Archivio del Tag ‘Catarismo’
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Potere, dogma, dominio: noi e i Catari, i “Bogre” del 1200
I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.E se la tenebrosa “setta asiatica” (stranamente non citata da Messori, solo evocata) fosse il Manicheismo, è bene sapere che ormai gli storici escludono categoricamente qualsiasi filiazione dottrinaria tra la predicazione del profeta persiano Mani e l’affermazione balcanica dei bogomili, i progenitori dei càtari. Il Padre Celeste adorato dai Buoni Cristiani – ribattezzati “càtari” dai loro sterminatori – era in tutto simile ad Ahura Mazda, la divinità della luce di Zoroastro, ispiratore della religione più diffusa in Medio Oriente fino all’anno zero: sarebbero sacerdoti mazdei i Magi venuti dall’Oriente di cui parla il Vangelo di Matteo, accorsi ai piedi della culla di Betlemme. Se il Cattolicesimo contempla la vita ulteriore, “eterna”, al di là di quella presente, sia il Mazdeismo che il successivo Catarismo danno estrema importanza alla terza fase dell’esistenza, che in realtà è la prima, chiaramente narrata nelle loro teologie. La dimensione materiale? E’ vissuta come passaggio transitorio, una dolorosa “caduta” rispetto allo stadio precedente, quello in cui le anime vivevano in beatitudine “al cospetto di Dio”. Missione del credente càtaro: aiutare l’umanità a “tornare a casa”, adottando il modello evangelico (rifiutare beni e ricchezze) per riconquistare l’accesso alla terra d’origine, l’ancestrale ascendenza “divina” di cui sarebbe rimasta una traccia, una scintilla, in ogni essere vivente.Proprio il mito del ritorno pervade un suggestivo racconto dei Sufi, quello dei costruttori di navi: compito del credente è custodire l’arte del carpentiere, anche se il potere del mondo detesta i “costruttori di navi”, imponendo questo mondo come l’unico possibile. Un ponte diretto collega i mistici “dervisci” a Francesco d’Assisi, che entrò in contatto con loro durante il suo viaggio in Egitto – per poi replicare il modello dei Sufi, asceti “vestiti di lana grezza”, nel futuro ordine francescano, a sua volta poi tacciato di eresia e avvicinato pericolosamente proprio al Catarismo. Sembra un fantasma scomodo, ancora oggi, quello dell’eresia cristiana dualistica del medioevo: se un intellettuale militante come Messori la attacca frontalmente, puntando a screditarla e demonizzarla, un laico come Eugenio Scalfari in un articolo su “Repubblica” arriva a equipararla, sbadatamente, a un altro Cristianesimo alternativo, quello di Pietro Valdo, per il quale invece la divinità era una sola – non esiste Dio Straniero, per i valdesi: il mondo è opera di una sola mano, quella dell’Altissimo.Anche se non lo si vuole ammettere, osserva il regista Fredo Valla, autore dell’atteso documentario “Bogre” (un viaggio tra bogomili e càtari, dalla Bulgaria alla Francia), l’eresia cristiano-dualistica scosse il medioevo europeo come un terremoto. Condannando la materia come frutto di una “creazione dannata”, opera del Demiurgo sfuggito al controllo della divinità celeste (buona, ma non onnipotente), contestava il ruolo sociale e politico dell’istituzione religiosa come garante dello status quo, dell’ordine feudale. In Linguadoca, Acquitania e Guascogna il Catarismo fu tollerato fino a quando, a prendere i voti, non furono i figli dei nobili: disposti a rinunciare ai feudi di famiglia, pur di abbracciare la predicazione dei Buoni Uomini. E’ esplicito l’inutile grido d’allarme lanciato, a Roma, da Bernardo di Chiaravalle, reduce da una missione esplorativa nelle terre occitane: il grande monaco spiegò al pontefice che nel Midi francese la fede càtara accomunava aristocrazia e popolo, di fronte allo spettacolo indecente offerto dal clero cattolico, ricchissimo e corrotto. Il futuro San Bernardo raccomandò la via della persuasione, dopo aver bonificato le diocesi per riconquistare i fedeli. Ma il Papa, Innocenzo III, preferì la via delle armi: alla carneficina della Crociata, che in vent’anni di guerra precipitò l’Occitania nella rovina economica, seguì la catastrofe dell’Inquisizione anti-càtara, durata 70 anni, che inaugurò il terrore come arma politica sistematica.Guardare tra quelle pagine con spirito laico e distaccato non è mai semplice, avverte una studiosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sul Catarismo anche italiano: si rischia di cadere in posizioni preconcette, che non tengono conto dello spirito dei tempi, rinnovando polemiche anacronistiche. Sbagliato fare del Catarismo una sorta di mitologia new age: nel saggio “I Catari, gli eretici del male”, la Flöss si addentra fra le diatribe – prosaiche, umanissime – delle svariate comunità càtare del Lago di Garda, in competizione tra loro per la leadership teologica. Da una parte i “bulgari”, moderati e fiduciosi – come i bogomili (e i mazdei) – nella riconciliazione universale “alla fine dei tempi”, e dall’altra i càtari radicali, come il pope Niketas che evangelizzò Tolosa, convinti dell’irriducibile opposizione tra bene e male. Sul fronte opposto, nella Crociata Albigese, ai baroni francesi del Nord furono promessi i feudi del Sud come preda di guerra, ma i soldati ai loro ordini – quelli che fecero strage della popolazione civile – era stata promessa la remissione dei peccati, cioè il viatico per la vita eterna, in cambio della pulizia etnico-religiosa che avrebbe liberato l’Occitania dalla peste eretica.La stessa Simone Weil, autrice del meraviglioso saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, sottolinea la presenza della “pietas” tra i versi della Canzone della Crociata, opera di autori cattolici: nel poema non viene mai meno la profonda pietà per gli sconfitti. E’ un sentimento che la Weil attribuisce alla temperie socio-culturale della terra dei Trovatori, straordinariamente tollerante, al punto da far riverberare lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, con il culto della bellezza opposto a quello della forza. E il “paratge”, il particolare senso dell’onore che anima l’ideale cavalleresco occitanico, ricomparirà sicuramente nel viaggio cinematografico di Fredo Valla, alla ricerca – sulla scorta della lezione di Simone Weil – di una perduta dimensione del vivere, che stranamente fiorì in quella regione, a partire dal 1100, prima che calasse il sipario del sangue e della paura. Molto semplicemente: in modo forse anche ingenuo, il Cristianesimo eretico dei càtari – in pieno medioevo – contesta il fatto che una religione possa indossare i panni del potere. Oggi, nel 2018, il mondo è in mano a un potere laico, fondato solo sul denaro, che però esercita il suo dominio mediante dogmi di tipo religioso, come quello neoliberista. Perché perdere tempo a fare assurdi processi alla storia, quando è possibile guardarci dentro, in quella storia, anche grazie a un documentario, per poi magari scoprire che qualcosa, del nostro presente, può avere un fondamento tra le pagine dell’epopea dei “Bogre”?I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.
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Il Re Cristiano: Alarico era giudeo, chi glielo spiega a Hitler?
Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città, si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inultilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?Avete sempre scavato dalla parte sbagliata, scrive Carpeoro, perché Alarico non era un barbaro germanico: era romanizzato e cristiano, sia pure di confessione ariana. E forse addirittura ebreo, discendente nientemeno che dalla Maddalena e da Giuseppe di Arimatea, il misterioso armatore che riscattò il corpo di Cristo da Pilato. L’oscuro Giuseppe di Arimatea, cioè l’uomo che poi, si racconta, nel Primo Secolo guidò la spedizione navale che portò in Europa il Cristianesimo, tramite lo sbarco in Provenza delle “Marie venute dal mare” guidate proprio da Maria di Magdala, il cui vero nome – Miriam – è quello che tuttora i Gipsy attribuiscono alla loro regina, consacrata ogni anno a Saintes-Marie-De-La-Mer, in Camargue. Ma che c’entrano, i Goti, con i profughi palestinesi di origine semitica, probabilmente giudei, che raggiunsero le coste meridionali della Francia dopo i fatti di cui parlano i Vangeli? C’entrano eccome, se è vero che i Goti discesi dal Baltico e spintisi a ovest del Danubio – i Derving – poi cambiarono nome, secondo l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, adottando la “M” di Miriam per diventare Merovingi, dinastia regale. E’ così strano pensare che un popolo erratico di origine baltica, poi attestatosi in Francia, sia entrato in contatto con i proto-cristiani di Palestina? Certo che no, se si pensa che i Goti furono in gran parte cristianizzati, già nel Quarto Secolo. Ma attenzione: non erano cattolici, erano seguaci di Ario.Corrente gnostica, secondo cui Cristo è “figlio di Dio” esattamente quanto noi, ciascuno avendo in sé la propria quota di divinità, l’Arianesimo (bocciato nel 325 dal Concilio di Nicea insieme a tutti gli altri cristianesimi non cattolici) ebbe un vastissimo seguito, specie nell’Europa balcanica popolata dai Goti, all’epoca reduci dal Medio Oriente turco: il loro primo vescovo, Wulfila, a partire dall’anno 348 tradusse la Bibbia in lingua gotica. E’ proprio lui, Ulfila, che apre il romanzo meta-storico di Carpeoro, svelando al giovane Alarico il senso profondo e segreto della sua missione: conquistare la regalità nella giustizia, proprio nel nome della mitica antenata Miriam. Simbologo e studioso dei Rosacroce, Carpeoro fa discendere quel “mandato ancestrale” (il governo terreno illuminato dall’alto) direttamente dalla Bibbia: è il compito che Abramo riceverebbe dal misterioso Melchisedek, “Re di Giustizia”, al quale chiede di essere autorizzato a regnare sugli ebrei. E’ il mandato che poi Giuda riceverà a sua volta da Giacobbe-Israele, che descrive le doti del figlio con i tre colori della bandiera italiana. Nella tradizione, proprio il bianco, il rosso e il verde designeranno il contenuto simbolico della discendenza di Davide, fino a tradursi nelle virtù teologali cristiane (fede, speranza e carità). Valori che il potere del mondo ha bandito, ma che qualcuno – in nome di Cristo – ha provato a restaurare? Anche indossando i panni, germanici ma romanizzati, dell’inquieto sovrano dei Goti dell’Ovest?E’ la tesi attorno a cui si interroga Carpeoro, avvicinando il lettore ai primissimi secoli attraverso l’espediente letterario del noir, impersonato dall’anomalo ricercatore milanese Giulio Cortesi, appassionato di musica e soprattutto di cucina. Come già nel “Volo del Pellicano” e poi in “Labirinti”, Cortesi è vegliato dal suo ruvido angelo custode, il commissario Amedeo Bertossi, il cui mestiere non è inseguire fantasmi del passato, ma brutali assassini in carne e ossa. Killer contemporanei, che questa volta fanno fuori un professore – tedesco – che aveva scoperto qualcosa di sconcertante sulla vera identità di Alarico. Un’intuizione fondamentale, imbarazzante e molto pericolosa, che porta dritto anche alla precisa ubicazione della leggendaria sepoltura del condottiero. Se Cosenza è tuttora alla ricerca del Tesoro di Alarico su quella che era la riva pagana del Busento, Carpeoro – che è cosentino di nascita – cita il conterraneo Vincenzo Astorino per suggerire che le spoglie del sovrano vanno cercate sulla sponda opposta del fiumicello, quella che all’epoca era cristiana, dove sorgeva l’antichissima chiesetta di San Pancrazio, oggi interrata dai detriti alluvionali. Secondo la leggenda – e la poesia di August von Platen, tradotta da Carducci – quel piccolo corso d’acqua avrebbe addirittura sommerso il Re dei Goti, inumato (come poi Attila) insieme al suo cavallo nel letto del torrente, deviato per l’occasione.A decrittare anche quei versi ottocenteschi – scomponendoli, in un gioco enigmistico – provvede, nel romanzo, la favolosa équipe di cui si avvale Cortesi: il professore torinese e il suo amico simbologo, l’anziano architetto milanese che tiene in casa un Caravaggio non censito, e poi il vero “aiutante magico”, Fra’ Tommasino, il decano dell’Abbazia di Chiaravalle, “coadiuvato” (in sogno) da Cecilia, la ragazza amata dall’immenso pittore Giorgione, sulla cui “Tempesta” la critica non ha finito di arrovellarsi. Una trama agile e avvincente, piena di colpi di scena giocati tra Milano e la Calabria, riesce a trasportare il lettore tra le brume meno esplorate degli ultimi decenni dell’Impero Romano, dato già per morto quando invece era ancora enorme l’impronta di un grande imperatore come Teodosio. E’ proprio nella guerra di successione che si inserisce l’apparente outsider “germanico” Alarico, che contende Galla Placidia al figlio del suo altrettanto apparente antagonista, il generale Stilicone, accanto al quale ha anche combattuto per difendere Roma. Alarico? Era sì il Re dei germanici Dervingi, ma anche un cittadino romano, promosso addirittura governatore dell’Illiria. E non era pagano: era cristiano. Di più: era ariano, devoto al vescovo Ulfila.Se poi il termine “ariano” ha assunto tutt’altro significato, lo si deve all’Uomo Nero, Hitler, che – in nome del mito della purezza razziale – spedì a Cosenza gli archeologi di Himmler e cercare, inutilmente, le spoglie (e il tesoro) del loro presunto campione germanico. Quello è il modo in cui la lettura distratta della storia può deviare dalla verità, coniando stereotipi e luoghi comuni che poi innescano dinamiche che finiscono sempre nello stesso modo, cioè con una strage di massa. Ne sa qualcosa il sinistro Rudolf von Sebottendorff , il vero fondatore del nazismo “etnico”, il cui spettro si presenta puntuale all’appuntamento coi lettori di Carpeoro – che non è uno storico, ma un simbologo: nella storia, cerca quello che gli storici non dicono, e forse non sanno. Per esempio: perché Alarico, conquistata Roma, porta con sé Galla Placidia? E perché, se voleva dirigersi in Africa, non è salpato da qualsiasi porto tirrenico, spingendosi invece fino a Reggio Calabria, cioè verso la rotta ionica del Medio Oriente? Aveva forse con sé qualcosa di prezioso, che – come poi i Templari – doveva essere “rimesso al suo posto”, cioè nel Tempio di Salomone a Gerusalemme, simbolo dell’unità pacifica di tutti i popoli della Terra?“Il Re Cristiano” (l’acronimo è R+C, Rosacroce) è un romanzo per chi ama le domande, più che le risposte. E’ il sequel della storia che lo precede, “Labirinti”, e in fondo disegna un altro dedalo: come Teseo ha bisogno dell’amore di Arianna per uscire vivo dal labirinto del Minotauro, il valoroso Alarico deve avere al suo fianco Galla Placidia. Non riuscirà a portare a termine la missione, morendo ancora giovane senza poter instaurare il suo “regno di giustizia” a Roma? Ma la storia non finisce lì, avverte Carpeoro. Vi siete mai chiesti chi fosse, davvero, Galla Placidia? Perché era così ambita, importante, decisiva? Vi siete mai domandati perché si fece erigere lo spettacolare mausoleo funebre a Ravenna, poi scegliere di essere sepolta altrove? Cosa nasconde, allora, il Mausoleo di Galla Placidia? E perché proprio lì, a due passi – come fosse un “guardiano della soglia” – volle farsi seppellire Dante Alighieri, amico dei Càtari e dei Templari, nonché capo della confraternita iniziatica dei Fidelis in Amore? Sono solo domande, non risposte. Ma quelle, del resto, spesso mancano anche agli storici. E appunto, a proposito di Goti: qualcuno s’è mai chiesto perché si chiamino “gotiche” le meravigliose cattedrali che ornano le capitali europee, erette mille anni dopo Alarico? E cosa salterebbe fuori, a Cosenza, se qualcuno prima o poi si decidesse a gettare la rete “dall’altra parte”?(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il Re Cristiano”, Melchisedek, 272 pagine, 22 euro).Gettate la rete dall’altra parte della barca, e troverete. E’ una pesca miracolosa quella che il redivivo Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette agli apostoli increduli: se volete pesce, calate le vostre reti sul fianco destro dell’imbarcazione. Linguaggio cifrato: la verità ti attende dove mai avresti pensato che fosse – magari dentro di te, nell’emisfero destro del cervello? Tra le pagine (romanzesche) dedicate a un personaggio devotissimo all’uomo di Betlemme – il “Re Cristiano”, appunto, in azione trecento anni dopo gli eventi evangelici – Gianfranco Carpeoro avverte: li state cercando dalla parte sbagliata, i resti del mitico sovrano dei Visigoti, l’autore del primo Sacco di Roma. Lui, Alarico, recava scritto già nel suo nome il proprio destino: “Re di tutti”, in lingua norrena proto-germanica. “Re di tutti”, tant’è vero che non voleva affatto radere al suolo Roma: al contrario, ambiva a diventarne l’imperatore. Per questo, lasciata la città (non saccheggiata da lui, ma dai detenuti liberati) si portò via l’augusta principessa discendente della “gens Flavia”, Galla Placidia, sua promessa sposa, insieme a cui si spinse in Calabria per poi attraversare il Mediterraneo: diretto in Africa o a Gerusalemme? Morì a Cosenza, di malaria o avvelenato. Fu sepolto insieme al suo tesoro, a lungo inutilmente cercato – anche da Hitler. E adesso chi glielo spiega, al Führer, che forse il suo Alarico era addirittura un giudeo?
