Emergency e la fine del mondo: la guerra siamo noi
“Guerra è sempre”, ripete il greco Mordo Nahum tra le pagine de “La tregua”, dove Primo Levi prolunga il dolore di Auschwitz rilanciando nel vuoto della storia l’interrogativo più angoscioso, quello che s’è portato nelle ossa fino ai suoi giorni ultimi, tra la memoria sempre viva dei sommersi, uccisi senza un perché: non è che il lager sia davvero l’unica verità irriducibile, la rivelazione più estrema e feroce dell’autentica vocazione umana? Quello della vergogna è il sentimento che pervade tutta la drammatica riflessione del reduce: come è potuto accadere? E se i nazisti non erano mostri, ma uomini, di cosa è davvero capace l’uomo? “Guerra è sempre”, risponde Mordo Nahum: l’uomo è lupo, non agnello. Per questo è meglio rassegnarsi: la pace sarà sempre un’eccezione, una parentesi. E la nostra pace di oggi, protetta dal benessere, è solo un’illusione, è il prezzo infame della guerra planetaria dei poveri, la falcidie che ogni giorno stermina l’altra metà del mondo.
Questa l’amara constatazione emersa il 7 settembre a Firenze dall’incontro di apertura della lunga settimana di eventi con la quale Emergency, la valorosa Ong di Gino Strada, riceve l’abbraccio dei tanti sostenutori italiani e la loro unanime gratitudine per la fatica di girare il mondo pericolosamente, curando feriti straziati dalle bombe, provando a sventolare la bandiera di un’altra Italia, di un altro Occidente, di un’altra umanità. Ci sono i sorrisi di Cecilia Strada, reduce dal bagno di folla romano, la scorsa primavera, per la liberazione degli ostaggi di Lashkargah, e quello del chirurgo Marco Garatti, capo-delegazione di Emergency nell’ospedale afghano preso di mira perché scomodo testimone di una guerra brutale; c’è l’infaticabile fervore di Maso Notarianni, direttore di “PeaceReporter” e organizzatore degli incontri informativi della kermesse umanitaria di Firenze, e c’è soprattutto il fantasma di un convitato di pietra,
che si stenta a riconoscere nonostante sia così invadente, osceno, orribile, bugiardo, pervertitore e sanguinario: la guerra, l’atroce banalità del male.
Bambini fatti a pezzi, dilaniati, innocenti sgozzati dalla lama primitiva di qualche fanatico o, meglio, decapitati asetticamente da qualche scheggia tecnologica sganciata da lontano, da qualcuno dei nostri aerei. Una strage rinnegata e impresentabile, che rinnova la stessa specie di vergogna, in fondo, di cui parlava Primo Levi. «Ricordo un silenzio improvviso, forse casuale, forse no, in un ospedale di Emergency», dice Vauro Senesi, il vignettista più caustico d’Italia, grande supporter di Emergency e reporter d’eccezione sui tanti fronti della “guerra umanitaria”, regalando all’uditorio fiorentino l’intensità di un momento magico, inspiegabile: il silenzio di vetro che, di fronte al lamento di una bambina devastata dalle ferite, bloccò il respiro a un intero ambulatorio, un ospedale da campo ridotto a retrovia di macello, assordato da ululati e gemiti, urlante mattatoio umano. «Quando irruppe il pianto della bambina, tutti gli altri feriti di colpo tacquero, per un istante infinito».
Nicolai Lilin, il guerriero-scrittore di origine russa che ha appena dato alle stampe “Caduta libera”, l’allucinante testimonianza della sua guerra sporca, combattuta in prima persona in Cecenia tra gli spietati reparti d’assalto dei paracadutisti di Putin, trova parole semplici per confrontarsi, vincendo l’iniziale imbarazzo, con la platea di Emergency: «La cosa peggiore non è stato uccidere, perché quando sei lì devi uccidere per non essere ucciso. Il peggio è stato dopo – ammette Lilin – quando mi sono ritrovato nell’inatteso benessere della nuova Russia, in mezzo a gente ben pasciuta che non aveva la minima idea di cosa fosse successo ad appena trecento chilometri di distanza dalle loro città. Non capivano che la loro pace, la loro tranquillità, era dipesa dal nostro sacrificio di ragazzi di vent’anni mandati ad ammazzare e a farsi ammazzare, a farsi segnare da quell’esperienza».
