo start-upper Danilo Broggi, il fanta-imprenditore Fabio Zoffi. Missione: riempire il cratere, con istruzioni precise su come riacciuffare un futuro non virtuale, nel quale ci sia posto per tutti. E’ il futuro per il quale combatterono, e caddero, gli eroi che sempre il Movimento Roosevelt evocherà a Milano il 3 maggio: Carlo Rosselli e il sogno del socialismo liberale, Olof Palme e il sogno di un’Europa democratica e solidale, Thomas Sankara e il sogno di un’Africa libera e sovrana. Sono fondamentali, i sogni, per fabbricare qualcosa che non sia mediocre, scadente e deludente. “Sognai talmente forte”, cantava De André, “che mi uscì sangue dal naso”. Non si sogna più, oggi, in Italia e in Europa? Qualcuno, si sono detti gli astronauti, deve pur ricominciare a farlo. Perché tutto ciò che abbiamo, che abbiamo avuto, è venuto proprio da lì: dal coraggio dei sogni vissuti ad occhi aperti, che a volte finiscono per contagiare il mondo e liberarlo dal ciarpame che lo opprime. I sognatori questo credono: che un’alternativa ci sia sempre, in fondo al cuore di ognuno di noi, nessuno escluso.(Giorgio Cattaneo, “Perdo dunque esisto, l’inutile fiction preistorica della Basilicata e il viaggio nel futuro col Movimento Roosevelt a Londra, in cerca di vita intelligente”, dal blog del Movimento Roosevelt del 26 marzo 2019).“Quando ti rendi conto di aver perso anche la Basilicata”: impietosa, la titolazione di “Scenari Economici” dopo l’esito delle regionali in Lucania. Senza anestesia anche il collage fotografico, dagli studi de La7 parati a lutto: parlano da sole le maschere funebri di Mentana e Damilano, più altri aedi minori del politicamente corretto, il mondo pre-gialloverde su cui il maninstream aveva fondato per decenni la leggenda del centrosinistra, creatura mitologica teoricamente opposta all’altrettanto mitologico centrodestra. Due esemplari estinti, come il dodo, ma tenuti in vita artificialmente dalla narrazione politica quotidiana. Zoologia fantastica, ora riesumata ma solo per un giorno, a scopo ludico-giornalistico, come una fiction mediocre e abbondantemente scaduta: il vintage di una Seconda Repubblica più virtuale che reale, palesemente defunta, stra-rottamata dagli elettori. Il centrodestra versione 2019? Dev’essere un giochino per la playstation: il videogame del vecchio Silvio, l’highlander. Ma la finta concorrenza, se possibile, è ancora più surreale: chi se lo ricordava, il centrosinistra? Eppure dev’essere esistito veramente, da qualche parte, se oggi si legge che “ha perso anche la Basilicata”.
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Marella Agnelli: c’era una volta la Fiat, oggi non più italiana
Fiat fuit. Con la morte dell’ultima imperatrice, Marella Caracciolo-Agnelli, finisce la dinastia Fiat, tragicamente decimata dal destino. Nella sua figura regale si sintetizzava l’incontro della dinastia imperiale delle Auto e del Capitalismo nostrano con la dinastia principesca-editoriale dei Caracciolo, già proprietari de “La Repubblica-l’Espresso”. Per il mondo radical che l’ha salutata, la Signora era la sintesi perfetta dell’Impero Fiat e del mondo progressista-liberal. Così l’hanno ricordata Gianni Riotta, Nicola Caracciolo, Ezio Mauro ed altri. Marella Agnelli simboleggiava, con classe e sensibilità, va detto, l’incontro tra la saga padronale e il mondo della sinistra venuto dal comunismo, dalle lotte operaie contro i “padroni”. Fiat e Martello, auto, aiuti di Stato e stampa progressista. Poi, magari la signora aveva altre sensibilità, amava l’Oriente, Jung e Hillman, pativa con ammirevole self control alcune intemperanze di suo Marito, il Re Gianni. Ma viene celebrata nel suo ruolo di cerniera tra il mondo dei ricchi e la sinistra, tra il piccolo mondo snob e la sinistra a mezzo stampa. Con Marchionne era già finito l’ultimo residuo di mezza italianità della Fiat. Manca l’Italia nella nuova Fiat. Resta il marchio della Ferrari, del Cavallino rosso, ma non più l’Azienda-Regime.La Fiat manca come sede, manca come leadership, manca come orizzonte di riferimento, manca l’I d’Italia nel nuovo nome, Fca, anche per evitare sigle oscene, almeno da noi. Come è noto, l’ex Fiat è ora un’azienda italo-statunitense con