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Bogre, il martirio dei Catari che nessuno vuole ricordare
«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della più recente pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora accomunato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».Catarismo e Bogomilismo, riassume il regista, reduce dalle prime riprese condotte in Bulgaria, «sono la testimonianza storica di un medioevo tutt’altro che buio e immobile come spesso viene rappresentato: le idee viaggiavano da un capo all’altro dell’Europa, dai Balcani ai Pirenei, dall’Italia centro-settentrionale alla Bosnia». Proprio in Bulgaria, la troupe ha filmato i luoghi dell’eresia bogomila e raccolto le testimonianze dei più grandi esperti: «Abbiamo incontrato storici, filologi, archeologi. È stata la prima tappa, la seconda sarà in Occitania francese e poi seguiranno l’Italia centro-settentrionale, la Bosnia e Istanbul». La ricognizione filmica in Occitania rappresenta il cuore del documentario: «Qui la vittoria della Chiesa di Roma, delle armi dei crociati e dell’Inquisizione sui càtari, pose fine a un’idea di Dio che si voleva fedele alle origini, che predicava la pace, sosteneva l’eguaglianza sociale e – cosa inaudita a quei tempi – la parità uomo-donna». Fu lo sterminio di un mondo, aggiunge Valla, che ora promette di far entare gli spettatori «nella quotidianità dell’essere càtari e bogomili in quegli anni». All’eresia non aderirono solo i servi e i contadini che si opponevano all’alto clero, ma anche i feudatari e le classi mercantili e colte delle città.«Sono tante le famiglie di alto lignaggio che abbracciarono la novità della dottrina càtara: a Firenze – spiega l’autore di “Bogre” – erano càtari personaggi che tutti conosciamo, come Farinata degli Uberti, il poeta Guido Cavalcanti e, secondo studi recenti, lo stesso Dante Alighieri». Eppure, nonostante il suo evidente ruolo storico, il Catarismo spesso viene considerato un fenomeno marginale. Innumerevoli documenti e tradizioni svelano i rapporti dottrinali e umani che unirono i dualisti dell’Est Europa a quelli dell’Ovest: «L’episodio che rappresenta al meglio il mondo di “Bogre” è il concilio càtaro che si tenne nel 1167 a Saint-Felix de Caraman, presso Tolosa: un concilio a cui parteciparono rappresentanti delle varie comunità càtare occitane e italiane (le comunità di Tolosa, Carcassonne, Albi e Aran, più Marco di Lombardia per l’Italia) e che vide tra gli invitati il bogomilo Nicetas, che trasmise lo Spirito Santo attraverso l’unico sacramento riconosciuto dai càtari, il “consolamentum”». È innegabile che tra i due movimenti religiosi ci fosse non solo un’affinità, ma rapporti tutt’altro che sporadici. Entrambi condividevano una teologia drasticamente alternativa a quella cattolica: per càtari e bogomili, il mondo materiale era il frutto di una “creazione dannata”, operata dal Dio Straniero, alla quale il Padre Celeste (signore del cielo, ma non onnipotente) non aveva potuto opporsi.Può sembrare un espediente teologico: scagionare “Dio” dalla responsabilità del male presente nel mondo. Ma il sincretismo gnostico e proto-cristiano dei càtari ricorda da vicino la grande religione largamente diffusa nell’area mediorientale fino all’anno zero, quella dei Magi “venuti dall’Oriente” ad adorare il neonato di Betlemme. Era l’antica religione di Zoroastro, il mazdeismo, risalente al 1400 avanti Cristo, che aveva abolito i sacrifici animali (i càtari poi saranno addirittura vegetariani) e aveva aperto il sacerdozio alle donne (accanto ai Perfetti, il Catarismo ordinerà le Perfette). I Buoni Uomini, o Buoni Cristiani, erano casti e “francescani”, nonviolenti, contrari alla proprietà privata. La prima strage di massa, nel 1028, fu ordinata, suo malgrado, dal vescovo milanese Ariberto d’Intimiano, che interrogò i “bulgari” catturati a Monforte d’Alba, nelle Langhe: bruciateci pure, rispose il loro portavoce, così torneremo più velocemente al Padre Celeste. Il loro motto (“Noi non siamo del mondo, e il mondo non è nostro”) ricalca quello dei Sufi, con cui strinse un sodalizio Francesco d’Assisi. “Nel mondo, ma non del mondo; nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”, è infatti il credo dei mistici islamici, da cui derivano i Dervisci Rotanti.In piena “new age”, avverte una studiosa rigorosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sull’argomento, il Catarismo è stato anche strumentalizzato, in modo superficiale, in funzione anti-cattolica. Uno dei massimi storici europei del fenomeno, il francese René Weis, interpreta l’adesione a quell’eresia come il bisogno del credente medievale di tornare agli ideali evangelici, in un’epoca dominata dal potere ecclesiastico, spesso corrotto. Fu lo stesso Bernardo di Chiaravalle a condurre una storica missione in Occitania: lo stile di vita dei càtari è esemplare, riferì al Papa il futuro San Bernardo, auspicando che il clero cattolico abbandonasse lussi e privilegi. Il pontefice non era dello stesso avviso: Innocenzo III bandì addirittura una crociata, in terra europea, per stroncare un’eresia che – attraverso l’adesione della classe dirigente, l’aristocrazia e la nascente borghesia artigianale e mercantile – metteva in pericolo il potere del Papato. Fonti storiche citate da Weis parlano addirittura di mezzo milione di morti, fra Crociata Albigese e Inquisizione. La tragedia scoppiò nel 1209, quando la cittadina rivierasca di Béziers, in Linguadoca, si oppose al diktat dei crociati: volevano che Béziers consegnasse loro i 200 eretici riparati fra le mura. Di fronte al rifiuto dei consoli, l’abate Arnaud Amaury – capo spirituale della crociata – reagì nel modo più spietato: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».La tradizione storiografica parla di migliaia di vittime. Lo choc per lo sterminio dell’intera popolazione di Béziers spinse il potente Re d’Aragona, Pietro II, a scendere in battaglia a fianco del conte di Tolosa, che difendeva – di fatto – la libertà di culto nelle terre occitane. Pietro II perse la vita nel 1213 combattendo cavallerescamente nella battaglia di Muret, ma la crociata devastò la regione fino al 1229. Si arrese Tolosa, ma non i suoi alleati: i cavalieri “faidits”, messi al bando, si rifugiarono nei castelli di montagna sui Pirenei, per proteggere gli eretici in fuga. Nel 1244, dopo nove mesi di assedio, cadde la fortezza di Montségur. L’ultima notte prima della resa, donne e soldati vollero ricevere il “consolamentum”, il battesimo càtaro, ben sapendo cosa li avrebbe attesi, l’indomani: furono 220 le persone arse vive nella spianata ai piedi del castrum, in quello che ancora oggi porta il nome di “Prat dels Cremats”. I càtari? Un fantasma scomodo: erano nullatenenti, vivevano di carità. Non veneravano nessun libro sacro: per loro, l’Antico Testamento (con la sua “terra promessa”) era opera del Dio Straniero. Non avevano neppure chiese, né templi: irriducibilmente anarchici, rifiutavano qualsiasi struttura organizzata. La comunità càtara, pur articolata in diocesi, non disponeva di beni materiali.Il Catarismo aborriva la dimensione materiale del vivere, ripudiando la materia come “prigione dello spirito”: riparlarne oggi forse non è casuale, nel momento in cui è la stessa fisica a diffidare della percezione spazio-temporale, mentre la comunità scientifica rivaluta l’esegesi non teologica dei cosiddetti testi sacri. Lo stesso Mauro Biglino, che traduce la Bibbia alla lettera «scoprendo che in quelle pagine non c’è nessun Dio», ricorda che il “format” cattolico (con i suoi dogmi) si affermò soltanto nel 325 dopo Cristo, per il volere politico dell’imperatore Costantino, «a spese di tutti gli altri Cristianesimi dell’epoca, che erano decine, a partire da quelli gnostici». In quella corrente si colloca certamente il Catarismo, che invoca la divinità “celeste” con queste parole: «Facci conoscere ciò che Tu conosci». Per i càtari, il vero Graal è, appunto, la conoscenza, al quale il credente può aspirare in modo autonomo, senza alcuna mediazione sacerdotale. Di fatto, il Catarismo nega alla religione il ruolo di struttura sociale al servizio del potere politico: i Buoni Cristiani proibivano di giurare, in un’epoca in cui proprio sul giuramento si fondava l’investitura feudale, e non riconoscevano alcuna legittimazione alle autorità terrene, né ai confini tra le nazioni.L’atteso lavoro cinematografico di Fredo Valla si basa su fonti storiche e dati d’archivio, nonché su consulenze autorevoli come quella di Maria Soresina e del Centro Ivan Dujčev di Sofia, una delle più importanti istituzioni accademiche bulgare, senza dimenticare il Cirdoc, la Mediateca Occitana di Béziers e l’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici di Firenze. Il documentario sarà completato grazie al contributo fondamentale del crowdfunding: anche una piccola donazione può essere importante, per una produzione che accanto a Valla (autore e regista) vede impegnati Andrea Fantino ed Elia Lombardo (fotografia, suono, montaggio) con Ines Cavalcanti della Chambra d’Oc (produzione). «Abbiamo deciso di lanciare questa campagna di crowdfunding per condividere il nostro lavoro di ricerca e continuarlo in Occitania, dove nasce la parola “bogre”, e dove in fondo nasce il nostro film documentario». Proprio l’attuale Midi francese sarà la tappa più importante del viaggio. «Abbiamo intenzione di mantenere un metodo di lavoro attento alla storiografia e ai documenti più attendibili», assicura il regista. «Vogliamo che la storia di “Bogre” contribuisca alla storia dei “bogre”, di chi quel nome se l’è trovato appiccicato come un insulto dal momento in cui ha scelto una fede diversa da quella dominante». Una storia di idee che camminano, e che lottano per non essere dimenticate.«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora cementato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».
