L’isola di Neruda, dove il mare inventa la poesia
Scritto il 24/8/09 • nella Categoria:
segnalazioni
Condividi
Tweet
Quando Neruda l’avvistò dal mare, in una gita da Santiago, la casetta era un’umile costruzione di legno di proprietà del marinaio Eladio Sobrino. Don Pablo la comprò pensando di rifugiarsi lì con le sue muse, lontano dalla baraonda che la sua poesia e la sua attività politica cominciavano a provocare. Siamo molto lontani dal premio Nobel, che arriverà nel 1971. E ad anni luce da quella casa che oggi è un raffinato museo visitato dai turisti di tutto il mondo, che hanno l’ impressione di non essere stati in Cile se non mettono piede nella dimora del poeta. A Isla Negra si arriva da Santiago percorrendo, in poco più di un’ ora, una comoda autostrada.
Laggiù c’ è un’ osteria gestita dalla studiosa di folclore Charo Cofré. Le umili stanze sono accessibili a tutte le tasche. Tanto minimalismo è compensato da una cucina tipicamente cilena, con empanadas (sorta di panzerotti ripieni di carne) grosse come un punching ball, brodetti di grongo e altri pesci, molluschi e crostacei che sembrano sopravvivere solo lungo la costa cilena. Il mare di questa esigua striscia di terra è il rifugio di molte specie marine che forse non sono riuscite a fuggire da qui perché la terra più vicina andando a ovest è l’ Australia. Puoi essere pesce quanto ti pare, ma mi sa che ci pensi su due volte prima di imbarcarti in un viaggio del genere.
Non c’ è nessuna ragione speciale in questa nazione – che a volte sembra avere solo mare e cordigliera – per andarea Isla Negra, se non immergersi nel territorio mitico fondato da Neruda. La spiaggia è totalmente e assolutamente non balneabile. La corrente può sfracellarti sugli scogli millenari che si offrono scoscesi alle onde, autentiche cattedrali salate, perché si infrangano su di loro.A conti fatti fu questo andirivieni di onde che attirò qui Neruda, perché questo mare che dice di sì, di no, di no, di no «con sette lingue verdi»… «di sette tigri verdi», fu la sistole e la diastole di tutta la sua opera.
Già malinconicamente agonizzante, Neruda riflette in una strofa: «Io torno al mare avvolto dal cielo, il silenzio tra una e l’ altra onda introduce un silenzio pericoloso: muore la vita, si acquieta il sangue fino a che il nuovo movimento si infrange e risuona la voce dell’ infinito». Quasi al termine della sua vita, debilitato dal cancro nell’ ambasciata cilena a Parigi, rimpiange colmo di angoscia il mare della sua Isla Negra, perché gli altri mari sono «circondati da città tristi le cui onde non sanno uccidere le onde né caricarsi di sale e di suono». Questa immagine sembra un autoritratto dell’ intimità creatrice del poeta: Neruda interiorizzava lo spettacolo di quel mare per nutrire di spirito le metafore con cui affascinò il mondo.
Quando si trasferisce a Isla Negra, facendone la residenza preferita fra le tre case che possiede in Cile, il suo obiettivo principale è la «gioia». Si dedicherà interamente a questo sentimento che spera di lasciare come eredità principale al suo popolo e alla sua amata Matilde: «Non voglio che muoia la mia eredità di gioia».
Tutta la decorazione della sua casa è una celebrazione rituale, variopinta di oggetti, polene, conchiglie, astrolabi, ceramiche, calici, vetri lavorati a sbalzo, quadri, manifesti, costumi, destinati a popolare un mondo dove il poeta giocherà con i suoi oggetti come un bambino con i suoi trofei più preziosi. La vita di Neruda a Isla Negra cerca in tutti i sensi un recupero sintetico ed essenziale della sua esistenza. Non mancano i ricordi dell’ infanzia che custodisce gelosamente in ossessioni che riesce a materializzare: c’ è il cavallo blu che quando era piccolo ammirò sulla porta di una selleria a Temuco e che decenni dopo riuscì a trovare, senza la coda, bruciacchiata in un incendio.
