Greenpeace: il veleno è di moda, “tossici” due capi su tre
Tessuti e capi firmati devastano l’ambiente, ma anche la salute: in due casi su tre, sono fonte addirittura di tumori e di serie anomalie al sistema ormonale. Parola di Greenpeace. «Siamo ormai in un mondo di “fashion victim”? Decisamente sì, e non solo nel senso di persone che seguono acriticamente le mode del momento», scrive Andrea Bertaglio sul “Fatto Quotidiano”. L’ultimo rapporto dell’associazione ecologista internazionale lo conferma: l’industria tessile provoca guasti gravissimi all’ambiente. Ma la novità vera è un’altra: l’abbigliamento può minacciare il benessere fisico delle persone, come rivelano le analisi chimiche eseguite su decine di prodotti dei marchi più importanti del pianeta. Sostanze tossiche e nocive, rivela Greenpeace, sono presenti in oltre il 60% dei capi: i 20 principali brand di moda vendono indumenti contaminati da sostanze pericolose per il sistema endocrino e, se rilasciate nell’ambiente, possono diventare cancerogene.
Benetton, Zara, C&A, Diesel. E ancora: Esprit, Gap, Armani, H&M, Calvin Klein. Sono soltanto alcuni dei 20 marchi presi in esame. La maggior parte dei 141 articoli analizzati, venduti in 29 nazioni, ha una cosa in comune: la tossicità.. Fabbricati negli sweatshop dei Paesi nel sud del mondo in impianti di produzione tessile che avvelenano i corsi d’acqua, questi prodotti «ci stanno trasformando in vittime inconsapevoli della moda che inquina», accusa Greenpeace. «Jeans, pantaloni, t-shirt, abiti e biancheria intima disegnati per uomini, donne e bambini»: nella lista nera dell’associazione ecologista ce n’è per tutti i gusti. E per tutte le età. Nel mirino della campagna, aggiunge Bertaglio, c’è in particolare Zara: leader internazionale nella rivendita di capi d’abbigliamento, secondo l’associazione ecologista «fa parte del problema», ed è responsabile di devastazioni ambientali in tutto il mondo. Soprattutto in Cina, dove oggi – non a caso – Greenpeace ha lanciato con una “sfilata choc” la sua campagna a livello internazionale.
«Con il più alto numero di prodotti contenenti sostanze tossiche, fra cui diversi composti cancerogeni – rileva il “Fatto” – l’azienda spagnola fondata da Amancio Ortega (secondo uomo più ricco d’Europa, con un patrimonio di 43,5 miliardi di euro) è quella che ha di gran lunga ottenuto i peggiori risultati nelle analisi effettuate da Greenpeace». Oltre alla tossicità dei prodotti, «una delle cose che sono emerse è anche la scarsa trasparenza che regna in questo settore», denuncia Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia: «Di 25 prodotti analizzati (su 141) non siamo assolutamente riusciti a capire l’origine: sono quasi uno su sei». Può sembrare poco, viste le ridotte dimensioni del campione, «ma pensiamo a cosa significa se si considerano gli 80 miliardi di capi di abbigliamento fabbricati nel mondo ogni anno». Altro problema: non esistono informazioni sui possibili problemi sanitari per chi indossa questi prodotti.
«Ci sono categorie più delicate e sensibili, come i bimbi, e sarebbe opportuno che da una parte i consumatori incominciassero a chiedersi da dove arriva ciò che acquistano, dall’altra ci dicessero cosa sta dietro la fabbricazione di quello che entra nelle nostre case», dichiara Giannì. Ma perché pressare proprio questi 20 marchi, fra i molti esistenti? «Ci rivolgiamo alle aziende maggiori perché, viste le loro dimensioni, hanno la responsabilità maggiore», precisa l’attivista: «Perciò chiediamo a queste grandi griffe di aderire alla piattaforma “Detox”, che prevede di azzerare entro il 2020 l’uso di sostanze tossiche». Che, ovviamente, non si trovano solo nei luoghi di produzione (Cina, Messico, Turchia, Bangladesh), ma anche laddove questi prodotti vengono esportati. «È insensato bandire sostanze tossiche in un paese quando poi se ne riversano milioni di tonnellate nell’ambiente, semplicemente lavando dei capi di vestiario», conclude Giannì: «Una beffa doppia, che vede persone avvelenate sia nei paesi produttori che in quelli consumatori. È il dramma della delocalizzazione».