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No al potere: un film racconta la vera storia dei Catari
I fisici russi annunciano il primo esperimento di teletrasporto, per ora di elettroni, svelando l’illusiorietà della nostra percezione della materia? Quello che riusciamo a vedere non è che il 5% ci quanto ci circonda, confermano gli astrofisici. Il che collima perfettamente con l’opinione dei neurologi: riusciamo a utilizzare soltanto il 5% del cervello. Qualcosa ci sfugge? Eccome. Ormai lo ammette anche la scienza, dopo le profetiche anticipazioni di Einstein sull’inattendibilità dello spazio-tempo. Sono affermazioni attualissime, ma al tempo stesso anche antiche. Fanno pensare a qualcosa di remoto, rimosso e condannato all’oblio: l’eresia medievale dei càtari, la più temuta dal potere vaticano nei secoli immediatamente successivi all’anno Mille. Non fidatevi di quello che vedete, ripetevano: la dimensione materiale è solo apparenza. E’ un’illusione, suffragata dal potere che ci ripete che il mondo afferrabile dai cinque sensi è l’unico che esista. Poi venne il materialismo, su cui oggi è incardinato il sistema dei consumi: economia, finanza, guerre, multinazionali onnipotenti. E come sta andando, il nostro mondo? Comanda il denaro, e le grandi decisioni sono in mano a un pugno di famiglie: una ristretta élite possiede praticamente tutto. E’ il terzo millennio, ma sembra il medioevo. Per questo, oggi, rispolverare i càtari può risultare più che illuminante. Serve a chiarire meglio chi siamo, dove andiamo. Siamo sicuri di saperlo?Domande alle quali proverà a rispondere l’ultimo lavoro di Fredo Valla, sceneggiatore di film bellissimi come “Il vento fa il suo giro” e “Un giorno devi andare”, di Giorgio Diritti (il regista de “L’uomo che verrà”). Allievo di Ermanno Olmi, poi cresciuto alla scuola di François Fontan, il teorico dell’etnismo che guidò le valli cuneesi verso la riscoperta dell’identità occitanica, Fredo Valla ha inanellato studi, libri e documentari che svelano la radice medievale di una cultura che, tra il 1100 e il 1200, trasformò il sud-ovest dell’attuale Francia, economicamente prospero, in uno straordinario laboratorio sociale: grazie all’illuminata tolleranza dell’aristocrazia che governava la regione, nella terra dei Trovatori coesistevano musulmani ed ebrei, cattolici ed eretici càtari. Il documentario in preparazione – proprio sui càtari – rievoca un mondo per molti aspetti felice, aperto a sviluppi imprevedibili: secondo Simone Weil, in quella parte di Europa resuscitò lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, basato sul culto della bellezza anziché su quello della forza. Bellezza e giustizia: il potere nobiliare era affiancato da quello, democratico, delle neonate autorità consolari cittadine. Un modello pericoloso, stroncato nel sangue con la Crociata Albigese.Data simbolo, sul piano militare: la battaglia di Muret che, nel 1213 alle porte di Tolosa, spezzò il sogno del nuovo ipotetico Stato, esteso dal Mediterraneo all’Atlantico, dalle Alpi ai Pirenei. Uno Stato mai nato, ucciso nella culla: avrebbe accorpato Linguadoca e Provenza, Catalogna e Aragona, rappresentando una sfida al potere di Roma e a quello del Sacro Romano Impero. Nucleo centrale della nuova entità: l’Occitania, vastissimo territorio linguistico incuso tra l’alta valle di Susa e la provincia basca francese di Bayonne, sull’oceano, passando per città come Nizza e Marsiglia, Narbonne, Tolosa e Bordeaux, fino alla “gemella” Barcellona. Alla base della disputa, una questione essenziale di sovranità: di fatto, attraverso la difesa della libertà di culto, il conte tolosano Raimondo VI scommise sull’indipendenza di una decisiva fetta d’Europa, oggetto di mire geopolitiche da parte di Roma e Parigi. Ma il cuore della rivolta, incarnata dal “Paratge” (il senso dell’onore della cavalleria occitanica) era proprio la tutela dell’eresia come diritto inalienabile, pura espressione della libertà di pensiero. Cosa diceva, il Catarismo? Era drastico, nella sua simbolizzazione teologica: questo non è il vero mondo.Di ascendenza zoroastriana, la fede càtara attribuisce la creazione al Dio Straniero, l’equivalente dell’Ahriman dei mazdei. Ma attenzione: la divinità è qui, in noi. Ognuno, pur in questo mondo di tenebra, ha in sé una scintilla d’immortalità. Per questo è fondamentale non dimenticarlo mai: è qualcosa che ricorda la “rammemorazione” dei Sufi, lontana mille miglia da qualsiasi degenerazione “magica” della religione. Il Cristo dei càtari? Venuto sulla Terra proprio per svelare, attraverso l’illusionismo dei cosiddetti miracoli, l’inattendibilità della materia. La salvezza? Altrettanto drastica: rinunciare al mondo, cioè al potere. Vietato giurare: e proprio sul giuramento si basavano le istituzioni del feudalesimo, che si pretendevano consacrate dall’alto. Se la materia è “demoniaca”, a maggior ragione gli eretici non potevano riconoscere l’autorità politica degli Stati e dei confini tra le nazioni. Erano nullatenenti, come Francesco d’Assisi avevano dato ai poveri i loro averi, e seguivano una dieta rigorosamente vegetariana. Peggio ancora – come già il clero di Zoroastro – avevano aperto il sacerdozio alle donne, perfettamente equiparate ai religiosi maschi. Il loro motto: non siamo del mondo, e il mondo non è nostro. Potevano passarla liscia, nell’Europa del Papa-Re?Il documentario che Fredo Valla ha cominciato a girare, partendo dall’Est balcanico, ripercorre la straordinaria vicenda trans-europea dei “bourgres” (o “bogres”, in occitano), cioè gli eretici dualistici – due divinità opposte, bene e male – che prima ancora dell’anno Mille varcarono il Bosforo, lasciandosi alle spalle la religione zorostriana per coniare un sincretismo gnostico, presentato come “Cristianesimo delle origini” alternativo al cattolicesimo, dando vita alle prime comunità di bogomili nella penisola balcanica. Quei “bulgari”, poi, attraverso la Lombardia si spinsero fin nel nord nell’Europa per poi insediarsi stabilmente in Occitania, acclamati dal popolo scandalizzato dal lusso e dalla corruzione del clero cattolico. Ma non si tratta soltanto di far luce sulla storica rimozione dell’eresia dualista, sbaragliata dalla Crociata e poi letteralmente incenerita, per 70 anni, dai roghi dell’Inquisizione. Quel genocidio vergognoso, coperto per secoli dalla “damnatio memoriae”, rende ancora più viva l’attesa per il film di Valla, che si rivolge al pubblico – già in fase di produzione, mediante crowdfunding – per condividere fin dall’inizio lo spirito di un’operazione a basso costo, ma ad alta intensità culturale: nel dubbio, fondato, che il potere che allora sterminò i càtari sia lo stesso che oggi opprime miliardi di individui, a cui racconta che quella che percepiscono è l’unica realtà possibile, l’unico modo di stare al mondo: guerra e sopraffazione, la legge del più forte.(Sul sito “Produzioni dal basso” è possibile concorrere alla realizzazione del documentario “Bogre”, il viaggio condotto da Fredo Valla sulle tracce di Catari e Bogomili, tra Bulgaria e Francia sud-occidentale).I fisici russi annunciano il primo esperimento di teletrasporto, per ora di elettroni, svelando l’illusiorietà della nostra percezione della materia? Quello che riusciamo a vedere non è che il 5% ci quanto ci circonda, confermano gli astrofisici. Il che collima perfettamente con l’opinione dei neurologi: riusciamo a utilizzare soltanto il 5% del cervello. Qualcosa ci sfugge? Ormai lo ammette anche la scienza, dopo le profetiche anticipazioni di Einstein sull’inattendibilità dello spazio-tempo. Sono affermazioni attualissime, ma al tempo stesso anche antiche. Fanno pensare a qualcosa di remoto, rimosso e condannato all’oblio: l’eresia medievale dei càtari, la più temuta dal potere vaticano nei secoli immediatamente successivi all’anno Mille. Non fidatevi di quello che vedete, ripetevano: la dimensione materiale è solo apparenza. E’ un’illusione, suffragata dal potere che ci ripete che il mondo afferrabile dai cinque sensi è l’unico che esista. Poi venne il materialismo, su cui oggi è incardinato il sistema dei consumi: economia, finanza, guerre, multinazionali onnipotenti. E come sta andando, il nostro mondo? Comanda il denaro, e le grandi decisioni sono in mano a un pugno di famiglie: una ristretta élite possiede praticamente tutto. E’ il terzo millennio, ma sembra il medioevo. Per questo, oggi, rispolverare i càtari può risultare più che illuminante. Serve a chiarire meglio chi siamo, dove andiamo. Siamo sicuri di saperlo?
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Quando Barcellona sfidò i carnefici, in nome della libertà
Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.All’inizio del ‘200, Barcellona era la capitale del vasto Regno d’Aragona: oltre alla Catalogna includeva la valle dell’Ebro, Saragozza, i Pirenei. Scese in campo per difendere la città alleata, Tolosa, che aveva osato sfidare l’autorità del Papa nell’ostinarsi a non perseguitare l’eresia dei Catari, diffusasi in Linguadoca. All’epoca, insieme alla Catalogna e all’Italia dei Comuni e delle Repubbliche Marinare, la Languedoc era fra i territori più avanzati d’Europa, sul piano economico e sociale. Fioriva nelle corti la rivoluzione letteraria dei trovatori provenzali, che per la prima volta cantavano la libertà dell’amore laico. La contea estendeva il suo controllo dal Mediterraneo all’Atlantico; tollerava i villaggi musulmani, faceva gestire i conti pubblici dagli ebrei sefarditi provenienti dall’Andalusia. Ma peggio: accettava che, nelle chiese, i predicatori catari disputassero apertamente di religione con i sacerdoti cattolici. La misura fu colma, per Roma, quando l’aristocrazia occitanica cominciò a prendere i voti, entrando a far parte della comunità dei “buoni cristiani”, bollati di eresia.Il conte di Tolosa, Raimondo VI, rifiutò di consegnare i religiosi eretici. E quando il pontefice Innocenzo III bandì contro di lui la Crociata Albigese, si preparò a resistere. Il giovane re aragonese Pietro II, celebrato campione della cristianità e sovrano di Barcellona, si decise a soccorrere Tolosa, marciando alla testa dell’armata iberica, dopo il massacro di Béziers, la cittadina rivierasca che si era rifiutata di tradire i Catari, cedendoli ai crociati che li avrebbero arsi vivi. «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», è la celebre frase che si racconta sia stata pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo spirituale della guerra di religione, per esortare i crociati a sterminare gli abitanti di Béziers. Tanto bastò a Barcellona per rompere gli indugi e scendere in campo a Muret, al fianco di Tolosa. Ma persero, i catalani: “Combattevano uno a uno, come in un torneo”, racconta la Canzone della Crociata Albigese. Il poema cavalleresco, pur composto da cattolici, riconosce la nobiltà degli sconfitti, decisi a ingaggiare un combattimento leale, secondo l’antica regola del “paratge”, il codice d’onore dell’antica cavalleria occitano-catalana.Morì in battaglia anche Pietro II, eroicamente. Quella, dice la Weil, fu l’ultima apparizione del “paratge”, in Europa. Un caso? Forse no: Barcellona e Tolosa (cioè mezza Francia più mezza Spagna) avrebbero potuto dare vita allo Stato europeo di gran lunga più evoluto, liberale e avanzato, il più ricco e prospero, quello con più avvenire davanti a sé. E forse, si interrogano alcuni storici, non è un caso neppure la strana, rigidissima “damnatio memorie” imposta alla stessa eresia cristiano-dualistica del Catarismo, impugnata come pretesto per radere al suolo il Sud-Ovest della futura Francia: una devastazione catastrofica, nel corso di vent’anni di guerra, seguita da settant’anni di spietate persecuzioni a tappeto affidate all’Inquisizione. Faceva paura, l’aristocrazia pirenaica: aveva sposato, con mezzo millennio di anticipo, il motto “libera Chiesa in libero Stato”. L’incendio libertario era partito da Tolosa, ma si era estreso a Barcellona. E quando il conte tolosano fu ridotto al silenzio, e la sua contea declassata a succursale di Parigi mentre la popolazione inerme fuggiva atterrita di fronte ai roghi degli inquisitori, Barcellona ebbe la forza di imporre che, in Catalogna, il tribunale ecclesiastico non potesse emettere condanne a morte.Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.
