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Austerità, emergenza umanitaria: 5,8 miliardi le vittime

Scritto il 06/5/13 • nella Categoria: segnalazioni Condividi Tweet

La chiamano austerità, come se fosse una condizione transitoria, ma è ormai un’emergenza umanitaria che colpisce soprattutto i più deboli, non solo in Europa: si parla di 5,8 miliardi di vittime, in tutto il pianeta. Secondo dati del Fondo Monetario Internazionale, nel 2013 ben 119 paesi del mondo passeranno attraverso pesanti “aggiustamenti” della loro spesa pubblica, e l’anno prossimo il numero di paesi investiti dalle “riforme strutturali” salirebbe a 131, secondo un trend destinato a crescere inesorabilmente almeno fino al 2016. Lo conferma anche uno studio della Columbia University, in collaborazione con il “South Centre”, intitolato “The Age of Austerity”. Obiettivo invariabile: colpire la spesa pubblica, cioè la sovranità democratica degli Stati, sempre più deboli di fronte agli appetiti dei globalizzatori verso le grandi privatizzazioni raccomandate dall’ideologia neoliberista, principale responsabile del disastro planetario in corso.

«Nel dibattito degli ultimi mesi – scrive Andrea Baranes su “Sbilanciamoci” – spesso sembra che le politiche di austerità siano prerogative dell’Unione La protesta a Lisbonaeuropea». E’ vero che la famigerata Troika si è contraddistinta per una visione a senso unico della crisi, colpendo solo il welfare – e quindi le protezioni sociali – grazie alla demonizzazione del debito pubblico, reso catastrofico dalla perdita di sovranità monetaria nell’Eurozona. Ma se i tecnocrati al comando della Commissione Europea, dell’Fmi e della Bce – di fatto manovrati dalle lobby più potenti del mondo, insediate a Bruxelles per consegnare alla grande finanza ogni vero potere decisionale su economie, nazioni e popoli – è altrettanto vero che «la situazione non è certo limitata all’Europa: di fatto molte delle misure più dure sono state approvate nei paesi del Sud del mondo».

La ricerca della Columbia University, come spiega il professor Thomas Byrne Edsall, esamina i dati dell’Fmi per 181 nazioni, mettendo a confronto quattro periodi: la fase pre-crisi che va dal 2005 al 2007, la prima grande crisi del 2008-2009, il drammatico biennio seguente 2010-2012 contrassegnato dal progressivo inasprimento fiscale, e infine il periodo 2013-2015, “terza fase” della grande crisi e intensificazione “letale” della contrazione fiscale. I ricercatori hanno inoltre preso in esame 314 rapporti del Fondo Monetario relativi a 174 paesi diversi, per identificare i principali “aggiustamenti” presi in considerazione. «L’austerità – osserva Baranes – potrebbe riguardare circa l’80% della popolazione globale nel 2013, ovvero circa 5,8 miliardi di persone». Riguardo le misure adottate tra il 2010 e il 2013, le più diffuse sono l’eliminazione o la riduzione di sussidi e aiuti, in particolare su agricoltura e cibo, in almeno 100 paesi. Altrettanto acuta la riduzione dei salari, a partire da quelli nel settore dell’istruzione, della sanità e di altri comparti pubblici. In 80 paesi si segnala la sensibile diminuzione Thomas Byrne Edsalldelle reti di protezione sociale, mentre una riforma “punitiva” delle pensioni colpisce gli anziani in 86 paesi.

Fra i tagli più dolorosi anche quelli alla sanità pubblica, che si abbattono sulla popolazione di 37 paesi, cui si aggiunge una maggiore “flessibilità” per i lavoratori, privati di tutele in 32 paesi. «Come se queste misure non fossero sufficienti – aggiunge Baranes – lo studio ricorda come diversi governi ne abbiano adottate anche diverse altre, con pesanti ricadute, soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione: è il caso di politiche fiscali regressive come l’aumento dell’Iva o di iniziative simili e che pesano in maniera sproporzionata sulle fasce più povere». Un quadro depressivo che investe ben 94 paesi, fra cui ovviamente anche l’Italia. «Nell’ultima parte della ricerca – continua “Sbilanciamoci” – si mette in discussione tanto l’equità quanto la validità di tali decisioni, affrontando la questione da diversi punti di vista: la tempistica, lo scopo che indignadossi voleva perseguire, l’intensità delle misure adottate, la loro efficacia dal punto di vista macroeconomico rispetto al costo sociale».

Il risultato è prevedibile, conclude Baranes: le conseguenze della politica “lacrime e sangue” sono state e rischiano di essere ancora di più nel prossimo futuro un aumento della disoccupazione, una maggiore povertà, un aumento delle disuguaglianze. Tanto per cambiare, «i costi dell’aggiustamento sono scaricati sui settori più deboli, con meno tutele sul lavoro». In poche parole, «a fronte di una crisi causata da una finanza ipertrofica e fuori dal mondo, il costo della “ripresa” è pagato quasi interamente dai più poveri e meno tutelati». E al momento, proprio per queste fasce di popolazione, di “ripresa”, non c’è nemmeno l’ombra. Vietato stupirsi, sostiene Paolo Barnard: il disastro in corso è stato accuratamente pianificato dagli anni ’70 per «restituire il potere alle élite economiche pre-capitalistiche», quelle che – prima della rivoluzione industriale inglese e poi della rivoluzione francese – vivevano di rendita, in modo parassitario. L’1% che possiede tutto, e il 99% niente: siamo tornati lì, alla faccia della celebratissima globalizzazione?

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