Archivio del Tag ‘burocrazia’
-
Barnard: siamo in crisi perché l’antica élite si è ripresa tutto
Ogni aspetto che regola la nostra vita nell’Unione Europea è deciso dalla Commissione, non eletta da nessuno. La Commissione Europea decide anche sulle Costituzioni: una sentenza della Corte Europea di Giustizia decreta che le leggi europee hanno priorità anche sulle Costituzioni dei singoli paesi. Oggi, per statuto, parlamentari e ministri italiani in Europa sono tenuti a fare gli interessi dell’Europa in Italia, non gli interessi dell’Italia in Europa. Non rappresentano l’Italia in Europa: rappresentano l’Europa in Italia. Questa struttura sovranazionale, creata dall’élite politico-economica messa all’angolo dalla Rivoluzione Francese e poi nel ‘900 dall’affermazione della democrazia, ha ripreso il potere e ha creato l’euro per togliere la sovranità agli Stati. Lo sapevano dal 1943: l’euro serve a togliere agli Stati la loro ragione di esistere, fino a distruggerli. Cito una frase, pronunciata da uno dei grandi burocrati europei, uno degli uomini del vero potere, Jacques Attali. Era consulente di Mitterrand insieme a un insigne economista, Alain Parguez, poi ravvedutosi. Parguez lo ferma in un corridoio della Commissione Europea e gli dice: «Sapete cosa state facendo? State distruggendo l’Europa. Cos’avete in mente?». E Attali risponde, letteralmente: «Non è colpa nostra se la plebaglia europea pensa che l’unione monetaria sia stata fatta per la loro felicità».Questa è la mentalità di coloro che ci considerato «degli outsider rompicoglioni», «una massa ignorante» da mettere ai margini. E hanno vinto, su di noi. Questo progetto di Unione Europea messo nelle mani di burocrati dell’estrema destra finanziaria, completamente svincolato dal controllo dei cittadini, prende piede formalmente in Italia negli anni ‘90, quando improvvisamente crolla la Prima Repubblica. Crolla un sistema di partiti: arriva Tangentopoli e spazza via una classe politica che la finanza internazionale (specie americana) considerava incontrollabile, non dedita a sufficienza al mantra delle privatizzazioni e dei tappeti rossi stesi davanti alla grande finanza speculativa. In Italia c’erano ancora leggi che impedivano grandemente l’esportazione dei capitali (il famoso “capital flight”, che è un fenomeno devastante, che distrugge interi paesi nell’arco di un attimo). L’Italia era un paese con partiti corrotti, ladri, bugiardi e mafiosi. Ma non erano nella Serie A. Erano nella Serie C, non facevano il gioco che contava. E con il crollo dell’Unione Sovietica, scrive un importante economista come Marcello De Cecco, questi partiti perdono ulteriormente il loro valore, per gli Stati Uniti: non servivano più a niente. E chi serviva veramente, in quel momento, alla grande finanza internazionale? Chi poteva essere il grande interlocutore per gli anni ‘90 e Duemila, per la grande finanza speculativa internazionale? Il candidato ovvio: il partito comunista.Era dagli anni ‘60 che il Pci faceva riunioni a Bellagio, sul Lago di Como, con la Fondazione Rockefeller: Sergio Segre, Amendola e soprattutto Giorgio Napolitano, che è stato il grande accoglitore del grande capitale finanziario internazionale dentro il Pci, in Italia, garantendo tappeti rossi stesi davanti a loro. Era dagli anni ‘60 che il Pci, mentre in piazza faceva la retorica dei lavoratori, della sinistra, sotto sotto dialogava. Al Mulino, a Bologna, facevano le riunioni con la Fondazione Agnelli. Veniva Brzezinski, a parlare col Pci: si stavano già mettendo d’accordo negli anni ‘60. E quindi, a maggior ragione, negli anni ‘90 questo partito diventa l’interlocutore privilegiato. Gli americani lo dicono molto chiaro, in un rapporto del Council on Foreign Relations, che incarna la politica estera statunitense: è un partito che ci è utile, scrivono, perché è l’unico in Italia a essere strutturato come una grande azienda, sa come fare business. E infatti lo facevano, il business: facevano chiudere le fabbriche in Italia e assicuravano i soldi per la Fiat in Russia, eccetera. Tangentopoli distrugge la Dc e il Psi ma risparmia il Pci (poi Pds, Ds e Pd). Ne chiesi conto a Gherardo Colombo, giudice di Mani Pulite (io sono di Bologna, città dove si pagavano mazzette per qualsiasi servizio), e Colombo rispose: gli imprenditori denunciavano solo la Dc e il Psi.Di fatto, dopo il ‘92-93 crolla questa classe politica, in Europa si sta consolidando l’Unione Europea, e in Italia arrivano i cosiddetti governi tecnici: Ciampi, poi il grande periodo del centrosinistra fino al 2000. In Italia, questa pianificazione orrenda che ha distrutto Stati, leggi e cittadini è stata portata su un vassoio d’argento unicamente dal centrosinistra. I nomi sono quelli di Andreatta, Prodi, Visco, Bassanini, Draghi, Amato, D’Alema. Le privatizzazioni selvagge dell’Italia avvengono tutte sotto i governi di centrosinistra, che stabiliscono il record europeo delle privatizzazioni, dal 1997 al 2000. Record europeo: riusciamo a battere addirittura l’Inghilterra del partito laburista di destra di Toby Blair. Oggi come allora, pubblicamente il centrosinistra fa la retorica del mondo del lavoro e della solidarietà sociale: tutte balle, questa gente è veramente bieca. L’Italia in quel periodo comincia a vendere i suoi beni pubblici, fa delle scelte sempre condizionate dal fantasma dell’inflazione. Scelte importanti: decide di internazionalizzare il proprio debito. Anziché fare quello che avrebbe dovuto fare una vera coalizione di centrosinistra, cioè trovare le risorse nazionali per gestire il proprio debito (perfettamente gestibile), l’Italia di Prodi e D’Alema internazionalizza il debito, mettendolo nelle mani delle grandi fondazioni economiche estere. Così, grazie a questa bella gente, negli anni ‘90 l’Italia è l’unico paese europeo a consegnarsi totalmente nelle mani della finanza internazionale.Marcello De Cecco (Normale di Pisa, La Sapienza) è considerato il più autorevole economista italiano, in assoluto. Scrive: il permanere di un debito pubblico internazionalizzato costituisce una zavorra permanente per l’economia italiana. Non le permette di correre, e le impedisce di seguire una politica in contrasto con le opinioni dei mercati finanziari internzionali, dai quali può discostarsi solo per pochi mesi. Cioè: se si sgarra per pochi mesi, si è finiti. E aggiunge, citando la caduta del governo Berlusconi nel ‘94: è la prova lampante del fatto che una maggioranza parlamentare che si metta in contrasto con i mercati internazionali si decompone, e il governo cade. Aprite gli occhi: Berlusconi ha avuto guai continui – non per via del fatto che è un pessimo politico, ma perché ha disobbedito a questa gente. Mentre gli altri, quelli che dovrebbero fare i nostri interessi, ci stanno rovinando: la nostra sinistra, quelli di “Repubblica”, Scalfari e De Benedetti (a cui D’Alema ha regalato miliardi, come la rete telefonica delle Ferrovie dello Stato venduta a De Benedetti per niente, e che De Bedenetti ha rivenduto facendo profitti di oltre il 300%). Questa sinistra sta rovinando gli operai, i lavoratori, i cassintegrati, i precari, i giovani che non trovano lavoro.Questo centrosinistra che, internazionalizzando il debito, ha consegnato l’Italia nelle mani della finanza internazionale, che cosa ci ha fatto perdere? Sapete qual è la cifra finale (dati del 2011) che l’Italia ha perduto, per la crisi finanziaria del 2007-2008 causata da questa gente? E ci siamo dentro fino al collo, nelle privatizzazioni e nella svendita del bene pubblico, a beneficio delle grandi banche d’investimento grazie a Prodi e D’Alema. Abbiamo perso 457 miliardi di euro: ricchezza sparita dall’Italia in soli tre anni. Una cifra che vale 33 finanziarie. Il conflitto d’interessi di Berlusconi sono 6 miliardi di euro, la casta di Beppe Grillo sono 4 miliardi di euro, tutte le mafie italiane messe assieme contano per 90-100 miliardi di euro. Questi signori ce ne hanno portati via 457. Questo paese non ha più alcuna possibilità di riscattarsi in nessun modo: con l’arrivo dell’euro, siamo veramente rovinati. In una situazione di questo genere, uno Stato avrebbe una sola possibilità di scampo, che è quello che fanno gli Stati Uniti: spendere a deficit. Stampare denaro, continuare a indebitarsi, svalutare la propria moneta – cioè, tutto quello che si può fare quando uno Stato ha una moneta propria (come il dollaro e la sterlina, com’erano il marco in Germania e la lira in Italia). Noi una moneta propria non l’abbiamo più, abbiamo l’euro.Di chi è l’euro? Di nessuno, nemmeno delle banche. La sua emissione viene decisa dai 16 governatori delle banche centrali dell’Eurozona, la Bce formalmente prende la decisione e le banche centrali nazionali stampano questa moneta. Sapete, quando viene stampato, a chi va in mano l’euro? Al ministero del Tesoro? No: va alle banche private, e da queste ai mercati dei capitali. Il ministro del Tesoro deve costruire un ospedale, aprire una strada, pagare gli stipendi agli insegnanti? Va a bussare ai mercati dei capitali privati e dice: per favore, mi date degli euro? Vi rendete conto di cosa sta succedendo? Uno Stato (teoricamente sovrano, ma non più sovrano) per comprare un cancellino di una lavagna di scuola deve andare al mercato dei capitali privati a prendere in prestito gli euro. I mercati dicono: certo che te li prestiamo, gli euro, ma i tassi di interesse li decidiamo noi. Sapete cosa vuol dire, questo? Sapete cos’è la variazione percentuale di un punto sui tassi d’interesse su miliardi di euro? L’Italia è ridotta come il cittadino strangolato dalla banca a cui ricorre per un prestito, se deve comprarsi l’auto. Ecco perché siamo costretti a tagliare le spese pubbliche. Al contrario di uno Stato a moneta sovrana (Usa, Inghilterra, Giappone) oggi l’Italia ha un debito che è veramente un debito – prima non lo era: era un fantasma, era inventato che fosse un problema, perché lo Stato era indebitato solo con se stesso, non doveva soldi a nessuno.Il debito dello Stato era la ricchezza dei cittadini. Oggi, con l’euro, è cambiato tutto. Oggi siamo veramente indebitati, dobbiamo veramente fare i tagli ai servizi pubblici e dobbiamo veramente tassare per tirar su dei soldi, perché dobbiamo bussare alla porta dei capitali privati per spendere ogni singolo euro destinato alla nazione. A questo pensava l’economista francese François Perroux nel 1943, quando disse: togliendogli la moneta, si toglie agli Stati la ragione