Archivio del Tag ‘Brexit’
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“Caro Stakeholder, le leggi dell’Ue le facciamo solo per te”
«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».La risposta di Prodi? Lunare: «Qui a Bruxelles abbiamo un sistema che si chiama Sis, attraverso cui tutti gli attori, dalla mega-banca al cittadino, vengono informati delle leggi che proponiamo e votiamo». Al che, Barnard torna in Italia e interpella sindacati, Ong, operai, associazioni di categoria. «Sis? Non ci risulta: che roba è?». Aggiunge oggi lo stesso Barnard, sul suo blog: «Quell’inchiesta rivelava poi molto di peggio, e cioè quali erano le lobby delle corporations che addirittura ordinavano alla Commissione quali leggi fare». Passati 17 anni, fatto l’euro, sfornate milioni di info sul “mostro” chiamato Unione Germanica Europea, nascono in Europa i movimenti anti-Bruxelles e anti-euro, come se la Commissione fosse ormai sotto assedio. Davvero? Nemmeno per idea: al posto del Sis ora ci sono l’Inception Impact Assessment e la Roadmap. «Sono la versione moderna del Sis. Ma molto più con la faccia come il culo del Sis, che almeno su carta citava per nome chi avrebbe (falsamente) consultato: parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria».Oggi, invece, l’Inception Impact Assessment e la Roadmap che precedono la promulgazione delle leggi sovranazionali che contano, varate dalla Commissione – quelle che hanno demolito la nostra economia europea e fatto scappare la Gran Bretagna – citano una sola entità che viene consultata prima di approvare una di quelle super-leggi: gli Stakeholder. «Cosa sono? Sono poteri finanziari e industriali, pari pari. Esempio: Mediobanca è uno Stakeholder del “Corriere della Sera”. Il mostro d’investimento BalckRock è uno Stakeholder delle Poste Italiane. Caltagirone, Warren Buffett, le Generali, Eni, Exor-Fiat, Vivendi sono Stakeholders. Poi, siccome la cosa era banalmente troppo spudorata per esistere, la Commissione Ue ha aggiunto in una nota anni fa che Stakeholders sono anche gli Stati e… chiunque abbia un interesse nelle leggi che fanno». Fantastico, no? E allora «mandiamo cartoline a casa dalle gente, alle piccole medie imprese, alle Ong, ai contadini, ai medici e infermieri, negozianti, baristi, metalmeccanici e gli chiediamo se hanno mai ricevuto questo tipo di comunicazione: “Caro Stakeholder…”».Barnard cita, ad esempio, una delle lettere inviate agli Stakeholder, quelli veri. Il testo: «Caro Stakeholder, questa valutazione preliminare d’impatto ha lo scopo di informare le parti interessate circa il lavoro della Commissione, al fine di consentire loro di fornire un feedback sulle iniziative previste e di partecipare in modo efficace nelle future attività di consultazione». Non solo: «I soggetti interessati sono in particolare invitati a fornire opinioni sulla comprensione da parte della Commissione del problema e le possibili soluzioni, mettendo a disposizione tutte le informazioni pertinenti che possono avere, anche per quanto riguarda i possibili effetti delle diverse opzioni». E ancora: «La valutazione preliminare d’impatto è fornita solo a scopo informativo e il suo contenuto potrebbe cambiare». Beninteso: «Questa valutazione non pregiudica la decisione finale della Commissione sul fatto che questa iniziativa sarà perseguita o sul suo contenuto finale».A seguire, un testo di 3.182 parole. «“I bet you my fat ass”, direbbe un texano appoggiato al suo trattore, cioè: ci scommetto il culo che però gli Ad di Unicredit, Exor, Luxottica, Eni, Goldman Sachs, Hsbc, Siemes, Telefonica, Ubs, Amazon e soci le hanno ricevute eccome, e non solo», quelle sollecite e tempestive comunuicazioni preliminari. D’altro canto, aggiunge Barnard, «uno stuolo di 30 avvocati pagati 5.000 euro per ogni giorno di consulenza glieli hanno tradotti in ogni dettaglio e fatti capire. E non solo: così come faceva Prodi ai miei tempi, oggi Juncker aspetta il loro Ok, per poi sparare la legge sulla testa di tutti noi sfigati. Questa è la democrazia in Unione Europea. Magari vi serve saperlo». Morale della favola: i garbati distinguo dei nostri politici ma anche le sporadiche invettive verso Bruxelles «fanno venire il mal di pancia forse a un termosifone, se va bene», a fronte di un regime che è istituzionalmente “complice” degli Stakeholder, sulla testa di cittadini che ancora stentano a capire sotto che razza di super-dittatura sono finiti, e perché.«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».
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Le Pen, Rivoluzione Francese: via da euro, Ue e Nato
Addio all’euro, all’Ue a anche alla Nato, e largo ai referendum come strumento di democrazia diretta a supporto del governo. «Io sono la candidata della Francia del popolo contro la destra dei quattrini e la sinistra dei quattrini». A pochi mesi dalle elezioni, Marine Le Pen annuncia che, se diverrà presidente, procederà a due referendum. Uno sull’Europa, per uscire dall’euro e dall’Unione Europea: «Spero che il sistema europeo diventi per tutti solo un brutto ricordo». La Francia – altra notizia, clamorosa – si sgancerebbe anche dall’Alleanza Atlantica, tuttora impiegata in chiave anti-Russia: la Le Pen lascerebbe il “comando integrato” della Nato, con una decisione che rievoca il sovranismo anche militare di Charles De Gaulle. In più, Marine Le Pen – data in testa al primo turno, in programma per il 23 aprile – annuncia anche un referendum istituzionale, per introdurre la possibilità di andare alle urne, con un minimo di 500.000 firme, per chiedere di fare una nuova legge o per bocciarne una già adottata dal Parlamento. «Le Pen e la Francia scoprono i referendum come strumenti di democrazia partecipativa», scrive “La Stampa”, commentando il discorso con cui, a Lione, la Le Pen ha lanciato la campagna elettorale che sta facendo tremare Bruxelles.«Da quando sono venute fuori le rivelazioni sugli stipendi intascati dalla moglie di Fillon per un’attività di assistente parlamentare, che probabilmente non ha mai svolto», la leader francese «è data sempre prima nei sondaggi relativi al primo turno delle presidenziali», scrive Leonardo Martinelli sul quotidiano torinese. «La sua battaglia, comunque, non è vinta, perché nelle stesse inchieste appare costantemente sconfitta al ballottaggio». In ogi caso, la Le Pen suona la carica: annuncia da subito 144 misure di governo, alcune rivoluzionarie, e si presenta in modo «altamente battagliero». Tanto per chiarire: «Da queste elezioni dipende il futuro della Francia come nazione libera», dice. «Non mi interesso solo al patrimonio materiale dei francesi – precisa – ma anche al loro capitale immateriale». Sul piano economico, Marine Le Pen vuole imporre una tassa del 3% su tutte le importazioni per finanziare l’aumento degli stipendi e delle pensioni più basse. E, come Trump, parla di «protezionismo intelligente», un sistema che permetterà, ad esempio, di tassare le società francesi che hanno delocalizzato all’estero per fabbricare prodotti da vendere poi sul mercato nazionale.