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Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi. E nacque la Francia
«Tuez-les tous, Dieu reconnaîtra les siens»: intanto uccideteli tutti, sarà poi Dio a riconoscere i suoi, distinguendo i fedeli dagli eretici. Frase terribile, attribuita all’abate cistercense Arnaud Amary, legato pontificio, nel 1209 di fronte alle mura della città rivierasca di Béziers, ferocemente assediata e annientata, con lo sterminio dell’intera popolazione, nel corso della prima e unica grande crociata in terra europea, quella contro gli Albigesi. L’inaudito massacro di Béziers, “colpevole” di tollerare la presenza di 200 càtari, smuove la geopolitica medievale europea: a fianco della Linguadoca assediata scende in campo la potente armata spagnola del re d’Aragona: Pietro II è un campione della cristianità, ma non può sopportare la “desmesura” della ferocia dei crociati. Lo scontro avviene a Muret, alle porte di Tolosa, nel 1213: lo schieramento occitanico-catalano è soverchiante, almeno il doppio dell’esercito papale, ma viene sconfitto. Quei cavalieri “combattevano come in un torneo”, cioè lealmente, scrive la “Canso”, il poema della crociata albigese. I difensori dei càtari credevano in un ideale cavalleresco intraducibile, dall’occitano: il Paratge. Onestà, coraggio, capacità di sacrificarsi per il debole. Da quel massacro nacque la Francia. E, scrive Simone Veil, morì l’ultima reincarnazione europea della Grecia di Pericle, il culto della bellezza, della tolleranza (la libertà di religione). La democrazia ateniese.La disfatta di Muret fu l’inizio della fine per l’orgogliosa e libera contea di Tolosa, dove vivevano musulmani nei loro villaggi, le finanze della contea erano gestite dagli ebrei sefarditi fuggiti dall’Andausia, e i càtari potevano liberamente disputare di religione, in chiesa, accanto al clero cattolico. A scatenare il terrore non fu solo la pericolosità dell’eresia dualista incarnata dal catarismo balcanico introdotto in Linguadoca attraverso la Lombardia: un cristianesimo “alternativo” che riteneva il mondo materiale opera del Dio Straniero, il “principio del male”, paragonabile al Demiurgo degli gnostici e, prima ancora, ad Ahriman, l’antagonista della divinità celeste di Zoroastro. L’adesione al catarismo comportava la rinuncia alla proprietà privata e il divieto assoluto di giurare – decisamente eversivo in un sistema, come quello feudale, interamente basato sull’istituto del giuramento, per legittimare ogni forma di potere terreno, che si pretendeva investito dall’alto. La notizia sconvolgente, per il Vaticano, non era solo il dilagare dei “buoni cristiani”: Roma cominciò a tremare, al punto da scatenare la guerra, quando vide che ad aderire al catarismo non era solo la plebe, ma anche l’aristocrazia occitanica, la classe dirigente nobiliare di quella che, allora, era una delle regioni più evolute d’Europa, sul piano economico, sociale e culturale: fioriva la civiltà letteraria dei trovatori, in prospere cittadine dove il governo aristocratico era condiviso da “consoli” regolarmente eletti.Nel 1213, osserva la Veil nel libro-capolavoro “I Càtari e la civiltà mediterranea”, gli Stati feudali di Tolosa e Barcellona, accomunati persino dalla lingua (occitano e catalano sono lingue “gemelle”), rappresentavano una parte considerevole d’Europa: se avessero vinto, sostiene l’autrice, avremmo visto nascere un’altra Europa, con meno guerre e senza nessun Hitler, fondata su valori diversi dal “culto della forza” incarnato dai crociati, eredi dell’Impero Romano. Per veder risorgere la libertà di culto, sempre in Francia, c’è voluto mezzo millennio: il secolo dei Lumi, la presa della Bastiglia. Quindi la rivoluzione industriale e l’evoluzione continua della società, fino al socialismo. Oggi, sostengono svariati critici, siamo tornati – con l’Unione Europea – a un sistema neo-feudale. Il nuovo presidente francese Macron, già banchiere Rothschild ed ex ministro dell’incolore Hollande, prono ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, è una “creatura” di Jacques Attali, storico esponente della supermassoneria internazionale reazionaria. In molti hanno guardato alle elezioni francesi del 2017 come a un passaggio cruciale, storico: la possibilità di ribaltare il paradigma del rigore imposto dall’élite o, viceversa, la riaffermazione dell’ancient régime: non più militare ma elettorale, benché sospinta dalla paura, dopo anni di strategia della tensione affidata a un opaco terrorismo domestico, al servizio della logica perversa del dominio.«Tuez-les tous, Dieu reconnaîtra les siens»: intanto uccideteli tutti, sarà poi Dio a riconoscere i suoi, distinguendo i fedeli dagli eretici. Frase terribile, attribuita all’abate cistercense Arnaud Amaury, legato pontificio, nel 1209 di fronte alle mura della città rivierasca di Béziers, ferocemente assediata e annientata, con lo sterminio dell’intera popolazione, nel corso della prima e unica grande crociata in terra europea, quella contro gli Albigesi. L’inaudito massacro di Béziers, “colpevole” di tollerare la presenza di 200 càtari, smuove la geopolitica medievale europea: a fianco della Linguadoca assediata scende in campo la potente armata spagnola del re d’Aragona: Pietro II è un campione della cristianità, ma non può sopportare la “desmesura” della ferocia dei crociati. Lo scontro avviene a Muret, alle porte di Tolosa, nel 1213: lo schieramento occitanico-catalano è soverchiante, almeno il doppio dell’esercito papale, ma viene sconfitto. Quei cavalieri “combattevano come in un torneo”, cioè lealmente, scrive la “Canso”, il poema della crociata albigese. I difensori dei càtari credevano in un ideale cavalleresco intraducibile, dall’occitano: il Paratge. Onestà, coraggio, capacità di sacrificarsi per il debole. Da quel massacro nacque la Francia. E, scrive Simone Veil, morì l’ultima reincarnazione europea della Grecia di Pericle, il culto della bellezza, della tolleranza (la libertà di religione). La democrazia ateniese.