di esistere e li si distrugge. Questo ci hanno fatto, e chi ha portato in Italia questa roba su un tappeto rosso è Romano Prodi, con tutta la sua cricca di delinquenti. E’ un disastro: non possiamo neanche più dire che è sbagliato tagliare i fondi alla sanità o alla scuola. I soldi dove andiamo a prenderli? Prima sì, si poteva dire: è sbagliato fare quei tagli, è una scelta politica, ideologica. Oggi non più: ci hanno tolto la funzione primaria dello Stato, e hanno vinto definitivamente. Prima ci impedivano di fare la piena occupazione, il welfare e il benessere per tutti, terrorizzandoci con dei fantasmi ideologici per impedire allo Stato di spendere. Adesso ce lo hanno impedito con uno strumento che è addirittura irreversibile. Adesso, anche un primo ministro si svegliasse una mattina e dicesse “io sono uno Stato sovrano e posso spendere a deficit e creare la piena occupazione”, non può più farlo neanche se vuole, perché non ha più la moneta per farlo.Vuol dire posti di lavoro perduti, aziende chiuse, ricchezza evaporata, povertà. La disoccupazione galoppa, i fallimenti delle aziende sono aumentati del 40% nel solo 2009. Il 30% degli italiani è costretto al prestito, il 38% è in difficoltà economiche, il 76% è costretto alla flessibilità. Il lavoro a chiamata è aumentato del 75%. Un milione e 650.000 italiani sono senza coperture di alcun tipo, se licenziati: non percepiscono nulla. Il 50% delle pensioni italiane sono sotto i mille euro: non ci vivi, non ce la fai. Un italiano su cinque rimanda le visite specialistiche, l’11% degli italiani non si riscalda, l’11% non ha soldi per le spese mediche ordinarie. Il 31% degli italiani non può permettersi di spendere 750 euro per un’emergenza in famiglia. E la grande finanza internazionale ci ha rubato 457 miliardi di euro in tre anni. Qui dobbiamo spalancare la mente. Che cosa succederà? Da qui in avanti, succederà esattamente quello che era pianificato dagli anni ‘30: il ritorno al potere assoluto dell’élite finanziaria, con la marginalizzazione delle leggi e dei cittadini. In particolare, pianificavano che in Europa si creassero delle sacche di povertà talmente ampie da poter poi fare del blocco industriale franco-tedesco una grande potenza dell’export, in competizione con gli Stati Uniti, con la Cina e con l’India.Mantenendo un euro estremamente sopravvalutato, hanno introdotto tutte queste misure di precarizzazione del lavoro e di erosione dei diritti. Stiamo privatizzando a man bassa, stiamo alienando beni pubblici per due lire al capitale privato. Con un euro molto forte, l’Europa non è competitiva sui mercati: ne soffrono le aziende, che devono tagliare il costo del lavoro. Significa che lo Stato deve sborsare cassa integrazione e sborsare un sacco di soldi che non si può più permettere, con l’euro. Questo mette in crisi gli Stati, e la crisi degli Stati crea ancora più incertezza economica, ancora più deflazione e disoccupazione. Il costo del lavoro cala ancora di più: oggi è normale accettare un posto di lavoro al supermercato per 700 euro, coi turni spezzati. In Germania è lo stesso: nel 2009 i lavoratori hanno registrato la più alta produttività europea coi più bassi stipendi. Quindi in Europa si sta creando questa situazione dove c’è un impoverimento drastico, una disoccupazione che sta schizzando alle stelle: stiamo a 23 milioni di disoccupati. Incertezza, povertà crescente, sacche di lavoro sottopagato per competere con la Cina, con l’India e con gli Stati Uniti sul mercato delle esportazioni. E qui il vero potere fa la prima, grande tornata di profitti: diventerà competitivo esportare dall’Europa pagando una miseria il lavoratore europeo.La deflazione e l’incertezza finanziaria fanno sì che i mercati perdano di valore, e se perdono di valore gli Stati sono costretti ai tagli. Devono alienare i beni pubblici, e quindi al primo che arriva a comprare vendono a due lire una Telecom, l’acqua, il sistema sanitario o le ferrovie, cosa che succede dagli anni ‘90 e che succederà ancora di più. Loro comprano a due lire, e quindi fanno la seconda tornata di profitti. Poi l’euro crollerà: crolleranno i tassi di interesse, e gli speculatori internazionali faranno profitti immensi, con i “credit default swaps” e le altre scommesse che si fanno sui crolli delle monete. E alla fine di tutto questo, quando l’Europa sarà un buco nero di economia, ridotta quasi a un territorio da Secondo Mondo balcanico, il vero potere farà la quarta tornata di profitti: le scommesse, coi derivati, sul crollo del mercato europeo. Che è quello che hanno fatto in Grecia: hanno scommesso sul crollo della Grecia, che loro stessi stavano causando. Questo è il futuro che si prospetta, per noi, grazie a questa pianificazione di 70 anni. Guardate che il Fondo Monetario Internazionale (che è uno degli attori principali di questo piano scellerato) ha capito di aver troppo calcato la mano, arrivando a pubblicare un rapporto che prevede per l’Europa lo spettro della disoccupazione di massa. Dobbiamo correre ai ripari, dice il Fmi, che chiede agli Stati di cominciare a spendere a deficit e aumentare la spesa pubblica (ma non lo possiamo più fare, non abbiamo più la moneta).Se il Fondo Monetario arriva a questo, vuol dire che la situazione è più che drammatica. Ci sono uomini – ne cito uno, Carlo De Benedetti – che fin dagli anni ‘90, in combutta coi politici del centrosinistra, avevano già capito perfettamente che cosa stava succedendo, e come fare queste quattro tornate di profitti. Cosa ha fatto? Si è tolto dall’Olivetti, che aveva una competizione sui mercati che non poteva reggere, e si è messo nell’industria dei servizi. E così hanno fatto tanti industriali, anche Benetton: ha lasciato le magliette ai competitor cinesi e indiani e si è buttato nell’acquisizione di questi servizi essenziali. Perché lo fanno? Ok, stanno creando questo buco nero, in Europa. Ci stanno distruggendo completamente. Ma quando saremo tutti più poveri, come faremo a fargli fare dei profitti? La risposta è questa, e loro la conoscono da tanto tempo: in termini tecnico-economici si chiama “captive demand”. Che cosa fanno? Ti impoveriscono, ti precarizzano e guadagnano sulle esportazioni, intanto però si comprano i servizi essenziali per la cittadinanza: la sanità, l’acqua, la luce, i trasporti – tutto, anche l’anagrafe e i servizi funerari. Tutto già previsto dai negoziati internazionali, verrà venduto tutto. Il Pd è il partito italiano più avanzato nella privatizzazione della sanità: ci lavora nelle lobby europee.Quando avranno acquisito questi servizi essenziali, e noi saremo tutti più poveri, loro faranno profitti spaventosi: perché senza l’acqua non possiamo vivere, non possiamo stare senza i treni o senza la sanità. Siamo prigionieri: “captive demand” vuol dire “richiesta prigioniera”, il cittadino diventa prigioniero di una richiesta che deve soddisfare. Per cui starà senza mangiare, rinuncerà alle vacanze e non comprerà più le lenti a contatto, ma l’acqua la pagherà, il gas lo pagherà, la nonna la seppellerirà, l’operazione al fegato la dovrà fare. Chi è l’uomo più ricco del mondo? Non più Bill Gates, ma Carlos Slim: è un messicano, e ha nelle sue mani tutte le telecomunicazioni del Messico. Ha fatto quello che ha fatto De Benedetti, che ha fatto Benetton in Italia. Si è comprato un servizio essenziale: i messicani devono telefonare, non possono non farlo. Saranno dei poveracci, il Messico è un paese di poveri. Ma lui è l’uomo più ricco del mondo, guardacaso. Questo ci stanno facendo, questo ci aspetta.Sbalordisce l’ampiezza di questo disegno criminale, che è il più grande crimine della storia occidentale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi. Perché non solo hanno distrutto gli Stati, le leggi e i cittadini , ma hanno anche tenuto milioni di persone in condizioni di povertà, di bisogno, di indigenza. E oggi tengono i nostri ragazzi precari, le donne che non possono fare figli perché non possono mantenerli, le coppie che non si sposano perché non possono comprare casa. Tuttto questa sofferenza, che è stata immensa per milioni di persone in tutte le nazioni cosiddette ricche, è stato deciso a tavolino. E’ veramente il più grande crimine. E quello che ci aspetta è proprio la conclusione degna di questo crimine immenso, che hanno commesso. Non esito a dire che, di fronte a una pianificazione di questo tipo, occorrerebbe una nuova Norimberga. Bisognerebbe portare questi personaggi (molti sono ancora vivi) a un processo internazionale per crimini contro l’umanità.(Paolo Barnard, estratto della conferenza “Il più grande crimine”, video caricato su YouTube nel 2011. I dati citati, relativi al 2009, disegnano un quadro che poi si è aggravato in modo ulteriormente drammatico, con il governo Monti. Già nel 2010 Barnard aveva pubblicato online il suo saggio “Il più grande crimine”, che ricostruisce la riconquista del potere da parte dell’élite, a spese della democrazia, con un piano concepito a partire dagli anni ‘20 del ‘900, giunto a compimento in Europa con la creazione dell’Unione Europea e dell’Eurozona).Ogni aspetto che regola la nostra vita nell’Unione Europea è deciso dalla Commissione, non eletta da nessuno. La Commissione Europea decide anche sulle Costituzioni: una sentenza della Corte Europea di Giustizia decreta che le leggi europee hanno priorità anche sulle Costituzioni dei singoli paesi. Oggi, per statuto, parlamentari e ministri italiani in Europa sono tenuti a fare gli interessi dell’Europa in Italia, non gli interessi dell’Italia in Europa. Non rappresentano l’Italia in Europa: rappresentano l’Europa in Italia. Questa struttura sovranazionale, creata dall’élite politico-economica messa all’angolo dalla Rivoluzione Francese e poi nel ‘900 dall’affermazione della democrazia, ha ripreso il potere e ha creato l’euro per togliere la sovranità agli Stati. Lo sapevano dal 1943: l’euro serve a togliere agli Stati la loro ragione di esistere, fino a distruggerli. Cito una frase, pronunciata da uno dei grandi burocrati europei, uno degli uomini del vero potere, Jacques Attali. Era consulente di Mitterrand insieme a un insigne economista, Alain Parguez, poi ravvedutosi. Parguez lo ferma in un corridoio della Commissione Europea e gli dice: «Sapete cosa state facendo? State distruggendo l’Europa. Cos’avete in mente?». E Attali risponde, letteralmente: «Non è colpa nostra se la plebaglia europea pensa che l’unione monetaria sia stata fatta per la loro felicità».