domicilio fiscale legale in Olanda e sede centrale a Londra, guidata da un inglese e presieduta da John Elkann che avremmo difficoltà a definire italiano, per nome, origine e visione. Resta come sottomarca la Fiat, piccolo gadget per il vintage e per gli acquirenti nostalgici; quel marchietto antico che sa tanto di miracolo economico, anni Cinquanta, famiglie italiane, film in bianco e nero. Una dopo l’altra le aziende italiane se ne vanno all’estero. Il paradigma resta la Fiat che lasciò l’Italia cinque anni fa. Ricordo cosa dissero i nostri media quando la Fiat s’imparentò a Chrysler. Gran Torino, caput mundi; che trionfo, la Fiat si è pappata la Chrysler, Obama assunto come maggiordomo di colore da Marchionne, gli Stati Uniti aspettano trepidanti che l’azienda torinese porti la modernità nel loro paesone e risolva la crisi economica mondiale.È il giorno dell’orgoglio italiano, titolavano perturbati e commossi i grandi giornali italiani, tutti o quasi partecipati Fiat, in un modo o nell’altro. Gli Usa andranno in 500, profetizzavano euforici gli editoriali e le tv, l’Italia ricolonizza l’America, come ai tempi di Colombo e di Vespucci. Momento storico, ripetevano solenni i Tg, gli italiani della Fiat portano l’auto ecologica in America. Ma la Fiat non era in un mare di guai, non l’aiutava lo Stato, incluso il governo Berlusconi? Ma non si erano dimezzate le vendite delle auto? E che fine avevano fatto i giudizi sulla qualità delle auto Fiat? Poi, come è noto, andò diversamente. Oggi a malapena la Fiat è la nonnina di paese della Fca global. Ma guardiamo il diritto e il rovescio. A centoventi anni dalla nascita nel 1899, il diritto dice che la Fiat è parte notevole della storia d’Italia del Novecento e la sua Famiglia Reale è stata l’altra dinastia torinese che ha dominato l’Italia dopo i Savoia.La Fiat è stata il simbolo, la metafora e il veicolo italiano dell’industrializzazione e della modernizzazione, dell’immigrazione da sud a nord e dell’immaginario collettivo e privato, fino a colonizzare lo sport, tramite l’egemonia della Juve, ancora perdurante, arrivando a disegnare l’assetto dei trasporti su gomma del nostro paese. La Fiat non è mai stata solo una grande azienda privata ma ha sempre agito all’ombra della pubblica protezione: anche ai tempi del fascismo godette del sostegno del regime e del duce in persona; poi in guerra le tresche bilaterali con nazisti e partigiani, ad esempio, per boicottare la socializzazione delle aziende promossa dalla Rsi che non piaceva né ai comunisti né ai “padroni”. Poi, l’aiuto governativo ai tempi della cassa integrazione, dalle agevolazioni in ogni campo ai grandi ammortizzatori delle sue perdite. E’ proverbiale il detto che la Fiat socializzava le perdite e privatizzava i profitti.(Marcello Veneziani, “C’era una volta la Fiat”, da “La Verità” del 26 febbraio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Fiat fuit. Con la morte dell’ultima imperatrice, Marella Caracciolo-Agnelli, finisce la dinastia Fiat, tragicamente decimata dal destino. Nella sua figura regale si sintetizzava l’incontro della dinastia imperiale delle Auto e del Capitalismo nostrano con la dinastia principesca-editoriale dei Caracciolo, già proprietari de “La Repubblica-l’Espresso”. Per il mondo radical che l’ha salutata, la Signora era la sintesi perfetta dell’Impero Fiat e del mondo progressista-liberal. Così l’hanno ricordata Gianni Riotta, Nicola Caracciolo, Ezio Mauro ed altri. Marella Agnelli simboleggiava, con classe e sensibilità, va detto, l’incontro tra la saga padronale e il mondo della sinistra venuto dal comunismo, dalle lotte operaie contro i “padroni”. Fiat e Martello, auto, aiuti di Stato e stampa progressista. Poi, magari la signora aveva altre sensibilità, amava l’Oriente, Jung e Hillman, pativa con ammirevole self control alcune intemperanze di suo Marito, il Re Gianni. Ma viene celebrata nel suo ruolo di cerniera tra il mondo dei ricchi e la sinistra, tra il piccolo mondo snob e la sinistra a mezzo stampa. Con Marchionne era già finito l’ultimo residuo di mezza italianità della Fiat. Manca l’Italia nella nuova Fiat. Resta il marchio della Ferrari, del Cavallino rosso, ma non più l’Azienda-Regime.
