Onesti fuorilegge, il vecchio Dylan inquieta Pechino
Come si dice in cinese «La morte solitaria di Hattie Carroll»? Bob Dylan ha cantato ieri per la prima volta a Pechino e qualcuno ancora s’interroga sull’opportunità, per un signore che cinquant’anni fa scrisse canzoni cosiddette di protesta, di esibirsi in un Paese autoritario. Il menestrello di Duluth si è trovato di fronte un pubblico giovane, tra i 20 e i 30 anni: ha suonato per due ore al Gymnasium, dopo che il tour dello scorso anno era stato annullato dalle autorità cinesi, secondo alcuni per ragioni economiche, secondo altri per motivi politici. Una carrellata dei suoi successi più famosi, da “Like a Rolling Stone” a “Forever Young” e “All Along the Watchtower”.
Le autorità hanno dimostrato di temere la fama di protestatario del cantautore riempiendo il teatro di poliziotti in divisa e in borghese e distribuendo 2000 biglietti agli impiegati del ministero della cultura. Intanto, in Occidente cominciano le celebrazioni per il settantesimo compleanno, il 24 maggio prossimo, di chi ha accompagnato la vita della generazione dei baby boomers: e che con loro sta inconcepibilmente invecchiando. Hattie Carroll, la cameriera nera uccisa a bastonate a Baltimora nei primi Anni 60 da un giovinastro bianco, ricco e potente che scampò la galera o quasi, c’entra eccome: perché a Milano, la settimana scorsa, chi si fosse infilato in un’aula dell’Università Cattolica avrebbe visto tre illustri relatori, baby boomers anche loro, disquisire sotto un solenne crocefisso ligneo sul tema «Dylan e la giustizia»; e la canzone che Dylan dedicò a quel caso di cronaca serve, con “Hurricane” e a molte altre, a capire come la pensi il Bardo sull’argomento.
Riducendo all’osso, la sua visione resta improntata alla legge mosaica dell’occhio per occhio, dove alla giustizia retributiva viene attribuito un valore superiore rispetto a quella restituiva o di riconciliazione. Dunque, se l’assassino fosse marcito in carcere o fosse stato condannato alla pena capitale, la ferita della morte di Hattie non si sarebbe potuta considerare chiusa. I relatori erano il criminologo Adolfo Ceretti, il professore di letteratura italiana all’Università di Houston e dylanologo emerito Alessandro Carrera e il procuratore della Repubblica aggiunto al Tribunale di Milano Armando Spataro.
Tra acribia accademica e trasporto emotivo sono sfilati davanti a un pubblico misto di studenti engagé, avvocati in formazione permanente e inscimmiati a vari stadi di Sua Bobbità indizi sparsi dell’universo dylaniano: dall’influenza della kabbala nei saggi critici di Harold Bloom al concetto trotzkiano di rivoluzione permanente applicato alla vita amorosa fino all’etica dell’autenticità in Woody Guthrie. Senza trascurare, beninteso, il distico che ha fatto da motto, tratto da “Absolutely Sweet Marie”: un mantra sibillino che recita «per vivere fuori dalla legge bisogna essere onesti». Anche a New York si prepara un seminario, nella speranza che affratella tutti gli adepti del culto e cioè il Nobel per la Letteratura al ragazzo di Duluth. Tutto questo vi pare eccessivo? Sentite Carrera: «Mi avvicinano dylanisti in crisi: dobbiamo ancora seguirlo anche quando sbertuccia le proprie canzoni? E io mi sento come un confessore davanti al parrocchiano che ha perso la fede».
(Egle Santolini, “Dylan incanta Pechino: solo rock, niente politica”, da “La Stampa” del 7 aprile 2011, www.lastampa.it).