«Madame Le Pen ha scoperto le sue carte», prende nota Marco Bresolin, sempre sulla “Stampa”. «L’annuncio del referendum per uscire dalla Ue (e dalla Nato) conferma un’intenzione nota da tempo». Tutti sapevano che prima o poi sarebbe arrivato, «ma forse in pochi si aspettavano un’uscita netta così in anticipo, destinata a trascinare l’Europa al centro della campagna elettorale francese, per molto tempo». Mancano infatti ancora più di tre mesi all’elezione del nuovo presidente (il ballottaggio è fissato per il 7 maggio) e «sull’asse Bruxelles-Parigi, idem su quello tra Bruxelles e le altre capitali, saranno tre mesi di fibrillazioni». I sondaggi danno Marine Le Pen al primo posto davanti a tutti gli altri candidati alle presidenziali francesi. Solo lei raggiunge il 25%, il che – per contro – significa che il 75% le sarebbe avverso: «E i precedenti rivelano che in casi come questi i francesi si sono già dimostrati pronti a costruire una coalizione anti-Front nel nome del “voto utile” (Chirac fu sostenuto dai socialisti nel 2002 al ballottaggio con Le Pen padre)». Già, ma erano altri tempi: l’euro e Bruxelles non avevano ancora “terremotato” la vita dei francesi.In ogni caso, Bruxelles «non può far finta di nulla, non può attendere il 7 maggio per preparare le eventuali contromosse», scrive Bresolin, perché – in contemporanea con la campagna elettorale francese – l’agenda a dodici stelle prevede una serie di appuntamenti-chiave: «In questi novanta giorni l’Ue dovrà iniziare a trattare il divorzio con la Gran Bretagna, che notificherà ufficialmente la sua intenzione di uscire dall’Unione entro la fine di marzo». Attenzione: «L’atteggiamento riservato a Londra sarà un messaggio anche alle altre capitali tentate dalla fuga». Ma non è tutto: «Tra meno di due mesi (il 25 marzo) Roma ospiterà il summit che avrà il compito di ridisegnare l’Europa del futuro. Domanda: che futuro potrebbe avere un’Europa che, dopo la Gran Bretagna, si trovasse orfana anche della Francia, uno dei sei paesi fondatori?». Il pensiero dominante a Bruxelles è che una “Frexit” non sarebbe la stessa cosa della Brexit, «semplicemente per il fatto che, già oggi, i ruoli di Francia e Gran Bretagna nella Ue sono molto diversi tra di loro. Parigi è uno dei pilastri dell’Unione e – a fasi alterne – anche locomotiva», aggiungre Bresolin. Londra, al contrario, si è sempre defilata, ottenendo un trattamento di favore: mai entrata nell’euro, e neppure nell’area Schengen.Anche vista delle elezioni francesi, continua Bresolin, assume un’importanza speciale il vertice europeo di Roma. «Paul Magnette, leader della Vallonia, balzato agli onori delle cronache in autunno per aver tenuto sotto scacco il Ceta (accordo commerciale Ue-Canada), ha buttato lì una soluzione radicale: per il bene dell’Europa, il socialista belga ha auspicato che altri Stati prendano la strada della Gran Bretagna». Magnette ha citato la Polonia, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria, «paesi che alcuni governi considerano ancora come “zavorre”», ma ha anche parlato di Danimarca e Svezia, «con cui si potrebbe restare legati solo da un meno vincolante accordo commerciale». L’Italia è invece allineata al suo maggiore avversario, Angela Merkel, che sostiene «un’Europa disegnata a cerchi concentrici, con gradi di integrazione variabili». Un’Europa che Bresolin definisce «più flessibile e dunque più dinamica», e che sarebbe «la ricetta per reagire alla Brexit», e anche «per scongiurare un risultato simile se anche i francesi, in caso di clamorosa vittoria di Le Pen, si trovassero a decidere il loro destino europeo con un referendum», cioè con un esercizio di democrazia: roba da mandare nel panico i signori dell’Ue, che hanno pianificato la devastazione neoliberista dell’economia europea a cominciare da quella italiana, rovinata dall’austerity.Addio all’euro, all’Ue a anche alla Nato, e largo ai referendum come strumento di democrazia diretta a supporto del governo. «Io sono la candidata della Francia del popolo contro la destra dei quattrini e la sinistra dei quattrini». A pochi mesi dalle elezioni, Marine Le Pen annuncia che, se diverrà presidente, procederà a due referendum. Uno sull’Europa, per uscire dall’euro e dall’Unione Europea: «Spero che il sistema europeo diventi per tutti solo un brutto ricordo». La Francia – altra notizia, clamorosa – si sgancerebbe anche dall’Alleanza Atlantica, tuttora impiegata in chiave anti-Russia: la Le Pen lascerebbe il “comando integrato” della Nato, con una decisione che rievoca il sovranismo anche militare di Charles De Gaulle. In più, Marine Le Pen – data in testa al primo turno, in programma per il 23 aprile – annuncia anche un referendum istituzionale, per introdurre la possibilità di andare alle urne, con un minimo di 500.000 firme, per chiedere di fare una nuova legge o per bocciarne una già adottata dal Parlamento. «Le Pen e la Francia scoprono i referendum come strumenti di democrazia partecipativa», scrive “La Stampa”, commentando il discorso con cui, a Lione, la Le Pen ha lanciato la campagna elettorale che sta facendo tremare Bruxelles.
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Linera: la globalizzazione è morta, Trump ne è il becchino
Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali (e fra nazioni dominanti e nazioni dominate: urge rileggersi Samir Amin), e non dalle “leggi” dell’economia. Perché stupirsi, dunque, se la rottura si manifesta come brusco ritiro del consenso popolare alle élite che sfruttano e opprimono? Il fatto è che, a causa della totale insipienza politica, culturale e organizzativa delle sinistre “radicali” (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), tale rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra. Scandalizzati dal “tradimento” delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel “fronte unito contro il populismo” guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell’ex nemico pubblico numero uno dell’ordine capitalista, Toni Negri, che intervistato da “La7”, difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del “compagno” Xi Jinping (lo stesso che vende il proprio popolo allo sfruttamento selvaggio delle imprese multinazionali) il quale ha riscosso, con il suo discorso a Davos, il plauso delle élite liberiste dimentiche delle sue credenziali totalitarie.Questa confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti non si sono mai emancipati da una visione della storia come un processo lineare e necessario verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali= sviluppo delle forze produttive=creazione delle condizioni per la transizione al socialismo guidata – ça va sans dire – da lor signori (o, nella versione post operaista, autogestita dalle avanguardie del “lavoro cognitivo”). Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione è associata al capitalismo dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è (o meglio è stata) una fase contingente destinata a esaurirsi come quella culminata e terminata fra fine Ottocento e primo Novecento. «La globalizzazione», scrive Linera, «come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi».Laddove la subordinazione delle condizioni di esistenza dell’intero pianeta alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che si sono succedute alla guida del processo, è sempre stata imposta con la forza delle armi, quella attuale si è fondata anche su un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante (Gramsci docet) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. L’egemonia, scrive ancora Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali post neoliberisti. Altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il mondo – dagli Stati Uniti, all’Europa, al vicino e lontano Oriente – fino a determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: «Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina». Viviamo un tempo di incertezza assoluta, conclude Linera, un tempo che può essere fertile nella misura in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruire nuove certezze con le particelle del caos «che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate».(Carlo Formenti, “La globalizzazione è morta”, da “Micromega” del 27 gennaio 2017).Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana – ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.