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Basta influencer, servono veri maestri: ma dove sono finiti?
Dove sono finiti i Maestri? Ci sono ancora, cosa dicono, dove si annidano? E come chiamarli, oggi, Influencer, come Chiara Ferragni o la Madonna secondo il Papa? Facile dire che mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, i Maestri sono finiti insieme ai loro insegnamenti. Sono finiti pure i Cattivi Maestri che come angeli ribelli all’ordine divino si fecero demoni, insegnando la via dell’inferno come riscatto degli oppressi. Spariti pure loro. Non a caso, l’unico italiano riconosciuto tra i cento pensatori globali che hanno lasciato un segno, secondo la rivista “Foreign Policy”, non è un filosofo, ma un fisico, Carlo Rovelli. Allora, è proprio finita, dobbiamo rassegnarci a scegliere tra Fabrizio e Mauro Corona? No, ragioniamoci su. Innanzitutto, definiamo una buona volta il Maestro, anche nella variante di Guru, Ideologo, Vate. Chi è maestro? Non solo chi trasmette un sapere ma chi diventa un punto di riferimento, un modello a cui ispirarsi, un faro che non esprime solo una teoria o invita a compiere una ricerca ma rischiara una via. Maestro è uno che ti cambia la vita o almeno lo sguardo con cui vedi la vita. Uno che leggendolo, ascoltandolo, trasforma il tuo modo di pensare e di vedere le cose.Era facile al tempo delle ideologie e dell’Intellettuale Organico, trovare Maestri e maestrini. Oggi di quel ramo ne sono rimasti forse un paio, ma sono ai margini. Uno è il Cattivo Maestro per eccellenza, Toni Negri, pensatore e latitante, teorico di Autonomia Operaia e del comunismo, autore di un’opera che ha sfondato nel mondo, “Impero”, seguita poi da “Moltitudine”, due opere no global di un internazionalista che sogna ancora la rivoluzione del proletariato. L’altro, più defilato e meno distruttivo, è Mario Tronti, di cui è uscito ora “Il popolo perduto” (ed. Nutrimenti), che piange il divorzio tra la sinistra e il popolo e la perdita di quel mondo comunista legato alle sezioni e alle assemblee. È ormai su un pianeta diverso un loro antico sodale, Massimo Cacciari, che in tv si è sgarbizzato e in filosofia si è ritirato in una sfera mistica & catastrofica. Parallelo il cammino di un altro non-Maestro, Giorgio Agamben. Restano sullo sfondo i Vecchi Maestri Globali, ovvero quei pensatori che fanno filosofia per le masse partendo dall’antropologia e dalla sociologia, come Edgar Morin e Marc Augé, Hans Magnus Enzensberger e Serge Latouche, fino a ieri, Zigmunt Bauman e Umberto Eco.Non-luogo, Terra-Patria, Modernità liquida, Decrescita felice, Perdente radicale, Ur-fascismo, sono paroline-mantra entrate nel gergo corrente e nel minimo alfabeto degli Acculturati Aggiornati. Per il resto, l’era dei social offre a ciascuno la possibilità di un selfie e di eleggersi a maestri di se stessi per auto-acclamazione, facendo zapping nella rete, cogliendo qua e là spunti e citazioni. Maestri riconosciuti in senso religioso ormai sono solo in ambito esotico, extra-occidentale: sono guru o para-guru che vengono dall’Oriente o che parlano nel nome di tradizioni religiose e più spesso di sincretismi. Sulla scia di Osho, Sai Baba e altri santoni. I maestri più veri preferiscono restare nascosti, poco accessibili se non per iniziati; vanno cercati, e non pescati nei media o nei social. Un segno evidente di scristianizzazione è che non ci sono Maestri d’ispirazione cristiana, e che a dettare le regole, anche nelle classifiche dei libri, siano gli stessi papi, come Bergoglio e Ratzinger. Più defilati sono gli scrittori della Chiesa come don Vincenzo