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Nino Galloni sindaco di Roma: troppo bello per essere vero?
«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?La “pazza idea” di candidare a Roma l’insigne economista progressista, già alto funzionario governativo – protagonista di una battaglia sotterranea per salvare l’Italia dal disastro del Trattato di Maastricht – proviene dal movimento fondato da Gioele Magaldi, massone e autore del dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) che denuncia i misfatti di alcune Ur-Lodges, fra le 36 superlogge segrete ai vertici del potere mondiale, negli ultimi decenni alle prese con la svolta oligarchica che ha imposto la grande crisi alle masse, arricchendo l’élite. Fulcro della grande restaurazione planetaria, il taglio neoliberista dello Stato a vantaggio dei signori del “mercato”: meno spesa pubblica, azzeramento del debito, tassazione alle stelle, crollo del Pil e disoccupazione. Tutto ciò imposto, in Europa, attraverso la scure dell’euro, che Galloni considera un’arma (economica) di distruzione di massa. Tanto era temuto, Galloni, che – ai tempi dell’ultima stagione governativa di Andreotti – spinse il cancelliere Kohl a muoversi, personalmente, perché fosse rimosso. Una battaglia, la sua, per la difesa della sovranità italiana, nella certezza che le modalità di imposizione della moneta unica avrebbero devastato l’economia nazionale, declassandola e deindustrializzandola.Era un piano preciso, ha spiegato Galloni a Claudio Messora, sul blog “Byoblu”: l’euro fu imposto dalla Francia per indebolire la Germania, di cui temeva la riunificazione; in cambio, Berlino pretese (e ottenne) il ridimensionamento del suo concorrente industriale più pericoloso: noi. Questo è il personaggio su cui “Filippo”, “Ste” e “Gnam Gnam” si saranno ormai documentati. Allievo del maggiore economista europeo del dopoguerra, il professor Federico Caffè, e quindi “compagno di banco” di Bruno Amoroso, eminente economista impegnato in Danimarca, e di un certo Mario Draghi, che si laureò con una testi sulla insostenibilità della moneta unica, molto prima di salire sul Britannia per la grande svendita dell’Italia. Riuscirà il Movimento 5 Stelle a prendere in considerazione l’offerta? Galloni collabora col Movimento Roosevelt, che vuole riscrivere le linee-guida della politica (e quindi dell’economia) per aiutare l’Italia a uscire dal disastro. Fine della sudditanza rispetto all’élite finanziaria che manovra Bruxelles? «Ma noi non siamo contro l’euro», dichiarò Gianroberto Casaleggio a Marco Travaglio, giusto alla vigilia delle ultime elezioni europee, segnate dalla squillante affermazione, in tutta Europa, di partiti e movimenti decisi a mettere fine alla catastrofe economica innescata proprio dalla moneta unica, quella che lo stesso Draghi, studente modello, giudicava una follia.«Nino Galloni sindaco di Roma? Magari!», sogna ad occhi aperti Andrea Signini su “Signoraggio.it”, definendo Galloni «grande giurista, nome di punta degli anni Ottanta e Novanta, il cosiddetto “oscuro funzionario” il quale, di contro, tutto è tranne che oscuro, dal curriculum di pregio e dalla profonda conoscenza delle dinamiche dell’economia, della finanza e anche della politica, di cui non ha mai fatto parte se non a richiesta, come professionista interrogato per risolvere i problemi che la politica stessa ha sempre causato». Già ricercatore all’università di Berkeley, tra il 1980 e il 1987 Galloni collaborò strettamente col suo maestro Federico Caffè, economista post-keynesiano, all’università di Roma. In seguito, Galloni ha insegnato economia alla Luiss di Roma, alla Sapienza, alla Cattolica di Milano, negli atenei di Modena e di Napoli. E’ stato direttore generale al ministero del lavoro, ha diretto l’osservatorio sul mercato del lavoro e l’occupazione giovanile, ha lavorato all’Inpdap e all’Ocse, è tra i sindaci dell’Inps e dell’Inail. Ha anche fondato il Centro Studi Monetari, un’associazione per lo studio dei mercati finanziari e delle forme di moneta emettibili senza creare debito pubblico.Galloni punta al ritorno della sovranità finanziaria nazionale e alla netta separazione tra banche d’affari, speculative, e credito pulito al servizio dell’economia reale, com’era prima dell’abolizione del Glass-Steagall Act ad opera di Bill Clinton, che diede la stura definitiva alla roulette finanziaria mondiale, decisa a “pescare” anche nella finanza pubblica. Il dramma risale al 1981, ricorda ancora Galloni, quando Ciampi e Andreatta staccarono il Tesoro da Bankitalia, che fino ad allora era il “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo il paese ad attingere denaro attraverso l’emissione di titoli di Stato. Interessi salatissimi: «Così, di colpo, il debito pubblico italiano raddoppiò». Galloni? «E’ l’uomo giusto al punto giusto», scrive Signini. «Apprezzato da destra a sinistra, dal popolo cosiddetto moderato e quello di nicchia; ma soprattutto ammirato da chi accorre alle sue conferenze; conferenze che tiene in tutta Italia senza mai farsi pagare, ricordiamolo. Nino è così: sobrio nelle scelte, sobrio nel vivere, anche nel vestire. Non giuda Jeep o Ferrari, no. Lo puoi trovare nei consessi internazionali di finanza ed economia e poi il giorno appresso seduto al bar con gli appartenenti di ogni forza politica, di qualsiasi colore e schieramento o a parlare amabilmente con chi lo riconosce e gli chiede consigli e suggerimenti».«Questo è Nino», conclude Signini: Galloni è «l’altro allievo di Federico Caffè, del tutto diverso da Mario Draghi». Con tutta probabilità, «grazie proprio al bagaglio culturale e professionale che ha sviluppato sin dai tempi in cui, dopo essere ritornato dagli Usa per venire ad insegnare nelle università italiane», Nino Galloni «non può che essere colui sul quale scaricare la responsabilità di rifondare Roma», devastata dalle amministrazioni Alemanno e Marino. «Tentare di pescare l’ennesimo nome dal cilindro lercio della politica, sappiatelo, è inutile, oltre che nocivo», assicura Signini: «C’è rimasto solo Galloni». Che ne pensano “Ste”, “Gnam Gnam” e tutti gli altri? E soprattuttto: come la vedono Grillo e Casaleggio? E’ ovvio che una candidatura come quella di Galloni nella capitale rappresenterebbe una rivoluzione copernicana, dopo decenni di politica nazionale affidata a mezze figure prone ai diktat dei “padroni” stranieri, i veri burattinai della “casta” impresentabile contro cui si è scagliato il grillismo prima maniera. La sola candidatura di Galloni, col suo inevitabile contributo culturale, contribuirebbe a scardinare una lunga stagione di menzogne. Mission impossible?«Carissimi, vi giro un link del Movemento Roosevelt (MR) in cui si fa una proposta diretta al M5S per la candidatura a sindaco di Roma. La proposta è un po’ “arrogante” ma il candidato, Nino Galloni, appare di elevato livello», scrive Filippo Ridolfi, il 29 novembre, sul forum del blog di Grillo. «Puoi dire al MR di andare a fare in c***», chiarisce il grillino Massimiliano Morosini. A un altro iscritto, “Gnam Gnam”, il nome Galloni non dice granché: «Vediamo un po’. Uhm, non trovo il curriculum del tizio». Un quarto attivista, “Filippo”, s’illumina: «Ahah… ho visto anche un “Passaparola” di Beppe con Galloni». Sdoganato, quindi, il grande economista? Macché: «Preferisco Virginia Raggi», chiosa “Ste”, alludendo alla giovane avvocatessa grillina «sbarcata in Campidoglio nel 2013 col vento del grillismo per occuparsi di stanziamenti per il verde pubblico», come scrive “Linkiesta”. La Raggi? «Un po’ di lavoretti da cameriera e baby sitter, il volontariato nei canili. Oggi è avvocato civilista esperta diritto d’autore, proprietà intellettuale e nuove tecnologie. Se prendesse il posto di Marino sarebbe il primo sindaco donna nella storia della Capitale». E Galloni?
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Crisi senza fine? La previde vent’anni fa il “profeta” Craxi
Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.Rivelazioni che «spiegano con parole mirate e incisive i fatti degli ultimi anni ed odierni, ancora oggi tristemente e quotidianamente sotto gli occhi del tutto ignari della quasi totalità» del pubblico, che magari vota Renzi e ha di Craxi un pessimo ricordo. Un libro, quello dell’ex leader del Psi, definito (oggi) da diversi giornalisti “profetico”, “sorprendente”, “agghiacciante”, “al limite della preveggenza”. Lo Stato è a pezzi, così come l’idea di nazione? «La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata», scrive Craxi. «Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali». Al contrario, «cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». E attenti: «Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare».Da Mani Pulite, Craxi fu liquidato come “capo di una banda di ladri” per via del finanziamento illecito ai partiti, compreso il suo? «I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico – scrive l’ex leader socialista – sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira, evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla».Possibile che sul finanziamento illecito non avesse niente da dichiarare il Pci? «D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico», scriveva Craxi. «Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”». E’ storia, ormai: «Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra e adottato da tutti, anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio».“Serviva”, quel coperchio, per legittimare una “nuova” classe dirigente europeista, usa obbedir tacendo. «Il regime avanza inesorabilmente: lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato», scriveva Craxi quasi vent’anni or sono. «La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza». Il regime, continua Craxi, «avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante». A proposito di “sottocultura”, Bellisario ricorda il recentissimo attacco «violento, squallido e di bassissimo profilo» sferrato da Luciana Littizzetto contro il Movimento 5 Stelle nientemeno che dalla tribuna televisiva di Fabio Fazio, sulla Rai (in compenso, all’epoca, dalla televisione di Stato fu cacciato Beppe Grillo, colpevole di mettere alla berlina di socialisti “ladri”: anche di quello si occupava, Craxi, anziché esternare sui pericoli della globalizzazione privatizzatrice in arrivo).«Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici», scrisse più tardi, da Hammamet, il segretario del Psi. «A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione», che è sempre «presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca: una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale». Parole sante, col senno del poi? Non si direbbe: la Grande Privatizzazione continua anche ora e più che mai, con Renzi, che mette all’asta persino un modello di impresa pubblica in super-attivo, Poste Italiane.Facile dire che vedeva lungo, Craxi: «La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Chissà cos’avrebbe detto, oggi, di fronte agli ultimi orrori, a comiciare dal Ttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue che rade al suolo ogni residua sovranità economica. Per non parlare del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, a certificare la morte clinica dello Stato come garante della comunità nazionale. Ai tempi, quando i Prodi e i Ciampi magnificavano il dorato avvenire promesso da Bruxelles, Craxi scriveva: «I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti». E l’andamento di questi anni «non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori: la situazione odierna è diversa da quella sperata».Ogni trattato, aggiungeva Craxi, può e deve essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali e alle nuove esigenze: «Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà», lontano cioè dall’autismo dogmatico dei tecnocrati e dei loro cantori più o meno prezzolati, distribuiti in ogni paese. «Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione». La “scelta della crisi”, dunque, da cui la “conseguente disoccupazione”. L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Ed era solo la fine degli anni ‘90. L’Italia non era ancora finita nel girone infernale della Bce: recessione e crollo del Pil, super-tassazione, licenziamenti e fallimenti, erosione dei risparmi, disperazione sociale, rassegnazione al declassamento dell’Italia Così parlava il “profeta” Craxi. Rileggerlo oggi? Scomodo, per troppi personaggi in pista già allora. Uomini che però, anziché ad Hammamet, sono fini alla Bce, al Fondo Monetario e all’Ocse, a Bankitalia, alla Goldman Sachs. E naturalmente a Palazzo Chigi, e al Quirinale.Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.