-
Ma davvero andrete a votare, legittimando questi pagliacci?
La gara dei polli sta per iniziare. Si stanno raccogliendo le scommesse su chi vincerà. Il tifo è alle stelle e la lucidità mentale è sparita da tempo. Ormai si combatte a colpi di slogan collettivisti e di tale idiozia da ritenere il tifoso privo di capacità mentali: dai redditi di cittadinanza regalati nelle patatine, alla restituzione delle tasse pagate, fino all’abbassamento delle tasse da parte di colui che le ha aumentate ieri, oggi e domani decidendo aumenti per il prossimo lustro (Iva, imposte sui bolli, Tares, multe), ce n’è da sbizzarrirsi. E’ la sagra del collettivismo, l’importante è spararla grossa, apparire sui giornali, sulle vignette in Facebook, esaltare la propria tifoseria, illuderla, comprarla con qualche panzana. Ormai il popolo crede che il governante possa fare quello che vuole una volta al potere, è disposto a dargli ancora più potere e privarsi di ogni libertà, purché il processo di irresponsabilizzazione continui e sia qualcun altro a pagare il pasto che oggi viene consumato (illusoriamente) gratis. Il conto sarà salato, ma tanto pagherà il perdente…
-
Ricolfi: la Flat Tax conviene a tutti, sapendo come applicarla
La “flat tax” sbandierata da Berlusconi sarebbe solo un escamotage per favorire i ricchi, dimezzando le tasse? Non è vero, spiega il sociologo Luca Ricolfi: tutti pagherebbero meno, e i poveri riceverebbero aiuti dallo Stato. Il problema è uno solo: la sostenibilità delle minori entrate erariali a livello di bilancio. Il taglio delle tasse ridurrebbe a zero l’evasione fiscale, aumentando quindi il gettito? Pia illusione, probabilmente. Ma forse è il caso di capire meglio di cosa si tratta, scrive Ricolfi, in un’intervento per il “Messaggero” ripreso da “InfoSannio”. L’espressione “flat tax” è una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, premette Ricolfi, anche se qualche precedente non manca: «Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%)». Ma come funzionerebbe? Esempio: tutti devono pagare il 20%, con una “no-tax area” (nessuna imposta) per i redditi fino a 10.000 euro, integrata da una “imposta negativa” del 50% (cioè: se guadagni meno di 10.000 euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a quella cifra). Risultato: chi guadagna 5.000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro, mentre chi guadagna 10.000 euro non paga nulla. E gli altri?Chi guadagna 20.000 euro paga zero tasse sui primi 10.000 euro, e 2000 euro (il 20% di 10.000) sui successivi 10.000 mila, «il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%», spiega Ricolfi. E chi guadagna 30.000 euro? Paga anch’egli zero tasse sui primi 10.000 euro, ma poi pagherà 4000 euro (il 20% di 20.000) sui 20.000 successivi, «il che significa che per lui l’aliquota è del 14,3%». Altro esempio: chi guadagna 50.000 mila euro. «Ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%». Di fatto, «nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10.000 euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito». Ovvero: «Un Paperon de’ Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%». Dunque ricapitolando: «I poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%». Un esempio terra-terra, d’aaccordo, ma «serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla “flat tax”, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario)».Chi muove questa obiezione, o peggio ancora parla di un sistema che “toglie ai poveri per dare ai ricchi”, secondo Ricolfi semplicemente non ha capito come funziona la “flat tax”. Dunque si tratta di una buona proposta? «Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare», scrive Ricolfi. Ma per altri versi, invece, la “flat tax” è «una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta». Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, «sono entrambe fragilissime». L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale, un maxi-sconto agli evasori? «E’ debole, perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente».L’altra idea, quella in base alla quale «aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale», secondo Ricolfi «è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia – sostiene il sociologo – non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche)». Per dire: «Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%?». Oppure: «Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti?». Per non parlare del mondo delle piccole e piccolissime imprese, «dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi». E allora? «E’ perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una “flat tax” al 15%, o anche al 23%».È un’idea da buttar via, dunque? «Forse no», ammette Ricolfi. «Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema)». Anche perché «un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista». In alternativa, aggiunge Ricolfi, «si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi: una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più». Lo stesso ministro Padoan, intervistato dal “Corriere della Sera”, ha dichiarato: «Una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei». Se si vuole criticare la “flat tax”, conclude Ricolfi, «l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica». Se invece la “flat tax” la si vuole difendere, «la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo».La “flat tax” sbandierata da Berlusconi sarebbe solo un escamotage per favorire i ricchi, dimezzando le tasse? Non è vero, spiega il sociologo Luca Ricolfi: tutti pagherebbero meno, e i poveri riceverebbero aiuti dallo Stato. Il problema è uno solo: la sostenibilità delle minori entrate erariali a livello di bilancio. Il taglio delle tasse ridurrebbe a zero l’evasione fiscale, aumentando quindi il gettito? Pia illusione, probabilmente. Ma forse è il caso di capire meglio di cosa si tratta, scrive Ricolfi, in un’intervento per il “Messaggero” ripreso da “InfoSannio”. L’espressione “flat tax” è una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, premette Ricolfi, anche se qualche precedente non manca: «Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%)». Ma come funzionerebbe? Esempio: tutti devono pagare il 20%, con una “no-tax area” (nessuna imposta) per i redditi fino a 10.000 euro, integrata da una “imposta negativa” del 50% (cioè: se guadagni meno di 10.000 euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a quella cifra). Risultato: chi guadagna 5.000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro, mentre chi guadagna 10.000 euro non paga nulla. E gli altri?
-
Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
-
La sfida dell’eresia, dai Catari al mondo del pensiero unico
“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.In questa Italia frastornata da una campagna elettorale stanca e mediocre, condizionata dal dogmatismo neoliberista del pensiero unico imposto da Bruxelles, serpeggia la tentazione di una sorta di diserzione di massa, mentre cresce – silenziosamente – una minoranza sempre meno sparuta di cittadini che si fanno domande, si documentano in proprio e si riuniscono, consultando esperti, nel fondato sospetto che qualsiasi versione ufficiale – dai vaccini alla geopolitica fino alla storiografia, passando per l’esegesi biblica dottrinaria – sia sempre inattendibile, incompleta, reticente. E’ un panorama, questo, nel quale fioriscono iniziative impensabili, fino a dieci anni fa: come la lusinghiera campagna di crowdfunding per finanziare, dal basso, il documentario “Bogre”, girato da Fredo Valla tra Bulgaria, Italia, Catalogna e soprattutto Occitania. Un viaggio affascinante, che ripercorre le remote geografie della più importante eresia del medioevo, cioè il Cristianesimo “dualistico” interpretato dai bogomili nei Balcani e poi dai càtari, i “bulgari” travolti dalla Crociata Albigese nella contea di Tolosa, per poi essere annientati da settant’anni di spietate persecuzioni ad opera dell’Inquisizione. Una tragedia che causò la rovina socio-economica della terra dei Trovatori, che alla fine del 1100 era tra le regioni europee più prospere e avanzate, più libere e tolleranti.Fu un trauma, per lo sviluppo armonico dell’Europa: lo sostiene una scrittrice a sua volta “eretica” come Simone Weil, secondo cui proprio la brutale repressione dell’eresia càtara – gli assedi e le stragi, il terrore scatenato dagli inquisitori – alimentò nel continente la generale rassegnazione al culto della forza, alla guerra come esito inevitabile di qualsiasi conflitto, fino al supremo orrore dell’abominio nazista. Chi è l’eretico? E’ uno che si alza in piedi e dice, semplicemente: non sono d’accordo. E spiega il perché. Chi lo ascolta, sa che sta rischiando il carcere, magari la vita. Il coraggio dell’eretico ricorda a tutti, inevitabilmente, che le versioni dei fatti sono sempre almeno due, mai una sola. Se invece l’ideologia è unica, per di più non proposta pacificamente ma imposta in modo dogmatico (cioè con l’esplicito divieto di metterne in discussione i fondamenti) allora l’umanità è in pericolo, si disumanizza, si divide in buoni e cattivi. Sotto il governo di Raimondo VI, conte di Tolosa, sul finire del 1100 poteva capitare di assistere, nelle chiese, ad avvincenti dispute teologiche tra parroci cattolici e predicatori càtari, di fronte alla platea dei fedeli: oggi, nel 2018, è praticamente impossibile che alla televisione abbia accesso qualche vero “eretico”, radicalmente critico nei confronti del sistema socio-economico che ci viene presentato come l’unico possibile.Quella del Catarismo è una storia spesso denegata, che le burocrazie religiose tendono a sminuire, come fosse un fantasma scomodo. Lo è: ma per il potere in generale e non solo per la Roma di allora, se è vero che l’Inquisizione inaugurò la prima vera forma di terrorismo totalitario, ostacolato – per reazione – dalla rivolta armata dei cavalieri “Faidits”, i primi guerriglieri della storia europea. Uno schema che poi non ha fatto che ripetersi, in modo tragicamente sistematico. Vaticano medievale e càtari? Ruoli e maschere di quasi mille anni fa. Più che la casacca indossata, in fondo può contare un gesto destinato a rimanere vivo: come l’immensa pietà per gli sconfitti, che risuona tra i versi cavallereschi della Canzone della Crociata, scritti da cattolici. E l’ultimo “perfetto” càtaro d’Occitania, Guilhelm Belibàsta, a un passo dalla morte sul rogo arrivò a perdonare (e a tentare di convertire) l’uomo che l’aveva tradito, consegnandolo ai carnefici. E questa l’umanità che il film “Bogre” cercherà di riesumare, dopo otto secoli di oblio, tra le pieghe di vicende solo in apparenza lontane da noi. L’eresia è una domanda, che costringe a interrogarsi. E’ il contrario dell’odio, che teme le domande e ama le guerre, vietando ai soldati di pensare. Rileggere l’avventura dei càtari può servire a scoprire di cos’è stata capace, l’umanità, prima di arrendersi al comodo letargo delle verità imposte.(E’ possibile aderire alla campagna di crowdfunding del documentario “Bogre” attraverso la piattaforma “Produzioni dal basso”; in cambio, si potrà ricevere il film in anteprima).“Airesis”: scelta, contraria al dogma. A cosa servono, gli eretici? Spesso, a far fare passi da gigante, al mondo. La nonviolenza di Gandhi di fronte alla brutalità coloniale inglese. L’eroica tenacia di Nelson Mandela, ai lavori forzati per aver denunciato il delirio sociale di un paese africano per soli bianchi. Può vincere, l’eresia? Forse alla distanza, aprendo una crepa innanzitutto culturale, per poi scavare nella coscienza di ciascuno. Sul piano politico, invece, generalmente gli eretici vengono sconfitti, e il più delle volte ci rimettono la pelle. Martin Luther King sognava un’America fraterna, senza più discriminazioni razziali. Yitzhak Rabin osò immaginare un Medio Oriente libero dall’odio e dall’orrore. Sacco e Vanzetti? Fritti sulla sedia elettrica per aver lottato contro un sistema ingiusto. Thomas Sankara voleva un’Africa nuova, sollevata dal giogo finanziario del debito occidentale. Sono caduti tutti, ma oggi siedono in un pantheon intoccabile: in un certo senso, sono ancora qui. Non è possibile cancellare l’immagine del giovane Cassius Clay che getta nel fiume Hudson la medaglia olimpica conquistata a Roma, dopo esser stato respinto – perché “negro” – da un ristorante di New York. Il dissidente compie sempre qualche gesto simbolico, che costringe l’umanità a pensare. A ragione o a torto, l’eretico rischia in prima persona. Si ribella a un dogma imposto, cioè al non-pensiero di un mondo senza libertà.