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Draghi: uscire dall’euro si può, ma prima dovrete pagare
Uscire dall’Eurozona è possibile, ma prima bisogna saldare i conti. Lo ha detto lo stesso Mario Draghi, rispondendo a una domanda di due europarlamentari italiani, Marco Zanni e Marco Valli. Nella risposta, diffusa dall’agenzia “Reuters”, Draghi smentisce stesso: appena quattro anni fa, ricorda Tyler Durden, rispondendo a “Zero Hedge” il governatore della Bce aveva affermato che «non esiste un piano-B», rispetto alla permanenza nell’area euro. «Per la prima volta – scrive Durden – il governatore della Bce ha fornito un quadro, per quanto vago, che mostra cosa potrebbe accadere in caso di “exit”». Abbandonare l’euro non è più un tabù, dunque? Non prima, però, di aver ripianato i debiti con il sistema di pagamenti Target2. Dettaglio: «Le economie più deboli, tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia, hanno accumulato enormi debiti verso Target2, mentre la Germania si distingue come il più grande creditore, con crediti netti per 754,1 miliardi di euro». In altre parole: è la Germania che ci tiene legati all’euro, perché le conviene. E l’uscita di Draghi va letta come una minaccia esplicita, in particolare all’Italia, nel clima di inquietudine diffusosi tra Bruxelles, Berlino e Francoforte a partire dalla Brexit.«Se un paese dovesse lasciare l’Eurosistema, i crediti o le passività della sua banca centrale nazionale verso la Bce dovrebbero essere risolti in toto», ha detto Draghi nella lettera, senza specificare in quale valuta dovrebbe aver luogo la “liquidazione”. Non è chiaro nemmeno quale sarebbe la reazione della Bce se un paese non “regolasse integralmente i suoi conti”, scrive Durden su “Zero Hedge”, in una nota tradotta da “Voci dall’Estero”. «In definitiva, la Bce non dispone di un esercito che garantisca il rispetto delle sue politiche». Come conferma la “Reuters”, il commento di Draghi costituisce «un vago riferimento da parte del governatore della Bce alla possibilità che l’Eurozona perda dei membri». Per Durden è «l’ammissione che un’Italexit è fin troppo possibile, e che tuttavia l’unico modo in cui la Bce lo permetterebbe sarebbe quello di far prima pagare all’Italia il suo conto Target2 di 357 miliardi di euro». Il beneficiario di questo mostruoso pagamento «sarebbe il paese che fa più affidamento sul persistere dello status quo: la Germania, che ha qualcosa come 754 miliardi di euro di “attività” nel sistema Target2, che potrebbero essere azzerate se uno o più paesi della zona euro dovessero uscire senza soddisfare i propri obblighi di pagamento».Nella lettera, Draghi ha ribadito che gli squilibri sono dovuti al programma di acquisto titoli della Bce, nel quale molti dei venditori sono investitori stranieri con conti in Germania, e al conseguente riequilibrio dei portafogli. L’ammissione di Draghi che il “QuItaly” – o UscIta come è chiamata all’interno del paese – è una possibilità fin troppo reale, coincide con un’ondata di sentimenti anti-euro in Italia e in altri Stati dell’Eurozona, alimentati in parte dalla decisione senza precedenti della Gran Bretagna nel giugno scorso di lasciare l’Unione Europea. «La minaccia di default sui debiti transfrontalieri è stata spesso ritenuta un elemento di coesione della zona euro durante la crisi finanziaria», aggiunge Durden. «Gli squilibri Target2 sono peggiorati negli ultimi mesi, quando l’economista di Harvard Carmen Reinhart ha lanciato l’allarme su una fuga di capitali dall’Italia». Sotto la calma apparente dei bassi rendimenti dei titoli italiani, anche se recentemente risultano in crescita, si stanno accumulando enormi squilibri di capitali.«L’ammissione di Draghi, da intendere quasi come una minaccia all’Italia, potrebbe aver aperto un nuovo vaso di Pandora per la stabilità europea, in aggiunta alle preoccupazioni per Trump, perché non solo Draghi ha confermato che l’uscita dalla zona euro è stata esplicitamente prevista dalla banca centrale, ma definisce anche le condizioni alle quali sarebbe presa in considerazione e consentita», sottolinea Durden. E, ancora più importante: una volta di più, tutto questo «fornisce la base per una “negoziazione” aggressiva, che potenzialmente può degenerare in una escalation di rancorose trattative tra l’Italia e la Germania, poiché la Bce ha messo di colpo in chiaro che il guadagno dell’Italia in una “ipotetica” uscita dalla zona euro costituirebbe una tremenda perdita per Berlino e per la Merkel». Lo stesso Durden si dice sicuro che, «in tempo brevissimo, emergerà anche la questione di “quanto” valga la pena per la Merkel prevenire tale perdita», la eventuale “fuga” dell’Italia. «Quanto al significato della dichiarazione di Draghi per i paesi con un debito Target2 molto inferiore, che potrebbero anche prendere in considerazione l’uscita dall’unione monetaria, la risposta è racchiusa in due parole: “via libera”».Uscire dall’Eurozona è possibile, ma prima bisogna saldare i conti. Lo ha detto lo stesso Mario Draghi, rispondendo a una domanda di due europarlamentari italiani, Marco Zanni e Marco Valli. Nella risposta, diffusa dall’agenzia “Reuters”, Draghi smentisce se stesso: appena quattro anni fa, ricorda Tyler Durden, rispondendo a “Zero Hedge” il governatore della Bce aveva affermato che «non esiste un piano-B», rispetto alla permanenza nell’area euro. «Per la prima volta – scrive Durden – il governatore della Bce ha fornito un quadro, per quanto vago, che mostra cosa potrebbe accadere in caso di “exit”». Abbandonare l’euro non è più un tabù, dunque? Non prima, però, di aver ripianato i debiti con il sistema di pagamenti Target2. Dettaglio: «Le economie più deboli, tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia, hanno accumulato enormi debiti verso Target2, mentre la Germania si distingue come il più grande creditore, con crediti netti per 754,1 miliardi di euro». In altre parole: è la Germania che ci tiene legati all’euro, perché le conviene. E l’uscita di Draghi va letta come una minaccia esplicita, in particolare all’Italia, nel clima di inquietudine diffusosi tra Bruxelles, Berlino e Francoforte a partire dalla Brexit.
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Cancellare i fatti: Obama e il nuovo Ministero della Verità
Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?Prima di tutto all’ultima trovata delle governance mondiali e dei loro “presstitutes” (geniale sintesi che definisce la stampa prostituita al potere) vale a dire la crociata contro le fake news o post-verità, che via web rappresenterebbero una minaccia per le istituzioni. Pensate che il termine originale inglese, post-truth, è stato eletto parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary! Queste fake news irritano così tanto l’establishment che da diverse parti si invoca addirittura una sorta di commissione di controllo sulle opinioni espresse in rete. Un Ministero della Verità, insomma, di orwelliana memoria. Ora, considerando la costante e instancabile manipolazione che i mezzi d’informazione esercitano da sempre sull’opinione pubblica attraverso menzogne, falsificazioni dei fatti, mezze verità e fantasie, fa davvero sorridere che si identifichi nelle bufale – indubitabilmente presenti in rete – un rischio per la democrazia. Il fatto è che fino a poco tempo fa il fenomeno del cosiddetto ‘complottismo’ era confinato ad una nicchia di persone che iniziavano a fiutare odore di marcio proveniente dai media e cercavano quindi – visti i mezzi messi a disposizione dalla rete – di capire meglio certe situazioni quando i conti proprio non tornavano.Il fact-checking ha permesso allora a milioni di utenti del web di smascherare le vere e proprie bufale messe in onda dalle televisioni di mezzo mondo. Ma ad un certo punto, questo fenomeno del complottismo, della Conspiracy Theory, ha iniziato a diffondersi sempre di più, tracimando dalla rete ed entrando anche nei salotti buoni dei media mainstream. Fenomeno naturalmente irriso, denigrato e oggi criminalizzato. Certamente grazie anche a tutte le reali bufale presenti sul web, inserite ad arte da falsi idioti o da idioti autentici. Così Obama ha iniziato a fare pressioni su Google e Facebook che dovrebbero – a suo dire – esercitare un controllo su notizie false o presunte tali diffuse in rete. Ora, se i mezzi d’informazione ufficiali diffondessero sempre e solo notizie vere la preoccupazione del presidente americano uscente avrebbe una qualche credibilità ma, dato che è vero esattamente il contrario, questa operazione ha proprio l’aria di un intervento a gamba tesa su tutte quelle comunità virtuali che, collegate tra loro, iniziano a nutrire seri dubbi sulle versioni ufficiali. Pensate che io esageri affermando che “è vero esattamente il contrario”? Bene, allora state a sentire, e parlo solo delle fake news più recenti messe in giro dai media.Negli ultimi mesi i mezzi d’informazione del cosiddetto ‘mondo libero’ hanno ripetuto incessantemente che vi erano tra 250 mila e 300 mila civili intrappolati tutto i bombardamenti russi e siriani ad Aleppo Est, nonostante che le fonti d’informazioni siriane avessero più volte ribadito che il numero delle persone intrappolate non superava un terzo di quella cifra. Ebbene, una volta liberata la parte orientale di Aleppo è emerso che il numero dei civili che erano stati bloccati era inferiore alle 90 mila unità. Pensate che i media occidentali si siano peritati di riconoscere l’errore? No, neppure una riga. L’affermazione secondo la quale hacker russi avrebbero cercato di influenzare le elezioni americane è stata smentita sia da Assange che da Craig Murray – ex ambasciatore inglese in Uzbekistan che si è giocato la carriera quando ha accusato la Cia di complicità nelle torture nell’ex-repubblica sovietica – che ha fatto risalire a due fonti americane, una delle quali ha incontrato personalmente, il leak delle email che hanno inguaiato la Clinton. Risultato? Nessuno: Assange e Murray sono stati definiti spie russe. Così il presidente Obama ha appena firmato una legge di Difesa Nazionale che prevede un investimento di 160 milioni di dollari per nuove operazioni di propaganda Usa, dichiaratamente intese a contrastare la “propaganda russa”.Altre due prove di disinformazione da parte dei media: il risultato delle elezioni presidenziali americane e la Brexit. Nel primo caso non c’è stato un solo mezzo di informazione che non abbia ripetuto ad nauseam che non c’erano dubbi sulla vittoria della Killary. Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Quanto a Brexit (anch’essa data per inverosimile) le catastrofiche previsioni della vigilia sono state – a oltre sei mesi di distanza – ampiamente contraddette dai fatti. Mentre la quasi totalità degli economisti profetizzavano una flessione immediata, con relativi crolli di Borsa, l’economia britannica è cresciuta negli ultimi mesi, registrando un incremento del Pil rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6% nei primi due trimestri del 2016, e dello 0,6% e dello 0,5% negli ultimi due, vale a dire nel semestre successivo all’esito del referendum grazie al quale il Regno Unito è uscito dalla Ue. Che ne dite, ci sono o no buoni motivi per diffidare delle fake news dei media?Ma i mezzi ufficiali d’informazione non ne vogliono sapere – loro non possono sbagliare per definizione – e così oggi ci troviamo di fronte ad una prima spinta censoria mirata direttamente a ostacolare quella libertà di pensiero e di espressione che oggi inizia a preoccupare l’establishment. Il quale non si sporca le mani con divieti palesi ma subdolamente e vigliaccamente interviene su motori di ricerca e social media. Ora, se il loro obiettivo fosse raggiunto, la ratio menzogna/verità dipenderebbe non dalla nostra personale indagine, ma da un algoritmo. In sostanza da una macchina. Questo non vi dice nulla? La seconda questione che mi riporta agli strange days è collegata ad alcuni avvenimenti la cui estrema gravità è passata – e continua a passare – quasi inosservata. Mi riferisco agli eventi che hanno contrassegnato le ultime elezioni americane. Ora, quanto è avvenuto e sta avvenendo sull’altra riva dell’Atlantico è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia americana. Mai, neppure nei periodi peggiori della guerra fredda con l’allora Unione Sovietica si è visto un tale palese odio e disprezzo verso la Russia come quello che oggi dilaga sui media americani.Neppure nei giorni più oscuri del trentennio che va dagli anni ’50 agli ’80 presidenti come Eisenhower, Nixon, Reagan si sono rivolti ad un presidente russo con termini come quelli che oggi usano politici come Obama, la Clinton, McCain, Clapper. Quell’Obama, su cui ironizza Ron Paul affermando che il Premio Nobel per la pace è il giusto riconoscimento per un presidente che ha bombardato 7 nazioni ed è stato il primo nella storia degli Stati Uniti ad essere stato in guerra ogni singolo giorno dei suoi otto anni di mandato. Mai una elezione fu così piena di colpi bassi come questa che ha portato The Donald alla Casa Bianca. Mai – anche se è risaputo che vi sono delle aspre rivalità tra i servizi di intelligence Usa – si era verificato uno scontro aperto tra Cia e Fbi come quello che abbiamo sotto gli occhi oggi. E ancora: mai un presidente eletto aveva pubblicamente screditato le motivazioni dei rapporti di intelligence di una delle più potenti strutture di potere come la Cia, affermando che alla base della conferma del presunto hackeraggio da parte dei russi che avrebbero influenzato le elezioni americane ci sono solo “ragioni politiche”.Si tratta di macro-eventi che indicano un cambio globale nella direzione che l’establishment americano sta imboccando, evidentemente obtorto collo. Un cambio di rotta che non viene digerito dalle strutture di potere consolidato che cercano freneticamente di intralciare e sabotare la nuova direzione della Casa Bianca. In tale chiave va vista l’ultima aggressione verbale a Putin con relativa espulsione di diplomatici. E i media mainstream come si sono comportati di fronte a questi veri e propri terremoti politici globali? Minimizzando la magnitudo degli eventi e distogliendo l’attenzione della gente dalle enormi implicazioni a livello mondiale. Attraverso delle vere e proprie armi di distrazione di massa, dunque. Ma al tempo stesso si fanno megafono di una chiamata alle armi contro le fake news. Quelle degli altri, naturalmente.(Piero Cammerinesi, “Strange days”, riflessione pubblicata da “Altrogiornale” il 12 gennaio 2017).Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?
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La guerra segreta di Trump contro chi comanda da 30 anni
E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.Sanders sono riusciti a fermarlo con i brogli, che hanno costretto alle dimissioni il presidente del partito Debbie Wasserman Schultz; con Trump hanno fallito, sebbene abbiano tentato in ogni modo di farlo deragliare. Ed è significativo che molti leader repubblicani si fossero schierati con Hillary Clinton durante l’ultima fase della campagna, a cominciare dalla famiglia Bush. Di fronte al rischio di perdere la Casa Bianca, l’establishment ha fatto saltare le apparenze: anche la destra “mainstream” era per Hillary. Come tutte le celebrities di Hollywood. Come tutta la stampa. Demonizzare Trump, distruggere la sua immagine, attaccare la persona prima ancora delle idee, screditarlo in ogni modo. Questo era lo schema, peraltro già usato in passato e non solo negli Stati Uniti. Ma non è bastato. Trump ha vinto. E non sembra intenzionato a recedere dai propri propositi. E’ un uomo che spiazza sempre. Lo ha fatto esternando la sua ammirazione per Putin per non aver risposto all’espulsione dei 35 diplomatici; ha continuato a ritenere non credibili le accuse di ingerenza russe nella campagna elettorale, smontando e relativizzando le insinuazioni provenienti dall’amministrazione Obama e dalla Cia.Nell’ambito di questa polemica ha dimostrato un’ottima conoscenza delle tecniche di spin dentro le istituzioni, che è la forma più insidiosa di manipolazione delle notizie; perché viola un concetto fondamentale in democrazia: quello dell’autorevolezza e dell’attendibilità delle fonti che provengono dall’istituzione stessa. O meglio: abusa di questa autorevolezza per diffondere informazioni che hanno l’aura della veridicità, che appaiono comprovate, e che invece sono strumentali, parziali e talvolta totalmente inventate. Quando scrive in un tweet “Chiederò ai capi delle commissioni di Camera e Senato di indagare sulle informazioni top secret condivise con l’Nbc”, facendo riferimento al rapporto d’intelligence per il presidente Barack Obama sugli attacchi hacker russi, a cui “Nbc News” ha avuto accesso in anticipo, in plateale violazione del segreto di Stato, accende un faro su una tecnica di spin doctoring diffusa e molto insidiosa. Chi conosce come viene gestita la comunicazione alla Casa Bianca, sa che questi non sono scoop giornalistici ma fughe pilotate e concordate al massimo livello. A cui Trump dice basta, rompendo ancora una volta la tacita consuetudine bipartisan, che induceva i due partiti a non indagare mai su quelle che talvolta erano vere e proprie frodi, come le motivazioni della guerra in Iraq.Rapporto d’intelligence che, peraltro, ha non lo convince come afferma pubblicamente, parlando di “caccia alle streghe” e rompendo un altro tabù: mai nella storia recente americana un presidente si era permesso di mettere in dubbio il lavoro dei vertici dei servizi segreti, di cui non si fida e che intende ridimensionare nei primissimi mesi della propria presidenza. Salteranno tante teste e la struttura dell’intelligence verrà completamente rivista. E’ un’operazione di un’audacia senza precedenti e che spiega il grande nervosismo di Obama e della ristretta élite che ha governato fino ad oggi l’America e il mondo. Non è un caso che proprio quell’establishment abbia tentato nelle ultime settimane di imporre la censura su Internet e sui social media, lanciando una campagna coordinata in più Stati, inclusa l’Unione Europea e Italia, sempre prontissime nel recepire i desiderata di Washington o meglio della Washington che sta uscendo di scena. Il web ha permesso a Trump (e prima di lui al britannico Farage) di scardinare un sistema che sembrava perfetto e intramontabile. Per questo l’establishment globalista tenta, con un colpo di coda, di silenziare l’informazione alternativa online, usando qualunque pretesto: gli hacker russi, l’Isis, le fake news. Non può riuscirci, non deve riuscirci.(Marcello Foa, “La guerra segreta di Trump contro chi governa davvero l’America”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 gennaio 2017).E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.