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Quando eravamo ricchi, con la lira e l’inflazione a mille
«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».«Più lo Stato spende, più la popolazione si arricchisce», riassume Bellisario. Questo può provocare il “rischio” inflazione, cioè troppi soldi, a fronte di pochi prodotti? L’inflazione può essere facilmente contenuta, in tre modi: lo Stato spende di meno nel comparto pubblico, oppure spende di più per aumentare la produttività nel settore privato (l’inflazione non è mai un problema finché la produzione non si riduce in maniera troppo corposa), o ancora, lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso. «L’inflazione in realtà è un falso problema», insiste Bellisario. Idem il debito pubblico, agitato come spauracchio: come se lo Stato fosse una normale famiglia, nei guai con la banca (il che, nell’Eurozona, è esattamente la realtà: il governo può solo finanziarsi tassando a morte i cittadini e prendendo a prestito gli euro, a caro prezzo, mettendo all’asta i titoli di Stato). Come se ne esce? In un solo modo: recuperando la sovranità monetaria, come sottolinea l’economista Nino Galloni, altro esponente del Movimento Roosevelt.Sulla mistificazione che vela la vera natura del debito pubblico, Bellisario lancia una provocazione: chiamiamolo “ricchezza nazionale”, così almeno la gente capisce di cosa di tratta veramente. «Invito tutti voi alla massima attenzione su questa precisa e personale proposta di modifica del termine “debito pubblico” in “ricchezza pubblica” o, molto più semplicemente, in “ricchezza dei cittadini”», scrive Bellisario sul blog del movimento. «Detto questo, immaginate che da domani tutti i vari Tg, le varie rubriche di approfondimento, giornali, Internet e quant’altro annunciassero che la “ricchezza dei cittadini” (quindi non più il “debito pubblico”, parola che spaventa la gente) è aumentata nell’ultimo anno di 100 miliardi di euro. Ecco, provate ad immaginare questo». Sarebbe una rivoluzione, ovviamente. Ma non partirà mai, almeno fino a quando l’oligarchia finanziaria centralizzata a Bruxelles continuerà a colonizzare partiti e fabbricare leader obbedienti.Sotto il regime dell’euro, è praticamente impossibile raggiungere la piena occupazione, che in teoria sarebbe la ragione sociale dello Stato democratico. Serve un “futuro Nuovo Stato”, come lo chiama Bellisario: uno Stato «sovrano, con moneta sovrana e banca al 100% pubblica e direttamente sotto il controllo politico». Primo passo: «Inserire in Costituzione il principio della “piena occupazione”. E abrogare, nell’immediato, il “pareggio di bilancio”», che non è solo un obbrobrio, ma anche un delitto: «Se c’è crisi, se c’è disoccupazione – dice Galloni – puntare al pareggio di bilancio è un crimine». Uno Stato sovrano, dotato cioè di pieno potere di spesa, non avrebbe alcun problema ad «assumere immediatamente (senza se e senza ma) tutte le persone che attualmente collaborano precariamente per conto dello Stato in ogni settore della pubblica amministrazione». E inoltre «istituirebbe bandi di concorso in ogni settore per il numero che ritiene giusto, per far sì che ogni comparto possa operare a pieno organico e nella maniera più efficiente e rapida possibile». Nulla di tutto ciò è all’orizzonte, naturalmente. «Stiamo morendo di fisco», disse a Torino già nel 2012 il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Gli imprenditori sono disposti a rinunciare a tutti gli incentivi in cambio di una riduzione della pressione fiscale a carico di imprese e famiglie».L’eventuale futuro “Nuovo Stato” italiano, auspicato dal Movimento Roosevelt, baserebbe le sue entrate fiscali su due sole aliquote, il 20% per i redditi fino ai 100.000 euro e il 23% per i redditi superiori. Altre eventuali tasse solo per «tutti coloro che investono nei beni di lusso, che creano principalmente benessere personale e non collettivo». Motivo: «Tassandola, si incoraggia la persona benestante a spendere e investire di più nei cosiddetti beni quotidiani, in modo da far girare meglio l’economia reale. Questo inciderebbe positivamente sulla costruzione di nuovi posti di lavoro». A questo punto, aggiunge Bellisario, è giusto ricordare cosa rappresentano le tasse in un paese libero, cioè sovrano, «concetto spiegato in maniera impeccabile dalla Mosler Economic, o Modern Money Theory, portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard grazie al suo lavoro, che ho sempre senza mezzi termini definito “ai limiti dell’umano”».Se uno Stato è libero di emettere moneta in quantità teoricamente illimitata per il benessere della comunità nazionale, non rinuncia in ogni caso al prelievo fiscale. Perché le tasse, all’interno di un “contesto sovrano”, vengono utilizzate per quattro precisi scopi. Primo: tenere a freno la ricchezza dei privati e quindi il loro strapotere. Secondo: evitare l’eccesso di inflazione. Terzo: scoraggiare o incoraggiare comportamenti (si tassa l’alcool, il fumo o l’inquinamento, mentre ad esempio si detassano le beneficenze, le ristrutturazioni). Quarto: imporre ai cittadini l’uso della moneta sovrana dello Stato dove si vive. Tutrto questo, ovviamente, in un paese libero. Non nell’Eurozona, dove lo Stato è ridotto a super-tassare per sovravvivere. Scavandosi la fossa, come diceva – in tempi non sospetti – un certo Winston Churchill: «Una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico».«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».
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In regalo anche Poste Italiane, 600 milioni l’anno di profitti
È partita lunedì scorso la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà realizzata attraverso la collocazione sul mercato di azioni della società corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L’obiettivo dichiarato dal governo Renzi è l’incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un drastico calo del nostro debito pubblico dall’attuale vertiginosa cifra di 2.199 miliardi di euro (dati Banca d’Italia, fine luglio 2015) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Italiane, pari a 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016. Si tratta di un evidente rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico, quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa per poter privatizzare Poste Italiane.Fatta questa premessa, occorre aggiungere come anche il prezzo di vendita del 40% di Poste Italiane sia stato ipotizzato al massimo ribasso, prefigurando, ancora una volta, la svendita di un patrimonio collettivo. Infatti, mentre Banca Imi, filiale di Intesa Sanpaolo, attribuiva, non più tardi di una settimana fa, un valore a Poste Italiane compreso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e mentre Goldman Sachs parlava di una cifra compresa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai blocchi di partenza della vendita delle azioni la società risulta valorizzata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi. A questo, vanno aggiunti tutti i fattori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che mentre si decide di privatizzare un servizio pubblico universale, consegnandolo di fatto alle leggi del mercato, se ne rafforza al contempo, per rendere più appetibile l’offerta, il carattere monopolistico nel campo dei servizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna certezza rispetto al domani: parliamo dell’accordo vigente con Cassa Depositi e Prestiti per la gestione del risparmio postale (1,6 miliardi di commissione), così come dei crediti vantati da Poste nei confronti della pubblica amministrazione (2,8 miliardi). Senza contare come la società abbia in pancia strumenti di finanza derivata, il cui “fair value”, al 30 giugno 2015, risulta negativo per 976 milioni di euro.Ma aldilà di queste considerazioni economicistiche, è a tutti evidente come, con il collocamento in Borsa del 40% di Poste Italiane muti definitivamente la natura di un servizio, la cui universalità era sinora garantita dal suo contesto di garanzia pubblica, che permetteva, attraverso i ricavi realizzati dagli uffici postali delle grandi aree densamente urbanizzate, di poter mantenere l’apertura di uffici, spesso con funzioni di presidio sociale territoriale, in tutto il territorio italiano, a partire dai piccoli paesi. E’ evidente come la privatizzazione in atto inciderà soprattutto su questo dato: per i dividendi in Borsa diverrà assolutamente necessario il taglio dei rami economicamente secchi, ovvero la drastica riduzione degli sportelli nelle aree poco popolate. E, infatti, il piano industriale già prevede – ma sarà solo l’assaggio – la diversificazione dei modelli di recapito, che da ottobre 2015 rimarrà quotidiano per nove città definite ad “alta densità postale”, mentre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni.Quasi tautologico sottolineare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una drastica riduzione – si parla nel tempo di 12-15.000 posti in meno – oltre al sovraccarico di ritmi per quelli che avranno la fortuna di essere sfuggiti alla mannaia. Di fatto, con la privatizzazione di Poste Italiane si cerca di rendere espliciti processi che già con la precedente trasformazione in SpA erano rimasti sotto traccia: un’attenzione sempre più residuale al servizio di recapito postale (anche per motivi legati all’innovazione tecnologica) e un accento sempre più marcato sul ruolo finanziario di Poste Italiane, che, oggi, grazie alla capillarità dei suoi presidi territoriali (13.000 sportelli), costruiti negli anni con i soldi della collettività, può tranquillamente lanciarsi in Borsa sfruttando la fidelizzazione dei cittadini accumulata in decenni di ruolo pubblico, per metterla a valore in prodotti assicurativi, finanziari e in sempre più spregiudicate speculazioni di mercato. Stupisce, ma fino a un certo punto, la totale condiscendenza dei principali sindacati ad un percorso che non avrà che ricadute negative sia sul fronte del lavoro che su quello dei servizi per i cittadini. Non vale la foglia di fico dell’azionariato popolare, che in realtà rende la truffa ancor più compiuta: con le azioni per i dipendenti e gli utenti si fa un ulteriore favore ai grandi investitori, che potranno controllare la società senza neppure fare lo sforzo di mettere soldi per acquistarla.(Marco Bersani, “La Posta in gioco”, da “Megachip” del 16 ottobre 2015).È partita lunedì scorso la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà realizzata attraverso la collocazione sul mercato di azioni della società corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L’obiettivo dichiarato dal governo Renzi è l’incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un drastico calo del nostro debito pubblico dall’attuale vertiginosa cifra di 2.199 miliardi di euro (dati Banca d’Italia, fine luglio 2015) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Italiane, pari a 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016. Si tratta di un evidente rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico, quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa per poter privatizzare Poste Italiane.