-
Sudditi: la verità che nessuno vuole. E buone elezioni a tutti
Gli slogan elettorali nell’Italia del 2018? Piccoli corvi, che banchettano sui resti di un cadavere. «Voi ora vivete in uno Stato che non esiste più, avete delle leggi che non contano più niente: la vostra sovranità economica non esiste più». La voce sembra quella del vecchio marinaio di Coleridge, che insiste nel raccontare una storia atroce, che nessuno vuole ascoltare: la storia di un naufragio che si trasforma in catastrofe, dove ciascuno tenta disperatamente di sopravvivere a spese degli altri. E’ inaccettabile, il racconto del superstite. Troppo duro da digerire: «Nell’arco di pochi decenni, sono riusciti ad ammazzare la cittadinanza occidentale: eravamo persone capaci di cambiare la propria storia. L’Italia, con un solo partito e una sola televisione, ha fatto divorzio e aborto: eravamo figli del Vaticano ma siamo riusciti a ribaltare il paese». Dov’è finita quell’Italia? Davanti al televisore, ad ascoltare le amenità di Renzi e Grasso, Berlusconi e Di Maio. Di loro si occupano i giornalisti, gli stessi che ignorano l’altro giornalista, quello vero. Il vecchio marinaio. Il folle, l’eretico. L’ostinato reduce che insiste nel raccontare la verità che nessuno vuole sentire. Verità semplice e drammatica: c’è solo una politica in campo, quella del vero potere. E’ il potere antico, quello dei Re. E si è ripreso tutto. Distruggendo cittadini, leggi e Stati.
-
Magaldi: elezioni-farsa, poi finalmente toccherà agli italiani
Preparatevi all’ultima farsa dei morti viventi: fingono di candidarsi per governare il paese, ben sapendo che non ci proveranno neppure, perché occuparsi dell’Italia significa sfidare Bruxelles. Il loro unico obiettivo? Tentare di salvare la poltrona, col terrore di non riuscirci: la coperta delle larghe intese è troppo stretta, in tanti resteranno al freddo e fatalmente daranno filo da torcere al governicchio che Mattarella proverà comunque a mettere in pista, per tirare a campare ancora un po’. Tradotto: «Queste elezioni saranno senza vincitori e daranno vita a un esecutivo dal respiro corto, un ectoplasma come il governo Letta o quello di Gentiloni». Dopodiché, tempo scaduto: sarà la fine, per questi partiti che oggi promettono di avere ancora un futuro davanti a sé. «E lo sanno, che è l’ultima fermata», perché poi finiranno i residui scampoli di illusione, dalla chimera Renzi al surreale Berlusconi. Tutti a casa, e palla al centro: toccherà finalmente agli italiani, dopo tanto tempo. Ne è convinto Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, osservatore ravvicinato della politica nazionale ed europea. Pronostico: la crisi, sempre più feroce, indurrà la popolazione a scendere in campo direttamente, occupandosi del proprio destino. Obiettivo: un cambio radicale di paradigma. Giù le tasse, fine dell’austerity, stop ai trattati-capestro dell’Ue, recupero della sovranità finanziaria nazionale.Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi offre una visione precisa dello scenario che si va preparando. «Punto primo: nessuno dei tre blocchi vincerà le elezioni, nessuno sfonderà e nemmeno crollerà». In altre parole, si prefigura la peggiore delle prospettive possibili: «Il centrodestra si illude fare mirabilie sull’onda del voto siciliano ma resterà deluso, così come Salvini e la Meloni che, in ossequio all’alleanza elettorale con Berlusconi, si scoprono ogni giorno più moderati». Più in calo il clan renziano del Pd, che però non è ancora pronto a rottamare il leader, «anche solo per una questione di poltrone da mantenere». I 5 Stelle? «E’ vero che molti militanti sono delusi dalle perfomance dei dirigenti, ma intanto sono curiosi di vedere come se la caverà di Maio, che comunque in nessun caso sarà premier». Governo tecnico? Giammai: «Gli italiani si sono “vaccinati” con Monti, hanno imparato che i tecnocrati di quel calibro sono ancora meno trasparenti dei politici: obbediscono a interessi inconfessabili. E Mattarella, che magari non brilla di molte virtù, non ha però la protervia di Napolitano: incaricherà una figura incolore, destinata a durare poco».Nel frattempo, si augura Magaldi, gli italiani apriranno gli occhi: «Per anni hanno votato politici che baravano sistematicamente: si candidavano a rimettere in piedi il paese, sapendo benissimo che invece non avrebbero contato nulla, di fronte ai poteri forti internazionali». Lo stesso Renzi si è limitato a fingere di fare le riforme che Berlusconi aveva solo promesso per vent’anni, e i 5 Stelle vanno alle elezioni senza un programma di governo per l’Italia. Poi ci sono i cespugli, più o meno imbarazzanti, come “Liberi e Uguali”, con Pietro Grasso «intronato da quattro amici al bar». E la Bonino, che ottiene il simbolo da Tabacci per evitare di raccogliere le firme per candidarsi? «Stupisce un simile gesto da una radicale: se fatta bene, proprio la raccolta firme è un’occasione per fare campagna elettorale in modo democratico, presentandosi ai cittadini». Tutti a casa? L’astensionismo sarà alto, le premesse ci sono tutte: nessuno dei concorrenti ha idee spendibili per risollevare le sorti del paese. «Ma restare a guardare non è una soluzione», sostiene Magaldi, che sta lavorando per la nascita di un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista), con una prospettiva rivoluzionaria: respingere il paradigma neoliberista del rigore.Finita la farsa elettorale del 4 marzo, dice, sotto la spinta dell’inesorabile crisi economica gli elettori smetteranno di regalare deleghe in bianco a partiti nei quali non hanno più alcuna fiducia. «Si sta avvicinando la fine di un ciclo, questo è certo: niente sarà più come prima. Dopo le elezioni 2018, tutti si accorgeranno che nessuno dei candidati ha gli strumenti per rappresentare degnamente l’Italia, affrontando la crisi in modo adeguato». Gli italiani? «Toccherà a loro decidere: se restare a casa ancora una volta, o partecipare direttamente alla costruzione di un futuro diverso, diametralmente opposto a quello sin qui confezionato dal finto centrosinistra e dal finto centrodestra, entrambi asserviti alle logiche sovranazionali, supermassoniche, che hanno orientato l’Unione Europea: un apparato burocratico “matrigno”, manovrato esclusiamente da interessi privati, industriali e finanziari». Nessuno lo dice apertamente, certo: anche per questo, il voto del 4 marzo sarà davvero una farsa. L’ennesima, l’ultima. Poi, dice Magaldi, qualcosa dovrà per forza succedere: questo paese, prima o poi, dovrà svegliarsi.Preparatevi all’ultima farsa dei morti viventi: fingono di candidarsi per governare il paese, ben sapendo che non ci proveranno neppure, perché occuparsi seriamente dell’Italia significa sfidare Bruxelles. Il loro unico obiettivo? Tentare di salvare la poltrona, col terrore di non riuscirci: la coperta delle larghe intese sarà troppo stretta, in tanti resteranno al freddo e fatalmente daranno filo da torcere all’inciucio, al governicchio che Mattarella proverà comunque a mettere in pista, per tirare a campare ancora un po’. Tradotto: «Queste elezioni saranno senza vincitori e daranno vita a un esecutivo dal respiro corto, un ectoplasma come il governo Letta o quello di Gentiloni». Dopodiché, tempo scaduto: sarà la fine, per questi partiti che oggi promettono di avere ancora un futuro davanti a sé. «E lo sanno, che è l’ultima fermata», perché poi finiranno i residui scampoli di illusione, dalla chimera Renzi al surreale Berlusconi. Tutti a casa, e palla al centro: toccherà finalmente agli italiani, dopo tanto tempo. Ne è convinto Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, osservatore ravvicinato della politica nazionale ed europea. Pronostico: la crisi, sempre più feroce, indurrà la popolazione a scendere in campo direttamente, occupandosi del proprio destino. Obiettivo: un cambio radicale di paradigma. Giù le tasse, fine dell’austerity, stop ai trattati-capestro dell’Ue, recupero della sovranità finanziaria nazionale.
