Addio Giorgio Bocca, l’ultimo partigiano della verità
Scritto il 26/12/11 • nella Categoria:
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«Io sono l’ultimo», grida il ribelle di Auschwitz. Ha già al collo la corda del boia nazista, e le sue parole dilagano nel deserto raggelato del terrore sulla Appelplatz, davanti ai prigionieri schierati per lo spettacolo, con la testa china e piena di vergogna per il coraggio solitario e irraggiungibile di quell’oscuro individuo senza nome che aveva osato sfidare la legge infernale del lager. E’ una delle pagine memorabili del diario universale di Primo Levi dal campo di sterminio. “Sì, questo era un uomo”, scrisse Giorgio Bocca in un altrettanto memorabile articolo di fondo, su “Repubblica”, per prendere commiato dal grande scrittore torinese: stesso nitore spietato, stessa fermezza. Una lucidità titanica, più forte dell’emozione, coltivata giorno per giorno da una sorta di religione laica, in nome di un umanesimo irriducibile.
Chimico e poeta il primo, diventato scrittore per raccontare all’umanità quello di cui l’umanità era stata capace, nell’abominio della sua pagina più buia. Guerrigliero il secondo, fattosi giornalista per tentare di continuare – senza più il mitra in spalla – la battaglia civile intrapresa sui monti, negli anni della neve, del ferro e del fuoco che divampò prima sulle Alpi cuneesi e poi nelle Langhe, le struggenti colline del vino dove ora è tornata sua figlia, Nicoletta, valente produttrice di grandi rossi non lontano dalla storica azienda di Luigi Einaudi, economista liberale e presidente della Repubblica. Partigiano per tutta la vita, Giorgio Bocca, dopo l’esordio nelle stesse formazioni di “Giustizia e Libertà” in cui combattè un altro testimone straordinario, Nuto Revelli, l’autore de “La guerra dei poveri”, libro-capolavoro che rivela qualcosa di essenziale dell’autentico dna dell’Italia: la farsa del fascismo che precipita in tragedia nel disastro apocalittico della ritirata di Russia, lo sfacelo generale dell’8 settembre col disfacimento dell’esercito e dello Stato, scaraventando i reduci smarriti di fronte alla solitudine estrema della scelta più difficile, la fuga nell’anonimato oppure l’unico vero riscatto possibile: la guerriglia.
«Anche dopo averci vissuto novant’anni, dell’Italia non si capisce niente», dice Giorgio Bocca nel dicembre 2010 a “Le invasioni barbariche”, nella sua ultima apparizione televisiva: il nostro «è un paese incomprensibile, veramente deludente, defatigante: un paese che quando ha una buona occasione la spreca». E un’occasione non sprecata? Bocca non ha dubbi: «La guerra partigiana: è stata l’unica grande occasione colta pienamente. Poi invece le prove della democrazia sono spesso e volentieri fallite. Alla fine della guerra partigiana, anche i reazionari italiani, i liberali, erano cambiati: erano diventati civili. Adesso non lo sono più, sono tornati quello che erano prima del fascismo: gente di cattivo gusto, che pensa solo a fare soldi». Politici e affaristi, ma anche giornali: «Quando li apro, la mattina, l’80% di quello che c’è scritto mi dà fastidio».
Sporco mestiere, a volte, quello del giornalista: «Retorica imperante, storie come quella del “giallo di Avetrana” trasformato in show per mesi e mesi. Sì, anch’io ho scritto di cronaca, però poi ogni tanto me ne vergognavo». Internet e televisione? «Io sono datato, rimasto alla dimensione cartacea». Scomparsi gli altri due grandi, Biagi e Montanelli, «dove sono oggi i giornalisti televisivi?» Bruno Vespa? «Non lo considero un giornalista, ma un servo di regime: non si può essere considerati giornalisti se non si ha il coraggio di dire la verità, e la verità non è né di sinistra né di destra. Chi sceglie di fare il giornalista vorrebbe poter dire la verità, ma tutti quanti poi finiscono per essere condizionati dall’editore». Un mezzo testamento, l’intervista di Bocca con Daria Bignardi. E’ vero, “l’antitaliano” per eccellenza lavorò anche per Berlusconi – per provare a tradurre in televisione il suo giornalismo – e non nascose di aver votato per la Lega: «Era un modo per dire “grazie barbari”, per aver mandato fuori dai piedi Craxi e la Dc».