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Zero Anthropology: l’Impero sta cominciando a perdere
Quello che si è appena concluso è stato probabilmente «l’anno più memorabile degli ultimi decenni, un accumulo incessante di punti di svolta e di eventi significativi». La morte di Fidel Castro, la riconquista di Aleppo in Siria, la Brexit che certifica il “coma profondo” dell’Ue, la sconfitta di Hillary Clinton, la non-colonizzazione definitiva della Libia. Per il blog internazionale “Zero Anthropology”, «abbiamo cominciato ad assistere alla fine del globalismo, all’ascesa della de-globalizzazione e al tramonto dell’imperialismo neoliberale». Ovvero: «Non solo le nazioni tornano ad avere importanza, ma si riaffermano anche le storie locali e le stesse forze regionali». Qualcuno ha scritto che, con la dipartita di Fidel, è finito davvero il ‘900. Per “Zero Anthropology” se n’è andata «una figura monumentale nella storia del mondo, un gigante dei Caraibi che ha segnato gli eventi in tutto il mondo per decenni». Sopravvissuto a 638 tentativi di assassinio da parte degli Stati Uniti, nel corso di 11 diverse amministrazioni presidenziali, il combattente Castro «è morto per cause naturali, non imperiali».Un uomo «di enorme intelligenza, in confronto al quale la maggior parte dei nostri leader sembrano dei bambini sciocchi». Si è distinto come «il padre della decolonizzazione e dell’anti-imperialismo». Resta «un’eredità vivente, un punto di riferimento ineludibile», scrive “Zero Anthropology” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Quindi la vittoria contro l’Isis ad Aleppo: «Finalmente la Siria ha fatto un progresso enorme nella bonifica del suo territorio, in un importante punto di svolta della lunga guerra per procura finalizzata al cambio di regime combattuta dagli Stati Uniti e dai loro alleati del Golfo. Liberati dalla barbarie assoluta delle forze terroristiche che li hanno tenuti in ostaggio nella loro città per anni, gli abitanti di Aleppo sono usciti in massa per festeggiare la vittoria del loro governo nazionale, e anche per festeggiare il Natale. La Siria così ha testimoniato coi fatti che non avrebbe accettato di essere ridotta alla terra di nessuno di un piccolo club di stati imperiali che si autodefinisce “comunità internazionale”».I funzionari degli Stati Uniti, che avevano affermato che “Assad se ne deve andare” e che “i giorni di Assad sono contati” ora stanno facendo le valigie e preparandosi a partire, nei loro ultimi giorni al potere, «cacciati da milioni di persone che hanno preso parte ad uno sconvolgimento politico epocale negli stessi Stati Uniti», continua “Zero Anthropology”. Parla da sola, infatti, «l’eccezionale sconfitta di Hillary Clinton, e con lei della politica dell’imperialismo liberale, del potere dell’industria della pubblicità, delle pubbliche relazioni, della propaganda, della classe istituzionalizzata degli esperti e, soprattutto, dei mezzi di comunicazione di massa». I perdenti, continua il blog, stanno ancora cercando disperatamente di gestire questa sconfitta, cercando di trasformarla in qualcos’altro. «Il loro metodo è il solito, quello che li ha portati a una tale meritata sconfitta: la negazione di ogni responsabilità per le conseguenze delle loro politiche, e una negazione della realtà».Per “Zero Anthropology” il neoliberalismo utopistico, con le sue illusioni sostenute dalle lobby e dai think tank grazie a massicce infusioni di denaro, ha oltrepassato il suo apice e ora è rimasto nudo al freddo, a mormorare confusamente: “La Russia, è stata la Russia…è stato Putin”. Tutto questo è stato preceduto da un’avvisaglia altrettanto clamorosa, la Brexit: «Uno dei motori della globalizzazione neoliberalista che al suo interno ha determinato delle condizioni di integrazione disuguali, l’Unione Europea, continua ad arrancare». Il voto pro Brexit nel Brexit nel Regno Unito contribuisce a classificare il 2016 come «un anno cruciale per la storia europea», insieme anche al referendum italiano del 4 dicembre, con la vittoria del No «con margini che nessuno aveva previsto». Gli eventi dall’altra parte dell’Atlantico, poi, «non hanno fatto che rafforzare la causa dell’autodeterminazione nazionale».Secondo “Zero Anthropology”, inoltre, il 2016 «ha finalmente visto il ritorno della classe operaia, riammessa nel vocabolario politico dallo stesso mainstream che per decenni ha cercato di farla sparire, insieme con il concetto di imperialismo». Una modalità di potere che, in Libia, secondo il blog si è impantanata: il paese di Gheddafi «ha continuato ad essere una zona di devastazione imperialista e di caos», eppure «nel 2016 il piano che prevedeva la trasformazione del paese in un nuovo protettorato delle Nazioni Unite è andato in pezzi». Da un lato, i libici «si sono rifiutati di cedere le redini del proprio futuro», e gli alleati della regione «si affermano come mediatori di potere più significativi rispetto agli Stati Uniti, lontani e ormai indeboliti».Quello che si è appena concluso è stato probabilmente «l’anno più memorabile degli ultimi decenni, un accumulo incessante di punti di svolta e di eventi significativi». La morte di Fidel Castro, la riconquista di Aleppo in Siria, la Brexit che certifica il “coma profondo” dell’Ue, la sconfitta di Hillary Clinton, la non-colonizzazione definitiva della Libia. Per il blog internazionale “Zero Anthropology”, «abbiamo cominciato ad assistere alla fine del globalismo, all’ascesa della de-globalizzazione e al tramonto dell’imperialismo neoliberale». Ovvero: «Non solo le nazioni tornano ad avere importanza, ma si riaffermano anche le storie locali e le stesse forze regionali». Qualcuno ha scritto che, con la dipartita di Fidel, è finito davvero il ‘900. Per “Zero Anthropology” se n’è andata «una figura monumentale nella storia del mondo, un gigante dei Caraibi che ha segnato gli eventi in tutto il mondo per decenni». Sopravvissuto a 638 tentativi di assassinio da parte degli Stati Uniti, nel corso di 11 diverse amministrazioni presidenziali, il combattente Castro «è morto per cause naturali, non imperiali».
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Ecco il vero Grillo, che fa tremare il potere (ma dal ridere)
Dopo la colossale figura di palta, anziché una letterina di scuse per avere esposto tutto il Movimento 5 Stelle al pubblico ludibrio, a un fallimento politico colossale e avere rovinato irrimediabilmente i rapporti nel gruppo politico dove M5S Europa risiede, l’Efdd, arriva questo testo sul blog di Beppe Grillo: «L’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del MoVimento 5 Stelle nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo. Questa posizione ci avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del nostro programma. Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi. Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima. Grazie a tutti coloro che ci hanno supportato e sono stati al nostro fianco. La delegazione del MoVimento 5 Stelle in Parlamento Europeo continuerà la sua attività per creare un gruppo politico autonomo per la prossima legislatura europea: il Ddm (Direct Democracy Movement)». Per una volta lasciatelo gridare a me: Gombloddoh! (e per scriverne io, ce ne vuole… eh?). I poteri forti non vi hanno permesso di vendervi ai poteri forti! Ma ve l’ha scritto Crozza?L’establishment ha deciso? Si chiama politica. Quella che evidentemente qualcuno lì dentro ha cercato di fare e che ha fallito miseramente. Ma davvero pensavate di poter fare una trattativa con gli squali più accaniti dell’euro-fanatico ultraliberismo che sono espressione di quel mondo che ha stritolato la Grecia e che ha posseduto ogni governo italiano, come “L’esorcista”, dal 2011 in poi? Siete ragazzi partiti dai banchetti, siete lì per difendere e rappresentare quelli che ai banchetti ci sono ancora, non per stringere la mano a Mario Monti sperando che gente che possiede più think-tank di quanti capelli abbia in testa non ve la sbrani. Questa posizione vi avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del vostro programma? Ma credete che continuare a recitare una farsa insostenibile fino alla fine servirà a limitare i danni? Il vostro programma contiene 7 punti, dovreste saperli a memoria! Tra questi sette punti, per dirne due, c’è l’abolizione del Fiscal Compact e c’è il referendum sull’euro. Davvero pensavate che entrare nell’Alde vi avrebbe consentito, seduti nel banchetto insieme a Mario Monti, di abolire “meglio” il Fiscal Compact?Davvero pensavate che fare comunella con quelli che “l’euro è irreversibile” vi avrebbe consentito di perseguire “meglio” la storiella del referendum sull’euro? Ma c’è un limite all’idea che gli attivisti M5S siano completamente deficienti? Avete fatto tremare il sistema come mai prima? Avete fatto ridere il sistema come mai prima! Avete fatto la figura dei cioccolatai, dei dilettanti allo sbaraglio. Siete andati da Monti in ginocchio sui ceci e vi siete fatti rispondere un “Vaffa”! E avete cercato di venderla come se 17 vergini stessero per trasferirsi al Castello di Dracula, perché così almeno avrebbero tutelato meglio il loro sangue. Avete fatto scrivere al povero Grillo, che vi è stato a sentire, un papello per convincere sprovveduti attivisti che “entrare nell’Alde” era la cosa migliore, perché “l’Efdd sarebbe morto”, quando l’Efdd, il gruppo politico dove state e che è frutto del grande lavoro del 2014, è lì tranquillo tranquillo fino al 2019 e nessuno lo tocca, quindi avevate tutto il tempo. E adesso invece sì, che l’Efdd è morto.E voglio proprio vedere con che faccia ci ritornate, da Nigel Farage, dopo avere spernacchiato l’uomo che, al contrario di voi, ha vinto la sua battaglia politica e ha portato tutto il Regno Unito fuori dalla Ue, nonostante minacce di morte e attentati cui è scampato per miracolo. Con che faccia lo saluterete, lassù, tra i corridoi del piano del gruppo, dopo che Grillo gli ha dato il ben servito questa mattina sul bog? Gli direte “Hi Nigel… of course, you know… it was a joke“? E se non starete più nell’Efdd perché ormai sareste ridicoli a sedere negli stessi banchi, cosa farete? Andrete nei “non attached“, il gruppo dei non iscritti? Allora sì che non avrete più niente, soldi.. uffici.. tempi di parola.. diritto di esprimere relatori nelle commissioni… Bravi! Complimenti! Grande successo politico. Vi siete condannati al nulla per i prossimi due anni almeno! E dovrete magari anche licenziare della gente, che fuori da un gruppo i soldi per gli stipendi sono meno… Dovevate chiedere scusa. E per una volta, chi si è reso responsabile di questa tragicommedia che ha tutto il sapore di aspirazioni personali fatte passare per una interesse collettivo, si dimetta!(Claudio Messora, “Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima…”, dal blog “ByoBlu” del 9 gennaio 2017).Dopo la colossale figura di palta, anziché una letterina di scuse per avere esposto tutto il Movimento 5 Stelle al pubblico ludibrio, a un fallimento politico colossale e avere rovinato irrimediabilmente i rapporti nel gruppo politico dove M5S Europa risiede, l’Efdd, arriva questo testo sul blog di Beppe Grillo: «L’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del MoVimento 5 Stelle nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo. Questa posizione ci avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del nostro programma. Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi. Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima. Grazie a tutti coloro che ci hanno supportato e sono stati al nostro fianco. La delegazione del MoVimento 5 Stelle in Parlamento Europeo continuerà la sua attività per creare un gruppo politico autonomo per la prossima legislatura europea: il Ddm (Direct Democracy Movement)». Per una volta lasciatelo gridare a me: Gombloddoh! (e per scriverne io, ce ne vuole… eh?). I poteri forti non vi hanno permesso di vendervi ai poteri forti! Ma ve l’ha scritto Crozza?