-
Della Luna: tengono in vita l’Italia solo per finire di svuotarla
Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.E perché stupirsi? La legalità è l’interesse più diffuso, dunque il più disperso, il più debole, quindi il più perdente. E’ un interesse impotente a difendere se stesso. Il popolo è bue perché è popolo, non per altra ragione. Per contro, gli interessi concentrati, dei pochi contro i molti, soprattutto se illeciti e nascosti, sono anche poteri forti, e hanno buon gioco a comprare chi gli serve e a mettere nei posti giusti i loro fiduciari. Gli esponenti del regime italiano vantano oggi una ripresa economica, sia pur da fanalino di coda, ma non dicono che le previsioni per i prossimi 25 anni mostrano il sistema-paese Italia in costante perdita di produttività-competitività rispetto agli altri paesi comunitari e Ocse. Il che comporta che, per competere sui costi di produzione, si dovrà continuare a tagliare i salari reali, i diritti dei lavoratori, le pensioni, gli investimenti, e che in prospettiva l’Italia è spacciata, perché già da 25 anni sta perdendo in produttività comparata, e 50 anni così implicano che il paese non è più vitale. Spacciata, anche perché il governo deve perseguire una politica di saldi primari attivi (cioè togliere con le tasse dalla società più denaro di quanto riversa in essa, nonostante che la società sia in grave carenza di denaro).Altro che virtuosità, risanamento, ripresa: tutto deve andare ai banchieri che prestano i soldi, compresa la proprietà delle aziende. Senza investimenti strategici non vi è recupero di produttività, non vi è fine del declino. Ciò accelererà la fuga di capitali, imprenditori, lavoratori qualificati e cervelli. Questo destino fallimentare è connaturato all’Italia unitaria, a questo Stato voluto e creato dall’estero per servire ed essere sfruttato da potenze straniere, come spiegato in precedenti articoli. Uno Stato sbagliato per composizione, che è stata fatta accozzando nazioni preunitarie troppo diverse tra loro e che perciò non hanno mai legato ma hanno generato una governance parassitaria e incompetente, che sa solo arricchirsi rubando sui trasferimenti dalle aree efficienti a quelle inefficienti, e in generale sulle risorse pubbliche e private. Uno Stato vassallo, in cui la politica è decisa dall’estero e alla classe politica interna, come unico spazio di azione, rimane la competizione-lottizzazione nel saccheggio del cittadino e della spesa pubblica. Non potendo procurarsi consensi con le buone politiche nell’interesse nazionale, i nostri politicanti se li procurano distribuendo privilegi clientelari. Questo è il modo di produzione della legittimazione elettorale in Italia.I potentati stranieri dominanti sostengono e legittimano quelle forze politiche e burocratiche italiane che meglio servono i loro interessi a spese degli italiani (fino a mandare eserciti italiani a combattere servilmente guerre americane e francesi contro gli interessi italiani), consentendo loro in cambio di continuare i loro traffici con piccole banche, appalti truccati. E’ grazie a siffatti rapporti con la partitocrazia e la burocrazia italiane che potentati stranieri hanno acquisito il controllo di (quasi) tutte le imprese di punta e strategiche italiane, nonché della Banca d’Italia e del sistema creditizio. E’ così che il governo ha regolarmente sottoscritto, sotto ricatto di rating, contratti finanziari scientemente rovinosi a vantaggio delle controparti dominanti come Morgan Stanley, con perdite per decine di miliardi – vedasi il commento dell’onorevolele Brunetta all’audizione della dottoressa Cannata in commissione banche, audizione che si è cercato di mettere in ombra col polverone sulle dichiarazioni del presidente di Consob Giuseppe Vegas alla medesima commissione sul caso Etruria-Boschi, tacendo sul ministro e sugli alti dirigenti del Tesoro che sono poi passati a Morgan Stanley.Un simile Stato, come apparato, non può vivere se non attraverso una corruzione sistemica, quindi intessuta nelle istituzioni anche di controllo (le campagne di lotta contro la corruzione, ovviamente, sono una presa per i fondelli). I suoi partiti politici sono galassie di comitati di affari dediti ad operazioni illecite o quantomeno scorrette. Le rispettive segreterie fanno da organo di coordinamento tra tali comitati, e di ricezione delle richieste di interessi stranieri (talvolta anche nazionali) dominanti. Che forza avrebbero i partiti di potere se non gestissero (clientelarmente) appalti, crediti, assunzioni, licenze? Nessuna. I partiti che si staccano da quelli di potere per perseguire ideali sociali e di giustizia, sistematicamente, si spengono; non sono vitali, sebbene abbiano talora ottime idee e grande onestà, proprio perché non si portano dietro alcuna fetta di spesa pubblica, alcuna risorsa clientelare. Laddove vi sono seri interessi in gioco, le leggi, anche dagli organi di controllo e giustizia, sono osservate solo marginalmente, soprattutto per mantenere una minima facciata di legittimità agli occhi della gente comune.In realtà, vi è una netta divisione tra chi è soggetto alla legge e chi sta sopra di essa e la usa sugli altri per schiacciarli e spremerli. Il potere pubblico è inteso come proprietà privata, come diritto di passare sopra le regole e di togliere diritti agli altri, cioè di derogare alla legalità. Adesso, in campagna elettorale, è inevitabile che i partiti millantino, ciascuno, di avere la capacità e la volontà di salvare il paese e di combattere la corruzione. Lo afferma quella (pseudo) sinistra che è stata l’esecutore più attivo e fedele degli interessi stranieri, che più ha collaborato nel sottomettere ad essi tutto il paese, nello spremerlo per arricchire gli squali della finanza predona, nel sabotare l’economia e l’ordine pubblico, nell’imporre un pensiero e un linguaggio unico che impedissero persino di descrivere ciò che essa stava e sta perpetrando. Poi abbiamo un Berlusconi, proprietario del principale partito del centrodestra, che ha sempre usato i voti di chi gli dava fiducia per sostenere la linea della (pseudo) sinistra e della Germania, persino il rovinoso governo Monti, al fine di difendere i propri interessi aziendali e processuali – un Berlusconi da sempre condizionabile mediante attacchi giudiziari che scattano quando serve.Abbiamo una Lega con analisi e propositi condivisibili, la quale un tempo era indipendentista e ora non lo è più, almeno nelle dichiarazioni, e si propone come tutrice degli interessi nazionali pan-italiani entro un’Ue e un euro in cui vuole rimanere. Purtroppo, sino ad ora, su scala nazionale, la Lega ha realizzato niente o quasi dei suoi programmi, pur essendo stata a lungo al governo. Abbiamo infine una M5S che conta numerosi esponenti validi, coraggiosi e liberamente agenti, ma i cui titolari – quelli che enunciano che “uno vale uno” – non si sa che mete abbiano e che interessi incarnino, anche se appaiono significativi legami con gli Usa. Abbiamo infine una nuova, furbesca legge elettorale, che lascia nelle mani delle segreterie (negandole agli elettori) non solo la scelta dei parlamentari, ma anche la decisione sul nuovo governo: una legge tipicamente partitocratica. No, signori miei, non illudetevi: il processo di disfacimento e la parassitosi maligna interna ed esterna continueranno più saldamente che mai, con la Bce che sosterrà il debito pubblico, differendo il collasso, per consentire di portare a compimento il piano di trasferimento delle risorse del paese. Niente cambierà con le prossime elezioni. L’unico cambiamento possibile e concreto lo realizza chi emigra.(Marco Della Luna, Il Re è nudo ma niente succede, dal blog di Della Luna del 17 dicembre 2017).Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.
-
Fiscal Horror, Cremaschi: tagliola sull’Italia, la politica tace
Nella complice e colpevole disattenzione dei palazzi della politica, in questi giorni a Bruxelles si decide del futuro del nostro paese. L’Italia è il paese Ue con il più alto numero assoluto di poveri, quasi 11 milioni. Proprio mentre emerge questo nostro record mostruoso, il governo Gentiloni decide di aderire al nuovo accordo europeo sul Fiscal Compact. C’è un rapporto tra i due fatti? Certamente, il secondo aggraverà il primo, il record di poveri non ce lo toglierà più nessuno. In questi dieci anni di crisi i poveri sono triplicati, e questo perché il lavoro e la vita stesse delle persone sono stati sacrificati al rigore di bilancio. Rigore feroce, nonostante che le fake news del regime propagandino l’idea di una spesa pubblica troppo generosa verso i cittadini. In realtà il bilancio pubblico è in attivo da più di venti anni, cioè ogni anno i cittadini versano in tasse allo Stato più di quanto ricevano in servizi e prestazioni. Il deficit della spesa pubblica deriva da una sola voce: gli interessi sul debito che si pagano alle banche. Essi ammontano a quasi 80 miliardi all’anno. Lo Stato ne copre circa 50 con i soldi dei cittadini, in particolare lavoratori, pensionati, ceti medi. Il resto sono deficit e manovre, che portano via altre risorse ai servizi pubblici.Se proiettiamo questo conto su un ventennio, alla spesa pubblica necessaria per fare dell’Italia un paese un poco più civile sono mancati circa 1000 miliardi. Mentre il debito è comunque aumentato di diverse centinaia di miliardi. Per la precisione dal giugno 2011, da quando il presidente Giorgio Napolitano reclamò lacrime e sangue per ridurre il debito pubblico, quest’ultimo è aumentato di circa 300 miliardi. I cittadini pagano sempre di più per avere sempre meno, ma il debito cresce. E non per colpa dei furbetti del cartellino o dei pensionati, come invece fa credere la propaganda di regime. Tutto questo avviene a causa dell’usura bancaria sullo Stato, divenuta legge con la fine del controllo pubblico sulla moneta. Lo Stato italiano dal 1981 non può stampare moneta per finanziarsi, ma deve chiedere prestiti alle banche. Poi dal 1992, con il Trattato di Maastricht e poi con l’euro, lo Stato italiano ha persino dovuto cancellare la sua sovranità su come e quanto indebitarsi. Sono i vincoli europei a imporre le decisioni.Così siamo arrivati ad avere cittadini che pagano sempre di più, uno Stato che dà sempre meno, un debito che cresce. Tutto in funzione dei profitti delle banche e della finanza internazionale, che grazie alla usura sul debito fanno shopping delle risorse del paese. Ora il Fiscal Compact renderà questo meccanismo ancora più feroce ed insopportabile. Questo accordo europeo, imposto dalla Germania nel 2012, infatti non solo obbliga al pareggio di bilancio, che vergognosamente Pd, Forza Italia e satelliti hanno addirittura inserito nell’articolo 81 della Costituzione. Il Fiscal Compact va oltre questa misura socialmente criminale e impone non solo la stabilizzazione del debito, ma la sua riduzione in venti anni al 60% del Pil. Per l’Italia che attualmente è al 133%, significa più che dimezzare. Dunque oltre a quelli per pagare gli interessi, dovremmo ogni anno trovare altri 40-50 miliardi per ridurre l’ammontare del debito. In totale ogni anno dovremmo fare finanziarie da 120 miliardi, come per un paese in guerra.Questa follia è sembrata esagerata persino ai burocrati di Bruxelles, che hanno capito che se la si imponeva troppo rigidamente, sarebbe saltata. Così in questi giorni tutti i governi della Ue hanno deciso di far slittare il Fiscal Compact, che avrebbe dovuto scattare già l’anno prossimo, al 2019. Inoltre questo patto non dovrebbe più essere inserito nei grandi trattati costituenti la Ue, ma diventare una direttiva. Questo fa dire a Gentiloni che l’Italia ha ottenuto un successo. Balle, se non è zuppa è pan bagnato. Anche l’usuraio a volte allenta il cappio sulla vittima, quando vede che non ce la può più fare. Preferisce rinunciare a qualcosa, ma mantenere il guadagno sicuro e tenere sempre la vittima a propria disposizione. Il Fiscal Compact sarà meno rigido, ma per questo ancora più micidiale e ridurrà l’Italia a condizioni uguali o persino peggiori della Grecia. Tutto sarà privatizzato, tutto sarà in vendita. E la democrazia sarà completa finzione, perché un superministro del tesoro Ue compilerà i nostri bilanci.Intanto però il Fiscal Compact non scatterà con le elezioni, e questo ha permesso a tutte le principali forze politiche di parlare d’altro. Avete per caso sentito Renzi, Di Maio, Berlusconi, Meloni, Grasso e Salvini affrontare davvero la questione? E soprattutto metterla in testa a tutte le altre, visto la sua importanza per i diritti sociali e le vite di tutti? Quale forza politica oggi in Parlamento propone non di sbattere i pugni su qualche inesistente tavolo, ma di disdettare il Fiscal Compact e di riconquistare il controllo sul bilancio pubblico, rompendo con tutti i vincoli dei trattati Ue, cioè rompendo con la Ue? Nessuna, per questo i burocrati di Bruxelles e la Germania hanno allentato il cappio per qualche mese. Sanno che comunque lo tengono ben saldo su chi governa o vuole governare. Solo la rottura coi vincoli Ue e con le complicità con essi può dare un futuro al paese.(Giorgio Cremaschi, “Gli usurai europei del Fiscal Compact e i loro complici”, da “Micromega” del 14 dicembre 2017).Nella complice e colpevole disattenzione dei palazzi della politica, in questi giorni a Bruxelles si decide del futuro del nostro paese. L’Italia è il paese Ue con il più alto numero assoluto di poveri, quasi 11 milioni. Proprio mentre emerge questo nostro record mostruoso, il governo Gentiloni decide di aderire al nuovo accordo europeo sul Fiscal Compact. C’è un rapporto tra i due fatti? Certamente, il secondo aggraverà il primo, il record di poveri non ce lo toglierà più nessuno. In questi dieci anni di crisi i poveri sono triplicati, e questo perché il lavoro e la vita stesse delle persone sono stati sacrificati al rigore di bilancio. Rigore feroce, nonostante che le fake news del regime propagandino l’idea di una spesa pubblica troppo generosa verso i cittadini. In realtà il bilancio pubblico è in attivo da più di venti anni, cioè ogni anno i cittadini versano in tasse allo Stato più di quanto ricevano in servizi e prestazioni. Il deficit della spesa pubblica deriva da una sola voce: gli interessi sul debito che si pagano alle banche. Essi ammontano a quasi 80 miliardi all’anno. Lo Stato ne copre circa 50 con i soldi dei cittadini, in particolare lavoratori, pensionati, ceti medi. Il resto sono deficit e manovre, che portano via altre risorse ai servizi pubblici.