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Casa, tasse, debiti: ecco come l’euro ha spolpato gli italiani
Beniamino Andreatta spiegava nel 1995 perchè bisognava liberarsi della lira e affidare la politica monetaria a qualcuno “a duemila chilometri dal Parlamento italiano”, cioè a Francoforte. Il discorso di Andreatta è lineare, semplice che lo capisce anche la casalinga e ha una sua logica che convince. E’ sostanzialmente quello a cui aderiscono ancora oggi la maggioranza dei professori di economia italiani, da Monti a Draghi (che una volta era professore) a Gianpaolo Galli, a Rainer Masera, a Riccardo Puglisi, a Tommaso Monacelli a Michele Boldrin, Alberto Bisin, Salvatore Brusco. Il succo del discorso è che la lira è una moneta soggetta a svalutazione e inflazione e quindi comporta un costo del denaro molto elevato, perchè appunto chi presta soldi in lire sa che poi queste si svaluteranno e quindi chiede tassi di interesse alti. Andreatta dice che, liberandosi della lira, i tassi di interesse si ridurranno del 4% e questo costo del denaro più basso consentirà più spesa e investimenti.Ora che sono passati venti anni è più facile vedere l’errore di Andreatta. Nel 1995 i tassi di interesse erano in effetti alti sui Btp, e gli interessi sul debito pubblico si mangiavano il 10% del Pil e il 18% della spesa pubblica. Ma questi alti tassi venivano pagati per il 90% a famiglie (e imprese) italiane. Con l’euro, la maggioranza degli interessi sono andati a investitori esteri (che sono arrivati a detenere la maggioranza dei Btp). Oggi la maggioranza dei titoli di Stato sono in mano a banche, banche centrali e investitori esteri. E gli italiani che avevano Btp nel 1995 dove hanno messo i soldi? In maggioranza negli immobili, che sono raddoppiati di prezzo in termini reali da allora. Semplificando un poco, prima dell’euro, una casa costava 200 milioni di lire e i Btp pagavano un 10%, per cui le famiglie incassavano queste cedole e quando compravano casa avevano i soldi anche senza fare mutui all’80%. Con l’euro le famiglie hanno venduto i Btp e comprato case che costavano 200.000 euro (il doppio) facendo mutui all’80%, case che poi si sono deprezzate e su cui ora pagano l’Imu.Con l’euro il debito di famiglie e imprese è aumentato di più del 100%, da 900 a 2.000 miliardi, e come si sa il grosso dell’aumento è stato dovuto ai mutui per la casa. Tenendo conto dell’inflazione annuale, il debito privato è aumentato dal 90% circa al 130% circa del Pil. Questo è successo in praticamente tutti i paesi europei, dalla Finlandia alla Spagna, dalla Grecia all’Irlanda alla Francia (unica eccezione la Germania). Dal 1995, quando Andreatta parlava di liberarsi della lira, l’inflazione è scesa dal 6-7% al 2-3% negli anni dell’euro, quindi di un 3-4% (quasi come prevedeva Andreatta). Poi però l’inflazione è scesa anche sotto zero, e ora è circa uno 0%. I tassi sui Bot sono sprofondati allo 0% e quelli sui Btp all’1,8%. Il motivo però non è solo l’euro, ma anche e soprattutto il fatto che ora la Banca Centrale Europea e Bankitalia STANNO STAMPANDO MONETA PER COMPRARE BTP stanno stampando moneta per comprare Btp. Cioè stanno ora facendo esattamente quello che Andreatta diceva fosse la disgrazia della lira e che non sarebbe mai successo con l’euro. Se la banca centrale non stampasse moneta per comprare debito, il costo del Btp non sarebbe meno del 2%, ma probabilmente il 4 o 5% perchè incorporerebbe il rischio di default.Come mai? Perché con l’euro la produzione industriale è crollata in cinque anni del -25% e la spesa per consumi del -9% e così il Pil reale. Il motivo del crollo della produzione, del reddito e del Pil è che da quando è stato lanciato il progetto dell’euro, intorno al 1994-1995, la tassazione è diventata sempre più soffocante e ha costretto famiglie e imprese a indebitarsi. La tassazione è stata aumentata costantemente dai governi Amato, Ciampi, Dini e poi Prodi e anche Berlusconi, per finire con Monti per rientrare nei parametri dell’euro e poi per rassicurare gli investitori che il debito pubblico in euro sarebbe stato ripagato. Le cose sono andate in senso quasi opposto a quello che prevedeva Andreatta. Innanzitutto nel suo discorso non menzionava il costo REALE DEL DENARO reale del denaro, cioè il tasso d’interesse meno l’inflazione. Nel 1995 il costo reale era sul 4% perchè appunto i tassi d’interesse erano alti (intorno al 10%), ma anche l’inflazione era alta (intorno al 6%). Oggi questo costo del denaro non è quasi cambiato; per lo Stato ad esempio il costo medio del debito è il 3,8% ma l’inflazione è zero, quindi il costo reale è sempre intorno al 4%.Che il costo del denaro sia sceso con l’euro è un illusione, perchè se l’inflazione va da 6% a 0% ovviamente il costo reale non cala. Intanto però come si è visto si è accumulato molto più debito in percentuale del reddito, perchè senza crescita e senza inflazione il reddito o prodotto nazionale in euro è sempre lo stesso ormai da 10 anni. Il debito però ha un costo annuale reale appunto del 4% anche adesso che lo fa salire come percentuale del reddito. Per cui il risultato finale è che il peso reale del debito rispetto al reddito aumenta ora sempre. Al tempo in cui parlava Andreatta (1995) il peso reale del debito non aumentava, perchè sia il reddito reale che l’inflazione aumentavano, il Pil nominale dell’Italia aumentava in media negli anni ‘90 dell’8-10% l’anno, in cui per 3/4 era effetto dell’inflazione, ma questo impediva al debito di aumentare in proporzione.Il discorso di Andreatta è errato essenzialmente perchè per lui è come se il debito e le banche non esistessero e la moneta la creasse lo Stato quando spende troppo. In realtà, con l’euro si vieta allo Stato di creare moneta tramite i deficit, per cui le banche creano quasi tutto il denaro sotto forma di debito. Con Andreatta (e gli altri come lui) si è impedito allo Stato di fare deficit finanziati con moneta, qualcosa che è stato implementato in Italia in due stadi, prima nel 1981 vietando a Bankitalia di comprare debito e poi appunto con il Trattato di Maastricht. Questo è il principio base dell’euro, ma significa che devi anche aumentare le tasse per pagare gli interessi sul debito in euro, e in secondo luogo che tutto il denaro lo creano le banche come debito. Questo fa aumentare il peso del debito, rallenta l’economia, crea anche deflazione, aumenta ancora il peso del debito, aumenta il rischio di default e poi inevitabilmente devi anche aumentare le tasse con l’austerità per garantire dal rischio di default.Con l’euro si è creato un meccanismo in cui il debito privato aumenta fino al punto in cui si ha una crisi, le banche hanno perdite e riducono il credito, l’economia si ferma, l’inflazione si azzera, aumenta il peso reale del debito, aumenta il rischio di default, si impone l’austerità. E questo circolo vizioso di aumento del peso reale del debito, aumento di tassazione, deflazione e crisi non si ferma più. Ora, nell’ultimo anno qualcosa è effettivamente migliorato, ma perchè? Perchè la Banca Centrale Europea e Bankitalia stanno stampando moneta per comprare debito, riducendone sia il costo che l’ammontare. Cioè stanno facendo ora, nel 2015, quello che Andreatta nel 1995 diceva fosse il male dell’Italia, per evitare il quale ci si doveva liberare della lira. La conclusione è che abbiamo perso 20 anni e subito una crisi devastante perchè si è cercato di impedire che lo Stato facesse quello che deve fare, cioè creare moneta in quantità sufficiente perchè l’economia funzioni.(“Beniamino Andreatta 1995, liberiamoci della lira”, da “MonetAzione” del 31 luglio 2015Beniamino Andreatta spiegava nel 1995 perchè bisognava liberarsi della lira e affidare la politica monetaria a qualcuno “a duemila chilometri dal Parlamento italiano”, cioè a Francoforte. Il discorso di Andreatta è lineare, semplice che lo capisce anche la casalinga e ha una sua logica che convince. E’ sostanzialmente quello a cui aderiscono ancora oggi la maggioranza dei professori di economia italiani, da Monti a Draghi (che una volta era professore) a Gianpaolo Galli, a Rainer Masera, a Riccardo Puglisi, a Tommaso Monacelli a Michele Boldrin, Alberto Bisin, Salvatore Brusco. Il succo del discorso è che la lira è una moneta soggetta a svalutazione e inflazione e quindi comporta un costo del denaro molto elevato, perchè appunto chi presta soldi in lire sa che poi queste si svaluteranno e quindi chiede tassi di interesse alti. Andreatta dice che, liberandosi della lira, i tassi di interesse si ridurranno del 4% e questo costo del denaro più basso consentirà più spesa e investimenti.
