Senza politica, ci faranno a pezzi anche tornando alla lira
Euro? Maneggiare con cura. Liquidare la moneta unica, che siamo costretti a prendere il prestito dalla Bce? Attenzione: recuperare sovranità monetaria non risolve nulla, se non si recupera al tempo stesso sovranità politica. Quando l’Italia era monetariamente sovrana, non lo era politicamente: dal punto di vista economico, diplomatico e militare, la nostra era notoriamente una sovranità limitata. Chi rappresenta lo scontro in corso come una lotta egemonica della Germania contro l’Europa del Sud dimentica un dettaglio cruciale: gli Usa. All’impero americano, l’euro non è mai piaciuto: e oggi Washington potrebbe usare i Pigs per contrastare Berlino, indebolendo l’Europa. Mario Monti non è solo l’uomo della Goldman Sachs: sta scrutando l’orizzonte per capire chi vincerà. Sicuro già di sapere chi sarà sconfitto: tutti noi, ormai privi di qualsiasi potere contrattuale.
E’ la tesi che Piero Pagliani articola in un memorandum per l’ultimo congresso di “Alternativa”, il movimento fondato da Giulietto Chiesa per individuare le cause della crisi e trovare vie d’uscita: non solo economiche e monetarie, ma necessariamente anche politiche, pena il fallimento e il tramonto di qualsiasi speranza di equità. Pagliani richiama la cronaca di vent’anni fa: ieri il crollo della “casta” di Tangentopoli, oggi l’eclissi di Berlusconi. L’attacco alla finanza italiana? Una replica di quello, a tappeto, scatenato nel 1992. Come oggi Monti, allora fu Giuliano Amato l’uomo del rigore: una manovra da 30.000 miliardi di lire, pari a 15 miliardi di euro, cui seguì un’inaudita finanziaria “lacrime e sangue” da 93.000 miliardi, «molto al di sopra della manovra di Monti», con “sacrifici” già allora invocati per «mettere in sicurezza i conti pubblici».
Su insistenza di Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, il governo Amato alzò progressivamente il tasso di sconto fino ad un letale 15% e “bruciò” migliaia di miliardi di riserve valutarie per difendere la parità Sme, cioè la domiciliazione della lira nel “sistema monetario europeo”, anticamera dell’euro. Con la scusa dell’emergenza, i sindacati dovettero accettare l’abolizione della “scala mobile”e il blocco dei salari, mentre la finanziaria elevò l’età pensionabile. «Il bel risultato – ricorda Pagliani – fu che lo spread Btp-Bund toccò nell’ottobre ‘92 il picco storico di 760 punti». Corsi e ricorsi storici: «Evidentemente ogni venti anni l’Italia ha bisogno di essere tosata per motivi politici ed economici internazionali: infatti, anche allora, la Germania apprezzò».
Il ministro degli esteri Klaus Kinkel manifestò «vivo apprezzamento» per le rapinose decisioni del Consiglio dei ministri del 17 settembre: l’Italia mostrava di non volersi sottrarre ai suoi “impegni europei” e la Germania le era riconoscente, anche se l’attacco alla lira e l’anno successivo quello al franco francese – aggiunge Pagliani – convinceranno anche i più coriacei che il progetto europeo di unità monetaria «non aveva il permesso di interferire strategicamente con gli interessi statunitensi». Le privatizzazioni furono una valanga: Banca Commerciale, Credit, Bnl, Imi, Ina, Telecom. Motivo ufficiale: restare agganciati all’Europa. «Tuttavia le privatizzazioni erano state verosimilmente richieste, discusse e pianificate il 2 giugno precedente sul Britannia», il panfilo della regina Elisabetta noleggiato per l’occasione dagli “Invisibili”, super-lobby finanziaria anglosassone.
Ma attenzione: tra la manovra da 30.000 miliardi e quella da 93.000, accadde un fatto clamoroso: il 13 settembre Amato annunciò la svalutazione della lira, che si autosospenderà dallo Sme proprio nel giorno della finanziaria-mostre nonostante il ribasso dei tassi deciso dalla Bundesbank, vera e unica leader del “sistema monetario europeo”. Ovviamente non era una coincidenza, osserva Pagliani, ma il modo migliore per far ingoiare agli italiani la storica “tosatura”, imponendo ai partner europei termini negoziali più favorevoli al capitalismo nostrano. Il momento era propizio: con la Francia alla vigilia del referendum sul Trattato di Maastricht e la Gran Bretagna pronta ad abbandonare per sempre lo Sme, un’esclusione dell’Italia avrebbe messo in crisi il progetto europeo.