-
Galloni: moneta sovrana e posti di lavoro, o addio Italia
Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.Non si sa fino a che punto tutto questo sia sostenibile, riassume Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt. Il paradosso? «Quelli che stanno bene possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi sanitari per i figli, l’assistenza agli anziani e quant’altro. I più poveri, bene o male, hanno accesso alla gratuità. Ma il grosso della classe media non ha sufficiente reddito per pagarsi i servizi essenziali, e in alcuni casi neppure per fare la spesa al supermercato o andare al cinema, al ristorante o in vacanza, per pagare le bollette, le rate del condominio. E non ha neppure accesso alla gratuità del welfare residuale». Il guaio? Ci sta crollando addosso la storia. Una storia “sbagliata”, che ha cominciato ad andare storta proprio quando l’Italia ha cessato di essere prima “un’espressione geografica”, e poi un paese popolato di contadini analfabeti. Ai fratelli maggiori d’Europa non è mai andato giù il fatto che il Belpaese potesse stupire il mondo con il suo sviluppo da record, il boom del dopoguerra fondato sull’industria. Probabilmente avremmo potuto superare la Francia, dice Galloni, se non ci fossimo fatti sfilare di mano il futuro delle telecomunicazioni, a patrire dalla geniale invenzione di Olivetti: il personal computer.Poi, aggiunge l’economista, fu essenziale il passaggio dell’89 in cui la Germania, per riunificarsi, rinunciò al marco per ottenere l’appoggio della Francia e puntare al suo vero obiettivo strategico: frenare l’Italia. «Perché un’Italia estremamente competitiva avrebbe reso proibitiva l’opera di riunificazione della Germania». Ma i “cugini” d’oltralpe, ricorda Galloni, prima ancora dei tedeschi hanno sempre lavorato contro l’Italia, contribuendo a far fuori gli italiani più decisivi, a cominciare da Enrico Mattei. Il capo dell’Eni era odiato dalle Sette Sorelle perché concedeva più soldi ai paesi petroliferi, ma a costargli la vita fu lo scontro con Parigi sul gas algerino: di fronte alla mano tesa dei francesi per accordarsi su quel business, Mattei rispose “no, grazie”. Disse: «Io tratterò solo col legittimo governo algerino, quello del popolo, che è rivoluzionario e anti-francese». E così avviene: «Gli algerini – ricorda Galloni – vincono la loro guerra di indipendenza nazionale, fanno gli accordi con l’Italia e però, poco dopo, Mattei viene ucciso. Le ultime ricostruzioni convergono sul coinvolgimento dei servizi segreti francesi».Poi è il turno di Aldo Moro, «altro uomo odiatissimo in Europa». Si era lamentato del fatto che i francesi e gli stessi “servizi” della Fiat (che come l’Eni aveva una sua “polizia segreta”, in gran parte composta da ex poliziotti e carabinieri) non comunicassero tutte le notizie riguardo alle Brigate Rosse, e che addirittura alcuni brigatisti venissero ospitati in territorio francese. Mattei e Moro, quindi Berlusconi: voleva evitare la guerra con la Libia scatenata da Sarkozy, ma è stato “convinto” dal crollo in Borsa del titolo Mediaset, precipitato del 40% in poche ore. Così ha dovuto «abbassare la testa e accettare la terza grande aggressione degli interessi nazionali dell’Italia da parte da parte dei francesi». Ci hanno sempre messo i bastoni tra le ruote, ma il peggio è che adesso l’ossigeno di sta esaurendo: «Non abbiamo più un welfare universale, abbiamo solo un welfare residuale che sta creando ulteriori lacerazioni sul territorio, anche perché spesso è destinato soprattutto agli immigrati. E quindi crea tensioni politiche e sociali che poi diventano determinanti nelle scelte dell’elettorato». Nonostante ciò, osserva Galloni, l’Italia non è ancora crollata: ha dimostrato capacità di resistenza impensabili.«In Italia ci sono 4 milioni di imprese, su quattro milioni e mezzo, che ormai sono fuori dal capitalismo perché non lavorano più per il profitto, ma per controllare risorse reali, darsi una dignità, un futuro». Aziende che «sfuggono a quelle che sono le regole dell’economia e della finanza». Anziché vendere l’azienda e vivere di rendita finanziaria, quattro milioni di imprenditori italiani – caso unico, in tutto l’Occidente – hanno tenuto duro pagando le tasse sulle perdite, senza nessun aiuto dal sistema bancario, e in più con infrastrutture oblsolete e la pubblica amministrazione che rema contro. «Però queste piccole imprese italiane hanno la caratteristica di essere competitive sui mercati internazionali, tant’è che noi siamo, con la Germania, l’unico paese che ha visto aumentare le esportazioni». Stiamo parlando di 9 miliardi di euro: «Non è tanto, però è significativo che ci sia un segno positivo. Ma ancora più significativo e positivo è che ci sia stata una riduzione di 40 miliardi di euro nell’importazione di prodotti agricoli e alimentari, dovuta ad un impressionante ritorno di tre milioni e duecentomila giovani che si sono impegnati nell’agricoltura, per fare quello che i loro padri non volevano più fare: riprendere il mestiere dei nonni». Giovani che «sono tornati a fare quello che si faceva in Italia prima del miracolo economico, che è stato soprattutto industriale».Abbiamo perso tutta la nostra grande industria privata, compreso l’80% di quella a partecipazione statale, che era un gioiello (ma quel 20% che ci rimane ancora fa molta gola a parecchi, compresi i francesi). Però, aggiunge Galloni, abbiamo mantenuto in vita l’80% della piccola industria, delle piccole imprese. «Stiamo parlando di più di 7 milioni di famiglie, che poi corrispondono grossomodo a quel 50% di elettorato che non va più a votare: è gente che non si farà abbindolare da nessuno di quelli che si presentano alle elezioni». La Francia non sta molto meglio: il suo grande problema, sociale, è quello che divide i francesi dagli immigrati, cittadini di serie B. «Da noi è esclusivamente un problema di censo, mentre da loro è un problema di nazionalità: e questo fa sì che lo studente che si è preso una laurea e che vive nella banlieue parigina non potrà mai accettare questo sistema francese». Ora, i grandi potentati finanziari – che finora si erano orientati verso i grandi immobili, i grandi alberghi – adesso stanno puntando all’agricoltura, ai terreni. E con la scusa delle crisi del sistema bancario italiano «cercheranno di entrare con grandi capitali per comprare i mutui al 10-20% del loro valore nominale, per poi rivendere gli appartamenti al 20-30% del mutuo residuo stesso. È un’operazione semplicissima, però potrebbe essere estremamente drammatica».Però poi è difficile che queste ciambelle riescano col buco, aggiunge Galloni, «perché l’Italia ha le energie per reagire e rimettersi in pista». Grande incognita, ovviamente, l’Unione Europea: avremo ancora il “quantitative easing” della Bce o prevarrà un ritorno alle posizioni più rigide, con la riapertura dell’incubo spread, che è un grande ricatto nei confronti del paese? Si insisterà sul Fiscal Compact, «che ovviamente ci metterebbe in ginocchio», oppure i “falchi” perderanno e ci sarà un recupero di fiducia fra i vari paesi? «I grandi potentati finanziari e le grandi multinazionali sono, per loro stessa natura, predatori: non guardano in faccia a nessuno. E dove vedono delle prede di più facile cattura (come siamo noi italiani, perché non abbiamo un governo, una guida, non abbiamo una pubblica amministrazione che funziona, non abbiamo un sistema bancario adeguato alle condizioni e non abbiamo – salvo alcune eccezioni – un sistema infrastrutturale adeguato) è chiaro che loro se ne approfitteranno». Nel 2018 saranno quotate in Borsa le Ferrovie dello Stato? Pessima idea: «Dopo, invece d’inseguire il miglioramento del servizio, dovranno inseguire l’aumento dei saggi d’interesse, altrimenti il titolo perderebbe valore».Lo sappiamo: è in atto una sorta di deindustrializzazione dell’Italia, a vantaggio di élite europee ed extra-nazionali a svantaggio