Guerra è sempre, conferma Lilin: lui ne aveva il sospetto fin dall’infanzia, e in Cecenia ne ha avuto la terribile prova: prima nel Caucaso, dove non si facevano prigionieri, e poi nelle sanguinose amnesie della Russia post-comunista, egoista e spaventata, all’oscuro di tutto, peggio di come andavano le cose ai tempi dell’Unione Sovietica: «Quando le nostre truppe erano in Afghanistan, i telegiornali dedicavano a quella guerra uno spazio a parte, separato dal resto del notiziario». Le news erano sottoposte alla censura del regime, ma almeno il bollettino di guerra era protetto da una sorta di decenza, di rispetto. «Ora invece i nostri soldati italiani che saltano per aria in Afghanistan stanno in mezzo a telegiornali disgustosi, pieni di gossip, di avventure dei corrotti e delle loro troie: viene voglia di gettare il televisore dalla finestra».
Non getterà il televisore dalla finestra, ma prova la stessa nausea il dottor Marco Garatti, reduce dal sequestro di Lashkargah che ha tenuto l’Italia col fiato sospeso: «Dopo dieci anni di Afghanistan, con Emergency, ora sono in Italia da mesi. Be’, di fronte a quello che succede qui, non vedo l’ora di tornare in Afghanistan». Lui non ha indossato uniformi né imbracciato un fucile, non ha mai ucciso nessuno e in guerra c’è stato solo per salvare esseri umani devastati nel corpo e nello spirito, ma anche Garatti è un reduce; e anche lui, come Lilin, è stato quasi più colpito dal ritorno che non dal fronte: disilluso, desolato dall’inconsapevolezza sovrana che domina la nostra società narcotizzata, che mortifica le coscienze più avvertite e, giorno per giorno, uccide: permette che si uccida, col suo colpevole silenzio, là dove non corrono parole ma volano proiettili e piovono bombe.
«Dobbiamo sapere – scandisce Vauro – qual è il prezzo del nostro privilegio, fondato su bisogni che diventano diritti a scapito dei più deboli. Li chiamiamo diritti, ma sono soltanto consumi superfui». Non possiamo ignorare che costano ogni giorno vite umane, povertà e malattia, disperazione e morte: il nostro “benessere”, il nostro stile di vita è imposto a metà del mondo, da chi organizza guerre per rapinare risorse. Così nasce la fabbrica delle guerre: la fucina della morte che non dorme mai. Non è una disgrazia, una calamità naturale. E’ il fondamento di un sistema: il nostro.
“Guerra è sempre”, come diceva il greco della “Tregua”? Sì, purtrppo. E’ la storia a dirlo: la storia e la cronaca. E allora, che fare? L’arma vincente, dice Vauro, siamo noi, consumatori globalizzati: se diventeremo attivi e consapevoli, meno avidi, disposti a rinunciare al privilegio criminale dello spreco, potremo condizionare economia e politica, disarmando la guerra. Strada obbligata, non esiste un piano-B: esaurite le risorse planetarie, la contrazione dei consumi potrebbe rivelarsi obbligatoria, tra chissà quali cupi scenari, in cui la guerra – oggi invisibile – tornerebbe a fare irruzione nella nostra vita, infliggendo orrori: per ora limitati a parole e pensieri in libertà, a Firenze, attorno al rincuorante focolare di Emergency, dove si prova a esorcizzare la fine del mondo. O almeno, quella dell’umanità.