Svincolata dallo Sme, l’Italia era tornata alla sovranità monetaria? Sì, ma alla sua sovranità, limitata e tripartita: nazionale, ma anche europea (mercato comune delle esportazioni) e statunitense (lealtà atlantica). E oggi? Cosa accadrebbe se ci autosospendessimo dall’euro? Dove indirizzeremmo le nostre esportazioni, si domanda Pagliani, tenuto conto che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania, e il settimo Paese esportatore del mondo? E’ vero che la quota delle nostre esportazioni verso i Paesi emergenti è salita (verso la Cina, del 6%), ma le esportazioni verso l’Ue a 27 membri rimangono uno stabile 58% del totale, mentre le economie di Cina e India ora rallenteranno. «Insomma, l’Italia non può fare a meno dell’Europa», ragiona l’analista di “Alternativa”. «Certo, con una buona svalutazione potremmo sperare di recuperare qualche vantaggio competitivo. Ma non più di tanto, perché ad esempio quello cinese sui prodotti maturi è strutturale, mentre è difficile immaginare che l’area tedesca accoglierebbe senza colpo ferire prodotti e servizi prezzati in una lira svalutata». Quindi, bisogna evitare «mosse false, basate su logiche monetariste che creerebbero difficoltà politiche permanenti magari a fronte di effimeri successi iniziali».
Oggi, conclude Pagliani, un’uscita dall’euro non sarebbe una vera soluzione: perché sarebbe gestita da forze che avrebbero, come unico obiettivo, quello di «fare conti più vantaggiosi col mercato europeo e con quello finanziario». Meglio di niente, purché l’Italia e l’Europa del Sud cessino di essere “schiave” della Germania? Niente affatto. Intanto, perché un’uscita unilaterale dell’Italia dall’Eurozona significherebbe «una presa più forte su di noi da parte degli interessi anglosassoni, oggi decisamente contrapposti a quelli tedeschi», dato che siamo stretti nella tenaglia di chi privilegia comunque l’economia rispetto alla politica. E in ogni caso, il conto lo pagherebbero per intero la nuova classe subalterna, estesa dalle “tute blu” al “popolo delle partite Iva”. Un «capitale sociale», dice Pagliani, che oggi è costretto a difendere tutto, palmo a palmo: il territorio (come in val Susa) ma anche il lavoro, la sanità, la sicurezza sociale, la cultura, l’ambiente e i rapporti sociali, affettivi e comunitari.
Misure devastanti per restare nell’euro? «Ci potrebbero essere anche in nome della nuova lira: è già successo». Il massacro sociale del 2012 orchestrato da Monti? Niente paura: l’allora professore della Bocconi approvò quello “sovrano” del 1992. Dapprima contrarissimo all’uscita della lira dallo Sme, un anno dopo ammise: «La svalutazione ci ha fatto bene». “Eurista” della prima ora, cioè sostenitore dell’Europa come costruzione finanziaria, Monti si distingueva bene dagli europeisti politici come De Gaulle, che vedevano nell’asse Parigi-Bonn una “terza forza” a metà strada tra Usa e Urss. «L’estinzione di quella razza, oggi totale in Italia e in Francia, testimonia sia la pavidità europea sia la stupefacente capacità di rilanciare se stessi che hanno gli Stati Uniti».
Perché Monti voleva tenacemente il cambio fisso? Semplice: l’impossibilità di giocare sulla svalutazione obbligava le aziende italiane a “razionalizzarsi” per essere più competitive. La storia insegna: quando la Gran Bretagna scoprì di non poter più contare sul mercato privilegiato dell’impero coloniale, si consegnò alla drastica macelleria “strutturale” della signora Thatcher, mettendo in riga i sindacati. Per motivi simili, in Italia il cambio fisso spingeva ad un urgente risanamento della finanza pubblica: se prima del 1990 la limitazione ai movimenti di capitale consentiva di mantenere uno schermo di protezione sul comparto pubblico, nei due anni successivi la libera circolazione dei capitali tolse quello schermo, e così «il vincolo esterno iniziò ad esigere la diminuzione del debito pubblico o perlomeno la sua stabilizzazione».
