Lilin: vi regalo l’inferno che ho vissuto in Cecenia
«Non sono un eroe, e forse il mio dovere oggi è non fingere di esserlo stato». Nicolai Lilin, su “Repubblica”, spiega con sofferenza perché ha scritto “Caduta libera”, la sconvolgente confessione della sua esperienza di guerra, in Cecenia, dove ha combattuto per due anni come soldato di leva, tiratore scelto in un reparto speciale di paracadutisti: «Volevo far sentire l’orrore della guerra. Sei lì dentro al cento per cento, fai tutto quello che devi fare per sopravvivere e vai fino in fondo. E spesso, scendendo verso il fondo dell’anima, scopri che il fondo non c’è».
Con un lunghissimo intervento (partenza in prima pagina) il 7 aprile Lilin “risponde” alle dure critiche ricevute dall’inviato Guido Rampoldi, che ha recensito il libro alla vigilia del lancio nelle librerie: per Rampoldi non è accettabile che un resoconto come quello di Lilin dal fronte ceceno sia privo di distacco autocritico, di tensione etica e di lettura politica, data anche l’assenza di giudizi sul Cremlino, che in Cecenia ha costretto l’esercito a operazioni feroci, contro la popolazione civile. Rampoldi ha accusato di ipocrisia anche l’editore, Einaudi, secondo cui tutte le guerre si assomigliano: come se la Cecenia, con le sue sistematiche violazioni dei diritti umani, non avesse rappresentato un’aberrazione assoluta, denunciata da osservatori internazionali e russi, a partire da Anna Politkovskaja, punita con la morte per la sua devozione alla verità.
Dalla scomoda posizione di chi è chiamato a rispondere di ciò che ha scritto, dopo averlo innanzitutto vissuto ed esserne miracolosamente uscito vivo, anche se ferito nel fisico e nell’animo, Lilin prova a chiarire: il suo libro è «senz’altro crudele», proprio per dimostrare che, in guerra, non c’è posto per nessun tipo di etica: «La verità è che era impossibile rimanere un essere umano, stando in prima linea anche solo per un mese. La “serie eccessiva di ammazzamenti” che racconto è quella che un giorno dopo l’altro ti annienta come persona».
C’è un tragico apprendistato: «Lo si impara, a perdere se stessi, nell’orrore». Non a caso, continua Lilin, «la prima cosa che ti fanno fare, per abituarti alla morte, è “pulire” le zone dove si è combattuto. Trasportare decine di cadaveri abitati dai topi, che ti ricordano ogni minuto cosa rischi e quanto vale la tua vita. Qualcuno perdeva la lucidità mentale, altri rischiavano di perderla, molti morivano e basta». E’ stata questa, la guerra di Lilin: «Riportarla nella sua atroce ripetizione è il mio modo per costringere il lettore a scendere giù nell’inferno e guardarlo per davvero», tralasciando l’epica cinematografica della guerra che così spesso nobilita l’assassino: «Chi spara invece prende la mira, preme il grilletto e uccide un essere umano».
«Se il mio libro sembra inaccettabile dal punto di vista morale – continua Lilin – è perché non ho voluto addolcire, banalizzare o rendere grottesco quello che sento, ho sentito e sentirò fino alla morte», sotto la tortura della memoria: «So cosa si prova quando si passa dall’altra parte, nel lato oscuro che ognuno di noi sente di avere; so quanto è doloroso il ritorno e come pesa ogni giorno, dopo», quando, una volta a casa, si resta in balia della coscienza. Prima, non c’era tempo: «L’unica via che ho intravisto per poter sopravvivere è stata fare ciò che mi veniva ordinato».
Sarebbe stato più giusto chiedere un trasferimento o denunciare gli ufficiali corrotti? «Questo può dirlo chi guarda da fuori: chi fa parte del meccanismo sa che ognuno gioca il ruolo che gli viene imposto, ogni cambiamento che influenza la solidità della struttura viene trattato come un atto ostile», senza contare che la stessa società civile, quella che protesta contro la guerra, in Russia poi «spesso tratta con disprezzo i disertori e i soldati che denunciano i crimini di guerra».
Affermazioni che convincono Guido Rampoldi solo a metà: se anche fosse come dice Lilin, aggiunge, nella sua chiosa in calce all’intervento dello scrittore, tanto varrebbe abolire la Convenzione di Ginevra e il Tribunale dell’Aja. E’ vero, i soldati obbediscono a ordini: ma non tutti gli ordini sono uguali, e neppure tutte le guerre, sostiene il giornalista. «Posso comprendere il tormento di Lilin – conclude Rampoldi – ma credo che neppure lui sarebbe a suo agio in un mondo che si arrendesse alla barbarie».
Come tutti i reduci, anche Lilin si misura con l’immenso problema della solitudine, che nasce dall’impossibilità di condividere un vissuto tanto tragico. «E’ difficile spiegare cosa vede uno come me quando guarda negli occhi di sua figlia, quando la vede vivere, quando la prende in braccio: quante ombre, quante voci le stanno dietro». Scrivendo “Caduta libera”, confessione pubblica della mattanza cecena vissuta in prima persona per ordine del governo russo, Nicolai Lilin ha ridotto, in parte, quella solitudine. Permettendo a chiunque di esplorare, per la prima volta dall’interno e senza filtri, tutto l’orrore della guerra del Caucaso: dove ragazzi di 18 anni, «provenienti da posti dimenticati da Dio», impararono a loro spese cosa significa smettere di essere uomini.