Pasqua, la Repubblica d’Appennino e la rivoluzione
Nella Repubblica degli Appennini, nel cuore del cuore del Paese, tra le valli dell’Esarcato tra Senio e Lamone, fino alle profonde gole del Serchio e della Magra, tra Colla e Muraglia, Carpinelli e Pradarena, la nuova stagione di primavera è ancora solo attesa gravida di primaticci segnali. I crinali sono innevati e il disgelo tardivo gonfia i torrenti e infradicia i pascoli alti, la gelata notturna schianta i primi boccioli della rosa canina e cuoce i baccelli dei carrubi; ma gli albicocchi e gli amareni hanno preso a fiorire, le vacche appena sgravate mugulano dalle stalle la brama del primo trifoglio, gli agnelli saltabeccano per i recinti, colmi di una smania di vivere e crescere che già oggi vedranno negata senza aver tempo di capire il perché e il percome.
Le linee adsl, le chiavette 3G, i vecchi modem a 56 kb pompano le prenotazioni last minute dei danesi, degli scozzesi e dei tedeschi che intanto già sciamano, discreti e distinti, dagli agriturismi verso i malfidi sentieri per le rocche e le roccette dove l’aquila reale ha iniziato a tessere i preparativi del suo volo nuziale. È Pasqua, alta e frizzante, prematura e inaspettata, ma è ancora una volta, per un anno ancora, pasqua di resurrezione. Nelle pievi, ancora floride dopo un millennio di democratico presidio delle anime e dei corpi dei loro plebani, le donne, vecchie e ragazze, hanno adempiuto il rito pagano della fertilità dei sepolcri, portando iris e bocche di leone, giunchiglie e malve alla lignea figura del corpo di Cristo ancora uomo, ancora inane figlio di uomo, giustiziato per crocefissione e amorosamente deposto in luogo sicuro.
Le onorate confraternite di Santa Croce, di San Giovanni, di Mortis et Orationis, incappucciate in cappa bianca e cappa nera, inverosimile ma pur vivida permanenza del primo millennio nel terzo, hanno orchestrato con la solita magnificenza di teatro e di virulenza di dettaglio, la sacra rappresentazione di quella morte. Cento Via Crucis hanno sciamato per l’Appennino, mille e mille lumi nella notte hanno segnato nei tratturi delle selve e nei selciati dei borghi gli ancestrali viadotti della Passione; ma in questa repubblica federata nelle diversità ma concordemente lontana dall’ortodossia della cattedra romana, l’unanime concorso di popolo pretende libertà di interpretazione.
A Montefiore, per irriducibile insurrezionalismo romagnolo, il rito pretende che si ignori l’insostenibile oltraggio del Golgota, e dal Monte alla rocca del Malatesta si inscena il corteo di compassione e pietà che accompagna il Cristo dalla sua deposizione al ricovero sepolcrale. A Castiglione di Garfagnana, si contrae nel giovedì tutta la faccenda, in modo che dalla lavanda dei piedi si passi direttamente al Sinedrio e ai chiodi, per farla finita il più in fretta possibile; il tema che appassiona i cavatori apuani non è la morte, che è sempre disponibile e quasi sempre oltraggiosa, ma andare a constatare se c’è davvero una possibilità di riscattarsene, anche a costo di aspettare un po’.
Ma se ogni rappresentazione è unica, in ognuna ci sono figure che si assomigliano tutte; ed è la presenza, fastosa nei costumi e dettagliata nel ruolo, dei soldati di Roma, degli scherani del potere. E se il popolo si incappuccia, e si copre anche il viso del giustiziato, perché nessuno possa vantare un’individualità che negherebbe il comune dolore e il comune torto subito, i centurioni hanno i loro musi ben in vista, perché si sappia riconoscerli e ricordarli per quello che hanno fatto. In questa repubblica d’Appennino non è questione di Roma ladrona, ma, da quando corre memoria, di Roma assassina.
Ma è Pasqua, e se il venerdì è trascorso tra i temporali (il venerdì santo prima o poi va a piovere, dicono tutti i metereologi popolari da una parte e l’altra dei crinali) ieri mattina era già tutto uno schiarirsi e intiepidirsi. Nel giorno di vacatio, con le campane legate e con il solo imperativo morale a tenerci a bada, mentre dai forni di tutta la montagna migrava l’afrore morbido e dolce delle pasimate, focacce, panette e pagnotte rituali, gli appena eletti sindaci e consiglieri erano tutti per strade e piazze a omaggiare popolo ed elettori, a far giuramento di modestia e bontà, a illustrare tutte le resurrezioni prossime venture. A vederli ci giureresti che, come la sera prima potevi intuirli tra gli incappucciati processionanti a piedi scalzi, non potresti mai trovarli domani tra i centurioni. A conoscerli, non sapresti dire.
Ed oggi, oggi che è finalmente e ancora una volta domenica di Resurrezione, tutto quello che mi viene in mente, mentre di primo mattino mi metto su per il sentiero che mi porterà al Poggio e dal Poggio alla cresta da cui potrò dedicarmi al mio panino con la coppa nostrale e alla contemplazione della mia patria vallata, l’unica cosa che mi passa per la testa è il misconosciuto sinonimo che si accoppia a resurrezione: risorgimento. Che non solo vuol dir la stessa cosa, ma, per chi si fosse scordato della natura di questa e di quello, è anche la stessa sostanza: rivoluzione.
(Maurizio Maggiani, “Pasqua, tradizioni e rivoluzione”, dal “Secolo XIX”, 6 aprile 2010 – http://ilsecoloxix/ilsole24ore.com).