A svalutazione avvenuta, ammette Monti, il “risanamento” ha funzionato: la spiegazione che il professore si dà è che la fragorosa caduta della lira e la conseguenze sospensione dal progetto europeo aveva generato apprensione nei mercati, nella politica e nell’opinione pubblica, determinando molto consenso sulla necessità di una terapia d’urto. «Sembra di leggere le cronache di oggi: in realtà, tutta la sbandierata novità di Monti sta nel riproporre ricette di vent’anni fa in condizioni nuove. Anzi, di riprenderle là dove si erano interrotte». Laddove gli odierni fautori dell’uscita dall’euro leggono un caso di successo almeno parziale, continua Pagliani, Mario Monti riconduceva quel successo a condizioni molto meno entusiasmanti: la recessione, l’intervento sulla previdenza e quello sulla sanità, l’abolizione della scala mobile e il congelamento degli aumenti salariali.
Per i fautori dell’uscita dall’euro la risposta è chiara: l’euro non ha mai costituito una minaccia per l’egemonia americana. Ma anche se gli “euristi” non sono mai stati anti-atlantici, «la presenza dell’euro sul mercato valutario è un’oggettiva alternativa al dollaro». Infatti, «Paesi con gigantesche riserve in valuta estera, come la Cina, il Giappone e i Paesi esportatori di petrolio potrebbero creare grossi problemi al dollaro anche con modeste variazioni a favore dell’euro dei loro portafogli». Peggio ancora, aggiunge Pagliani, se queste manovre servissero una logica geopolitica ostile, o anche solo la minacciassero: «La fine di Gheddafi e del suo progetto di “dinaro africano” illustra tragicamente cosa può succedere in questi casi». Secondo David Harvey, qualsiasi tentativo di contestare l’egemonia statunitense da parte di potenze estere (per esempio, attraverso la fuga di capitali e il crollo del dollaro) «susciterebbe sicuramente negli Usa una risposta politica, economica e anche militare selvaggia».
Da una parte, gli Usa devono rendere poco appetibile l’euro mostrandone tutta la debolezza politica: «Non potendo attaccare il suo possente cuore tedesco, attaccano le deboli gambe di periferia», mentre con la Germania, «renitente alla leva anti-libica», Washington dovrà invece «rinegoziare posizioni di privilegio da viceré, se possibile». Sullo sfondo, infatti, c’è la sfida tra il mondo anglosassone e quello tedesco: per Pagliani, è come «un gigantesco scontro tra economia finanziaria ed economia reale». Cos’è l’economia finanziaria? E’ la «valorizzazione infinita», e virtuale, dell’economia reale che oltre un certo limite non potrebbe crescere. «In altri termini, rappresenta la modalità principale di gestione della crisi sistemica. Ma in ultima istanza essa è indotta dal motivo profondo che muove l’accumulazione capitalistica stessa: la ricerca di potere».
Un dollaro fittizio, continua l’analista di “Alternativa”, è tanto poco distinguibile da un dollaro reale, quanto il denaro della mafia è indistinguibile dal denaro “onesto”. «Col capitale fittizio si compra ricchezza reale già esistente, con acquisizioni e fusioni, centralizzando i capitali e attaccando il dominio pubblico dei Paesi presi nel mirino, privatizzando. Ma col capitale fittizio si fanno anche volare bombardieri, navigare portaerei, lanciare missili, pagare eserciti regolari o appaltati; si conquista, si controlla, si corrompono governi, si creano governi». Col capitale virtuale, certo non si può comprare il quadruplo della ricchezza prodotta in un anno. «Ma, esattamente come il denaro sporco, il capitale “virtuale” viene riciclato mobilitando, in ultima istanza, potere», scalando posizioni con fusioni, acquisizioni e centralizzazione di capitali, «a ritmi che la normale accumulazione non avrebbe permesso».
In altri termini, è in corso «un’operazione di riciclaggio planetario», dove intervengonoin modo confuso e conflittuale molti agenti, capitalistici e politici: «Nessun complotto mondialista, quindi, né della grande finanza né di qualcun altro. Bensì la creazione e lo sfruttamento del caos», per il controllo supremo del potere. Risultato provvisorio: l’euro indebolito non attrae più le economie emergenti dei Brics, mentre Cina e Giappone hanno già annunciato che faranno ricorso alle rispettive monete nazionali. «Ciò spingerà gli Usa non ad allentare, bensì a cercare di aumentare la presa sui Paesi dell’Europa mediterranea: è una questione prima geopolitica e solo dopo economica, e la cintura d’instabilità della sponda Sud del Mediterraneo è parte della trappola».