Paglia, Gianfranco Ravasi e altri prelati che sfidano i tempi e le librerie. Dopo i santi, finirono anche i maestri?E nel mondo conservatore, nel versante “destro” o alternativo alla globalizzazione? Resiste da decenni il maestro della Nouvelle Droite Alain de Benoist con una produzione incessante di saggi. Su altri versanti regge il filosofo inglese Roger Scruton, da lontano il pensatore russo Aleksandr Dugin. Non mancano le zampate del vecchio Regis Débray, già marxista e ora antiglobal col suo “Elogio delle frontiere”. A loro si aggiungono il matematico e filosofo Olivier Rey che racconta la marcia infernale del progresso in “Dismisura”; Fabrice Hadjadj, ebreo tunisino convertito al cattolicesimo, autore di “Mistica della carne” e “Risurrezione”. Ma sfonda il muro dell’attenzione globale Michel Houellebecq, che ora spopola con “Serotonina”, ma che fu maestro di denuncia della civiltà in pericolo con “Sottomissione”. Poi ci sono i numerosi maestri di passaggio, i guru provvisori, legati a un’opera, esplosi nei social, meteore luminose e poi presto opache. Se l’America resta il centro del mondo, i maestri hanno una prevalenza europea, anzi francese.E da noi cosa resta? Finito il tempo dei Pasolini e dei Bobbio, dei Del Noce e Zolla, la filosofia sembra ormai isterilita e intenta a proclamare il suo suicidio. Nella filosofia svetta il pensiero degli eterni di Emanuele Severino. O tra i maestri che aprono le porte del sacro al tempo profano, torreggia Roberto Calasso. Sono maestri riluttanti, che non cercano discepoli, che si annodano al filo impersonale della Tradizione o del suo surrogato, l’Editoria raffinata, o che vivono la siderale solitudine dell’Essere che pensa il Destino. In un’epoca egocentrica e autoreferenziale, i maestri sembrano ormai vintage, antiquariato, se non archeologia. Mancano i maestri perché mancano i discepoli. Eppure, proprio il caos globale, l’assenza di dei, la solitudine e lo spaesamento, la vita insensata, richiedono oggi più di ieri pensatori-guida, modelli di riferimento, figure autorevoli, supplenti del sacro e del pensiero che aiutino a trovare una via, una casa, una visione del mondo e della vita. Maestri che non detengono la verità ma che suscitano almeno il desiderio di cercarla…(Marcello Veneziani, “Vogliamo maestri, non influencer”, articolo pubblicato su “Panorama” e ripreso dal blog di Veneziani il 19 febbraio 2019).Dove sono finiti i Maestri? Ci sono ancora, cosa dicono, dove si annidano? E come chiamarli, oggi, Influencer, come Chiara Ferragni o la Madonna secondo il Papa? Facile dire che mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, i Maestri sono finiti insieme ai loro insegnamenti. Sono finiti pure i Cattivi Maestri che come angeli ribelli all’ordine divino si fecero demoni, insegnando la via dell’inferno come riscatto degli oppressi. Spariti pure loro. Non a caso, l’unico italiano riconosciuto tra i cento pensatori globali che hanno lasciato un segno, secondo la rivista “Foreign Policy”, non è un filosofo, ma un fisico, Carlo Rovelli. Allora, è proprio finita, dobbiamo rassegnarci a scegliere tra Fabrizio e Mauro Corona? No, ragioniamoci su. Innanzitutto, definiamo una buona volta il Maestro, anche nella variante di Guru, Ideologo, Vate. Chi è maestro? Non solo chi trasmette un sapere ma chi diventa un punto di riferimento, un modello a cui ispirarsi, un faro che non esprime solo una teoria o invita a compiere una ricerca ma rischiara una via. Maestro è uno che ti cambia la vita o almeno lo sguardo con cui vedi la vita. Uno che leggendolo, ascoltandolo, trasforma il tuo modo di pensare e di vedere le cose.