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Votate chiunque tranne il Pd, vero nemico storico dell’Italia
Probabilmente chi simpatizza per il Pd, una volta letto il titolo, non leggerà il pezzo, indignato. Ma farebbe molto male, perché la lettura potrebbe risultargli utile per capire il clima con il quale il Pd (ma forse il “Partito della Nazione”) dovrà misurarsi sempre più nei prossimi anni e perché. Comunque, fate pure come vi pare, sono abituato a dire quello che penso senza giri di parole. E allora, perché sostengo che il Pd sia il nemico peggiore? Per tre ragioni fondamentali: la politica economica, la politica sociale, la democrazia e la corruzione. Politica economica: il Pd, sin dal suo appoggio al governo Monti di infelice memoria, poi con il governo Letta e ora con il governo Renzi, sta perseguendo una politica fiscale che sarebbe demenziale, se non fosse deliberatamente finalizzata alla svendita del paese. Le aziende grandi e piccole soffocano e muoiono sotto il peso del prelievo fiscale e dei tassi giugulatori delle banche, l’occupazione si assesta a livello drammatici e, pur se di poco, peggiora costantemente, incurante della cosmesi dei conti fatta dal governo.Il Pd è il partito del capitale finanziario straniero che deve liquidare il patrimonio immobiliare degli italiani, per poi fare ugualmente fallimento. E’ il partito che ha svenduto Bankitalia e si appresta a svendere i pezzi nobili di Eni e Finmeccanica. L’Italia è, per colpa del Pd, terreno di caccia dei capitali francesi, americani, cinesi, quatarioti ecc. Peggio non potrebbe fare. La politica sociale non ha bisogno di commenti: il Jobs Act e la recente riforma della scuola fanno quello che la destra berlusconiana non osava neppure immaginare. La democrazia: il Pd – e prima di lui il Pds e i Ds – da venti anni guida l’attacco alla Costituzione, liquidando prima di tutto la legge elettorale proporzionale, che ne era l’architrave, poi intaccandone più pezzi, ora con un disegno organico di sistema costituzionale da repubblica del centro America. Il Partito si è conseguentemente evoluto in “partito del leader”, avendo trovato in Renzi il volenteroso Caudillo.Nel campo della giustizia ha osato anche più di Berlusconi, con una politica punitiva dei magistrati, finalizzata non ad un miglioramento della macchina giudiziaria del nostro paese ma, al contrario ad un suo peggioramento e alla subordinazione del potere giudiziario all’esecutivo. La corruzione: per anni il Pci-Pds-Ds-Pd ha goduto di una sorta di rendita di posizione di “partito della questione morale” che lo ha messo al riparo dalle ondate di protesta e dalle inchieste di una magistratura amica, troppo amica. Il risultato è stato che, al confortevole riparo di questo scudo è crescita una classe politica di lestofanti peggiore di quella del Pdl di triste memoria. Mose, Expo, Mafia Capitale, Cooperative: tutti i maggiori casi più recenti di corruzione hanno visto gli uomini del Pd in prima fila e talvolta esclusivi attori. Ora piovono avvisi di garanzia, ma in troppi fanno ancora finta di niente. Possiamo continuare così?C’è poi un motivo in più, di ordine per così dire “estetico” che mi induce a guardate la Pd come al peggiore di tutti i mali: che la destra faccia il mestiere della destra è giusto che sia così, non mi indigno certo se Salvini fa certe sparate sugli immigrati, sono un suo avversario politico dichiarato e combatto le sue deliranti proposte, allo stesso modo in cui riconosco in Berlusconi un aperto avversario da contrastare senza incertezze, ma il Pd è peggiore perché non è meno di destra degli altri, anzi lo è di più, ma si ammanta di un falso sembiante di sinistra per abbindolare quei babbei che ancora ci credono e lo votano, pensando di sostenere la reliquia del Pci. Svelare il trucco e spezzare l’imbroglio diventa una operazione di pulizia morale, prima ancora che politica. Tutto ciò premesso – e aspettando di essere contestato nel merito delle accuse che muovo al partito di Renzi – non vi sembra che sarebbe molto salutare per il paese un voto che segni una inversione di tendenza, con un iniziale calo elettorale del Pd? Qualcosa che lo avvii alla sconfitta nelle prossime politiche?Per anni abbiamo vissuto sotto l’eterno ricatto del “se-no-vince-la-destra”. Il risultato è stata la fine della sinistra. Non vi sembra l’ora di rigettare il ricatto e colpire la destra peggiore? Io, come si sa, voto M5S: non ve la sentite? Va bene, non votate M5S, votate Sel, ma, se non siete di sinistra, votate Forza Italia (tanto siamo alla fine) e persino Salvini, Fratelli d’Italia (tanto non vanno al di là di una certa soglia e, comunque, siamo ad elezioni amministrative) o chi vi pare (dipende da quanto sono orrendi i vostri gusti). Arrivo a dire persino Alfano o Sc: è un voto perfettamente inutile, ma è innocuo e comunque sono voti sottratti al Pd. E magari, se proprio non sapete chi possa essere il “meno peggio”, disperdete il voto scegliendo la classica lista del fiasco (evitate però cose come Forza Nuova o Casa Pound: non esageriamo!). Tutto, ma puniamo il Pd. E’ probabile che il lettore del Pd non sia arrivato sino a questo punto dell’articolo, vinto dal mal di stomaco: pazienza, come dire: “ce ne faremo una ragione”. Ma agli altri, a chi sente di poter condividere questo punto di vista, chiedo una cosa: segnalate il pezzo agli amici per mail o nei social, fatelo vostro e riprendetene le argomentazioni, non mi interessa neppure essere citato, ma iniziamo insieme una campagna virale contro il Pd.(Aldo Giannuli, “Perché il nemico da battere è il Pd”, dal blog di Giannuli del 10 maggio 2015).Probabilmente chi simpatizza per il Pd, una volta letto il titolo, non leggerà il pezzo, indignato. Ma farebbe molto male, perché la lettura potrebbe risultargli utile per capire il clima con il quale il Pd (ma forse il “Partito della Nazione”) dovrà misurarsi sempre più nei prossimi anni e perché. Comunque, fate pure come vi pare, sono abituato a dire quello che penso senza giri di parole. E allora, perché sostengo che il Pd sia il nemico peggiore? Per tre ragioni fondamentali: la politica economica, la politica sociale, la democrazia e la corruzione. Politica economica: il Pd, sin dal suo appoggio al governo Monti di infelice memoria, poi con il governo Letta e ora con il governo Renzi, sta perseguendo una politica fiscale che sarebbe demenziale, se non fosse deliberatamente finalizzata alla svendita del paese. Le aziende grandi e piccole soffocano e muoiono sotto il peso del prelievo fiscale e dei tassi giugulatori delle banche, l’occupazione si assesta a livello drammatici e, pur se di poco, peggiora costantemente, incurante della cosmesi dei conti fatta dal governo.
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Maastricht? Non ci risulta: la rovina dell’Italia siamo noi
L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.I governi che si sono succeduti a partire dagli anni ottanta, scrive Davanzati su “Micromega”, hanno rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria, fidando nella filosofia del “piccolo è bello”. La costante riduzione della domanda interna, aggiunge l’analista, è derivata non solo dalla riduzione di consumi e investimenti privati, «ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale». Chi e perché ha indotto quelle politiche? Davanzati non lo spiega, preferendo concentrarsi sul loro esito disastroso: i tagli alla spesa hanno indebolito il sistema e il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, mettendo in crisi la maggioranza delle aziende (medio-piccole), fortemente dipendenti dal credito bancario. Poi, la crisi dei mutui subprime negli Usa è rimbalzata nella cosiddetta crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona, con caduta della domanda globale, riduzioni dell’export, austerity, esplosione paurosa della disoccupazione.Unica mossa tentata: detassare e precarizzare il lavoro. Misura ingiusta e comunque insufficiente: «Se le aspettative sono pessimistiche gli investimenti non vengono effettuati e il solo effetto che può verificarsi è un aumento dei profitti netti». Giocare al ribasso, inoltre, disincentiva l’innovazione delle imprese. Servirebbe il contrario del Jobs Act, e cioè regole rigide e tutele per i dipendenti. Davanzati cita Keynes: «Se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale». In altri termini, sostiene Davanzati, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione che aiuta le imprese a migliorare e crescere, puntando proprio sull’innovazione, senza contare che salari più alti «contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo virtuoso di alta domanda ed elevata produttività».E’ esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio, chiosa Davanzati. Già, ma perché è accaduto? Italiani pasticcioni o traviati da manovratori occulti? Nino Galloni, economista della Sapienza e già super-tecnico al ministero del bilancio, chiarisce: prima ancora del terremoto della globalizzazione, i guai veri per l’Italia sono cominciati nel 1981, quando la Banca d’Italia ha cessato di fare da “bancomat del governo”, costringendo l’esecutivo ad avvalersi dei titoli di Stato, acquistati dalla finanza internazionale, come fonte primaria di finanziamento pubblico. Immediata l’esplosione del debito, divenuta catastrofica con l’adozione dell’euro, moneta non più emessa dall’Italia. Galloni sintetizza: l’Italia non stava sulla luna, ma nell’Europa in cui la Francia di Mitterrand impose l’euro alla Germania che voleva la riunificazione tedesca del 1989. Kohl accettò a una condizione: che venisse sabotato il sistema industriale italiano, cioè il maggior concorrente dell’export di Berlino. A valle, quindi, gli inevitabili “errori” nella politica industriale, gli “incomprensibili” ritardi, i fallimenti a catena.Craxi fu il primo a profetizzare che, con Maastricht, l’Italia ci avrebbe rimesso le penne. Andreotti provò a resistere. E Galloni racconta che lo stesso Kohl fece pressioni, personalmente, per allontanare dal governo i funzionari come Galloni, che i “titoli di coda” per l’economia nazionale li avevano già visti alla fine degli anni ‘80. Fino a qualche anno fa, il fatidico meeting del Britannia per la svendita dell’Italia e la sua deindustrializzazione forzata era relegato tra le pieghe della letteratura “cospirazionista”, così come le pagine di libri usciti in questi anni, per esempio “Il golpe inglese”, di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino (Chiarelettere). A bordo del Britannia nel ‘92 c’era Draghi, allora al Tesoro, poi promosso governatore di Bankitalia e oggi alla guida della Bce. Ciampi, al vertice della Banca d’Italia all’epoca del divorzio dal governo, venne eletto addirittura al Quirinale. Nessi impossibili da ignorare, a proposito di “strano” declino del made in Italy.Un altro luogo comune, citato dallo stesso Davanzati che parla di “ipertrofia” dell’apparato pubblico (in linea con la retorica padronale di Renzi), riguarda il presunto peso della pubblica amministrazione: secondo l’Eurispes, in Italia si contano 58 impiegati pubblici ogni 1.000 abitanti contro i 135 della Svezia, i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito, i 65 della Spagna e i 54 della Germania. Inoltre, negli ultimi 10 anni l’Italia ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri hanno assunto: +36,1% in Irlanda, +29,6% in Spagna, +12,8% in Belgio e +9,5% nel Regno Unito. Il pubblico impiego da noi pesa per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche in questo caso, la vituperata burocrazia pubblica italiana si attesta in realtà su numeri tra i più bassi in Europa: in Danimarca il costo del pubblico impiego è pari al 19,2% del Pil, in Svezia e Finlandia al 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del Pil. Tutti, ma proprio tutti, più dell’Italia.Paolo Barnard ha spesso citato analoghe statistiche sul tasso di produttività: quello dei lavoratori italiani surclassa, storicamente, la capacità produttiva dei mitici lavoratori tedeschi. Com’è noto, Barnard si distingue per l’acutezza spietata dall’analisi: il sabotaggio dell’economia italiana a vantaggio dell’élite finanziaria straniera, con la necessaria complicità di “collaborazionisti” nostrani ricompensati con carriere d’oro, si sviluppa negli ultimi decenni in perfetta ottemperanza del famigerato “Memorandum” di Lewis Powell, l’avvocato di Wall Street incaricato già all’inizio degli anni ‘70 di stilare un vademecum per consentire agli oligarchi di liquidare la sinistra negli Usa e in Europa. Istruzioni eseguite alla lettera: “comprare” i leader di partiti e sindacati per indurli a varare norme contro i lavoratori, infiltrare università, giornali, televisioni e sistema editoriale per forgiare il dogma del pensiero unico neoliberista, cioè la fine dello Stato sovrano, la Costituzione democratica nata dalla Resistenza per tutelare i cittadini con pari diritti e pari opportunità.Con Renzi siamo all’atto finale, la privatizzazione universale definitiva. Non manca chi invoca una politica diversa e magari salari più alti. Già, ma con che soldi? Senza più moneta sovrana, lo Stato ora è in bolletta ed è costretto a super-tassare: lo Stato “risparmia”, quindi condanna aziende e famiglie. Siamo arrivati al puro delirio del pareggio di bilancio: lo Stato ridotto a colonia, impossibilitato a spendere, costretto a restituire ogni centesimo e con gli interessi, come se non fosse più un ente pubblico ma una semplice azienda privata, una normale famiglia alle prese con un debito contratto con la banca. Eppure, il mainstream continua a trascurare la portata termonucleare dell’euro-cataclisma, la fine dell’interesse pubblico, la morte clinica degli investimenti capaci di produrre occupazione. E in pieno 2015 preferisce continuare a parlare di errori, ataviche pigrizie e imperdonabili miopie nella piccola e provinciale Italietta, incapace – per tara genetica – di sviluppare una seria politica industriale.L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.
