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Saviano: la paura e il potere anarchico della parola

Scritto il 25/3/10 • nella Categoria: Recensioni Condividi Tweet

Com’è possibile che delle semplici parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti, capaci di contare su centinaia di uomini armati e su capitali forti? E come è possibile che uno scrittore, coi suoi libri, possa insidiare il potere di clan capaci di fatturare miliardi di euro l’anno e di dominare territori vastissimi? Risposta: è la parola, a mettere paura. Non lo scrittore in sé, né il suo libro. La parola, innanzitutto: «Quel che spaventa è che qualcuno possa d’improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose». Se poi lo scrittore si chiama Roberto Saviano, ecco che tutto si fa ancora più chiaro.

Con il clamoroso successo di “Gomorra”, che ha comportato la prigionia dell’autore – costretto a una vita blindata – Saviano ha acceso i riflettori sul saviano 2business della camorra. Oltre due milioni di copie vendute, solo in Italia, hanno determinato un fenomeno di autocoscienza che i cartelli criminali giudicano pericoloso. Dunque, la parola scopre di avere un suo potere temibile: “La parola contro la camorra” è il titolo dell’ultima fatica di Saviano. Libro (con dvd) edito da Einaudi, di cui “Repubblica” presenta un’anticipazione il 25 marzo.

«Ciò che più temono le organizzazioni criminali – scrive l’autore – non è soltanto la luce continua che gli viene posta addosso, ma soprattutto che migliaia, forse milioni di persone in Italia e nel mondo, possano sentire le loro vicende e il loro destino come qualcosa che riguarda tutti». Molti episodi, aggiunge Saviano, dimostrano che l’attenzione di artisti e intellettuali verso le mafie «ha realmente cambiato le cose e il destino di molte persone».

Un esempio? Peppino Impastato, l’eroe de “I cento passi”, il film di Marco Tullio Giordana. Fatto assassinare dal boss Gaetano Badalamenti, Impastato – attivista politico autore di spettacolari denunce attraverso la sua piccola radio – fu presentato come un mezzo squilibrato, morto suicida «in una sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un binario». Per demolire la versione ufficiale, fu necessario il film, vent’anni dopo la sua Fazio_Savianodrammatica fine. Solo dopo l’uscita del film fu riaperto il processo che condannò i colpevoli, rendendo giustizia alla vittima.

Chiunque si occupi di mafie, scrive Saviano, sente attorno a sé «la melma della diffidenza», quella di chi sospetta che il giornalista bene informato sia sceso a patti con poteri oscuri per entrare in possesso dei dati di cui dispone. Chi usa le parole per fare una denuncia civile viene accusato di interesse personale, carrierismo, corruzione, infedeltà al territorio. «Le parole, quando arrivano a molte persone, quando raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose», scrive Saviano, «perché il rischio è che a difenderle debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa carne».

l’Italia, accusa Saviano, «è un Paese cattivo, molto cattivo», perché è un posto «dove è difficile realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio». Solo la morte, come nei casi di Pippo Fava o don Peppino Diana, è la certificazione (postuma) dell’attendibilità della vittima. E’ il caso, in Russia, di Anna Poliktovskaja: quando fu assassinata, il marito dichiarò di provare “sollievo”, spiegandosi: «Almeno, da morta, non potrà più essere diffamata». Pochi giorni prima, avevano tentato di sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche da diffondere sui giornali di gossip.

«Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non possono consentire che tu abbia contemporaneamente autorevolezza e vita», sostiene Saviano. «O l’una o saviano_cofanettol’altra. Se hai la vita non hai l’autorevolezza, se hai l’autorevolezza non hai la vita». Come salvare la parola da questa terribile doppia condanna? «Facendo sì che non appartenga più a una singola persona». Pubblicare parole significa moltiplicarne gli effetti: «E se anche si dovesse eliminare fisicamente la persona che per prima le ha pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi».

Contro le mafie, aggiunge Saviano, la parola «non deve concedere tregua». Ogni scrittore sogna di cambiare il mondo? Impossibile «isolare il momento esatto» in cui Tolstoj, Kafka o Dostoevskij hanno influenzato il pensiero umano, ma lo scrittore che ha «lo strano e drammatico privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà, quando ancora è in vita», si accorge che «il potere reale che hanno le parole è davvero infinito». Ed è un potere anarchico, sostiene Saviano, perché «un potere che si basa sulla condivisione e sulla persuasione non è più un potere», visto che «la parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e paura». Dopo la rivelazione, «nessuno può più permettersi di ignorare certi argomenti».

(Il libro: Roberto Saviano, “La parola contro la camorra”, Einaudi Stile Libero, 124 pagine, con dvd tratto dallo speciale di “Che tempo che fa” andato in onda il 25 marzo 2009, euro 19.50).

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Tag: camorra, mafia, Roberto Saviano, scrittori

1 Commento

  1. emi
    12 ottobre 2010 • 14:15

    Peccato che quello che ha scritto Saviano sulle indagini di Peppino Impastato non sia vero e a dirlo sono persone da sempre in lotta contro la mafia

    http://www.napolitoday.it/eventi/centro-studi-impastato-diffida-saviano.html

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