della nostra popolazione. Come possiamo tenerci le industrie? «Dei modi ci sarebbero», risponde Galloni, «ma fanno perno sul ripristino della sovranità nazionale», che non è per forza la chiusura delle frontiere. La sovranità “saggia”, e ormai indispensabile, poggia sulla consapevolezza che quest’Europa dell’euro non sta funzionando: potrebbe implodere. Il Piano-B? «Affiancare alla moneta internazionale – che è straniera – una moneta nazionale». E gli altri paesi dovrebbero fare lo stesso. «Una moneta nazionale non è proibita dai trattati europei, perché avrebbe solo circolazione interna, ma sicuramente servirebbe per fare quegli investimenti e quelle assunzioni – dove servono – per ridare respiro al paese e ripristinare quel concetto di “welfare universale” che ci salva dalla guerra civile». Dopo il 1970, quando cioè l’umanità ha raggiunto livelli record di capacità produttiva, «la crisi ha iniziato a significare che la gente non ha abbastanza reddito». E perché il denaro non circola, beché ormai svincolato dal valore dell’oro? Presto detto: «Non esercitando più la propria sovranità monetaria, lo Stato si trova nella stessa situazione di un qualunque disgraziato che debba chiedere un prestito, se vuole fare investimenti. E non ne può fare di più grandi rispetto a quello che incamera con le tasse».Ma quello delle tasse è un falso problema, spiega Galloni: se si tagliano le tasse ma anche la spesa pubblica, la gente avrà più soldi ma li spenderà tutti per pagare i servizi che prima erano gratuiti. A quel punto la classe media si impoverisce, faccendo crollare i consumi: addio quindi a qualsiasi possibile ripresa. «I consumi aumentano se aumentano i salari, ma oggi non ci sono le condizioni: purtroppo ce le siamo bruciate per tutta una serie di scelte furiosamente sbagliate in tutti i campi, cioè tutte le politiche che hanno portato la flessibilizzazione del lavoro in precarizzazione». Questo ovviamente ha impoverito tutti, «tranne le multinazionali che venivano qui a depredare». Ma l’impresa normale «non ha un vantaggio se i lavoratori sono sottopagati, perché allora chi compra i suoi prodotti?». Si potrebbe rispondere: ci pensano le esportazioni. «Ma per essere competitivi con le esportazioni – cioè con paesi dove i salari sono ancora più bassi dei nostri – devi ridurre i salari. Quindi è sempre un cane che si morde la coda, perché per essere competitivo devi ridurre la domanda interna, ovvero l’economia interna. Che è esattamente il modello europeo. Per questo non funziona, il modello europeo. Se non si supera questo modello deflattivo, il salario sull’occupazione, non ne esce vivo nessuno. Questo lo devono capire i francesi, i tedeschi o gli olandesi e tutti quanti».Che può fare l’Italia, da subito? Lo Stato può emettere una sua moneta, in qualsiasi momento. Il Trattato di Maastricht (articolo 128a) dice che non possiamo stampare banconote. Che problema c’è? Basta stampare “Statonote”, a circolazione nazionale, da usare per assumere e per fare investimenti, «perché poi chi le accettasse le utilizzerebbe per pagare le tasse». In questo modo, si aggirerebbe anche la tagliola del pareggio di bilancio in Costituzione (regalo di Monti), «perché se abbiamo spese superiori alle tasse, basterà aggiungere questa moneta sovrana, la quale – non essendo a debito – avrà lo stesso segno algebrico delle tasse, e cioè il segno più. Quindi: tasse più moneta sovrana, uguale spesa. E abbiamo anche il pareggio di bilancio senza tanti drammi». E possiamo persino coniare degli euro. Le monete vengono stabilite dalla Bce in base a dei plafond nazionali, «quindi non possiamo coniare monete della stessa pezzatura di quelle che abbiamo in tasca. Ma possiamo farlo con altre pezzature. Già la Finlandia lo fa con monete da 2,50 euro, e la Germania ha emesso monete da 5 euro. Anche in Italia sono state emesse monete da 10 euro».In Europa, fino al 1979 la filosofia dominante era che chi fosse stato più forte doveva fare delle rinunce per aiutare gli altri. Funzionava fino a un certo punto, «perché comunque i francesi e tedeschi facevano i marpioni, i furboni, e noi italiani – come al solito – invece aiutavamo gli spagnoli, i greci e i portoghesi a entrare». Dopo il 1979, con il G7 di Tokyo, si rompe il patto di solidarietà e l’Europa ne risente, «per cui il progetto europeo diventa un altro», continua Galloni. «E allora avvengono tutta una serie di scelte che poi porteranno all’euro». A quel punto l’abbrivio è stato molto negativo, ma si voleva fare una politica “di convergenza” che costringesse gli Stati ad avere gli stessi parametri finanziari, anche se avevano situazioni diverse a livello di economia reale. E poi magari si dava un contentino con i fondi la coesione, che furono utili soprattutto per i paesi come la Polonia, che entravano nell’Unione Europea in condizioni molto difficili. «Però alla fine ci siamo trovati con un’Europa dove l’obiettivo è la massimizzazione delle esportazioni, anche a basso valore aggiunto, che si realizzano riducendo salari e occupazione. Quindi è una politica deflattiva dove l’euro funge da moneta straniera, artificiosamente scarsa, che per averla devi pagare». Una vita d’uscita? «La moneta parallela statale, che non è a debito». Non è l’unica soluzione, ma è un passaggio fondamentale: «Dobbiamo rompere l’artificiosità della scarsità, perché sennò non ne usciamo».Ad esempio, per fare il reddito di cittadinanza «dobbiamo togliere a una parte della classe media delle risorse per darle a quelli che non hanno reddito». Errore: il vero reddito di cittadinanza, dice Galloni, deve consistere nella creazione di 7-8 milioni di posizioni lavorative «per mandare a regime tutte le esigenze della società italiana in termini di ambiente, di assetto idrogeologico del territorio, di cura delle persone (soprattutto gli anziani, ma anche i bambini) e di recupero del patrimonio artistico, archeologico e comunque esistente: manutenzioni, strade e ferrovie». Quindi, «se davvero vogliamo essere un paese moderno, è chiaro che abbiamo bisogno di 7-8 milioni di addetti». Ma non ne abbiamo, «quindi non c’è bisogno di fare il reddito di cittadinanza». C’è bisogno, invece di lavoro: che si può creare rapidamente, con moneta sovrana. «Dobbiamo rompere la condizione di scarsità artificiosa, che è voluta per asservire la gente e rendere la democrazia un costo. Invece, la democrazia dev’essere un modo che noi scegliamo per vivere, come scritto nella nostra Costituzione. Se invece diciamo che la democrazia non ce la possiamo permettere – perché non abbiamo i soldi per gestirla – è chiaro che non c’è soluzione».Macché reddito di cittadinanza: serve moneta sovrana per creare 7-8 milioni di posti di lavoro, nel più breve tempo possibile, o il grande capitale straniero – francese, in primis – sbranerà quel che resta dell’Italia. Così Nino Galloni risponde all’allarme lanciato sul “Corriere della Sera” da Roberto Napoletano, già direttore del “Messaggero” e del “Sole 24 Ore”: «La Francia ha un disegno di conquista strategico e militare sull’Italia: indebolirne le banche, prenderne i gioielli, conquistare il Nord e ridurre il Sud a una grande tendopoli». Attenzione, perché Napoletano è stato molto vicino al potere: «Quindi, se in questo momento lancia un grido d’allarme così forte – dichiara Galloni a Claudio Messora, su “ByoBlu” – vuol dire che effettivamente chi è vicino al potere ha la percezione di quello che potrebbe succedere in Italia da qui a uno o due anni: una situazione sociale che si sta sempre più lacerando, fino a un’eventuale rottura». In estrema sintesi: se lo zero-virgola di Pil dell’ultimissima mini-ripresa racconta che 20 milioni di italiani stanno un po’ meglio, ce ne sono 15 che restano in condizioni di povertà vera e propria, mentre 25 milioni di italiani stanno scivolando verso il baratro, senza neppure il paracadute del welfare, che ormai è residuale e protegge solo i poveri.