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Grillo sta suicidando i 5 Stelle. Chiedetevi: a chi conviene?
Eh già, c’è chi decide di suicidarsi buttandosi giù da un ponte. E chi prendendo le decisioni sbagliate nel momento più sbagliato, dimostrando una miopia politica così clamorosa da chiedersi se sia davvero solo il frutto di un errore di valutazione o se invece non sia voluta, con estrema e raffinata perfidia, per distruggere il Movimento 5 Stelle. Mettiamo in fila gli elementi. Il M5S ha combattutto una battaglia durissima contro il sistema; il suo fondatore e vera mente politica, Gian Roberto Casaleggio, è stato oggetto di attacchi durissimi e personali, che lo hanno sfiancato nella salute, con un epilogo drammatico. Dopo la scomparsa di Casaleggio, il mondo ha iniziato a cambiare. Da tempo il Movimento 5 Stelle si era schierato all’Europarlamento con lo “scandaloso” Farage, considerato per anni poco più che un velleitario buffone. Ma Farage ha guidato la Gran Bretagna alla Brexit. Nel frattempo i pentastellati conquistano due grandi città italiane, Roma e Torino. Negli Stati Uniti vince contro ogni pronostico Trump, spostando il baricentro degli interessi degli Usa su posizioni molto più vicine a quelli di movimenti alternativi di protesta (sì, i cosiddetti “populisti”) come il M5S e la Lega di Salvini. Il 4 dicembre questi stessi partiti guidano la campagna referendaria che si risolve con un Ko clamoroso di Renzi.Il mondo sembra volgere dalla loro parte. E infatti da Washington arrivano segnali incoraggianti. Notate bene: Nigel Farage, pur essendo britannico, è uno dei pochi politici di cui Trump si fida; è l’uomo che, sulle vicende europee, può sussurrare all’orecchio del presidente eletto. Un’occasione propizia per chi è sempre stato amico di Farage. Lo capiscono tutti. Proprio sabato 7 gennaio sul quotidiano “La Stampa” esce un retroscena molto interessante, intitolato “Dai migranti al terrorismo, Trump cerca un alleato in Italia per rilanciare l’alleanza con gli Usa”, in cui vengono riportate le indiscrezioni di due collaboratori presidenziali. I quali spiegano che «è chiaro che Trump sia contento del risultato referendario alla luce dei discorsi e delle dichiarazioni fatte in passato non solo sull’Italia ma anche in merito alla Brexit. Tutti i suoi consiglieri, a partire da Steve Bannon che è molto vicino alla politica europea, consideravano il “no” come un primo passo verso un processo di ricollocazione dell’Italia, una sorta di distacco, non nel senso di uscita dall’Unione Europea, ma di presa di distanza dagli schemi conformisti di un certa politica e di una certa Europa».«Un passaggio verso la strada del popolarismo che privilegia l’economia reale, il lavoro, la realpolitik e l’allontanamento dall’ideologia conformista che sta decretando il fallimento del progetto europeo così com’è». Quei consulenti assicurano che Trump vuole «individuare il giusto interlocutore con cui l’amministrazione americana dovrà interloquire per rilanciare i rapporti con lo storico alleato». In un’Unione europea di cui non hanno fiducia, perlomeno non di quella che ha governato finora: «Alcune settimane fa ho incontrato Farage e abbiamo discusso della situazione in atto: quello che sta avvenendo in Europa è un processo storico, il baricentro si sta spostando dalla parte della gente, in Italia, in Francia e in Germania», afferma il generale Paul Vallely, secondo cui «il popolo sta prendendo coscienza della propria sovranità, di essere la spina dorsale di nazioni indipendenti che non devono per forza essere parte di un movimento globalista e globalizzante. E questa è un ottima cosa, per l’Italia ad esempio si è compiuto un passo nella direzione che favorisce la gente. Siamo contenti».Secondo il veterano, allo stato attuale le nazioni europe non hanno l’obbligo di essere parte di una entità sovranazionale come la Ue che ha dimostrato – specie in alcuni specifici casi come l’Italia – di «esigere più di quanto offra». «Non mi sembra che Bruxelles abbia fatto molto per i popoli europei fuorché creare una burocrazia pesante comandata dai soliti noti. Sta emergendo una nuova visione dell’Europa e con questo passo ci saranno interessanti scenari di cooperazione con l’America di Trump». Musica per le orecchie innanzitutto di Salvini e della Meloni, che sono sempre stati su queste posizioni. Ma anche di Grillo, che in passato non ha esitato a sparare sulla Ue e sulla globalizzazione e ad allearsi con Farage. La strada sembra spalancata per un atteso e fino alla scora primavera insperato sdoganamento internazionale. E il Movimento 5 Stelle cosa fa? Anziché mettersi in scia e godersi il momento, cambia improvvisamente rotta proprio a Bruxelles. Abbandona lo Ukip per allearsi con l’Alleanza liberale del belga Verhofstadt, le cui idee sono antitetiche a quelle di Grillo e di Farage: pro Ue, pro globalizzazione; insomma un gruppo che affianca l’establishment che ha governato finora. Grillo, incredibilmente, scende dal carro del vincitore. E contraddice se stesso, la propria storia, la propria identità.Lo fa anche nei modi peggiori: lanciando senza preavviso e senza dibattito una consultazione interna nel week-end dell’epifania. E ottenendo il risultato più ovvio: quello di spaccare il Movimento, di disamorare la base e molti sostenitori, di incrinare i rapporti con Farage e con Trump per abbracciare quell’establishment e quei poteri forti che ha sempre dichiarato di voler combattere. Harakiri. Un’ottima notizia per Salvini e la Meloni, che immagino, non mancheranno di ringraziare Grillo. Ma anche e forse soprattutto, per quell’establishment che da un decennio cerca il modo di spaccare il Movimento, senza mai riuscirci, almeno finchè era in vita Casaleggio. Sono passati pochi mesi ed è bastata una trattativa segreta a Bruxelles per raggiungere quell’obiettivo. Chissà se chi l’ha voluta e l’ha ideata ne è consapevole.(Marcello Foa, “Grillo ha deciso di suicidarsi. Chiedetevi: a chi conviene?”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 9 gennaio 2017).Eh già, c’è chi decide di suicidarsi buttandosi giù da un ponte. E chi prendendo le decisioni sbagliate nel momento più sbagliato, dimostrando una miopia politica così clamorosa da chiedersi se sia davvero solo il frutto di un errore di valutazione o se invece non sia voluta, con estrema e raffinata perfidia, per distruggere il Movimento 5 Stelle. Mettiamo in fila gli elementi. Il M5S ha combattutto una battaglia durissima contro il sistema; il suo fondatore e vera mente politica, Gian Roberto Casaleggio, è stato oggetto di attacchi durissimi e personali, che lo hanno sfiancato nella salute, con un epilogo drammatico. Dopo la scomparsa di Casaleggio, il mondo ha iniziato a cambiare. Da tempo il Movimento 5 Stelle si era schierato all’Europarlamento con lo “scandaloso” Farage, considerato per anni poco più che un velleitario buffone. Ma Farage ha guidato la Gran Bretagna alla Brexit. Nel frattempo i pentastellati conquistano due grandi città italiane, Roma e Torino. Negli Stati Uniti vince contro ogni pronostico Trump, spostando il baricentro degli interessi degli Usa su posizioni molto più vicine a quelli di movimenti alternativi di protesta (sì, i cosiddetti “populisti”) come il M5S e la Lega di Salvini. Il 4 dicembre questi stessi partiti guidano la campagna referendaria che si risolve con un Ko clamoroso di Renzi.