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Toti, Mieli, Fico: se il potere prova a mangiarsi i gialloverdi
Verrà il giorno che il verde si separerà dal giallo, la Lega sarà la nuova destra e il M5 Stelle sarà la nuova sinistra. Dalla maggioranza di governo del presente nascerà un nuovo sistema bipolare. I tempi potranno essere rapidi se in autunno o anche subito la coalizione si spaccherà sui temi sensibili che già conosciamo, vale a dire migranti, giudici, pensioni, reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, mentre su altri come l’Europa e l’avversione alla Casta dei potentati sembrano essere abbastanza omogenei. Ma se resisteranno alla prova d’autunno ci sarà poi la prova dell’Europa quando i due partiti si presenteranno divisi e faranno incetta di voti gli uni nell’area del centro-destra e gli altri in prevalenza della sinistra. Questa profezia circola sotto traccia da qualche tempo, e Bobo Maroni l’ha di recente rilanciata, vedendo nella Lega l’erede della destra e di Forza Italia, e nei grillini gli eredi della sinistra e del Pd. Rispetto alla nuova destra e alla nuova sinistra che faranno quelle cariatidi in caduta? Cambieranno nome, faccia e leader ai loro partiti in ritirata, si aggrapperanno al passato (Veltroni e Berlusconi), cercheranno di aprire i ponti ai due Soggetti principali tramite i loro ambasciatori (Toti e Zingaretti). E per completare la partita si dovrà vedere poi che fine faranno Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali, se saranno dentro, fuori a mezzadria, satelliti o in disparte, rispetto ai due poli principali.Insomma, il futuro non finisce mica qui, altri futuri si prospettano davanti, e nel rimescolamento del pappone nazionale non sono esclusi anche vintage, coalizioni riesumate e rigurgiti di passato. L’ipotesi subalterna, naturalmente, è che gli eventi precipitino, con l’aiutino determinante dei poteri interni e internazionali, e riescano a disarcionare la maggioranza, magari dopo averla divisa. E al suo posto, al governo ci manderebbero la Troika o chi ne fa le veci. Direi che è questa prospettiva a tenere unita l’alleanza gialloverde e a renderla sopportabile anche ai loro elettori refrattari, di ambo i versanti, sia coloro che non sopportano i grillini sia coloro che non sopportano i leghisti. Nell’attesa è divertente vedere come si regolano i maggiori segnalinee, sagrestani e portavoce dell’Establishment. Quasi tutti mirano a dividere gli alleati per farli cadere e la preferenza negli assalti è naturalmente contro Salvini, il Nemico Principale di tutti i poteri costituiti, magistrati inclusi. Insomma c’è gente che sta cercando di far saltare il ponte gialloverde, perché con i due tronconi divisi, come a Genova, non potranno più andare avanti.Ma c’è una seconda via, un piano B, in cui risale l’antica indole democristiana che oggi veste i panni laici e curiali del Cardinal Paolo Mieli. È vedere se i barbari, come vengono sinteticamente definiti i leghisti e i grillini, possano essere convertiti, disossati o corrotti, secondo i punti di vista. La missione di ammansire i lupi e condurli all’ovile riguarda principalmente i grillini che sono radicali ma sprovveduti, giacobini ma dilettanti, non hanno una loro visione di riferimento ma agiscono random, sulla base di un pauperismo che si autodefinisce momento per momento, rete per rete. E soprattutto sono acquiescenti rispetto al Politically correct, sono più addomesticabili, non hanno le remore della Lega in tema di bioetica e famiglia, sovranità nazionale e confini, migranti e sicurezza. È così che il più modesto, il più moscio, il più rintronato dei grillini, Messer Fico, è diventato il loro ponte, la loro matrioska e il loro parente acquisito tramite cui chiedere il ricongiungimento.Ma la conversione dei barbari in seconda battuta riguarda anche i leghisti. In questo senso era stato rivalutato persino Berlusconi e il suo bromuro personale, Tajani, con la missione di annacquarli, devitalizzarli fino a neutralizzarli, in un altro centro-destra a guida padronale, senza una linea e pronto a intendersi coi dirimpettai. Perché l’apice della redenzione dei barbari, per la curia dei potentati, è l’inciucio. Lasciare agli estremi gli irriducibili, bollati come nemici dell’Europa, della Modernità e della Democrazia liberale, e convergere al centro, governando come Ue comanda, senza l’ardire di rimettere in discussione i comandi. Questi sono gli scenari futuri. Insomma il film è ancora agli inizi, può essere un cortometraggio oppure un kolossal, non sappiamo la trama e nemmeno come va a finire. Se sarà un horror, un lietofine, una farsa.