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La vera storia della fine di Craxi e l’euro-rovina dell’Italia
L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.Tutto questo costo dove viene trasferito? Nel finanziamento illecito. Che invece di essere un fenomeno sopportabile perché residuale al grosso del finanziamento della politica, diventa un dramma, perché tutto costa il triplo. E come reagisce il sistema italiano a tutto questo? Non reagendo. Cioè, invece di capire che deve correre ai ripari, si fa cogliere di sorpresa. Da che cosa? Da una casta, che era stata toccata nei suoi interessi, e reagiva: era la casta dei magistrati. Dopo il caso Tortora, e dopo aver cercato più volte di prendere il sopravvento sulla politica – ma non ci riusciva, perché allora c’erano delle garanzie come l’immuità parlamentare, dei limiti al suo potere – i magistrati sferrano l’attacco di Tangentopoli avendo diversi obiettivi. Il primo, la reazione di casta al referendum che Craxi gli aveva fatto, sulla responsabilità dei magistrati – referendum vinto ma non eseguito, perché in quel rederendum si aboliva il fatto che i magistrati non rispondessero nei loro errori. E i magistrati allora hanno preteso, tramite i due maggiori partiti e mettendo in minoranza Craxi, che invece, pur riconosciuti responsabili dei loro errori, non li pagassero – né sul piano della carriera, né sul piano economico.L’attacco sferrato con Tangentopoli aveva un primo obiettivo: far cadere l’immunità parlamentare, che aveva sempre frenato l’attacco della magistratura. Bisognava poterli arrestare, i politici. Bisognava poter adoperare la carcerazione preventiva, in quella maniera, per poi stabilire il predominio, l’abuso. La carcerazione preventiva (obbligatoria per reati come omicidio e rapina) è prevista se c’è pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Viceversa, la carcerazione preventiva non si può applicare, perché “nulla pena sine condanna”, niente pena senza prima una condanna, non del pubblico ministero ma del giudice. Pensate che nel 1994 la Cassazione, per salvare tre mandati di cattura assolutamente illegittimi di Di Pietro, fece una sentenza di questo tipo, a sezioni unite: la custodia cautelare è sempre giustificata se l’imputato non confessa. E’ come il famoso comma 22 del codice militare tedesco nazista, che diceva: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dal servizio militare, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo. E’ la legge perfetta, perché il cerchio si deve chiudere.La custodia cautelare sempre giustificata se l’imputato non confessa? Di fronte a una sentenza di questo tipo, uno si deve chiedere qual è l’utilità del processo. In Italia, la custodia cautelare viene adoperata per scopi istruttori o per anticipare la pena. Ormai, il reato del politico che ruba è diventato odioso, agli italiani. Tant’è vero che gli italiani, da decenni, accettano dei politici incapaci, purché non rubino. Pensate a quanto stareste meglio se aveste dei politici capaci, che rubano. Il problema di uno che fa un lavoro è che sia bravo, non che sia onesto. Onesto è una conseguenza dell’essere bravo. Scipione l’Africano fu condannato per corruzione. In ogni posto del mondo vedo politici che vanno sotto processo: è giusto che vengano condannati, è giusto che vadano in galera. Quello che non è giusto è che vengano utilizzati dalla comunicazione per far passare sotto silenzio delle altre cose. Il problema di uno Stato che non funziona non è la corruzione. Non è il politico disonesto: è l’incapacità. Perché una persona anche onesta, ma incapace, lo Stato lo fa andare a rotoli lo stesso. Oggi pretendono che non ci siano pregiudicati. Io la metterei in altri termini: non devono esserci persone condannate che non hanno scontato la pena.In uno Stato laico, una volta che hai scontato la pena, tu il debito con la società l’hai pagato. Devi scindere il piano etico, pure importante, dal piano pratico: la giustizia deve funzionare. E la giustizia non va avanti sulla verità, va avanti su un fatto convenzionale che si chiama verità processuale, che non è necessariamente la verità. Ma l’azione di Mani Pulite aveva un bersaglio principale, che era Craxi, perché Craxi aveva detto di voler fare parecchie cose. Per esempio, nazionalizzare la Banca d’Italia. E di chi è la Banca d’Italia? E’ delle banche. E le banche di chi sono? Finanza massonica e finanza cattolica. Ma c’è un altro problema: la Banca d’Italia, all’epoca, era il controllore delle porcate che facevano questi, che erano controllati e controllori: erano i proprietari della Banca d’Italia, che avrebbe dovuto controllarli. Quindi, Craxi si mette contro un bel po’ di nemici. Si mette contro il potere bancario, forse il potere tout-court. Si mette contro i preti, perché vuole riformare pure i Patti Lateranensi – sapete come sono i preti: finché uno gli bestemmia davanti, gli danno 25.000 pater noster, ma gli vuoi far pagare le tasse s’incazzano.Dopodiché si scopre, tramite il caso Gelli, che Craxi finanziava Arafat. Perché i famosi 2 miliardi che Craxi dice a Martelli di prendere da Gelli e di versare sul “Conto Protezione”, cosa che non vi dicono, un minuto dopo sono stati presi da Craxi per darli ad Arafat, cioè ai palestinesi. E’ sottile il confine tra terrorismo e insurrezione: Pietro Micca che fa saltare mezza Torino mettendo le bombe nei sotterranei per noi è un patriota, mentre un terrorista palestinese è un terrorista. Pietro Micca lottava per la sua terra, perché l’Italia fosse unita; i palestinesi perché esista una Palestina: uno ha messo le bombe ed è un eroe, quegli altri mettono le bombe e per noi sono dei mascalzoni. Ricordiamoci dell’Achille Lauro, e qui c’è un’altra cosa che non vi dicono: l’operazione Achille Lauro era mirata a colpire il Mossad decapitando il “B’nai Brit”, la massoneria ebraica, che ha le caratteristiche di tutte le massonerie: come la massoneria americana funziona in stretta alleanza con la Cia, il “B’nai Brit” è la parte segreta dei servizi israeliani, cioè del Mossad. Il capo dei “B’nai Brit” – e questo è quello che non vi dicono – era quel signore sulla sedia a rotelle che i palestinesi buttarono giù dalla nave. Si chiamava Leon Klinghoffer. I giornali scrissero che la vittima era un povero paralitico, ma non dissero chi era veramente.Tornando a Craxi: fin qui si è inimicato le banche, i cattolici, gli ebrei; poi dà parere negativo al riconoscimento dei comunisti nell’Internazionale Socialista; poi Reagan gliela giura, perché a Sigonella ha mandato i carabinieri a puntare le armi sui marines (per proteggere il commando palestinese dell’Achille Lauro), quindi ha contro anche gli americani, e parte della massoneria: perché Spadolini, che era uno dei capi della massoneria italiana, era dell’opinione che bisognasse aiutare Reagan, e quando chiese alla massoneria ufficiale di prendere posizione, e la massoneria non lo fece, Spadolini si mise “in sonno”, e trasformò Craxi in un problema anche per la massoneria. A quel punto, Craxi era uno che non poteva attraversare la strada neanche sulle strisce pedonali. Per cui, nel momento in cui la magistratura fa sapere che sta per fottere Craxi – e qui trovate traccia di quei famosi incontri dei servizi segreti con Di Pietro e gli americani – ognuno ci mette del suo per darle una mano. Così, Craxi finisce ad Hammamet.Ad Hammamet, Craxi ci finisce anche per un uleriore motivo: era antipatico. La sua principale sconfitta? Non essere riuscito a superare il 15%. Alla gente stava sulle palle. Qui non c’erano complotti: Craxi non sfondava sul piano del consenso popolare – poi bisognerebbe interrogarsi sulla qualità di un popolo che vota Berlusconi e non Craxi. In ogni caso, visto che più del 12-13% non otteneva, Craxi ha perso anche per colpa sua: se fosse stato più forte, questa facilità nel farlo fuori non ci sarebbe stata. Resta però un fatto: c’era stata una riunione su una bellissima barca inglese parcheggiata vicino a Roma, ad Anzio, in cui si erano incontrate dieci, quindici, venti persone, e avevano deciso che l’Italia stava diventando troppo forte, con Craxi. L’Italia era arrivata tra i primi 5 soggetti economici del mondo. Aveva fatto la richiesta ufficiale per fare il G5; esisteva il G7 e adesso c’è il G4, fatto apposta per escludere l’Italia che voleva il G5. Soprattutto, siccome era stata decisa dalla finanza internazionale l’operazione euro, in Italia serviva una persona che avesse un’ampia disponibilità a “mettersi a 90 gradi”, e questa persona non era Craxi.Un minuto dopo che hanno fatto l’euro, Craxi ha dichiarato alle telecamere che l’euro sarebbe stato una sciagura. Lo sapeva anche prima. Ma lo sapevano anche loro, che se andava Craxi – e non Prodi – a rappresentare l’Italia, non sarebbe mai passato quel tasso di cambio euro-lira. Non ce l’avrebbero mai fatta, a imporcelo. Mai. Dunque il problema era questo, e l’operazione è andata a buon fine. E, facendo l’operazione Craxi, sono stati regolati anche altri conti: i vecchi conti Sindona, Gelli, Calvi. Soprattutto, tutti