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Grillo, Togliatti, l’Europa. E la marea degli elettori (grillini)
C’è qualcosa di sinistro, in quello che sembra il suicidio programmato del Movimento 5 Stelle, dopo il boom elettorale del 2013 che aveva punito l’esanime Bersani e lo stra-rottamato Berlusconi, entrambi reduci dal catastrofico sostegno al governo Monti-Troika, con l’ultra-rigore dei tagli sanguinosi alla spesa, il massacro sociale, la legge Fornero, il pareggio di bilancio in Costituzione. «Noi non siamo contro l’euro», chiarì Gianroberto Casaleggio intervistato da Travaglio alla vigilia delle europee 2014, come se si potesse stare all’opposizione del sistema in Italia ma non in Europa. Non fidatevi dei 5 Stelle, ammonì ripetutamente Paolo Barnard, che ai neo-parlamentari pentastellati aveva invano offerto un Piano-B per l’Italia (recupero di sovranità finanziaria) attraverso il team internazionale di economisti democratici guidato da Warren Mosler. Nemmeno tre anni dopo, si scopre che Grillo – dopo aver verbalmente “divorziato” dall’euro – ha manovrato segretamente al Parlamento Europeo per imbucare i 5 Stelle tra i massimi sostenitori dell’euro-establishment, per il giubilo dello stesso Monti.State attenti a Luigi Di Maio, avvertì nei mesi scorsi l’avvocato e saggista Gianfranco Carpeoro, quando la stella di Renzi si stava chiaramente appannando: «Se cade il premier, il potere ha già scelto Di Maio come suo successore, con la benedizione degli Usa, delle cui sedi diplomatiche il leader grillino è assiduo frequentatore». Da 5 Stelle a “stelle e strisce”, «attraverso i rapporti che legano Grillo a un personaggio come Michael Ledeen, che proviene da settori della massoneria reazionaria collegata all’intelligence». A Roma, prima di sprofondare negli imbarazzi dell’immobile giunta Raggi, i 5 Stelle avevano rifiutato – dopo averla pubblicamente apprezzata – la proposta “rivoluzionaria” avanzata dall’economista Nino Galloni: fare della capitale un avamposto dimostrativo e strategico per la rinascita della sovranità italiana, devastata dall’élite globalista pro-euro con la complicità della vera super-casta, quella non colpita da Tangentopoli.La candidatura di Galloni, propugnata dal massone progressista Gioele Magaldi, avrebbe rappresentato una sfida aperta ai registi della storica de-industrializzazione del paese, ormai sottomesso alla Germania, a sua volta ridotta a spietato guardiano di un’Europa programmaticamente in declino, da “smontare” dall’interno, scoraggiandone l’indipendenza e la proiezione economica verso la Russia. Se Alexis Tsipras è stato demolito da Bruxelles e “Podemos” non fa più paura a nessuno, a inquietare i dominus Ue del dopo-Brexit è soprattutto Marine Le Pen. In ogni modo – anche con le recenti missioni diplomatiche dello stesso Di Maio – i 5 Stelle hanno rimarcato la loro distanza sostanziale da qualsiasi prospettiva “eversiva”, rispetto all’ordoliberismo euro-teutonico fondato sulla mortificazione della spesa strategica, quindi sui tagli che producono solo crisi e disoccupazione. Dai 5 Stelle, nessuna vera ricetta alternativa: solo la proposta di irrobustire gli ammortizzatori sociali con il “reddito di cittadinanza”, da finanziare solo con tagli “intelligenti” alla spesa, senza cioè intaccare sistema, basato sul principio – aberrante – del rigore “istituzionale” imposto dall’Ue.Nel movimento-fenomeno creato in modo spettacolare da Grillo e gestito per via telematica, con consultazioni on-line ma senza congressi né contronti tra linee apertamente divergenti, le illusioni dell’“uno vale uno” hanno rivelato, in controluce, tutt’altra realtà: a suon di esplusioni e “scomuniche”, è emersa una versione 2.0 del “centralismo democratico” togliattiano, un nuovo unanimismo con in più una vocazione – leninista – a non rivelare mai, apertamente, il vero obiettivo strategico: la logica sembra quella dei continui sacrifici democratici, la perenne autocensura richiesta alla base, in nome del bene supremo e quasi fideistico, il Sol dell’Avvenire. Finora, come riconosce anche il mainstream, il “format” 5 Stelle ha funzionato benissimo, se non altro come formidabile “gatekeeper” per drenare e canalizzare il dissenso, contenendolo nei binari della prassi democratica. Ma a che prezzo? E a vantaggio di chi?Se la lucidità del “popolo grillino” deve anche fatalmente fare i conti con la passione fisiologica che travolge ogni genuina tifoseria, laddove si pretende che le proprie pecche siano sempre deformate, ingigantite e strumentalizzate dal perfido nemico, diabolico per definizione, i soliti implacabili sondaggi (ovviamente gestiti dallo stesso mainstream) si divertono a rilevare un calo dei consensi, a partire dall’agonia romana per arrivare all’harakiri di Strasburgo. L’inizio della fine? Di fatto, quasi un elettore italiano su tre ha manifestato – votando 5 Stelle – la propria volontà di radere al suolo un sistema letteralmente marcio, chiedendo essenzialmente aria pulita. Il calo della “pazienza” di molti elettori può segnalare il tramonto di una leadership solo in apparenza democratica, ma in realtà piuttosto “sovietica”? E il disastro del Parlamento Europeo – con gli stessi liberali ultra-euro che, in extremis, sconfessano il patto segreto con Grillo – costringerà il “popolo” pentastellato a domandarsi, finalmente, che Europa vuole e come intende arrivarci, per mettere in sicurezza l’Italia, cestinando i comodi slogan tattici dei vari Di Battista contro le piccole caste e il piccolo malaffare delle banche?C’è qualcosa di sinistro, in quella che sembra l’anteprima del possibile suicidio programmato del Movimento 5 Stelle, dopo il boom elettorale del 2013 che aveva punito l’esanime Bersani e lo stra-rottamato Berlusconi, entrambi reduci dal catastrofico sostegno al governo Monti-Troika, con l’ultra-rigore dei tagli sanguinosi alla spesa, il massacro sociale, la legge Fornero, il pareggio di bilancio in Costituzione. «Noi non siamo contro l’euro», chiarì Gianroberto Casaleggio intervistato da Travaglio alla vigilia delle europee 2014, come se si potesse stare all’opposizione del sistema in Italia ma non in Europa. Non fidatevi dei 5 Stelle, ammonì ripetutamente Paolo Barnard, che ai neo-parlamentari pentastellati aveva invano offerto un Piano-B per l’Italia (recupero di sovranità finanziaria) attraverso il team internazionale di economisti democratici guidato da Warren Mosler. Nemmeno tre anni dopo, si scopre che Grillo – dopo aver verbalmente “divorziato” dall’euro – ha manovrato segretamente al Parlamento Europeo per imbucare i 5 Stelle tra i massimi sostenitori dell’euro-establishment, per il giubilo dello stesso Monti.