Si porta dietro le cose del passato con la febbre di un collezionista «lirico»: non mette insieme oggetti solo per la bellezza delle loro forme, ma perché hanno segnato e ferito la sua intimità in modo tale da vedere in essi la permanenza del passato nel presente, la garanzia che il tempo fugace si decanta in simboli tangibili. Ecco perché ha il vizio del possesso: non può stare senza le cose. Sono la corte del suo regno di fronte al mare. Ogni oggettoa Isla Negra si porta dietro una leggenda: la vasta anima del poeta si appoggia su questa materialità per inventare.
Il territorio di Neruda a Isla Negra è una calamita di tempo, di mondo, di universo, di natura. Il poeta aspira nei suoi polmoni epici l’ immensità del suo povero passato di figlio di un ferroviere (quella locomotiva “Walt Whitman” che conserva nel giardino) come la lussuria dei suoi viaggi in Europa e in Asia. Mescola tutto, il dissimile incontra un’ unità solo nella sua poesia. La sua creazione, tanto alata, è molto vicina alla terra. Ma soprattutto è vicina al mare: là vivono i resti di un naufragio usati come scrittoi, timoni, conchiglie, uccelli dell’ oceano.
A partire da Isla Negra, Neruda decide di concentrare tutta la sua energia per essere altro: vuole fuggire dal ragazzo malinconico che viveva nello stanco quartiere di Maruri, a Santiago, decide di sottoporre la sua naturale inclinazione alla tristezza al buonumore della natura. Le sue Odi sono la più perfetta riconciliazione tra l’ uomo e il suo contorno naturale: uomo e natura sono lì per incantarsi a vicenda. Con le Odi vuole insegnare a tutti noi a giocare con l’ immaginazione: Isla Negra è la capitale di un Paese chiamato Metafora, il «gatto» sarà una «minima tigre da salotto», il «poliziotto segreto delle stanze», il «sultano delle tegole erotiche». I carciofi saranno guerrieri bruniti e l’ aria è trasparente perché ci mostra quello che verrà domani: quella terra fraterna e utopistica a cui dedicò le sue convinzioni politiche.
Se la sua vita a Isla Negra è un esercizio permanente di compilazione di sensazioni ed emozioni private e collettive, è al tempo stesso anche l’ inalazione profonda con cui il poeta recupera coloro che ha sparso per il mondo. Isla Negra è piccola, abbastanza da passeggiare per la spiaggia, andare verso la caletta del villaggio vicino a scherzare con i pescatori, comprare frutti di mare e pesce fresco, avanzare su un’ auto scomoda verso il porto di San Antonio per comprare qualche utensile domestico.
Un giorno torna con un camion portandosi dietro una porta. La moglie Matilde gli chiede disperata: «E dove pensi di metterla?». Neruda: «Costruirò una nuova stanza». Così è cresciuta la casa di Isla Negra fino a diventare quello che è oggi: senza un piano evidente, o forse con un piano segreto. Mano a mano che Neruda invecchiava e il mondo conflittuale intorno a lui si infiammava (la tensione della Guerra fredda, l’ utopia comunista macchiata dallo stalinismo, il golpe militare di Pinochet in arrivo) trasferiva la sua esposizione luminosa in angoli ogni volta più intimi. L’ ultima camera che costruisce evoca quasi il carapace delle chiocciole: si avvolge su se stesso e chiede ai muratori di mettere sul tetto vecchie lamiere, per sentire la pioggia con la stessa violenza della precaria abitazione della sua infanzia.
Niente macchina da scrivere, ma una meticolosa e duttile penna stilografica a inchiostro verde. Neruda, con la sua espansione mondiale, la sua cultura, le sue relazioni, i suoi interventi nella storia – dalla guerra civile spagnola fino al suo discorso a New York («vengo a rinegoziare il mio debito poetico con Walt Whitman») – il suo premio Nobel vinto nel 1971, la sua ambasciata in Francia, la gloria di milioni di lettori che qui e là, a volte senza sapere come né dove, citano a memoriai suoi versi, avrebbe potuto essere la dinamo di qualunque metropoli dell’ universo.
Don Pablo optò per il luogo più piccolo del pianeta. Attenzione, però: quando non stava nel vasto mondo, agendo in esso, influenzandolo, dilettandolo, il vasto mondo veniva ripetutamente da lui. Isla Negra al principio era solo passeggiate sulla spiaggia, discussioni con i dirigenti politici, conversazioni con i commercianti, dialoghi frizzanti con le ricamatrici dell’ “isola”, tessitrici di tela da sacchi che tiravano fuori opere insigni nella loro purezza, raggianti di un’ allegria che ha oltrepassato molti patimenti. Ma già prima del Nobel, Isla Negra era il mondo: il luogo più universale del Cile.
