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Hobsbawm: benessere per tutti, o non avremo futuro

Scritto il 14/10/09 • nella Categoria: idee Condividi Tweet

Il “secolo breve”, il XX, è stato un periodo contrassegnato da un conflitto religioso tra ideologie laiche. Per ragioni più storiche che logiche è stato dominato dalla contrapposizione di due modelli economici – e soltanto due modelli vicendevolmente esclusivi – il “Socialismo”, identificabile con economie a pianificazione centrale di tipo sovietico, e il “Capitalismo”, che copriva tutto il resto. Tale contrapposizione, apparentemente fondamentale, tra un sistema che ambiva a togliere di mezzo le imprese private interessate agli utili (il mercato, per esempio) e uno che intendeva affrancare il mercato da ogni restrizione ufficiale o di altro tipo, non è mai stata realistica.

Tutte le economie moderne devono abbinare pubblico e privato in vario modo e in vario grado, e di fatto così fanno. Entrambi i tentativi di vivere all’altezza di hobsbawmquesta logica del tutto binaria di queste definizioni di “capitalismo” e “socialismo” sono falliti. Le economie di tipo sovietico a organizzazione e gestione statale non sono sopravvissute agli anni Ottanta. Il “fondamentalismo di mercato” angloamericano è crollato nel 2008, nel momento del suo apogeo. Il XXI secolo dovrà pertanto riconsiderare i propri problemi in termini molto più realistici.

Come ha influito tutto ciò sui Paesi in passato devoti al modello “socialista”? Sotto il socialismo avevano riscontrato l´impossibilità di riformare i loro sistemi dirigenziali a pianificazione statale, quantunque i loro tecnici e i loro economisti fossero pienamente consapevoli delle loro principali carenze. I sistemi – non competitivi a livello internazionale – furono in grado di sopravvivere finché poterono restare completamenti isolati dal resto dell’economia mondiale.

Questo isolamento, però, non poté essere mantenuto nel tempo e quando il socialismo fu abbandonato – vuoi in seguito al crollo dei regimi politici come in Europa, vuoi dal regime stesso, come in Cina o in Vietnam – questi stati senza alcun preavviso si ritrovarono immersi in quella che a molti sembrò l´unica alternativa disponibile: il capitalismo globalizzante, nella sua forma allora predominante di capitalismo del libero mercato.

Le conseguenze dirette in Europa furono catastrofiche. I Paesi dell’ex Unione Sovietica non ne hanno ancora superato le ripercussioni. La Cina, per sua fortuna, scelse un modello capitalista diverso dal neoliberalismo angloamericano, preferendo quello molto più dirigista delle “economie tigre” o shangaid’assalto dell’Asia orientale, ma diede il via al suo “gigantesco balzo economico in avanti” con ben scarsa preoccupazione e considerazione per le implicazioni sociali e umane.

Quel periodo è ormai alle spalle, come lo è il predominio globale del liberalismo economico estremo di matrice angloamericana, quantunque non sappiamo ancora quali cambiamenti implicherà la crisi economica mondiale in corso – la più grave dagli anni Trenta – quando si saranno riusciti a superare gli esiti sconvolgenti degli ultimi due anni. Una cosa, tuttavia, è sin d’ora molto chiara: è in corso un avvicendamento di immani proporzioni dalle vecchie economie nordatlantiche al Sud del pianeta e soprattutto all’Asia orientale.

In questo frangente, gli ex stati sovietici (compresi quelli tuttora governati da Partiti comunisti) si trovano a dover affrontare problemi e prospettive molto diverse. Escludendo in partenza le divergenze di allineamento politico, dirò solo che la maggior parte di essi resta relativamente fragile.

In Europa alcuni si stanno assimilando al modello social-capitalista dell’Europa occidentale, benché abbiano un reddito medio pro-capite considerevolmente inferiore. Nell’Unione europea è alquanto verosimile presagire la comparsa di una doppia economia. La Russia, ripresasi in certa misura dalla catastrofe degli anni Novanta, è ridotta ormai a Paese esportatore, potente ma vulnerabile, di prodotti primari e di energia ed è stata finora incapace di ricostruirsi una base economica meglio bilanciata.

Le reazioni contro gli eccessi dell’era neoliberale hanno portato a un ritorno, parziale, a forme di capitalismo statale accompagnate da una sorta di regressione a taluni aspetti dell’eredità sovietica. Palesemente, la semplice “imitazione dell’Occidente” ha smesso di essere un’opzione possibile. Questo fenomeno è ancora più evidente in Cina, che ha sviluppato con considerevole successo un proprio capitalismo post-comunista, al punto che in futuro può anche darsi che gli storici possano vedere in questo Paese il vero salvatore dell’economia capitalista mondiale nella crisi nella quale ci troviamo attualmente. In sintesi, non è più possibile credere in una unica forma globale di capitalismo o di post-capitalismo.

In ogni caso, delineare l’economia del domani è forse la parte meno rilevante delle nostre future preoccupazioni. La differenza cruciale tra i sistemi economici non risiede nella loro struttura, bensì nelle loro priorità sociali e morali, e queste dovrebbero pertanto essere l’argomento principale del nostro dibattito. Permettetemi dunque, a tal proposito, di illustrarvene due aspetti di fondamentale importanza.

Il primo è che la fine del Comunismo ha comportato la scomparsa repentina di valori, abitudini e pratiche sociali che avevano segnato la vita di intere generazioni, non soltanto quelle dei regimi comunisti in senso stretto, ma anche quelle del passato pre-comunista che sotto questi regimi erano state in buona parte tutelate. Dobbiamo riconoscere quanto siano stati profondi e gravi lo shock e le disgrazie in termini umani verificatisi in conseguenza di questo brusco e inaspettato terremoto sociale. Inevitabilmente, occorreranno parecchi decenni prima che le società post-comuniste trovino una stabilità nel africaniloro modus vivendi nella nuova era, e alcune delle conseguenze di questa disgregazione sociale, della corruzione e della criminalità istituzionalizzate potrebbero richiedere ancora molto più tempo per essere debellate.

Il secondo aspetto è che sia la politica occidentale del neoliberalismo, sia le politiche postcomuniste che essa ispirò hanno di proposito subordinato il welfare e la giustizia sociale alla tirannia del Pil, il Prodotto interno lordo: la più grande crescita economica possibile, volutamente inegalitaria. Così facendo, essi hanno minato – e negli ex Paesi comunisti hanno addirittura abbattuto – i sistemi dell´assistenza sociale, del welfare, dei valori e delle finalità dei servizi pubblici.

Tutto ciò non costituisce una premessa da cui partire sia per il “capitalismo europeo dal volto umano” dei decenni post-1945 sia per soddisfacenti sistemi misti post-comunisti. Obiettivo di un’economia non è il guadagno, bensì il benessere di tutta una popolazione. La crescita economica non è un fine, ma un mezzo per dar vita a società buone, umane e giuste. Non importa come chiamiamo i regimi che perseguono questa finalità. Conta unicamente come e con quali priorità sapremo abbinare le potenzialità del settore pubblico e del settore privato nelle nostre economie miste. Questa è la questione politica più importante del XXI secolo.

(Eric J. Hobsbawm, estratto dal suo intervento del 2009 al World Political Forum, l’organismo internazionale fondato da Mikhail Gorbaciov)

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