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Càtari, Templari, Sufi: San Francesco d’Assisi, quello vero
«Parlava con tutti gli animali, con i lupi; abbracciava i maiali, si spogliava nudo in chiesa, lavorava con i muratori e si faceva beffe delle autorità». Era il vero San Francesco d’Assisi, il “giullare di Dio” cantato da Dario Fo. Non era affatto un uomo di Chiesa: era un laico, che amava la sua compagna – Chiara – e predicava il messaggio di Cristo alle folle, criticando i ricchi e i potenti. Non era un prete, dunque, ma un cavaliere: ispirato dai Templari. E per giunta figlio di una donna proveniente dalla Linguadoca, la terra dei càtari, dove la Crociata Albigese stava facendo decine di migliaia di morti, con lo sterminio sistematico dei “boni homines”, i cristiani alternativi che stavano dalla parte degli ultimi. Ma poi accadde che, appena dopo la sua morte, il vero Francesco d’Assisi scomparve di colpo. Tutti i suoi documenti furono distrutti, bruciati. La sua memoria, cancellata. Al suo posto, nacque un nuovo San Francesco. Inventato di sana pianta, completamente falso: il San Francesco cattolico. Per riesumare le prime tracce di quello autentico ci vollero cinque secoli, col riemergere di un libro antico. Ma ormai era tardi: il Vaticano aveva fabbricato il docile “format” francescano, impresso nell’immaginario popolare.E’ la grande rivelazione al centro del libro “San Francesco, le verità nascoste”, a cura di Gian Marco Bragadin. In 488 pagine pubblicate dalla casa editrice Melchisedek, il libro racconta la vera vita e il carattere del santo d’Assisi, rivelando «l’ipocrita ricostruzione che lo ha trasformato nel più fedele e mansueto servitore della Chiesa, nel medioevo e oltre, fino ai giorni d’oggi». Una clamorosa manipolazione storica: «Moltissimi documenti – scritti, memorie su Francesco (e probabilmente anche su Chiara) – sono stati dati alle fiamme per non propagare un ritratto non idoneo a farne un obbediente santo della Chiesa cattolica», racconta Bragadin, intervistato da “AdnKronos”. Un lavoro, il suo, sulla stessa lunghezza d’onda di “Francesco D’Assisi, la storia negata”, pubblicato di recente da Laterza e scritto dalla storica medievale Chiara Mercuri. Non a caso, per “riscrivere” la biografia dell’uomo di Assisi, fu incaricato «un frate erudito», Bonaventura, «che però non aveva conosciuto Francesco». Al biografo infedele fu ordinato di raccontare la vita del santo «attutendo, modificando, spesso cancellando del tutto ogni aspetto che poteva mettere in discussione quel ritratto del “poverello d’Assisi” che si è perseguito per secoli».Quali sono, dunque, le verità nascoste? «Praticamente tutto quello che Francesco è stato ed ha fatto, per gran parte della sua vita», spiega Bragadin all’“AdnKronos”, sottolineando come San Francesco sia stato «un guerriero, che ha combattuto e che è stato imprigionato, e che più volte ha tentato di andare alla Crociata per diventare un valoroso cavaliere». Il vero Francesco «si è innamorato dell’ideale dei Templari, al punto che il suo ordine è modellato su quello templare». Inoltre, «templari erano alcuni suoi frati». La stessa madre di Francesco era nativa dell’Occitania, la patria dei càtari, cristiani “eretici” perché dualisti come i mazdei, i seguaci di Zoroastro, convinti che la creazione fosse opera del demiurgo, il “dio straniero”, nonostante ogni creatura avesse in sé la scintilla divina del “padre celeste”. In un mondo, quello feudale, basato sulla pretesa investitura “divina” del potere e quindi della proprietà terriera, il messaggio sociale dei càtari era devastante, intollerabile per l’ordine costituito: i “buoni cristiani” (così si chiamavano, tra loro) erano convinti che niente e nessuno potesse legittimare la “privata proprietà dei beni”. Da qui la loro scelta di campo, a fianco degli ultimi.«Dai càtari – conferma Bragadin – Francesco ha preso il concetto di servizio ai poveri, il rifiuto della proprietà. Ma non si deve dire, perché la Chiesa all’epoca lanciò una crociata per distruggere i càtari, con massacri orribili». Si ricorda quello di Béziers: 20.000 persone sterminate per essersi rifiutate di consegnare ai crociati i 200 eretici presenti in città. «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», fu l’ordine dell’abate Arnaud Amaury, capo spirituale della crociata. Era il 1209. L’ultimo grande eccidio, nel 1244, a Montségur, sui Pirenei, con 220 “perfetti” càtari arsi sul rogo. Ma non finì lì. Proprio per debellare il Catarismo fu istituito il tribunale speciale dell’Inquisizione, che impiegò 70 anni ad estirpare l’eresia, con “purghe” terribili, torture, roghi. Un regime di terrore, fondato sulla delazione, che devastò la Francia meridionale, distruggendo il tessuto sociale di una regione che, per Simone Veil, era stata la culla della civiltà mediterranea medievale, la terra tollerante dov’era fiorita la poesia dei trovatori. Più tardi la contro-predicazione evangelica dei “buoni uomini” avrebbe lambito lo stesso ordine francescano, a lungo ritenuto anch’esso in odore di eresia, data la sua predilezione per i poveri e i loro diritti.Ma Francesco d’Assisi – quello vero – non stimava solo i càtari. «Ha tentato in tutti i modi il contatto con i musulmani», racconta Bragadin: «Non per convertirli (lui non giudicava nessuno, mostrava il suo esempio di vita), ma per trovare i punti di unione tra le religioni, per raggiungere una pace duratura». Ancora oggi, da allora, i francescani hanno la cura del Santo Sepolcro a Gerusalemme, dono del Sultano a Francesco e Frate Elia. Tutte verità nascoste, perché Francesco, aggiunge Bragadin, «ha vissuto una esistenza da eretico, sempre sul filo di finire al rogo». Vista però la sua enorme popolarità, dovuta al rivoluzionario messaggio d’amore che portava, «si è fatta conoscere solo una parte della sua vita, nascondendo tutto ciò che lo riguardava», incluso il legame con «la sua amata compagna Chiara», unione che «poteva essere disdicevole per l’istituzione ecclesiastica». Pochi sanno, continua Bragadin, che Francesco «ha voluto restare sempre un laico». Certo, un laico sui generis: «Predicava il Vangelo nelle piazze, alle feste, nei mercati: come poteva, la rigida Chiesa del tempo, ammettere che un laico parlasse di Cristo alla gente? Poteva predicare agli uccelli o ai lupi, non alla gente. E invece Francesco non ha fatto altro per tutta la vita, perfino quando era malato». Non a caso, la storica Chiara Frugoni, in varie interviste, si domanda perché esistano migliaia di quadri e affreschi su Francesco, ma neanche uno in cui predica. «E la ragione è la seguente: non si voleva tramandare l’immagine di un laico che parlasse di Cristo».Morto Francesco nel 1226, allontanati i suoi vecchi confratelli e segregata Chiara nel convento, sono scattate le grandi manovre per cancellarne la vera storia e dare ai fedeli «una immagine edulcorata di mansueto, docile soldatino della Chiesa cattolica», spiega Bragadin, attingendo a diverse fonti, tra cui molti scritti di Tommaso da Celano. Come si organizzò la grande impostura? Già nel 1260, al Capitolo, l’annuale riunione dei francescani che quell’anno si teneva a Narbonne, nella Francia mediterranea. A frate Bonaventura venne affidato il compito di scrivere una nuova biografia di Francesco, che fu poi approvata a Pisa nel 1263, durante il Capitolo successivo. Tre anni dopo, sempre il Capitolo (stavolta riunito a Parigi) «giunse a decretare la distruzione di tutte le biografie precedenti alla “Legenda Maior”, con la scusa che biografie diverse avrebbero condotto l’ordine verso una divisione». Una scelta atttuata in modo così meticoloso, aggiunge Bragadin, da far sparire dalla faccia della terra anche gli scritti di Francesco e quelli di Chiara, le lettere, le testimonianze. «Non solo: vennero distrutti nelle chiese immagini, affreschi, tutto». Damnatio memoriae. Sepolto il vero Francesco, doveva sopravvivere solo quello falso. E così sarebbe stato, fino al 1768.Quell’anno, ormai in pieno Illuminismo, viene ritrovata miracolosamente “La Vita Prima”, del Celano, «a più di cinque secoli dalla morte di Francesco». Poco dopo torna alla luce anche “La Vita Seconda”, un manoscritto che Bragadin definisce «molto difettoso», scoperto nel 1806. E infine il terzo libro, “Il Trattato dei Miracoli”, «acquistato casualmente a un’asta pubblica nel 1900». Grazie a quei tre volumi, spiega l’autore, si è potuta finalmente ricostruire la biografia autentica del vero Francesco. Ma nei cinque secoli precedenti, aggiunge, il Vaticano «ha avuto tutto il tempo di costruire una storia artificiale e falsa». Lo confermano anche gli storici ufficiali: nell’agiografia di Bonaventura «si inventano anche false vicende, per far corrispondere la figura di Francesco a quanto si voleva tramandare, funzionale cioè alla posizione che voleva prendere l’ordine. E si trascura del tutto, naturalmente, la figura di Chiara e le sue vicende, quasi che le clarisse non facessero parte del movimento». Di Chiara «si sa poco», conferma il medievista Franco Cardini. Anche perché attorno al santo di Assisi fu fatta, letteralmente, terra bruciata: Bonaventura ordinò di dare alle fiamme tutti gli scritti su Francesco. «Sembra un ordine dal Cremlino». Da quel momento, la verità su Francesco, non sarebbe più stata quella della sua vita privata, ma una verità imposta dalla Chiesa.Bragadin ha ignorato la storiografia ufficiale, affidata a documenti autentici ma inattendibili (menzogneri) e si è spinto in pellegrinaggio ad Assisi per almeno cento volte in un quarto di secolo, raccogliendo indizi e confidenze preziose da anziani monaci, segeretamente “innamorati” del vero Francesco. «Ho studiato attentamente ogni cosa – racconta – incluse le informazioni su Internet di frati o storici non allineati come Paul Sabatier, che ipotizza tutto quello che poi io ho provato a raccontare». E’ il caso, per esempio, dei colloqui con vecchi frati amici che «se ne fregavano, data l’età, di mantenere segreti sui due santi d’Assisi e sul loro immenso amore cosmico, che nell’ordine si tramandava per via orale». Dalle biografie di Celano, poi, affiorano storie «che sono al limite della decenza», perché emerge un Francesco che si mette a nudo, in chiesa, spogliandosi completamente. «Un estremista, barricadero, che incita la folla contro i potenti. No, un santo così non lo si può accettare». E’ decisamente troppo, per vescovi e cardinali.L’autore parla anche dell’amore di Francesco per i Sufi, l’elusiva confraternita dei mistici orientali approdati all’Islam dopo aver attraversato l’induismo e il buddismo, mantenendo vivi molti aspetti del mazdeismo zoroastriano. Un network segreto, quello dei Sufi, da sempre impegnato per la pace. E’ un rosario Sufi, scrive Bragadin, quello tumulato insieme alle spoglie di Francesco, di cui l’autore ripercorre anche lo storico viaggio in Terrasanta. Fonti e storici ufficiali, racconta Bragadin, negano che Francesco, dopo i massacri dei Crociati a Damietta, nel 1220, si sia recato a Gerusalemme, nonostante avesse un permesso speciale del sultano El-Kamil, che aveva incontrato. «Ma come possiamo credere – dice l’autore – che Francesco, a pochi passi dalla meta, in quasi un anno di permanenza in Terrasanta, rinunci al sogno di una vita, visitare i luoghi santi del suo Gesù?». Altri documenti, infatti, dimostrano che quei luoghi li ha visitati. Lo ammette anche Ratzinger, sicuramente basandosi su fonti inoppugnabili: «San Francesco ha visitato il Santo Sepolcro, ci sono elementi certi», scrive Benedetto XVI. «Ha gettato un seme che avrebbe portato molto frutto».Gli stessi documenti arabi confermano che Francesco abbia incontrato i Sufi: «Metà del “Cantico di Frate Sole”, sembra tratto dai poemi di Rumi», il massimo poeta islamico, afghano, fondatore della prima scuola Sufi dei Dervisci Rotanti. E il sultano, Francesco l’aveva incontrato «non certo per “convertirlo” (una fissa della Chiesa Cattolica), ma per confrontarsi in un rapporto di amore reciproco». Pace, nella diversità: unire ciò che è stato diviso. Francesco faceva parte, dunque, di una sorta di “intelligence informale” dell’epoca: una rete che, evidentemente, condivideva conoscenze esoteriche e collaborava per l’unità sostanziale dei popoli, al di là delle differenze religiose. “Perché il mondo non è nostro, e noi non siamo del mondo”, recita il “Pater” dei càtari, che sembra ispirato direttamente da Zoroastro e invita a liberarsi del “giogo” della materia. “Nel mondo, ma non del mondo”, è il motto dei Sufi. “Nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”. Ecco in cosa credeva Francesco. Quello vero.(Il libro: Gian Marco Bragadin, “San Francesco. Le verità nascoste”, Melchisedek, 492 pagine, euro 21,25, ebook a 12,99 euro).«Parlava con tutti gli animali, con i lupi; abbracciava i maiali, si spogliava nudo in chiesa, lavorava con i muratori e si faceva beffe delle autorità». Era il vero San Francesco d’Assisi, il “giullare di Dio” cantato da Dario Fo. Non era affatto un uomo di Chiesa: era un laico, che amava la sua compagna – Chiara – e predicava il messaggio di Cristo alle folle, criticando i ricchi e i potenti. Non era un prete, dunque, ma un cavaliere: ispirato dai Templari. E per giunta figlio di una donna proveniente dalla Linguadoca, la terra dei càtari, dove la Crociata Albigese stava facendo decine di migliaia di morti, con lo sterminio sistematico dei “boni homines”, i cristiani alternativi che stavano dalla parte degli ultimi. Ma poi accadde che, appena dopo la sua morte, il vero Francesco d’Assisi scomparve di colpo. Tutti i suoi documenti furono distrutti, bruciati. La sua memoria, cancellata. Al suo posto, nacque un nuovo San Francesco. Inventato di sana pianta, completamente falso: il San Francesco cattolico. Per riesumare le prime tracce di quello autentico ci vollero cinque secoli, col riemergere di un libro antico. Ma ormai era tardi: il Vaticano aveva fabbricato il docile “format” francescano, impresso nell’immaginario popolare.
