Spetta ai ricchi finanziare la decrescita che ci attende
Lavorare tutti. E soprattutto: consumare meno, e meglio. Obiettivo: affrontare la transizione sempre più vicina, visto il collasso mondiale della società della “crescita infinita”. Se la recessione, volenti o nolenti, è già l’orizzonte comune, s’impone una domanda-chiave: come uscire vivi dai rottami planetari del capitalismo finanziario per entrare gradualmente nella società del futuro? Stampare più moneta, rischiando l’inflazione? Puntare sulla green economy? Da sola la riconversione ecologica non basta: se il mercato alza bandiera bianca, serve l’intervento diretto dello Stato. Una rivoluzione fiscale: tassare il patrimonio, non il reddito. E finanziare così la nuova occupazione: lavori socialmente utili, per uscire dalla crisi ed entrare in una nuova era dell’umanità.
Marino Badiale e Massimo Bontempelli, teorici della decrescita di formazione marxista, lanciano un confronto di idee: aperto non solo ai sostenitori della decrescita, ma anche agli economisti critici dell’ortodossia liberista. L’analisi, presentata su “Alfabeta 2” e rilanciata da “Megachip”, parte dalla crisi dell’attuale economia, “condannata” alla crescita illimitata (e quindi impossibile) del Pil. «Tutte le società precapitalistiche sono state immuni da questo obbligo alla crescita», il che non significa che non siano cresciute: basta osservare i progressi del Medioevo feudale. «La forza del pensiero della decrescita – osservano Badiale e Bontempelli – nasce dal fatto che la crescita capitalistica è giunta ad un punto in cui è incompatibile con il mantenimento di un ambiente di vita favorevole alla specie umana e con gli equilibri che garantiscono la coesione sociale delle collettività umane».
Il problema è diventato: valorizzare il capitale. E quindi trasformare, per questo, ogni ambito della vita organizzata: lavoro, educazione, scienza. Tutto diventa merce e viene ricondotto alla logica del profitto, quella che ormai è al capolinea. «Poiché questo processo va avanti da più di duecento anni», invadendo l’intera vita collettiva, ormai «incidere sul meccanismo della crescita significa destrutturare l’intera società», e quindi mobilitare lo Stato, ridefinendone le funzioni, per «fronteggiare le ricadute negative, in alcuni casi devastanti, di questa destrutturazione». La difficoltà principale, avvertono Badiale e Bontempelli, non sarà la penuria di beni necessari: possiamo limitare gli sprechi, tagliare le spese militari, puntare su cibi locali e stagionali, recuperare l’edilizia esistente. Il grande problema sarà un altro: l’occupazione, che già oggi è oltre la soglia di allarme.
Rispetto all’occupazione, in una società regolata dal meccanismo della valorizzazione del capitale, la decrescita ha gli stessi effetti di una recessione. Eppure, aggiungono Badiale e Bontempelli, molti teorici della decrescita sperano che il problema possa essere risolto con la produzione di beni orientati alla salvaguardia dell’ambiente, al risparmio energetico, alla riconversione ecologica della società: «Si tende a pensare che la disoccupazione creata dalle iniziative di decrescita possa essere riassorbita dai nuovi posti di lavoro creati della riconversione ecologica dell’economia». Errore: se un’azienda mantiene i suoi 100 dipendenti riconvertendo la produzione in “green economy” salva l’occupazione ma non produce decrescita; se invece dimezza le proprie maestranze, compie un’operazione decrescente: ma che fine faranno quei 50 lavoratori a spasso?
E qui, per Badiale e Bontempelli, entra necessariamente in gioco lo Stato, perché i lavori socialmente utili, di portata strategica, sono moltissimi: «In un paese come l’Italia c’è bisogno di un grande lavoro di manutenzione di infrastrutture fondamentali come le ferrovie, c’è bisogno di riqualificare il patrimonio edilizio, in particolare rendendolo più adeguato in termini di risparmio energetico, c’è bisogno di un riassesto del territorio da un punto di vista idrogeologico, c’è bisogno di bonificare le aree inquinate dagli scarichi illegali di rifiuti, c’è bisogno di cambiare radicalmente il ciclo dei rifiuti in modo da eliminare alla radice il problema stesso». Non sarebbe il lavoro utile a mancare, ma il denaro: né si può pensare di dire ai disoccupati di arrangiarsi con l’autoproduzione e gli scambi non mercantili, perché non siamo ancora nella “società della decrescita”.
«Per capirci, se domani un gruppo di operai viene licenziato perché si chiudono le fabbriche di armi, o se ne riduce grandemente la produzione, è chiaro che la risposta al loro dramma non può essere quella di farsi l’orto per scambiarne i prodotti con altri, o cose del genere: perché questa risposta avrebbe un senso all’interno di una società della decrescita già avviata, e dentro la società delle crescita non esistono ancora i circuiti di scambi non mercantili». Evidente che, se non si può fare affidamento sul mercato, che anzi in presenza di decrescita genera disoccupazione, né sui circuiti della decrescita, che non si sono ancora dispiegati, «c’è un unico modo nel quale si può riassorbire la disoccupazione creata dalle prime misure “decresciste” di politica economica del periodo della transizione: l’intervento dello Stato».