In questo contesto, agginge Pagliani, la fede “eurista” di Mario Monti sarà messa a dura prova: siamo così sicuri che voglia davvero “salvare l’euro” e la nostra permanenza nell’Eurozona? Non dovrà piuttosto a un certo punto scegliere tra Stati Uniti e Germania, qualora le posizioni tra i due poteri si rivelassero inconciliabili? «Se ai tempi di Giuliano Amato la “nave corsara” italiana minacciava l’Europa per potervi rientrare, oggi la sua potenza di fuoco potrebbe essere usata dagli Stati Uniti per ricattare la Germania a venire a patti con la logica anglosassone». Pagliani non ha dubbi: «Chi vede in Mario Monti solo l’uomo della Goldman Sachs, sbaglia». Monti in realtà sta cercando di capire chi vincerà la partita, quella vera. E noi, «a valle», dobbiamo prepararci a difenderci: «Non abbiamo il suo potere, le sue informazioni, né la sfera di cristallo». Chi vuol tornare alla moneta sovrana, ricordi che anche con la lira «è possibile infierire con una linea rigorista di disciplina feroce sul lavoro, di smantellamento delle conquiste sociali e di privatizzazioni». Il problema non è la moneta: è la politica.
Da quest’articolo si evince che siamo – noi paese Italia- il campo nel quale si gioca la partita della supremazia in occidente tra Germania -e un continente germanizzato-, l’economia manifatturiera per eccellenza, quella della ricchezza “reale”, e il mondo anglosassone, Usa e UK, i paesi del dominio della finanza, del “denaro fittizio”. Mario Monti starebbe cercando di capire chi vincerà la partita e potrebbe anche non scommettere sulla sopravvivenza dell’euro (cosa che fece amato nel 1992), scegliendo il secondo contendente, l’asse Washington-Londra, piuttosto che l’ue germanocentrica, che impone il suo calvinismo intransigente e rigorista, che cerca nel lavoro il segno della sua elezione, a un’europa mediterranea cattolica, sciupona, priva di cultura del lavoro e adagiata nel suo lassismo ozioso.
Sfido chiunque a scommettere su cosa sia meglio per noi. Probabilmente nessuna delle due alternative, perché siamo “un paese a sovranità limitata”, questo è vero, stretti fra i poli dell’atlantismo, ovvero dell’interesse americano e del suo imperalismo, stavolta in rapida decadenza, e dell’ue (o della troika, ue-bce-fmi, mostro proteiforme che rappresenta gli interessi combinati dell’una e dell’altra potenza), con la sua ortodossia libertaria, che impone il saccheggio dei beni del popolo. Il fatto è che l’italia è sempre stata un paese dominato da interessi lontani, sin dal Cinquecento, e che ha visto erodere il suo primato economico in europa, con quello spagnolo, appunto da ormai più di 500 anni. In un mondo globalizzato, subiremo ancora maggiormente il controllo dei grandi interessi del capitalismo, quale che sia il potere mondiale dal quale emana, o la potenza che intenda farvi leva a nostro svantaggio.
secondo la mia opinione, l’ europa sta cercando di unificarsi di più, cioè questi sono i crudeli e articolati passaggi per l’unificazione di un europa da comtraporre ai mercati america,Cina India e russia.
inquanto se tutte le cose andassero bene perchè si avrebbè bisogno di un europa con una sua costituzione e un giorno magari tassi di interesse uguali per tutti (Eurobond). quindi io vedo in questo il processo di una unificazione come quella che caratterizzo gli usa con i sui 52 stati.
l’america avrebbe ancheè bisogno di un europa da comtrappore a mercati come quello cinese, I Paesi Pigs oggi vengono attacati per essere impovereti non per distruggere l’europa, ma perchè un giorno faranno la parte da leone,in che modo molto semplice Monti sta cercando di impoverirci e piano a piano i salari si abbaserano ancora di più di adesso, e cosi la nostra manodopera avra costi bassissimi ,visto che noi siamo a sud sara molto più facile e meno costoso trasportare merce in camion che dall’ italia vanno verso germania olanda eccc.. invece la cina sta vedendo un aumento dei suoi salari (nelle città sulla costa) e ha un trasporto molto più costoso…
quindi stanno cercando di fare un europa che manifaturialmente sia più competitiva almeno per le esportazioni tra singoli paesi dell’ euroropa…ma se poi vogliamo aggiungere una bella svalutazione del euro i nostri prodotti avranno ancora di più un aiuto ad essere esportati in tutto il mondo ed ecco fatto che europa tornera ad essere competitiva.