quei paraculi della Dc che pensavano che facessero fuori solo Craxi e non anche loro, hanno dovuto pagare dazio. Chi non ha pagato? I comunisti, che hanno fatto passare la teoria che Greganti fosse un ladro, e loro non c’entrassero niente. Sapete chi l’ha fatta, quell’operazione? Un magistrato che è morto, Gerardo D’Ambrosio, che poi è diventato senatore dell’ex Pci. Siccome un altro giudice, Tiziana Parenti, voleva mettere in galera mezzo Partito Comunista, come vice-procuratore generale D’Ambrosio ha avocato a sé l’indagine e l’ha chiusa così, con Greganti unico colpevole. Poi è diventato senatore del Pd.Perché Craxi si è lasciato distruggere senza difendersi, cioè senza svelare all’opinione pubblica italiana tutti questi retroscena? All’inizio a dire il vero ha provato a difendersi, in Parlamento. Disse: «Chi di voi può dire di non aver fatto tutto quello che ho fatto io, si alzi in piedi». E non si è alzato nessuno, neanche i leghisti. Poi, però, a Craxi sono stati minacciati i figli. Craxi aveva già deciso di andare in televisione e di tirar fuori tutta una serie di carte. Tra queste c’era un famoso “Dossier Di Pietro”, che riteneva la carta vincente finale, perché dimostrava che Di Pietro era il prodotto di quel tipo di organizzazione. Per fare questa operazione chiamò Mentana, al Tg5, ma lo chiamò direttamente, senza passare per Berlusconi, perché Mentana tempo prima era stato collocato a Rai2 da Craxi. Poi chiamò Paolo Mieli per fare un’intervista di due pagine sul “Corriere della Sera”. Dopodiché chiamò la Rai per un’intervista che avrebbe dovuto fare prima con Giancarlo Santalmassi, poi con Minoli, e che poi invece non fece. Perché quella notte successero tre cose.A casa della figlia Stefania si introdussero delle persone che bruciarono tutti i suoi vestiti. A casa di suo figlio Bobo si recarono delle persone che razziarono tutto quello che c’era. E nella sua casella della posta trovò un messaggio con scritto che, se avesse fatto quelle interviste, avrebbero pagato i suoi figli. Una delle cose che nessuno vi dice, che non sono mai state pubblicate e che vi dico io, è che era lo stesso messaggio che avevano ricevuto altri personaggi di Tangentopoli, che avevano deciso di parlare e si sono suicidati. A quel punto, Craxi decise di telefonare a Cossiga, il quale aveva un grosso complesso di colpa nei suoi confronti, perché sapeva cosa stava accadendo, tant’è vero che si era precipitato a fare senatori a vita Giulio Andreotti e Gianni Agnelli, per evitare che in Tangentopoli ci finissero dentro anche loro, ma non si era premurato di avvisare Craxi. Cossiga a sua volta contattò il capo della polizia dell’epoca, che si chiamava Vincenzo Parisi, il quale fece un’abile opera di mediazione tra Di Pietro, il pool di Mani Pulite e Craxi, per concordare la latitanza: Craxi se ne sarebbe andato ad Hammamet normalmente, non avrebbe parlato, e solo tre mesi dopo ci sarebbe stato l’ordine di carcerazione.I magistrati sapevano benissimo che Craxi sarebbe andato ad Hammamet col suo passaporto, e il ministero degli esteri concordò con Ben Alì – che era il dittatore della Tunisia – che l’Italia non avrebbe mai avviato una richiestra di estradizione. Craxi si tenne la libertà di parlare una volta ad Hammamet, ma in Italia no: la minaccia verso i figli l’aveva ritenuta concreta. Molta gente si era ammazzata, attorno a Mani Pulite. O forse era stata ammazzata. Io ero coinvolto nel processo a Raul Gardini e, come avvocato, avevo accesso a documenti non pubblicati. Era la prima volta che vedevo qualcuno che si suicida sparandosi due proiettili mortali alla tempia. Due, capite? Non possono essere entrambi mortali. Se uno si spara un colpo in testa, come può spararsi anche un secondo colpo? Forse Gardini stava per rivelare il nome di chi portò il famoso miliardo a Botteghe Oscure? Chi lo sa.Il potere è astratto, è automatico. Ci sono meccanismi nei quali entri e magari ti ammazza il nemico che meno ti aspetti: tu non sai che calli stai pestando, di chi sono, perché, da dove vengono quei soldi, chi è in affari con chi. Magari pensi di fare uno sgarbo a Tizio, e s’incazza Caio, che non sapevi fosse in affari con quello. I meccanismi del potere sono di una complessità inaudita. Non è una vita facile, quella di chi sceglie di stare nel potere. Certo, sai sempre come pagare le bollette, però non sai mai da dove ti arrivano le coltellate. Quando Craxi ha accettato di deporre al processo Cusani, quando già l’accordo l’avevano fatto, Di Pietro è stato criticato perché l’interrogatorio era mite, era troppo rispettoso. In realtà era il segnale che aveva chiesto Craxi a Parisi per non fare le interviste. Disse: «Io le interviste non le faccio. Ma, a parte il fatto che lasciate in pace i miei figli, non voglio finire in galera. Perché se finisco in galera, e so come sono fatto, poi m’incazzo, parlo, e m’ammazzano i figli. O ammazzano me». Una tazzina di caffè: com’è morto Sindona? Com’è morto Papa Giovanni Paolo I? Ti portano una camomilla le monache: è perfetto.Con Craxi, è stato eliminato chi era capace. La disonestà? Bettino Craxi non era ricco. Il famoso tesoro di Craxi non l’hanno trovato perché non è mai esistito. I 13 miliardi che gli hanno trovato sul famoso conto svizzero erano i soldi del partito. Mentre i grandi partiti i conti del finanziamento illecito li intestavano ai segretari amministrativi, i piccoli partiti li intestavano ai segretari politici – il conto del Pri era intestato a Giorgio La Malfa, che ha avuto i suoi guai, come Renato Altissimo del Pli. Craxi, quando passò le consegne a Del Turco, cercò di passargli anche i conti; ma Del Turco, che era un po’ fifone, disse “no, non li voglio”, non scordandosi che un conto simile l’aveva quand’era segretario generale della Uil, perché anche i sindacati facevano i finanziamenti illeciti.Siamo un paese strano: ci colpevolizzano col debito pubblico, senza tenere conto del fatto che abbiamo il massimo risparmio privato europeo e il più alto numero di proprietari di case. Questo dovrebbe contare, per la solidità del sistema, e invece quando vanno a trattare in sede Ue si calano le brache, compreso l’ultimo, Renzi, che sembra un pretino, un seminarista di trent’anni fa. Un leader forte, l’Italia non se lo può permettere, perché una delle caste italiane se lo sbrana. Questi pretini spretati hanno paura di fare la fine dei Craxi. Meglio calarsi le brache e tirare a campare, poi si vedrà. C’è questo cortocircuito, in cui il nostro sistema non difende più l’istituzione. Quando hanno scoperto un sacco di magagne su Kohl, i tedeschi l’hanno mandato a casa, non in galera: perché era Kohl. E quando sono state scoperte un sacco di magagne su Mitterrand, i francesi – compresa l’opposizione – non l’hanno mandato in galera, l’hanno mandato a casa.Da noi, Craxi è stato mandato ad Hammamet, senza tener conto che aveva rappresentato un’istituzione. E lo stesso sta succedendo a Berlusconi – che a me non è simpatico, non l’ho mai votato, però non posso immaginare che uno, quando fa il presidente del Consiglio, abbia i carabinieri appostati alla porta per vedere con chi scopa, perché non c’è rispetto – non verso ciò che uno è, che sono fatti suoi – ma ciò che uno rappresenta, che sono anche fatti miei. E se uno mi rappresenta indegnamente io lo mando a casa, non in galera, perché mandandolo in galera sputtano anche me, indebolisco la mia economia, il mio sistema. Invece qui, pur di prenderne il posto e farsi la guerra (non vale solo per Berlusconi, l’ha fatto anche lui agli altri) vige questa mentalità, per cui oggi magari l’idea è quella di fottere Renzi per mettersi al posto suo, e per fottere Renzi o Berlusconi o D’Alema ci si allea con i nemici dell’Italia, con la stampa estera per sputtanarli, con i parlamentari europei per attaccarli. Ma che logica è? Che popolo siamo?(Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.
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Carpeoro: l’infame complotto degli italiani contro se stessi
L’Italia, oggi, sicuramente ha come nemico i poteri forti. Ma coloro che si dovrebbero opporre a quei poteri fanno tutt’altro. Il problema vero di questo paese non è di storia criminale, ma di storia non governata. Non è che siamo governati male: non siamo governati – il che, per certi aspetti, è peggio: forse, essere governati male è meglio che non essere governati. Certo, l’ideale sarebbe essere governati bene. Ma sapete cos’è necessario, per essere governati bene? Bisogna che, alla fine, qualcuno abbia il potere di decidere; che si sappia chi è che decide; e che il potere democratico, se le decisioni di questa persona si dimostrano sbagliate, la volta successiva lo lasci a casa. Vorremmo che la nostra vita fosse scandita da certezze, che non abbiamo: non abbiamo certezza nella giustizia e non abbiamo certezza nel nostro potere economico, perché non sappiamo chi lo governa. Non più la Banca d’Italia. La Banca Centrale Europea? Sì, ma chi la governa? Siamo sicuri che la governi quello che sembra che la governi adesso?