-
D’Alema: gli italiani non fanno più figli. Chissà come mai…
Come mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.D’Alema appartiene a pieno titolo alla storia del Novecento: il suo nome è legato per sempre all’infelice stagione che vide incrinarsi i decenni del benessere, preparando il crollo sistemico al quale stiamo assistendo. Ma la vera notizia è che l’ex premier sia ancora in campo nel 2017, tra le fila (meramente anti-renziane) di un sedicente movimento “democratico e progressista”. Quella di D’Alema sembra una voce proveniente dalle catacombe della politica, dal cimitero neoliberista nel quale marcirono e poi morirono, a volte anche assassinate, le migliori idee di progresso sociale, giustizia e solidarietà, incarnate in Europa da giganti del pensiero come Olof Palme, leader della gloriosa socialdemocrazia svedese, artefice del più avanzato welfare del continente. Nel salottino televisivo di Lilli Gruber, D’Alema parla come se nulla sapesse di quanto è avvenuto, in questi anni, al paese a cui oggi si rivolge: la colossale svendita del patrimonio nazionale, i tagli sanguinosi alla spesa sociale, l’austerity, la precarizzazione del lavoro e la piaga della disoccupazione. Dov’era, D’Alema, quando l’Italia organizzava il proprio suicidio socio-economico con il macigno del Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni, la crocifissione della Costituzione mediante pareggio di bilancio obbligatorio?L’ex premier post-comunista parla come se non conoscesse Mario Draghi, come se non avesse mai sentito nominare Napolitano e Monti, la Merkel e la spietata Troika che ha ridotto alla fame una nazione come la Grecia. Si limita a descrivere l’Italia come un paese curiosamente in crisi demografica, i cui abitanti – chissà perché – hanno smesso di sposarsi e di metter su famiglia. Il giornalista Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine”, presenta D’Alema come “allievo” di Jacques Attali, eminente politologo francese, già “consigliere del principe” quando lavorava all’Eliseo. Un grande economista transalpino, Alain Parguez, rivela che proprio Attali, oggi padrino di Macron, contribuì a determinare la svolta neo-reazionaria del presidente socialista Mitterrand, “l’inventore” della soglia del 3% (del Pil) come tetto alla spesa pubblica. Una regola artificiosa e nefasta, anti-economica, da allora utilizzata dall’élite finanziaria per scatenare l’attacco frontale alla sovranità di bilancio degli Stati europei, mettendo fine alla loro capacità di realizzare politiche progressiste.Nel suo saggio del 2014 sulla segreta geografia supermassonica del massimo potere (“Massoni”, Chiarelettere), Gioele Magaldi collega D’Alema e Attali sul piano delle loro frequentazioni più riservate: il primo, scrive, milita in due diverse Ur-Lodges, la “Pan-Europa” e la “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, mentre il secondo nella “Three Eyes”. Secondo Magaldi, le “logge madri” sono strutture esclusive e sovranazionali del back-office del potere, incubatrici di ogni grande decisione finanziaria, economica e geopolitica. Quelle citate, in relazione a D’Alema e Attali, sempre secondo Magaldi (a sua volta “iniziato” alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”) sono superlogge orientate in senso neo-aristocratico, grandi protagoniste della globalizzazione universale che sta privatizzando il pianeta, senza più altra bandiera che quella del denaro. Se la figura politica di D’Alema resta complessa, legata alla tormentata conversione atlantica degli ex comunisti (D’Alema fu il primo premier italiano proveniente dal Pci, il partito di Togliatti e Berlinguer), può sembrare un mistero l’ipotetica attualità della sua proposta odierna, la sua stessa permanenza nel club degli interlocutori politici italiani.D’Alema sarà addirittura tra i competitori elettorali del 2018, per giunta nel cartello guidato dall’imbarazzante Bersani, che si richiama in modo surreale all’articolo 1 della Costituzione (“fondata sul lavoro”, ma in realtà “affondata” dalla costituzionalizzazione del rigore imposta dal governo Monti, con i voti di Berlusconi e dello stesso Bersani). La surrealtà di questa sedicente sinistra prosegue nell’omaggio ricorrente a Romano Prodi, il super-privatizzatore dell’Iri che riuscì a passare da Palazzo Chigi alla Goldman Sachs, fino alla guida della Commissione Europea, cioè l’organismo che ha inflitto le maggiori sofferenze ai lavoratori europei. Al fantasma di Prodi, peraltro, si oppone quello del Cavaliere, che allatta agnellini per la gioia degli animalisti ed evoca spettacolari candidature securitarie, scomodando alti ufficiali dei carabinieri. Poi naturalmente c’è l’odiato Renzi, per il quale il male italico numero uno resta “la burocrazia” (infatti: il problema di Palermo è il traffico, dice Benigni nel film in cui interpreta il boss mafioso Johnny Stecchino). E i 5 Stelle? Lontani anche loro dalla zona rossa, quella del vero pericolo: il loro mitico “reddito di cittadinanza” lo finanzierebbero semplicemente “tagliando gli sprechi”, non certo bocciando i diktat di Bruxelles. Un quadro pittoresco, nel quale diventa comprensibile persino la sopravvivenza giurassica dello stesso D’Alema, così sbadato da non domandarsi perché l’Italia sia tanto in crisi, al punto da smettere di fare figli.Perché mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.
-
Farmaco, Italia beffata: tutte al Nord Europa le agenzie Ue
Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.A fare la parte del leone nel computo delle agenzie sono da un lato il Benelux, triangolo fondatore dell’Unione perno del Nord Europa e incardinato nell’asse franco-tedesco: Belgio, Olanda e Lussemburgo. Poi la Francia e il satellite mediterraneo della Germania, la Spagna, che con il suo tradimento nella votazione sull’Ema ha pregiudicato il successo di Milano. Le briciole finiscono all’Italia, agli altri paesi del Mediterraneo e all’Europa dell’Est. Il risultato è un’Europa sbilenca, sbilanciata a Nord. Sulla quale aleggia un ormai maturo «basta!». Le agenzie, in 24 dei 28 paesi, ci costano 1,2 miliardi di euro, pari allo 0.8 per cento del budget europeo. Ma regalano con l’indotto una torta miliardaria ai paesi che le ospitano. A Bruxelles, che già ospita Parlamento e Commissione, ce ne sono 9, comprese l’Agenzia europea per la Difesa (Eda) e il Comitato unico di risoluzione delle crisi bancarie. Hanno base nella capitale belga il grosso delle Agenzie esecutive a tempo, da quella per le Piccole e medie imprese (Easme) a quella per l’Educazione, audiovisivo e cultura, e per la Ricerca.Il Lussemburgo (che già esprime il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, tedesco di formazione, lingua e affinità politica, zavorrato a sua volta da un capo di gabinetto germanico, Martin Selmayr, da molti considerato il vero presidente, più potente dello stesso Juncker) ospita l’Agenzia esecutiva Ue per i Consumatori, salute, agricoltura e cibo. Ma anche la Banca europea di investimenti. E la Corte europea di giustizia, da non confondere con la Corte per i diritti dell’uomo con sede all’Aja, Olanda, emanazione del Consiglio d’Europa che travalica gli stretti confini europei. Nei Paesi Bassi ci sono, sempre all’Aja, gli uffici Europol e Eurojust, rispettivamente per la collaborazione tra le forze di polizia e giudiziaria. Adesso, ad Amsterdam, per fare l’en plein andrà pure l’Ema, anche se il primo mattone della nuova sede dev’essere ancora gettato (investimento previsto, 250-300 milioni). Altra mattatrice la Francia, con 5 agenzie tra cui l’Esma che regola il mercato borsistico, ora pure quella che fissa le regole bancarie dopo il suicidio brexistico del Regno Unito, attribuita tramite sorteggio a Parigi per lo spareggio con l’Irlanda (Dublino).Parigi non si fa mancare l’Agenzia spaziale europea e quella per le Ferrovie. A Copenaghen, Danimarca, l’Agenzia per l’Ambiente. In Germania, a prima vista, solo 2 agenzie: per la sicurezza aerea e l’Autorità per le assicurazioni e pensioni aziendali e professionali. Ma vale più agenzie, a Francoforte, la Banca centrale europea (Bce), guidata dall’italiano Mario Draghi. E una sezione del Tribunale unificato dei brevetti a Monaco, strappata proprio a Milano perché l’Italia, all’epoca, si era battuta per il mantenimento dell’italiano come lingua ufficiale dell’Unione. L’altra sezione si trova a Londra: potrebbe diventare il contentino per Milano a cui si riferiva l’altro ieri Maroni? Ad Alicante, Spagna, opera l’ufficio per i marchi, la proprietà intellettuale, con uno staff di 913 persone e un budget di oltre 384 milioni. Ed è uno dei tanti, troppi (in proporzione) enti europei che si è accaparrata Madrid con la sua politica ancellare rispetto all’asse franco-tedesco, con l’Agenzia per la Pesca a Vigo, quella per la sicurezza sul lavoro, il Centro satellitare europeo, e a Barcellona lo Sviluppo dell’energia atomica. Non proprio bazzecole.Paradossali per dislocazione le attribuzioni della cyber-sicurezza a Creta o l’agenzia Frontex per il controllo delle frontiere Ue a Varsavia, dove i boat-people sono una leggenda esotica. La Francia beneficia inoltre dello sdoppiamento del Parlamento tra Bruxelles e Strasburgo. A proposito, qui il segretario generale e il suo vice sono entrambi tedeschi. E tedesco è il maggior numero di direttori generali della Commissione. Raccontano i funzionari Ue che ci sono riunioni del lunedì tra capi di gabinetto che istruiscono la riunione dei commissari il mercoledì, in cui tra capi e vice i tedeschi arrivano a essere 15 su 28. Sono loro le figure chiave, quelle che gestiscono i fondi dell’Unione. Cruciale la casella occupata da Gunther Oettinger al bilancio e alle risorse umane. Dal 2014 il governo italiano ha puntato su un riequilibrio, arrivando a 2 capi di gabinetto e 4 vice, più 24 italiani nei gabinetti dei commissari. Quattro i direttori generali, anzi 3 dopo che uno, Kessler, si è dimesso. Parecchi, circa il 10 per cento, i vincitori italiani ai concorsi per entrare negli organismi della Ue. Segno che i nostri giovani si fanno valere. Ma la strada per riequilibrare gli assetti è in salita.Le figure di spicco della burocrazia europea che parlano italiano sono Marco Buti agli Affari economici e finanziari, Roberto Viola al Mercato unico digitale e Stefano Manservisi alla cooperazione allo Sviluppo. Scarsa la nostra presenza nei gabinetti dei portafogli economici. E veniamo agli scampoli. Per restare sul tema delle agenzie, l’Italia ne conta realmente solo due (e mezzo). La Sicurezza alimentare a Parma, risultato di una battaglia all’ultimo sangue con la Finlandia, e quella (poco rilevante) per la Formazione a Torino, più il Centro per la meteorologia che si sposterà dal Regno Unito a Bologna, forte di un mega-computer. E a Varese l’Ispra, Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale. Bruscolini. Secondarie le agenzie dislocate nel resto d’Europa, nel Sud e all’Est. Siamo 28, ma il cuore e il portafogli battono a Nord. Ma l’Europa si è ristretta al Grande Benelux?(Marco Ventura, “Ma cosa ci stiamo a fare in Ue se si pappa tutto l’Europa del Nord?”, dal “Messaggero” del 23 novembre 2017, articolo ripreso da “Dagospia”).Altro che monetina. Altro che pallina da biliardo finita per caso nella buca sbagliata. La mancata vittoria di Milano, la candidata italiana a ospitare l’Agenzia europea del farmaco (Ema) in trasmigrazione da Londra causa Brexit, è frutto della blindatura del blocco teutonico esercitato vuoi con discrezione da colonizzatori e tessitori diplomatici, vuoi con calibrati atti di forza. I franco-tedeschi hanno occupato tutti gli snodi fondamentali delle decisioni politiche, quelli che manovrano i bilanci più capienti o dai quali dipendono le scelte finanziariamente rilevanti. Oltretutto, la Germania è riuscita a disegnare una rete di controllo effettivo che punta più sul peso che sul numero degli enti legati o collegati all’Unione. Basta guardare la cartina con le bandierine dei paesi membri sulle 48 agenzie targate Ue, ma anche sulle istituzioni comunitarie. E più che nei livelli politici, nei piani determinanti per la formazione dei dossier e l’istruzione delle pratiche in mano ai commissari: direttori generali, segretari generali, capi di gabinetto e loro vice.