(Marcello Veneziani, “Barbari o divisi”, dal “Tempo” del 1° settembre 2018, articolo ripreso dal blog di Veneziani).Verrà il giorno che il verde si separerà dal giallo, la Lega sarà la nuova destra e il M5 Stelle sarà la nuova sinistra. Dalla maggioranza di governo del presente nascerà un nuovo sistema bipolare. I tempi potranno essere rapidi se in autunno o anche subito la coalizione si spaccherà sui temi sensibili che già conosciamo, vale a dire migranti, giudici, pensioni, reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, mentre su altri come l’Europa e l’avversione alla Casta dei potentati sembrano essere abbastanza omogenei. Ma se resisteranno alla prova d’autunno ci sarà poi la prova dell’Europa quando i due partiti si presenteranno divisi e faranno incetta di voti gli uni nell’area del centro-destra e gli altri in prevalenza della sinistra. Questa profezia circola sotto traccia da qualche tempo, e Bobo Maroni l’ha di recente rilanciata, vedendo nella Lega l’erede della destra e di Forza Italia, e nei grillini gli eredi della sinistra e del Pd. Rispetto alla nuova destra e alla nuova sinistra che faranno quelle cariatidi in caduta? Cambieranno nome, faccia e leader ai loro partiti in ritirata, si aggrapperanno al passato (Veltroni e Berlusconi), cercheranno di aprire i ponti ai due Soggetti principali tramite i loro ambasciatori (Toti e Zingaretti). E per completare la partita si dovrà vedere poi che fine faranno Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali, se saranno dentro, fuori a mezzadria, satelliti o in disparte, rispetto ai due poli principali.
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Al funerale di Kohl i becchini di quest’Europa germanizzata
Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.Fu dalla riunificazione a tappe forzate che alla fine emerse evidente la nuova pesante centralità della Germania. Tornata grande – con il marco al centro del mercato europeo – così tanto da dover accettare, sul tavolo della trattativa con l’Unione europea che appena nasceva, come contrappeso l’avvio dell’integrazione europea e dell’adozione dell’euro. Questa «epoca delle promesse» ieri è stata ricordata non a caso da un personale politico che – senza confronto col nuovo Corbyn – più vintage non si può: c’erano infatti in mezzo a tanti incredibili leader attuali, come l’ex monarchico berlusconiano Tajani, diventato chissà come presidente dell’Europarlamento, Bill Clinton, Romano Prodi e perfino Silvio Berlusconi. Tutti a contendersi le spoglie del «dopo-Muro» che fu. Ma non c’è più il dopo-Muro di una volta. Da quel crollo inziale, precipitò l’Unione sovietica che con Michail Gorbaciov proponeva la «casa comune europea», un’idea straordinaria fatta a pezzi dai leader occidentali che preferirono la sua caduta e l’avvento a Mosca di Boris Eltsin, piuttosto che corrispondere positivamente.Adesso, al contrario, è tornata la guerra fredda ai confini della Russia-nazione, con l’incendio in Ucraina, nel Donbass, e con gli eserciti atlantici dislocati tutti sulla frontiera russa. Mentre la guerra calda infuria nell’inferno mediorientale e l’Africa torna a vocazione post-coloniale. E soprattutto l’erede di Kohl, Angela Merkel, pur avendo sviluppato le tematiche democristiane della Cdu in chiave socialdemocratico-cristiana, si muove proprio al contrario del grande padre Kohl che l’ha introdotta nel partito e nel potere. Lo ha affermato con durezza il nuovo leader della Spd Martin Schulz, quando all’ultimo congresso straordinario della Spd di pochi giorni fa, ha così accusato l’ex ragazza dell’est «mutti»: «L’idea dell’ex cancelliere Helmuth Kohl era quella della Germania europea, non dell’Europa germanizzata». Un attacco frontale che fotografa lo stato delle cose. Con una Germania che, dopo la Brexit, si candida apertamente a guidare i destini d’Europa, surrogata dalla Francia di Macron che annuncia nuova grandeur.Insomma la Grande Germania è tornata, si sceglie i profughi, privilegia le sue banche, decide sanzioni, marginalizza le aree da escludere come la Grecia, guida i rapporti con l’Asia, fa guerre a destra e a manca, ingloba truppe dell’est nella Bundeshweher. Subalterni i restanti 26 paesi europei. Mentre quelli dell’Est, a proposito della Cortina di ferro, diventati appendice di Berlino e della Nato, vanno per proprio conto a destra, cancellando diritti umani e democrazia. Mentre solo in Europa di muri ne sono stati eretti almeno altri dieci. No, non c’è più il dopo-Muro di una volta.