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Cancellare il debito? No: trasformarlo in debito sovrano
In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.«Mettiamola in questi termini», riassume Marcello Foa: oggi la Bce «stampa più moneta per permettere alle banche centrali nazionali di comprare titoli di Stato, ovvero debito pubblico, con lo scopo dichiarato di rilanciare l’economia (crescita del Pil) e lo scopo effettivo immediato di sgravare i bilanci delle banche private». Se il “quantitative easing” può essere considerata «un’aberrazione, in quanto viola le leggi di mercato basate sulla domanda e sull’offerta», lascia però intatta «la vera catena che imprigiona le asfittiche economie occidentali: quella del debito», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, equiparando quindi paesi occidentali con debito sovrano – Usa e Gran Bretagna – a paesi con debito non più sovrano, cioè i membri dell’Eurozona. In realtà, spiega un economista come Nino Galloni, il debito pubblico italiano è diventato «una catena» soltanto a partire dal 1981, con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia: fino ad allora, infatti, il debito pubblico era stato ciò che dovrebbe essere, e che è tuttora nei paesi sovrani: la più importante leva strategica di sviluppo, attraverso la quale un paese produce investimenti (a deficit) destinati a far crescere l’economia in modo diffuso.«Se la Ue e la Bce volessero davvero rilanciare l’economia – aggiunge Foa nel suo post – dovrebbero avere il coraggio di andare fino in fondo, ovvero non di stampare moneta per comprare debito ma di stampare moneta per cancellare il debito, accompagnando questo passo da misure altrettanto rivoluzionarie e benefiche come la simultanea riduzione delle imposte sia sulle imprese che sulle persone fisiche e magari varando investimenti infrastrutturali». Qui, ancora, Foa non spiega di che debito parla: se il debito è sovrano non può costituire un problema, come dimostra il debito del Giappone al 250% del Pil. Sarebbero certo “rivoluzionario” cancellare il debito non-sovrano, quello cioè accumulato da quando in paesi dell’Eurozona hanno cessato di indebitarsi in proprio, cioè “anticipando” denaro alle rispettive comunità nazionali, e preferendo acquistare denaro – ad alti tassi di interesse – presso il mercato finanziario privato internazionale. Quindi il problema non è il debito in sé, ma la fonte del debito: se lo Stato si è indebitato coi suoi cittadini (ha speso denaro per loro, in anticipo) il problema non esiste. Se invece i soldi li ha acquistati sui “mercati”, gli interessi sono da ripagare. Se poi lo Stato non ha più la possibilità di intervenire con emissione di valuta propria, allora il collasso è garantito. Di qui la stretta fiscale, per spremere denaro ai cittadini anziché anticiparglielo come avveniva un tempo.«Oggi – riconosce Foa – l’Italia è già in avanzo primario, ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa, ma il debito pubblico continua a salire perché la spesa pubblica è gravata dagli interessi sul debito». Interessi, appunto, contratti coi mercati finanziari internazionali: quelli verso cui, grazie a Ciampi e Andreatta, l’Italia si orientò improvvisamente nel 1981, disponendo che la banca centrale cessasse di finanziare il governo a costo zero, come aveva sempre fatto. Da allora, il debito pubblico è diventato un dramma, aggravato negli ultimi anni dalla catastrofe dell’euro, su cui la nazione non ha alcuna possibilità di governo. «L’Italia – conclude Foa – è in una spirale da cui difficilmente uscirà, per quanti sforzi faccia. Ma questo né la Ue, né la Bce, né il Fmi lo ammetteranno mai; anzi, continuano ad alimentare la retorica delle riforme, ovviamente strutturali». Foa sogna un “giubileo del debito”, col taglio lineare di un terzo dell’attuale euro-debito di ogni paese e simultanea riduzione delle imposte per un periodo di almeno 5 anni.«Basterebbe una semplice operazione contabile creando denaro dal nulla (ovvero con un semplice click, come peraltro si apprestano già a fare), per togliere definitivamente dal mercato una parte del debito pubblico», scrive Foa, secondo cui il risultato sarebbe «un boom economico paragonabile agli effetti di un nuovo Piano Marshall». Starebbero meglio tutti, dice Foa: «I consumatori che si troverebbero con più liquidità in tasca, le aziende che sarebbero fortemente incentivate a investire nella zona Ue, lo Stato che troverebbe le risorse sia per le grandi opere che per altre riforme. Le stesse banche private che non sarebbero più costrette a comprare titoli di Stato pubblici e vedrebbero diminuire drasticamente le sofferenze bancarie nel giro di pochi mesi proprio grazie alla ripresa dell’economia reale». La macchina, insomma, si rimetterebbe in moto. «A “rimetterci” sarebbero solo la Bce, la Commissione Europea e analoghe istituzioni transnazionali, il cui potere implicito di condizionamento si ridurrebbe drasticamente».Questo è appunto il motivo per cui tutto ciò non avverrà: quel “potere di condizionamento” è esattamente la ragione sociale dell’euro, piano strategico concepito per togliere allo Stato la facoltà sovrana di spesa pubblica, cioè di produrre debito pubblico strategico (deficit positivo) senza il quale, dall’avvento della moneta moderna, nessun paese al mondo può garantire benessere diffuso. La demonizzazione del debito è tipica del neoliberismo, che vuole spogliare lo Stato della sua sovranità e ridurlo in bolletta, come una qualsiasi azienda o famiglia, dipendente dal sistema finanziario privato. Il liberismo teme lo Stato, in quanto pericoloso concorrente economico: il debito pubblico “deve” quindi diventare un problema, in modo che lo Stato ceda i suoi asset strategici e si rassegni alla loro privatizzazione. La via d’uscita non è dunque la cancellazione del debito – gli investimenti di cui parla Foa si possono realizzare solo mediante deficit – ma l’eliminazione del debito non sovrano. Missione impossibile, se si resta nel lager monetario chiamato euro, appositamente progettato dall’élite finanziaria perché gli Stati permanessero all’infinito sotto il ricatto di un debito insostenibile, in quanto non garantibile con valuta propria.In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.
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Mattarella al Quirinale, Renzi accolto nel Tempio di Draghi
«Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l’ha definito Mario Monti e così sarà». Parola di Eugenio Scalfari, l’uomo delle cenette riservate con Mario Draghi, Giorgio Napolitano e l’allora premier Enrico Letta, incaricato di spremere gli italiani con “l’inevitabile” tortura del rigore Ue. Scalfari addirittura considera Sergio Mattarella «un Capo dello Stato che proseguirà al vertice delle istituzioni l’esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano». Perché accostare Einaudi e Pertini a Ciampi e Napolitano? L’eurocrate Ciampi “staccò” Bankitalia dal Tesoro, mettendo il paese nelle mani della finanza speculativa e facendo esplodere un debito pubblico non più controllabile, mentre Napolitano – com’è ormai chiaro a chiunque, persino all’ex ministro di Obama, Tim Geithner – è stato il massimo garante dei poteri forti internazionali, interessati a depredare il paese imponendo “commissari” come Monti e Letta, fino all’ambiguo outsider Renzi, che oggi viene celebrato come il king-maker di Mattarella. Errore, avverte Francesco Maria Toscano: l’accordo sul Quirinale non è nato a Palazzo Chigi, ma nella ristrettissima cerchia delle super-lobby di Mario Draghi e Christine Lagarde, la signora del Fmi.«Mario Draghi ha aperto le porte del tempio all’aspirante massone Matteo Renzi», scrive Toscano nel blog “Il Moralista”. Toscano è uno stretto collaboratore di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” e autore di “Massoni” (Chiarelettere), inedita rilettura del ‘900 partendo dal ruolo decisivo delle Ur-Lodges, le superlogge internazionali al crocevia del massimo potere mondiale. «Dopo il lungo e nefasto regno di Napolitano – scriveva Toscano alla vigilia del voto per il Quirinale – si intravede all’orizzonte la possibilità che al Colle ci finisca ora un personaggio grigio e oscuro come Sergio Mattarella». Fra tutti i nomi circolati sui quotidiani, «quello di Mattarella è certamente il più modesto e dimesso; così dimesso da far tornare alla mente quella famosa massima democristiana che spiegava come “alcune nomine servano in realtà a rendere strutturalmente vacante la posizione occupata”». Toscano parla di «un mosaico solo in parte visibile». Domanda: chi comanda davvero in Italia? Quali uomini decidono davvero le linee di indirizzo politico «poi pedissequamente recepite da partiti eterodiretti dall’esterno?».Fino a ieri il gioco era abbastanza scoperto, continua Toscano: «Giorgio Napolitano, iniziato presso la Ur-Lodge “Three Eyes” al pari di Mario Draghi, supervisionava il progressivo svuotamento del benessere e della democrazia italiana per assecondare le bramosie speculative del mercato finanziario privato». Esaurito il mandato di Napolitano, «il sistema è costretto a ridisegnare un equilibrio di potere che finga di cambiare tutto per non cambiare nulla». Secondo Toscano, «l’occulto padrone e regista della vita politica italiana è il “venerabilissimo maestro” Mario Draghi, padre dell’austerità in Europa, che tratta l’Italia quasi fosse una sua dependance personale». Il presidente della Bce «esercita il suo potere riservatamente e con discrezione, lasciando che la pubblica opinione si distragga osservando le gesta di tanti figuranti che popolano il Parlamento con lo specifico compito di fare ammuina». Ma, «come ogni Sultano che si rispetti», anche Draghi «ha bisogno di nominare un Gran Visir al quale affidare il disbrigo degli affari correnti». E dunque chi, dopo Napolitano, «interpreterà ora il ruolo di cinghia di trasmissione dei voleri delle potentissime Ur-Lodges frequentate con costrutto dal capo della Bce? Mattarella? Niente affatto».Per Toscano, «il nuovo portavoce e plenipotenziario della massoneria reazionaria in Italia è Matteo Renzi, pronto per essere iniziato presso una delle Ur-Lodge più potenti e perverse del pianeta». Finito il periodo di “tegolatura”, cioè di attesa, l’ex sindaco fiorentino sarebbe oramai «sulla soglia del Tempio». Una volta «divenuto organico alle superlogge», il nuovo Renzi «potrà quindi finalmente rapportarsi direttamente con i “padroni”». Ma attenzione: «Per calarsi compiutamente nei panni di longa manus della massoneria oligarchica, Renzi ha però bisogno che sul Colle venga eletto un uomo incapace di fargli ombra. Un uomo cioè che si limiti a interpretare il ruolo in maniera neutra e notarile, lasciando cioè mano libera ad un premier oramai pienamente riconosciuto e legittimato dai vertici delle istituzioni latomistiche mondiali». Questo schema soddisfa tutti tranne Berlusconi: «Il vecchio re di Arcore è stato bastonato di nuovo da quegli stessi poteri che nel novembre del 2011 lo cacciarono senza complimenti e a calci in culo per fare spazio a Mario Monti con la scusa dello spread». Come aveva più volte preannunciato lo stesso Gioele Magaldi, il Patto del Nazareno «altro non era se non un patto “fra straccioni”, già pubblicamente sconfessato dalla massoneria che conta, per tramite di un articolo vergato tempo fa sul “Corriere della Sera” dal fedele scrivano Ferruccio De Bortoli».