Poco più in là della casa del poeta si estendono terreni ancora vuoti, che Neruda comprò per costruire la sua «Camelot»: sarebbe diventata il regno dell’eterna primavera, un luogo utopico dove i poeti sarebbero venuti per lunghi periodi a scrivere, vivere, convivere. Avrebbero avuto le loro stanze, le loro sale da pranzo, le loro sale di lettura. Sicuramente un bar aperto.
Il sogno si chiamava “Cantalao”, e nella nuova democrazia cilena, dopo il pinochettismo, il sogno continua a essere irreale: non è stato realizzato questo semenzaio di immaginazioni progettato da Neruda. “Cantalao” fu il sogno incompiuto di Neruda. Una mano fraterna tesa a colleghi che non potevano contare sulla sua fama, per consentire loro di godere del linguaggio e del frastornante silenzio del mare, pensando che laggiù sarebbero state generate opere importanti quanto quelle elaborate da lui.
Isla Negra è piccola, ma Neruda la moltiplicò per migliaia di volte: tutti – everybody and his brother – vi si sono recati, centinaia di scrittori europei, latinoamericani, ofrientali, africani, i più importanti uomini politici del pianeta. Il mondo si è decantato a Isla Negra, e prosegue il turbinoso viavai di centinaia di migliaia di visitatori che vengono qui tutti gli anni. Ad alcuni metri dalla casa c’è la tomba di Neruda e di Matilde, dopo che il poeta fu riscattato dal luogo insignificante a cui i golpisti avevano destinato le sue spoglie.
Durante la dittatura di Pinochet, giovani innamorati scrissero sulle assi di legno della cancellata del suo giardino parole di affetto verso il poeta assente; lì erano entrati anche i militari il giorno del golpe, mitraglietta in mano, per auscultare la casa del poeta agonizzabte. Nulla forse precisa meglio il carattere incommensurabile della piccola Isla Negra di don Pablo del graffito di quel genio anonimo che ha scritto con mano tremolante sopra la sua porta: “Neruda non è cileno, il Cile è nerudiano”.
(Antonio Skàrmeta, estratti da “L’isola di Neruda – Ritorno a Isla Negra, dove il mare inventa la poesia”, La Repubblica, 23 agosto 2009 – www.repubblica.it).
NERUDA AT ISLA NEGRA - The writer Antonio Skàrmeta, author of “The Postman”, signes an original reportage on Isla Negra, the seaside refuge near Santiago where Pablo Neruda lived his last years. The reportage has been published in Italy by “La Repubblica”, www.repubblica.it (august, 23). Isla Negra, as Skàrmeta writes, was the last utopy of Neruda: the little village on the Ocean where the Nobel Prize growed his inspiration, and where he dreamed to host young writers and poets from all the World, to work with them every day.
Articoli collegati
- Giallo Neruda, il poeta "ucciso dalla Cia con iniezione letale"
- Argentina: morto Massera, il boia fascista della P2
- Sepùlveda: Cile ipocrita, pensi alla sicurezza dei minatori
- Minatori cileni: la salvezza e il fantasma di Allende
- Addio a Sanguineti, era il cielo in versi
- Crimini franchisti, la Spagna teme l'inchiesta di Garzón
- Scrittori liberi, Le Monde difende Tabucchi da Schifani
- La via dei lupi, un film dal romanzo di Carlo Grande
- Alda Merini: lascerei Milano solo per il Paradiso
- Whitman, ora la poesia serve a vendere jeans?
- La nostra patria è il mondo, come per i pesci il mare
- Villaggio: Mike ha abbassato il livello culturale
- Vi racconto il paradiso, dove il sole non tramonta
- Bob Dylan, un disco di Natale per sfamare i poveri
- Fernanda Pivano: grazie ragazzi, non smettete di sognare
- Don Gallo e l'utopia di Paride Batini, ultimo eroe italiano
- L'ultimo Dylan, gloria oscura e splendore del Delta
- Zanzotto: sono un sostenitore della Decrescita
- Maggiani: De André principe anarchico, profeta di umanità nuova