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Dante e i Templari fiorentini, fino a John Fitzgerald Kennedy
In un libro edito da Aurora Boreale, “Firenze, città santa dei Templari”, Luca Monti scrive che Dante Alighieri fu il Gran Maestro segreto dei Templari dopo Jacques De Molay. «La storia dei Templari è molto diversa da quella che viene descritta dagli storici tradizionali», spiega Monti, intervistato da Paolo Franceschetti. «Quando io mi occupo della storia non me ne occupo con gli strumenti tradizionali, cioè con i libri e i materiali scritti da storici, perché questi sono materiali scritti da uomini, quindi con criteri limitati; io parto invece dai simboli, che sono universali a tutte le latitudini. Da questo punto di vista i simboli usati dai Templari ci dicono molto, e ci dice molto anche il modo in cui Dante scriveva, che era di tipo esoterico. Già questo quindi offre le prime basi di partenza per l’interpretazione della Divina Commedia e ci dà delle precise indicazioni sul suo valore». Tutto, aggiunge Monti è basato su determinati numeri: 3 cantiche, e 3 è il numero della perfezione; 33 canti, e 33 è il massimo grado della massoneria, il massimo grado sapienziale. Ricorre spesso il numero 13: Dante mette nelle varie cantiche diversi gruppi di 13; 13 i dannati a cui Dante chiede il nome, 13 quelli cui non chiede il nome, 13 i dannati che si fanno riconoscere senza che venga loro chiesto il nome, eccetera.«Abbiamo poi indizi che dicono che Dante era un templare», prosegue Monti, nell’intervista pubblicata sul blog di Franceschetti. Esiste una moneta conservata in un museo di Vienna, in cui viene attribuito a Dante il grado di Cavaliere Kadosh, uno dei cavalierati più segreti all’interno dei Templari. «Attorno a sé lui aveva creato un circolo che ufficialmente si occupava di poesie d’amore, ma in realtà era un circolo segreto di matrice esoterica. L’ultima guida di Dante poi è San Bernardo, che è il creatore della regola templare». I manoscritti originali di Dante, ufficialmente, non esistono, osserva Franceschetti: non abbiamo una sua firma autografa, un suo manoscritto, nulla. Esiste qualcuno che li ha? «Per quello che posso immaginare sì, ci sono – risponde Monti – ma non sono consultabili e credo siano negli Stati Uniti, custoditi dai Templari di oggi. C’è ad esempio un certo Filippo Mazzei che è stato uno dei firmatari della Costituzione americana ed era un fiorentino di una famiglia templare molto importante. I legami quindi tra Templari e Usa sono molto stretti, perché a partire dal 1200 ormai l’Europa divenne scomoda per i Templari e quello che potevano fu portato negli Usa».Questi documenti, continua Monti, «non vengono divulgati perché da secoli ci sono battaglie all’interno del movimento templare tra coloro che sono chiamati “passatisti”, che hanno una visione pura del mondo iniziatico, e i “modernisti”, che sono la componente più nera». Nella Divina Commedia non esiste un solo cenno alla moglie di Dante, Gemma Donati, e così pure nelle altre opere. Corso Donati, Forese Donati e Piccarda Donati sono parenti di Gemma e vengono nominati, aggiunge Franceschetti – ma perché mai la moglie? Cosa ci hanno taciuto del personaggio di Dante? E’ possibile che sia un’opera collettiva e Dante sia un personaggio romanzato? «No, credo proprio di no. Credo sia tutta farina del sacco di una persona», dice Monti. «Dante divenne maestro templare controvoglia. Il vero maestro doveva essere Brunetto Latini, ma non se la sentì e per questo fu posto all’Inferno, per punirlo simbolicamente del suo rifiuto. Quanto a Gemma, potrebbe simboleggiare la “gemma gnostica” e non essere un personaggio vero e proprio. Probabile fosse quindi uno pseudonimo».E Dante cosa faceva nei periodi bui della sua biografia? «Si dedicò a ripristinare l’Ordine templare che ormai era quasi finito», racconta Luca Monti. «Non è escluso che sia stato in Medio Oriente per incontrare i Sufi, con cui ebbe rapporti molto stretti. Lo stesso Federico II provò a mettere insieme la cavalleria cristiana e islamica e addirittura quella mongola; lui infatti temporeggiava nell’intraprendere la crociata voluta dal Papa di allora, perché cercava questo accordo tra Islam e Cristianesimo esoterico». Altra domanda: Castel Del Monte, in Puglia, era il luogo dove fu custodito il Graal dai Templari? «E’ plausibile. Occorre vedere quale Graal, perché ce n’erano tre. Il contenitore del sangue di Cristo, il balsamario e quello dell’ultima cena». E che dire di due personaggi fondamentali della Divina Commedia, San Bernardo e Beatrice? «Beatrice è l’obiettivo cui devono tendere i Templari, perché simbolicamente rappresenta la gnosi, la “sofìa”, la conoscenza suprema. Per questo la troviamo nel Paradiso, perché non deve essere contaminata da energie basse». Quanto a San Bernardo, «non è solo chi ha scritto la regola, ma è colui che ha plasmato esotericamente i Templari». E i cavalieri del Tempio «non nascono certo per difendere i pellegrini in Terrasanta: in 9 infatti potevano fare ben poco». La loro vera missione: «Trovare degli oggetti esotericamente importanti». Nel tempio di Gerusalemme «cercarono l’Arca dell’Alleanza, la testa di San Giovanni Battista e molto altro».In chiave inziatica, aggiunge Franceschetti, com’è che l’esoterista Dante “vede” Inferno, Purgatorio e Paradiso? «Secondo me li ha visitati davvero», risponde Monti, «nel senso che con un “viaggio astrale” probabilmente lui ha effettuato questo percorso, e probabilmente è stato il “viaggio astrale” più interessante della storia dell’umanità», nientemeno. Con l’espressione “viaggio astrale” si può intendere “esperienza extracorporea”, nota anche con le sigle Obe o anche Oobe (dall’inglese “out of body experience”), che per Wikipedia sta a indicare «tutte quelle esperienze, la cui interpretazione rimane controversa, nelle quali una persona percepisce di “uscire” dal proprio corpo fisico, cioè di proiettare la propria coscienza oltre i confini corporei». Sempre per Wikipedia, circa una persona su dieci ritiene di aver avuto qualche volta nella vita una di queste esperienze. «Più stringatamente», il termine «sta a indicare quella sensazione che taluni provano come se stessero fluttuando all’esterno del proprio corpo e, in taluni casi, percependo la presenza del proprio corpo da un punto esterno ad esso».In genere – prosegue Franceschetti, cambiando argomento – gli iniziati condivisono tra loro il cosiddetto “segreto iniziatico”, e proprio per questo motivo «non parlano di Dante svelandone i principali segreti». Luca Monti invece perché ne parla? Non è vincolato al “segreto iniziatico”, pure essendo “Gran Priore del Sacro Ordine Equestre Ecumenico Templare”? «Personalmente – spiega l’autore del libro sul templarismo fiorentino – credo sia il momento di divulgare il più possibile, e che il “segreto iniziatico” debba essere molto ridimensionato». E aggiunge: «Credo anzi che la missione del vero iniziato, oggi, in cui i tempi sono molto cambiati, debba addirittura essere capovolta rispetto al passato, cioè essere quella di cercare di innalzare il livello sapienziale delle masse, per quanto possibile, buttando sempre più sassolini per permettere a chi vuole di fare delle ricerche». Sicché, Franceschetti ne approfitta: «Dante – dice – parla spesso di un “cinquecentodieci e quinque”, 515, che libererà l’umanità». Che cos’è? Cosa rappresenta? «E cosa rappresenta il 666? Teniamo conto che nella Divina Commedia le profezie dantesche sono tutte collocate, con precisione matematica, a 515 o 666 versi di distanza l’una dall’altra».«Io penso che questo 515 arriverà verso il 2020», risponde Monti. «Ma questo numero rappresenta anche la riunificazione; noi siamo tutti in potenza parti di Dio, particelle divine, e il 515 rappresenta la riunione di noi stessi col divino. Il 666 invece è il numero della Bestia dell’Apocalisse, ma ricordiamoci anche che l’Apocalisse è la Rivelazione». Altro quesito: se Dante fu il successore segreto di Jacques De Molay, l’ultimo leader dei Templari arso sul rogo, chi fu il successore di Dante? Sorpresa: per Luca Monti, il successore dell’Alighieri-templare fu «Gherarduccio dei Gherardini, antenato di John Fitzgerald Kennedy. Ecco perché questo legame tra Dante e i Templari». Sul tema, Monti sta scrivendo un libro, “Dal rogo all’ermellino”, ovvero «la trasformazione dei Templari dalla clandestinità all’affermazione di nuovi ordini». E i Catari, sterminati tra 1200 e 1300 dal Vaticano prima con la Crociata Albigese e poi con l’istituzione dell’Inquisizione, come incrociano la loro storia “eretica” con Dante e i Templari? «Catari e Templari sono fratelli – sostiene Monti – nel senso che condividevano una stessa visione gnostica della spiritualità; solo che i Templari non potevano esternarlo ufficialmente come i Catari, essendo formalmente riconosciuti dalla Chiesa». Ma non è tutto, perché «il legame spirituale dei Templari va oltre il Catarismo e oltre il Sufismo», basti pensare che «San Bernardo era un druido e anche quella è, quindi, una direzione spirituale da percorrere». Templari e Fedeli d’Amore? Stessa cosa, a Firenze: «I Fedeli d’Amore, quindi il gruppo di Cavalcanti e Brunetto Latini, erano i veritici templari, perché quello di “Fedele d’Amore” è il grado più alto dei Templari».