(Tommaso Di Francesco, “L’addio a Kohl e il dopo-Muro di una volta”, dal “Manifesto” del 2 luglio 2017).Per l’addio all’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, l’Ue ha organizzato nell’Europarlamento di Strasburgo il primo funerale di Stato. Le élite che governano l’Europa e il mondo non potevano non assumere la sua figura come fondativa del presente, della nuova Europa e della nuova realtà globalizzata. Perché indissolubilmente legata alla caduta del Muro di Berlino. Fu lui nel dicembre 1989, a quasi un mese dal crollo del Muro, che al Bundestag annunciò la possibile riunificazione tra le due Germanie (le «due patrie», l’altra era la Ddr) divise per mezzo secolo con sullo sfondo l’ombra delle responsabilità tedesche nella Seconda guerra mondiale e simbolo della Guerra fredda. Quel «dopo-Muro» fu un’epoca ricca di promesse, per gran parte non mantenute, ma certo inconfrontabile con l’attuale stagione. Il piano della riunificazione e poi la decisione del «cambio uno a uno tra marco dell’est e dell’ovest» presa da Kohl – sempre sostenuto a testa bassa dal suo ministro degli interni che si chiamava Wolfgang Schaeuble – sconvolsero e stupirono il quadro politico internazionale di sinistra e di destra, protagonisti Gorbaciov, Mitterrand e Andreotti, Thatcher, Bush padre e Reagan. E perfino autorità economiche e monetarie a partire dalla stessa Bundesbank.
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Delusioni: il fantasma di Obama, un triste destino da ex
La vittoria elettorale di Barack Obama somiglia a quelle cene preparate con gli avanzi della festa del giorno prima: cibo magari saporito, se ben ricucinato, ma in ogni caso non consumato nei bagordi del giorno precedente. Speculazioni? Parlano le cifre: in quattro anni, Obama ha perso quasi 20 milioni di elettori e una dozzina di punti percentuali. Un crollo, che si è fermato appena un punto sopra lo sfidante repubblicano: un punto esiguo, sufficiente a mettere insieme una larga maggioranza di “grandi elettori”, secondo la particolare legge elettorale americana, ma non certo ad affrancare il vincitore – almeno per i prossimi due anni – dai condizionamenti di un Parlamento che resta al 50% in mano agli avversari. Uno scenario infelice, osserva “Nique La Police” sul blog “Senza Soste”, che mantiene Barack Obama nella condizione poco invidiabile di “anatra zoppa”.
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Rabbia e dolore: Tempest, capolavoro firmato Dylan
Chi è Bob Dylan? Una domanda a cui è difficile rispondere, nonostante quest’uomo sia in giro da più di mezzo secolo. Tra i tanti che ci hanno provato c’è il regista Todd Haynes con il film Io non sono qui. La sua idea (geniale) è stata quella di raccontare Dylan attraverso sei diverse identità. Una di queste è Woody Guthrie, un ragazzino nero vestito come il leggendario folk singer che gira gli Stati Uniti a bordo di un treno sgangherato. Ecco, Dylan nonostante i suoi 71 anni è ancora come quel ragazzino. Un ibrido tra un cantante folk bianco e un bluesman che ha venduto la sua anima al diavolo, proprio come Robert Johnson. E che nonostante tutto fa ancora dischi bellissimi come Tempest. Gira voce che questo sarà il suo ultimo album, il suo canto del cigno. Difficile dirlo, nonostante i riferimenti alla vecchiaia e alla morte siano sparsi un po’ ovunque tra i testi dei pezzi. Ma Dylan è un fuorilegge della canzone. E quindi, come sempre, c’è poco da fidarsi.
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Folle e irridente, l’incredibile Dylan natalizio
Ci crediate o meno, “Christmas in the heart”, l’annunciato disco natalizio di Bob Dylan (e già la notizia aveva creato un certo stupore) è proprio un disco di Natale, a tutti gli effetti. Inizia con un sentore di slitte e campanellini e un annuncio inequivocabile: “Here comes Santa Claus”. E succede davvero: un Dylan quasi disneyano, con coretti anni cinquanta e chitarrine country. Se non ci fosse la sua voce potrebbe essere un disco di Ray Conniff o di un gruppo di avvinazzati cowboy da balera.