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Ciao Ue, pure i francesi di sinistra voteranno Marine Le Pen
La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».Anche la Francia, dunque, sta per presentare il conto di «una globalizzazione avvenuta a rotta di collo», con un “politicamente corretto” «imposto aggressivamente e dall’arroganza delle élite». Qualcosa sta franando, scrive Siegel in una riflessione proposta da “Voci dall’Estero”, se è vero che i sondaggisti non ne azzeccano più una, dalla Brexit a Trump. Non sono nemmno riusciti a prevedere che l’ex primo ministro François Fillon avrebbe vinto le primarie per diventare il candidato conservatore alle elezioni presidenziali del prossimo aprile in Francia. Con le sue idee «conservatrici in ambito sociale ma liberiste in campo economico», Fillon «rappresenta un allineamento di opinioni che non si vedeva dagli anni ’40 dell’Ottocento». Tutto sta cambiando, e non se n’è accorto neppure Jean-Claude Juncker, «lussemburghese sconosciuto ai più», ormai «diventato il pubblico zimbello durante il periodo precedente al voto sulla Brexit». Fillon ha detto ai francesi che vuole “ridare al paese la sua libertà”. E come? «Ha promesso di tagliare mezzo milione di posti di lavoro nel settore pubblico, di mettere fine alla settimana lavorativa di 35 ore e di ridurre la corposa regolamentazione del lavoro francese da 3.000 ad appena 150 pagine». Sarebbe una sorta di rivoluzione, scrive Siegel: «La Francia moderna non si è mai sottoposta alle riforme liberiste che hanno ravvivato le economie di Gran Bretagna, Canada, Svezia e Germania».In Francia, continua Siegel, la spesa pubblica rappresenta oggi il 57% dell’economia, «e come negli Stati Uniti – ma peggio – il libero mercato è stato strangolato da uno statalismo fuori controllo». Lo scrittore cattolico George Marlin, di New York, ha descritto come gli elettori cattolici della “Rust Belt”, la fascia degli Stati Uniti centrali dove si collocano le maggiori capitali industriali, oggi in declino, sono «infuriati per l’atrofia economica e per il “politicamente corretto” del liberalismo sociale», e quindi si sono orientati verso Donald Trump, determinandone la vittoria. Qualcosa di simile è successo in Francia, scrive Siegel: «Nell’aprile 2017 Fillon, anglofilo e cattolico praticamente, potrebbe verosimilmente contrapporsi a Marine Le Pen, la leader anti-islamista del Front National, nel ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi». Se ciò accade, «gli espertoni scopriranno che la loro mappa mentale è resa del tutto obsoleta da un conflitto tra due candidati entrambi “conservatori”». E questo è avvenuto «perché la classe lavoratrice francese, una volta rivendicata dalla “sinistra”, è stata abbandonata dai socialisti, così come è avvenuto con la loro controparte in America».I socialisti «si sono dissolti nella ricerca di una incoerente alleanza tra elettori gay, islamici e femministi». Ben li rappresenta il presidente François Hollande, che «ha governato con così tanta inettitudine da raccogliere oggi appena il 4% dei consensi». Al confronto, Hillary Clinton se l’è cavata piuttosto bene con gli uomini della classe lavoratrice bianca, ottenendo il 38% dei voti. «I socialisti francesi sono ritornati alla posizione marginale che avevano nell’Ottocento», scrive ancora Siegel, che ricorda che nel 2001 il padre di Marine Le Pen, Jean-Marie Le Pen, sostenitore della Francia di Vichy, scosse il mondo arrivando secondo alla prima tornata elettorale delle elezioni presidenziali francesi, scavalcando il socialista Lionel Jospin. Il 16% dei voti raccolto da Jospin fu quasi raggiunto da «un confuso assortimento da museo di comunisti, maoisti e trotskisti». Messi assieme, i partiti estremisti della destra e della sinistra avevano raccolto circa un terzo dei voti. Ma poi, nelle elezioni generali, i partiti mainstream si unirono per sostenere Jacques Chirac, che batté Jean-Marie Le Pen con l’82% dei suffragi. Ma il 2016 è diverso, avverte Siegel: «La Francia è demoralizzata. È scossa dall’aggressione musulmana. Si è trascinata per decenni con meno dell’1% di crescita annuale. Il suo tasso di disoccupazione è vicino alla doppia cifra, la disoccupazione giovanile al 24% spinge schiere di giovani verso Londra, Berlino e New York». A rivendicare le parole d’ordine della sinistra – lavoro, diritti, sovranità – è rimasta solo Marine Le Pen.La prossima mazzata che l’Unione Europea riceverà sarà dalla Francia: il paese è in crisi nera, i socialisti sono vicini all’estinzione e l’ultra-liberismo annunciato da François Fillon, alfiere del centrodestra, regalerà un trionfo al Front National. «Con la sua politica economica thatcheriana – scrive Fried Siegel sul “City Journal” – Fillon spingerebbe senza dubbio un gran numero di sindacalisti francesi del settore pubblico – e ciò che resta degli elettori della classe lavoratrice industriale – tra le braccia di Marine Le Pen, che potrebbe di fatto trasformarsi nel candidato di sinistra (se una tale definizione ha ancora un senso)». Facile previsione: «I molti milioni di persone che lavorano per il settore pubblico o che ricevono sussidi potrebbero silenziosamente sostenere il nazionalismo della Le Pen piuttosto che rischiare di perdere i loro privilegi». Chiunque sia il vincitore, in ogni caso, «la malnata Unione Europea riceverà un altro shock». Come i democratici americani «hanno marciato a ranghi serrati di sconfitta in sconfitta», ormai «anche le élite europee non danno segno di imparare alcunché». Fillon vuole «cancellare lo stato sociale, licenziare i lavoratori ed aumentare i giorni lavorativi?». Ed è così che Marine Le Pen diventa «la candidata della “sinistra” francese».
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La fine del mondo per il Pd, l’Italia in crisi a sua insaputa
La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, decisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole utili al paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accento sullo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.A chi chiede timidamente se sia il caso di celebrare un congresso, creando così lo spazio necessario per sviluppare una riflessione profonda, Renzi risponde che non è ancora tempo di congressi, perché l’agenda richiede altre urgenze, la legge elettorale, le elezioni anticipate. Non è più epoca di congressi, da tempo: Forza Italia ha sempre e solo inscenato assemblee plebliscitarie, celebrative del Capo, e Grillo non è mai andato oltre i Vaffa-Day o le consultazioni online. Niente congressi, niente confronto di idee, nessuna analisi indipendente. Meglio correre, ferocemente divisi, nella stessa direzione: il baratro. Lo dimostra, una volta di più, la mancanza di timonieri alla guida del grosso barcone del Pd, una ciurma di naufraghi spaventati da quello che chiamano populismo, senza però riuscire a spiegarsi l’origine del fenomeno che – riconoscono – sta scuotendo come un brivido l’intero Occidente. Di tutto è lecito di parlare, tranne che di politica. Lo dice lo stesso Renzi, l’unico politico capace di auto-accusarsi di aver “politicizzato” il voto («la mia colpa non è stata la personalizzazione del referendum», dice, «ma la sua politicizzazione»).«Con questi dirigenti non vinceremo mai», sentenziò Nanni Moretti nel 2002, un milione di anni fa, pensando alla sua squadra di brocchi – D’Alema, Veltroni – e alla corazzata da battere, quella del Cavaliere. Ben lungi, Moretti, dall’intuire che il problema non era nemmeno la squadra, ma il campionato. Ci sono voluti anni, ma poi l’allenatore il suo campione l’ha messo in campo: solo che al massimo vince Renzi, non l’Italia. E Renzi è uno che vince comunque, anche quando perde, visto che di fronte non ha più nessuno. Non mantiene mai la parola data? Vero, ma anche questo è secondario: Renzi non ha mai nemmeno lontanamente sfiorato, neppure a parole, la verità nella quale è sprofondata l’Italia dopo che la sua classe dirigente, come ricorda Fassino, l’ha iscritta nel prestigioso campionato europeo del rigore e dell’austerity, dell’agonia del welfare, della morte della sovranità e quindi dell’economia. Nel Renzi-day, il Pd attacca la crisi romana dei grillini, il collasso politico della capitale dove – nessuno lo ricorda – fu proposto l’ingresso in municipio di un economista eretico come Nino Galloni, con in testa (lui sì) una soluzione per uscire dalla grande crisi inutilmente evocata da Fassino, la crisi che sta travolgendo l’Italia “a sua insaputa”, o almeno a insaputa di un partito che ancora acclama Renzi, così come i grillini acclamano Grillo. Il problema è ancora e sempre il leader, la squadra, e non il campionato? Se è così, i sabotatori dell’Italia possono dormire sonni tranquilli.La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, risoltisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia che sarebbe in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole spendibili per il paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accenno allo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.