Anni di piombo, Fofi: l’eterno ricatto del terrorismo
Il bel libro sul padre scritto da Benedetta Tobagi, la fiction di De Maria “La prima linea”, la ristampa del bel libro di Licia Pinelli sul marito Pino, il saggio storico di De Luna sugli anni settanta sono solo alcuni dei tanti titoli recenti o recentissimi che evocano i nostri “anni di piombo”, quelli nei quali uno come me si svegliava la mattina con la paura di leggere sui giornali la notizia di un morto ammazzato dai terroristi – Brigate rosse o Prima Linea non cambiava niente – o di qualche terrorista ammazzato dalla polizia che in qualche modo aveva conosciuto o sfiorato. Sì perché, con una logica tutta loro, i terroristi uccidevano preferibilmente non quelli che dicevano essere i nemici principali bensì i funzionari di uno stato mal funzionante, che erano spesso persone di grande onestà e rigore.
Il film di De Maria – di apprezzabile misura morale e civile, ma cinematograficamente morto – è l’ultima in ordine di tempo delle rievocazioni. Lascia pochissimo spazio al ‘68 e agli anni successivi, quelli in cui di terrorismo proprio non si parlava – ed è bene non dimenticare che ad aprire la spirale del terrore furono le forze occulte delle stragi, a cominciare da piazza Fontana – e si butta subito nella storia di un gruppo clandestino, anzi di una coppia di mediocri Bonnie and Clyde catto-comunisti. Secondo i nostri scrittori, registi, giornalisti e di editori e produttori cinematografici («l’occhio del mercato»), con l’eccezione di pochi storici, degli anni sessanta e settanta merita di venir raccontato solo il terrorismo.
Si può attribuire questa scelta alla drammaticità (o spettacolarità) delle loro vicende – storie violente, storie di assassini e di assassinati, storie di lutto e di una qualche forma di rivendicazione giustificativa delle loro azioni da parte degli ex terroristi e di risarcimento morale, di giustizia o anche di rivalsa da parte dei figli e parenti degli assassinati; con in mezzo tra gli uni e gli altri campi le esaltazioni o giustificazioni delle “forze dell’ordine”, non prive di ambiguità.
Ma si può anche attribuirla a una rimozione collettiva nei confronti dei mali del paese, delle colpe delle classi dirigenti (il “palazzo” pasoliniano), degli intrighi internazionali sul nostro territorio, della inadeguatezza delle risposte del Partito comunista e del Partito socialista, delle contraddizioni della Democrazia cristiana, e dell’abbandono da parte del ‘68 della «lunga marcia attraverso le istituzioni» a favore di fantasie rivoluzionarie e leniniste e modelli organizzativi verticistici.
Il ‘77 tentò malamente di riportare in vita la soggettività oppressa da questi modelli, ma ne risultò il contrario, che lasciarono il campo a due linee contrapposte di tradimento delle istanze iniziali migliori: la linea del terrorismo e la linea craxiana. Eccetera.
Il disastro avviato dai tardi anni settanta ha avuto conseguenze tremende sullo stato di salute della nostra società, e anche sull’intelligenza delle forze che avrebbero dovuto proporre i cambiamenti positivi. Il nodo storico del ‘68 è dunque centrale per capire il prima e il dopo, ma anche per capire l’oggi. E l’incapacità di scrittori registi giornalisti ed editori e produttori («l’occhio del mercato») di affrontarlo è tra le maggiori difficoltà a ritrovare un cammino, per una eventuale sinistra di oggi. Il peso degli scontri passati, il peso delle rimozioni, il peso delle visioni di parte.
La lucidità di cui ci sarebbe bisogno non potrebbe che essere crudele, richiedere una riflessione autocritica da parte di chi ha fatto scelte le cui conseguenze, per limiti di analisi e di morale, sono state ben diverse da quelle che auspicavano. Mentre l’insistenza su un solo aspetto della questione, quello più drammatico e vistoso, incapace di allargarsi al contesto, ha finito per nascondere, anzi per censurare gli altri aspetti di questa storia collettiva, le altre esperienze.
In un momento in cui la destra non è mai stata così potente e addita il ‘68 come causa di tutti i mali, sono ancora la superficialità morale, l’emotività eroicistica del terrorismo a far credere che ci fossero solo loro o che fossero loro l’anima del movimento, l’essenza del movimento. Di fatto, i terroristi e i loro amici e nemici continuano a ricattarci tutti, un ostacolo ad analisi del passato e del presente che portino a modelli di lotta nuovi e sani.
(Goffredo Fofi, “Terrorismo, il ricatto senza fine”), da “L’Unità”, 15 novembre 2009 – www.unita.it).