Dove trovare i soldi? Prima ipotesi: stampare moneta. Oggi l’Italia non lo può fare, avendo «ceduto la propria sovranità monetaria alla Bce». La strada sarebbe percorribile solo se l’Italia uscisse dall’Euro e forse anche dall’Unione Europea. Ma non sarebbe sufficiente, perché stampare denaro per pagare i salari di nuove, massicce assunzioni statali finirebbe per creare inflazione e svalutazione, costringendo il paese a strapagare le importazioni. Niente di così grave in regime di decrescita, con la progressiva riduzione degli scambi con l’estero, ma all’inizio della transizione farebbe salire alle stelle, ad esempio, il costo dell’energia. E se stampare denaro non sarebbe una soluzione, peggio ancora sarebbe ricorrere al debito pubblico: che genera interessi e debiti sempre maggiori.
Dunque? Badiale e Bontempelli vedono un’unica via d’uscita: una vera e propria rivoluzione fiscale. Da attuare in due modi possibili: aumentando le aliquote attuali o spostando il carico tributario. «Le aliquote dell’imposta sul reddito attualmente vigenti, dopo le controriforme di Prodi e di Berlusconi, colpiscono più duramente i redditi bassi che quelli elevati». Per cui, «un aumento delle aliquote sui redditi più elevati, che le riportasse ai livelli vigenti nell’Italia democristiana, sarebbe doveroso per ragioni di giustizia, e per rispettare la norma costituzionale che esige la progressività delle imposte». Ma, secondo i due torici della decrescita, non sarebbe risolutivo: «Negli ultimi trent’anni, infatti, sono continuamente aumentate le ricchezze delle classi sociali più elevate, con la creazione di enormi patrimoni nati spesso dalla speculazione finanziaria».
«Un tale spostamento del carico fiscale sulle classi più elevate», secondo Badiale e Bontempelli esige due cambiamenti del prelievo tributario: passare dalle imposte dirette a quelle indirette e dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio. Niente tasse sui generi di largo consumo ma, piuttosto, merci da scoraggiare, proprio nell’ottica della decrescita: «Dovrebbero essere pesantemente tassate tutte le merci di lusso e tutte quelle merci la cui compravendita è finalizzata a operazioni speculative sui mercati finanziari», e andrebbe tassata anche la pubblicità che è il potente motore dello spreco consumistico. Un’azione selettiva, dunque, per scoraggiare le produzioni “tossiche” e incoraggiare quelle sane: questo, per i due teorici, differenza una vera politica economica per la decrescita da una semplice lotta alla recessione.
Nel mirino, innanzitutto le rendite finanziarie: non solo per ragioni di giustizia sociale, ma anche perché non è più accettabile «lo sviluppo di una finanza sovrapposta all’economia reale», specie se poi è proprio questa finanza speculativa a far precipitare la crisi. Badiale e Bontempelli propongono una misura drastica: proibire per legge tutto il sistema degli strumenti finanziari derivati e delle operazioni ad alta leva finanziaria. Rivoluzione? Non proprio: sarebbe solo un ragionevole passo indietro. «Basterebbe ritornare alle legislazioni bancarie e finanziarie esistenti fino alle soglie degli anni Novanta, da cui il cosiddetto “sistema bancario ombra” è stato esentato con una serie di disposizioni specifiche (negli Stati Uniti, ad opera dell’amministrazione Clinton)».
Altro fronte, il fisco: dal reddito al patrimonio. Tassare i redditi è sempre meno efficace, vista l’altissima capacità di elusione. Molto più difficile, invece, occultare ville e yacht. Secondo Badiale e Bontempelli basterebbe un’aliquota minima, non superiore all’1%, per finanziare i salari dei nuovi assunti dallo Stato, combattendo così la disoccupazione indotta dalla decrescita. Senza trascurare, naturalmente, il taglio di interi capitoli di spesa socialmente inutili o meglio dannosi, dalle spese militari ai costi della politica, la “casta” e la corruzione che coinvolge anche molti imprenditori. In questo modo, si otterrebbero grandi risorse, strategiche per ridispiegare l’occupazione sociale, quella utile. E in questo, concludono i due teorici, sta la differenza tra una normale lotta “keynesiana” alla recessione e una vera strategia economica di riconversione della società in vista della decrescita.
«E’ nostra opinione – spiegano Badiale e Bontempelli – che una società della decrescita possa sorgere a partire dall’attuale società della crescita grazie alla creazione di una estesa rete di servizi sociali pubblici e gratuiti, che sarebbe all’inizio finanziata dallo Stato». Ovvero: se ciascuno avesse a disposizione servizi gratuiti come trasporti, assistenza sanitaria, luoghi di ricreazione e svago come palestre e parchi, non avrebbe bisogno di incrementare il proprio reddito monetario per pagarsi quei servizi. E se larga parte della popolazione fosse coinvolta nella produzione di servizi socialmente utili, un sistema di “Welfare State decrescista” verrebbe sempre più alimentato «da uno scambio non mercantile di servizi, appunto secondo le idee fondamentali della decrescita».
Esempi? Infiniti. In una situazione come l’attuale, in cui è già scattato in conto alla rovescia verso la grande penuria di petrolio, sarà strategica la riconversione del trasporto, incentivando quello pubblico e rafforzando la rete ferroviaria. Idem il capitolo della riconversione edilizia: riadattare case e palazzi per limitarne i consumi energetici creerebbe lavoro e risparmierebbe territori. Stesso dicorso per le auto: se l’industria si mettesse a produrre pullman per in Comuni, e la rete del trasporto pubblico diventasse capillare, si taglierebbero costi economici e ambientali, senza provocare disagi. Decrescita felice? Utopia? No: idee concrete per una transizione possibile, necessaria, inevitabile. Badiale e Bontempelli hanno detto la loro; si accettano critiche, contributi e osservazioni.
(L’intervento “Una politica economica per la decrescita”, di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, è leggibile integralmente su “Megachip”).