Testimone del suo tempo, a partire dagli anni ruggenti: per Bocca, sono quelli delle famose inchieste per “Il Giorno” di Italo Pietra, il giornale finanziato dall’Eni di Enrico Mattei, personaggio così scomodo per l’impero petrolifero americano da finire schiantato col suo aereo a Bascapè, sulle colline dell’Oltrepò pavese. Come Pasolini, Bocca descrisse la ferocia del boom con reportage come quello da Vigevano, la città-fabbrica del distretto italiano delle calzature visitata e raccontata nel 1962: “Soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, scusate, non le ho viste”. Solo negozi, laboratori, botteghe, fabbriche; e appena una libreria, per tutta la città. La storia come bussola: libri controversi e bellissimi, come la monumentale biografia di Palmiro Togliatti, indigesta per il Pci, e una biografia dal respiro poetico: le pagine de “Il provinciale”, sincera confessione in forma di affresco, hanno lo stesso profumo della narrazione tersa di un altro grande reduce, Mario Rigoni Stern, testimone letterario di un nord differente, mitteleuropeo, ma altrettanto a disagio nell’Italia chiassosa dello spreco e dell’amnesia collettiva.
A novant’anni compiuti, Giorgio Bocca confessa «un solo innamoramento», ancora e sempre quello partigiano: «Pensavo proprio che l’Italia cambiasse, allora». Militava nelle formazioni azioniste di Ferruccio Parri e Vittorio Foa, l’embrione intellettuale di un’Italia che non sarebbe mai fiorita, schiacciata dalle grandi chiese – la rossa e la cattolica – che riproducevano nella Penisola la sovranità limitata del mondo, congelato dalla pax nucleare dei due imperi contrapposti. «I ragazzi di oggi? Non hanno avuto grandi occasioni. Questi sessant’anni di dopoguerra non hanno offerto grandi entusiasmi, grandi soddisfazioni collettive», dice Bocca, che ricorda la parentesi del Sessantotto e quella del terrorismo, che lo minacciò da vicino: «Mi pedinavano, e io tenevo pronta una corda da alpinismo per calarmi sul retro, da una finestra». Niente a che vedere con la sua iniziazione giovanile di combattente: «Chi ha conosciuto il fascismo ha conosciuto un’umiliazione che è peggio della tortura: l’umiliazione dell’intelligenza. Dover mentire, non poter più dire le cose che pensi: questa è una cosa insopportabile, per una persona civile».
Giorgio Bocca e la religione del lavoro: «E’ il mezzo che l’uomo ha per manifestarsi nella società, per essere utile». E il rispetto del denaro: «Mi difende dalla paura della povertà». Oggi che non c’è più, tutti rimpiangono il vecchio Bocca, anche se era sempre così poco maneggevole. Nel 2005 si schierò con la valle di Susa in rivolta: era il momento di massima esplosione del movimento No-Tav, con implicazioni inaudite: sindaci in fascia tricolore a fare blocchi stradali e ferroviari. «E’ giusto ribellarsi», disse Bocca, definendo «resistenza civile» la lotta dei valsusini. Inevitabilmente, le parole hanno un peso diverso, se nella vita ti è capitato di uccidere: indimenticabile il passaggio memorialistico in cui il partigiano Bocca, in fila indiana coi suoi in alta montagna, marcia con un tedesco catturato. Ormai il soldato ha familiarizzato coi ribelli e spera di essere liberato. Bocca e i suoi se ne rendono conto, dolorosamente, mentre ascoltano il rumore dei loro passi sulla neve e intanto armano il fucile: il tedesco ha visto troppo, ha conosciuto i loro covi, non è proprio possibile lasciarlo in vita.
La neve, il ferro, il fuoco. Parole levigate dal grande silenzio della montagna. «Io mi sento soprattutto piemontese», scherzava Bocca: «I piemontesi per l’Italia sono un po’ come i prussiani per la Germania». I nostri vecchi, ha scritto Paolo Barnard, detengono un privilegio dal valore inestimabile: «Conservano negli occhi la memoria di altri occhi, quelli di chi ebbe dignità, coraggio e capacità di dare la vita per combattere». Noi invece «vivremo e moriremo senza mai aver incrociato un singolo sguardo così: e siamo la prima generazione nella storia dell’umanità a sfoggiare questo indegno primato». Se nella vita hai scelto di scrivere, di raccontare – diceva Bocca – devi avere il coraggio della verità. Quello di Primo Levi, di Nuto Revelli, di Mario Rigoni Stern. Restava lui, Giorgio Bocca. L’ultimo.
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