«Mattarella è stato indicato da Draghi», scrive Toscano, spiegando che «l’operazione portata a termine con astuzia dal capo della Bce è chiarissima». Il defunto Patto del Nazareno, amplificato ad arte dalla stampa, «univa in realtà due debolezze». Ovvero: «Due parvenu, Renzi e Berlusconi, estranei ai circoli massonici più elitari ed esclusivi, avevano deciso di stipulare un patto potenzialmente in grado di affrancarli in parte dal controllo delle Ur-Lodges più importanti. Tale accordo, che esprimeva come garante un massone casereccio e di basso livello come Denis Verdini, non poteva reggere di fronte all’offensiva di un peso massimo del livello del “venerabile” Draghi. E infatti non ha retto». A Renzi, continua Toscano, del “Nazareno” non è mai importato nulla: «Il nostro spregiudicato Rottamatore ha semplicemente usato il decadente Berlusconi per aumentare il suo potere contrattuale nei confronti dell’aristocrazia massonica sovranazionale. “O fate entrare in Loggia anche me”, questo lo spirito con il quale Renzi ha vissuto lo strumentale abbraccio con il Biscione, “oppure io riabilito il puzzone e comincio a menare fendenti contro l’Europa dei burocrati”». Alla fine, conclude Toscano, Renzi «ha ottenuto con il ricatto quello che voleva: a breve infatti il pinocchietto fiorentino verrà ritualmente iniziato presso una delle Ur-Lodge più influenti del globo terracqueo».Secondo indiscrezioni circolate nell’ambiente massonico, aggiunge ancora Toscano, Renzi potrebbe essere affiliato a breve alla superloggia di destra “Compass-Star Rose” o alla gemella “Pan-Europa”, entrambe caratterizzate dalla presenza di Christine Lagarde, esponente dell’oligarchia neo-aristocratica europea, secondo cui gli Stati dovrebbero prepararsi a tagliare drasticamente le pensioni a causa dell’innalzamento dell’aspettativa di vita degli anziani in Europa. Secondo le esplosive rivelazioni fornite da Magaldi, le superlogge come la “Three Eyes”, la “Pan-Europa” e la “Compass-Star Rose” costituirebbero la “cupola di potere” protagonista della sconfitta storica della sinistra sociale in tutto l’Occidente: dal declino insanguinato dei Kennedy alla fine del glorioso welfare europero, seppellito dal neoliberismo selvaggio e globalizzatore imposto attraverso l’influenza di istituzioni “paramassoniche” come la Commissione Trilaterale fondata da David Rockefeller. Di qui l’assetto oligarchico dell’Unione Europea e l’imposizione delle “riforme strutturali”, brandite infatti anche da Renzi, con le quali colpire il mondo del lavoro e svuotare lo Stato, a beneficio delle grandi lobby economico-finanziarie.Sergio Mattarella è accolto al Quirinale tra cori di rispettoso consenso: il mainstream gli riconosce estrema sobrietà personale e rigorosa lealtà verso la Costituzione. Riuscirà a opporsi al disegno oligarchico euro-diretto contro l’Italia, nonostante sia stato candidato proprio dagli esecutori nazionali del sabotaggio dell’economia italiana? Il blog “Senza Soste” è pessimista, e parla dell’Italia come di «un paese che si spegne nel silenzio». La carriera di Mattarella si sarebbe sviluppata in modo “coestensivo” rispetto al declino italiano: «Se c’è un nucleo di scelte, tra gli anni ’80 e ’90, che hanno portato questo paese al disastro, Sergio Mattarella, da democristiano e da ministro della Repubblica, le ha condivise tutte». Tra le maggiori ombre, la legge che inaugurò il sistema elettorale maggioritario e la fedeltà atlantica dimostrata nella Guerra del Kosovo, coi bombardamenti sulla Serbia costati tremila vittime inermi. «Nella vicinissima Libia – continua “Senza Soste” – è in corso una guerra civile senza quartiere con una delle fazioni in campo direttamente affiliata all’Isis: in caso di necessità, il decisionismo militare di Mattarella sarebbe già stato testato per lo sforzo bellico». Stessa situazione «a quattro guanciali» per Bce, Ue e Fmi: «Non sarà certo Mattarella a mettere in discussione l’assetto continentale».A pochi giorni dal voto greco, aggiunge “Senza Soste”, «in risposta a quanto avvenuto ad Atene, l’Italia renziana e liberista ha dato quindi la sua risposta alla delegittimazione ellenica della Troika eleggendo un presidente di provata compatibilità con un ordoliberismo sottile quanto feroce». Mentre il paese affonda, «il settennato di Sergio Mattarella si avvia in democristiano torpore», anche grazie a una nomenklatura che riesce sempre a proteggere se stessa dal disastro nel quale sprofonda la nazione. Altrettanto diffidente, sul nuovo capo dello Stato, il blog “Sollevazione”: «C’è chi dice che non sarà solo un passacarte, che Mattarella si farà valere, che farà rispettare la Costituzione. Noi non ci crediamo. Renzi prima di renderlo papabile avrà ottenuto dal Nostro le sue garanzie. Mattarella non solo è stato un uomo chiave democristiano della “Seconda Repubblica”, ne è stato anzi uno degli architetti – la infame legge elettorale che nel decisivo 1993 scardinò il principio proporzionale non a caso porta il suo nome». La sinistra Pd e Sel lo hanno votato sperando che freni l’azione di Renzi? Si illudono: «Nelle prossime settimane si vota sulle “riforme” (leggi scasso) della Costituzione e sulla legge elettorale Italicum. Noi scommettiamo che Mattarella seguirà, pur con un più basso profilo proprio per non fare ombra a Renzi, le orme di chi l’ha preceduto e che non a caso è stato il suo principale sponsor». Perlomeno, il suo sponsor italiano. Se è vero – come scrive Toscano – che il vero sponsor risiede lontano dall’Italia, ben al di sopra del Parlamento di Roma.«Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l’ha definito Mario Monti e così sarà». Parola di Eugenio Scalfari, l’uomo delle cenette riservate con Mario Draghi, Giorgio Napolitano e l’allora premier Enrico Letta, incaricato di spremere gli italiani con “l’inevitabile” tortura del rigore Ue. Scalfari addirittura considera Sergio Mattarella «un Capo dello Stato che proseguirà al vertice delle istituzioni l’esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano». Perché accostare Einaudi e Pertini a Ciampi e Napolitano? L’eurocrate Ciampi “staccò” Bankitalia dal Tesoro, mettendo il paese nelle mani della finanza speculativa e facendo esplodere un debito pubblico non più controllabile, mentre Napolitano – com’è ormai chiaro a chiunque, persino all’ex ministro di Obama, Tim Geithner – è stato il massimo garante dei poteri forti internazionali, interessati a depredare il paese imponendo “commissari” come Monti e Letta, fino all’ambiguo outsider Renzi, che oggi viene celebrato come il king-maker di Mattarella. Errore, avverte Francesco Maria Toscano: l’accordo sul Quirinale non è nato a Palazzo Chigi, ma nella ristrettissima cerchia delle super-lobby di Mario Draghi e Christine Lagarde, la signora del Fmi.
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Tutti precari, anche i pensionati: dovranno tornare al lavoro
La flessibilità azzoppa tutti: non solo i giovani precari, ma anche i loro nonni, erodendo la loro pensione. Paolo Barnard rievoca un incontro con Cinthya Fagnoni, direttrice dell’“Education, Workforce, and Income Security Issues” del General Accounting Office americano, organo del Congresso Usa. «A Washington faceva caldo, ma lei mi offriva solo caffè». La Fagnoni era autrice di uno studio commissionato dal Senato Usa sulla flessibilità. «Flessibilità sul lavoro, eravamo 14 anni fa». Gli disse: «Risulta ovvio che la flessibilità può solo essere un OPTIONAL optional del mercato del lavoro, cioè limitata alla SCELTA scelta del lavoratore/trice di VOLER voler lavorare meno e a singhiozzo. I nostri dati ci dicono che se la flessibilità diventa la regola, distruggerà non solo l’economia dei giovani, ma anche quella dei pensionati». Era il giugno del 2000. Quattordici anni dopo, calcolati i danni delle super-privatizzazioni del governo D’Alema alla vigilia dell’ingresso nell’Eurozona, eccoci alle prese con «il disastro epico di una disoccupazione giovanile italiana al 43%». Ovvero: «Ci stiamo dirigendo esattamente verso quella distruzione».Oggi, scrive Barnard nel suo blog, in America la cosiddetta “Labour Participation Rate” (quota di lavoratori attivi sul mercato del lavoro) è un numero che «precipita come una palla di piombo giù dall’Everest, perché letteralmente per i giovani non conviene più lavorare». Nel senso che «gli costa di più di quanto guadagnano con la flessibilità e coi mini-lavori, e meno che far debiti con le banche (coi tassi quasi a zero di oggi)». Tutto questo, «mentre i pensionati Usa devono tornare sul mercato del lavoro a 65 anni, se no muoiono letteralmente di fame». Cosa è successo a questi ultimi? «Non solo è crollata la quota di contributi dei giovani per le loro pensioni, ma i pensionati americani hanno dato retta alla loro Cgil e alle loro Fornero 25 anni fa, cioè si sono messi nella mani dei fondi pensione integrativi». Il meccanismo è noto: i fondi pensione «prendono i tuoi contributi e li investono, promettendoti un futuro brillante grazie alle magie della Finanza». Il refrain è noto: «Ma ancora stiamo con lo Stato? Decotto e babbione? Goldman Sachs, Jp Morgan, Unicredit, Axa, Zurich, sono il tuo sereno futuro, pensionato John! Fidati».I fondi pensione «prendono i tuoi contributi e li investono sul mercato, soprattutto in titoli di Stato». Poi accade che «mentre il pensionato John è a farsi le birre al bar sotto casa, o a portare a spasso il cane», i boss delle banche centrali «prendono un paio di decisioni che portano i tassi d’interesse a quasi zero». Sorpresa: «La pensione accumulata oggi dal pensionato John non rende più nulla, soprattutto certi titoli di Stato (hey Giacomo, hai qualcosina investita in titoli tedeschi? Sei nella merda)». Infatti, “John” sbatte la faccia a sangue contro lo Zirp, “Zero Inbred Rate Policy”, «cioè i suoi risparmi di pensione integrativa non rendono più un cazzo d’interessi». In più, «se lo sventurato aveva il suo gruzzolo sparso/investito dal suo promotore finanziario anche fra banche d’investimento, i buchi contabili e i fallimenti a catena di queste dal 2007 al 2013, gli “Hair Cuts” imposti agli investitori (anche ai piccoli) pur di salvare ’ste mega-banche, gli hanno anche mangiato più della metà della pensione, spesso tutta».Sono moltissimi, infatti, i pensionati che oggi fanno fatica, negli Stati Uniti, ad arrivare a fine mese. Per questo è sempre più alto il numero di anziani che tornano a lavorare a settant’anni. «Come voi lettori sapete – continua Barnard – l’Italia è un paese che, senza fallire un colpo negli ultimi 70 anni, imita tutto il peggio degli Usa (e mai il meglio) SEMPRE E REGOLARMENTE sempre e regolarmente 15 anni dopo. Abbiamo oggi Renzi per questo, mica per altro», “complice” un politico come Napolitano, che Barnard definisce «vecchio amico delle multinazionali Usa degli anni’ 70», e quindi corresponsabile, politicamente, del disastro socio-economico – la disarticolazione finanziaria dello Stato – avviata all’inizio degli anni ‘80 da Ciampi e Andreatta, perfezionata da Draghi e ulteriormente sviluppata da D’Alema vent’anni dopo. Smantellamento del sistema-Italia, cessione della sovranità, messa all’asta del debito, ingresso nell’euro e quindi resa alle politiche di rigore imposte dai padroni dell’Eurozona. Risultato: giovani senza lavoro, in tutta Europa, come nel 1945. E fosca vecchiaia per i loro nonni: «Auguri, pensionato Giacomo, ma non per te: per tuo figlio Giacomino, che fra 40 anni si ricorderà disperato di questo articolo. Disperato».La flessibilità azzoppa tutti: non solo i giovani precari, ma anche i loro nonni, erodendo la loro pensione. Paolo Barnard rievoca un incontro con Cinthya Fagnoni, direttrice dell’“Education, Workforce, and Income Security Issues” del General Accounting Office americano, organo del Congresso Usa. «A Washington faceva caldo, ma lei mi offriva solo caffè». La Fagnoni era autrice di uno studio commissionato dal Senato Usa sulla flessibilità. «Flessibilità sul lavoro, eravamo 14 anni fa». Gli disse: «Risulta ovvio che la flessibilità può solo essere un optional del mercato del lavoro, cioè limitata alla scelta del lavoratore/trice di voler lavorare meno e a singhiozzo. I nostri dati ci dicono che se la flessibilità diventa la regola, distruggerà non solo l’economia dei giovani, ma anche quella dei pensionati». Era il giugno del 2000. Quattordici anni dopo, calcolati i danni delle super-privatizzazioni del governo D’Alema alla vigilia dell’ingresso nell’Eurozona, eccoci alle prese con «il disastro epico di una disoccupazione giovanile italiana al 43%». Ovvero: «Ci stiamo dirigendo esattamente verso quella distruzione».