(Il libro: Luca Monti, “Firenze, città santa dei Templari”, Aurora Boreale editore, 80 pagine, 12 euro).In un libro edito da Aurora Boreale, “Firenze, città santa dei Templari”, Luca Monti scrive che Dante Alighieri fu il Gran Maestro segreto dei Templari dopo Jacques De Molay. «La storia dei Templari è molto diversa da quella che viene descritta dagli storici tradizionali», spiega Monti, intervistato da Paolo Franceschetti. «Quando io mi occupo della storia non me ne occupo con gli strumenti tradizionali, cioè con i libri e i materiali scritti da storici, perché questi sono materiali scritti da uomini, quindi con criteri limitati; io parto invece dai simboli, che sono universali a tutte le latitudini. Da questo punto di vista i simboli usati dai Templari ci dicono molto, e ci dice molto anche il modo in cui Dante scriveva, che era di tipo esoterico. Già questo quindi offre le prime basi di partenza per l’interpretazione della Divina Commedia e ci dà delle precise indicazioni sul suo valore». Tutto, aggiunge Monti è basato su determinati numeri: 3 cantiche, e 3 è il numero della perfezione; 33 canti, e 33 è il massimo grado della massoneria, il massimo grado sapienziale. Ricorre spesso il numero 13: Dante mette nelle varie cantiche diversi gruppi di 13; 13 i dannati a cui Dante chiede il nome, 13 quelli cui non chiede il nome, 13 i dannati che si fanno riconoscere senza che venga loro chiesto il nome, eccetera.
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Rosacroce, la fratellanza del sapere emarginata dal potere
Innanzitutto, loro cominciano a chiamarsi Rosacroce da un certo punto in poi, ma esistevano anche prima. In quegli anni era normale che una confraternita di questo tipo fosse segreta; è oggi che questa segretezza lascia il tempo che trova – e anzi, tutto quello che è segreto, giustamente, desta sospetti. La confraternita dei Rosacroce – a mio avviso, secondo i miei studi – nasce da una precedente e più universale confraternita, che si chiamava Stirpe di David. Gioacchino da Fiore la chiama Radix Davidis. Questo nome, Radix Davidis, lo trovi un po’ dappertutto. Lo trovi, ad esempio, sul simbolo adottato dal diciassettesimo grado della massoneria, che – guarda che combinazione – è il grado precedente a quello di Rosacroce. Io mi sono chiesto a lungo questa Radix Davidis cosa fosse, finché ho scoperto che i presidenti degli Stati Uniti d’America giurano sulla Bibbia aperta in una certa pagina. Giurano lì, perché lì c’è la manifestazione di quello che avrebbe dovuto essere la Stirpe di David. Perché giurano sul Genesi, 49. Giacobbe prende i 12 figli, che poi sono i capi delle 12 tribù di Israele, e ne commenta quello che sarà il ruolo, gli attribuisce una funzione, o un giudizio.E, in particolare, a Giuda dedica questi versi: “Giuda, te loderanno i tuoi fratelli, la tua mano sarà sulla cervice dei tuoi nemici, davanti a te si prostreranno i figli di tuo padre. Un giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è sdraiato, si è accovacciato come un leone, o come una leonessa; chi oserà farlo alzare? Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, vinché verrà colui al quale esso appartiene, e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello, e a scelta vite il figlio della sua asina; lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il manto; lucidi ha gli occhi per il vino e bianchi i denti più del latte”. In questi versi ci sono i presupposti di quello che poi sarà il simbolismo dei Rosacroce. Da Giuda discenderà David; David prenderà il trono rispetto a Saul perché ristabilisce la regalità della tribù di Giuda su tutti gli ebrei. E quindi la Stirpe di David è anche la tribù di Giuda, tant’è vero che Matteo l’evangelista, per radicare Gesù Cristo in questa stirpe, e non in altre, fa tutto il genetliaco, fino ad arrivare ai genitori di Cristo, comprovando così che loro sono della tribù di Giuda. Uno dei tanti significati del famoso acrostico “Inri” è “Iesus Nazarenus Rex Judaeorum”.Seconda cosa da sottolineare, i colori dei Rosacroce sono il nostro tricolore: rosso, bianco e verde. Il nostro tricolore viene scelto come futura bandiera italiana e come simbolo dell’Ausonia, cioè dell’Italia, in una loggia rosicruciana milanese. Perché bianco, rosso e verde? Perché sono i colori che vengono enunciati in quel passo della Bibbia: la pianta della vite è verde, il vino è rosso, “bianchi i denti come il latte”. Sono i colori dei Rosacroce. Tant’è vero che Beatrice, nella “Divina Commedia” (Dante faceva parte di una setta pre-rosicruciana che si chiamava Fidelis in Amore) è vestitata di bianco, rosso e verde. Molto probabilmente, a livello simbolico, la regalità della Stirpe di Giuda, cioè della Radix Davidis, nasce per ricuperare una condizione perduta. A un certo punto della Bibbia, Abramo va a trovare Melchisedek, e nel momento in cui a va a trovare Melchisedek c’è il sacrificio del pane e del vino: la comunione, così come istituita da Gesù Cristo nel Vangelo, noi la troviamo molto prima. Melchisedek era un re-sacerdote, quindi un’emanazione della divinità, era tutt’uno con la divinità; con Abramo siamo alla venerazione della divinità. C’è stata la separazione dell’uomo da Dio; da quel momento, però, una serie di uomini si devono occupare di ripristinare questo stato: Davide, poi suo figlio Salomone. Il Tempio di Salomone è il simbolo del ricupero della condizione umana come emanazione del divino, non come venerazione del divino.Emergono tracce di questa tradizione in tutta una serie di personaggi, negli imperatori romani, nel popolo dei Visigoti, per esempio; nel personaggio di Galla Placidia, quindi nella dinastina dei Flavii. Questa dottrina e questa tradizione riemergono potentemente in Gioacchino da Fiore, che possiamo considerare quasi un loro rifondatore. In Inghilterra c’era stato Ruggero Bacone, un frate francescano che è poi quello che ha ispirato il personaggio del frate ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco, che è un esempio tipico di dottrina e di cultura rosicruciana. Quindi, anche depositario di conoscenze incredibili: Ruggero Bacone è colui che nel “De optica”, praticamente, spiega come – 400 anni dopo – costruire un cannocchiale. Si mantiene il nome Radix Davidis fino a Giordano Bruno. In Italia si è chiamata anche Fidelis in Amore. Ne è stato esponente Dante, ma anche – un po’ inquieto e un po’ in opposizione con essa – Federico II. E ci sono stati i Templari. I Templari, quando nascono, nascono con lo stesso obiettivo di Abramo quando va a trovare Melchisedek. Perché il templare che cos’è? E’ un monaco-guerriero, quindi “re” e sacrerdote – è la riunificazione, no? I Templari nascono dopo la Prima Crociata, non prima – perché, avendo già riconquistato Gerusalemme, si poteva riportare questo “tesoro” nel tempio.Quindi, i Templari non nascono – come dicono tutti quanti – per cercare qualcosa, o per sottrarlo e custodirlo; nascono per riportarlo, per ricongiungere, per reintegrare il tempio. Per questo, “cavalieri del tempio”. Non nascono con la regola di San Bernardo, non nascono con una vocazione di potere che poi li perderà; nascono con la regola di Sant’Agostino. Dopo, cosa succede? Si omologano, anche loro, al potere dell’epoca, e adottano la regola di San Bernardo. Erano diventati uomini d’affari, e gli uomini d’affari creano le banche. A tal punto perdono il loro scopo primario, che finiscono per perdere Gerusalemme, per un motivo bieco: avevano instaurato a Gerusalemme la regola in base alla quale chiunque visitava Gerusalemme doveva pagare un obolo. Gerusalemme era sacra per tutti, non solo per i cristiani: era sacra per gli ebrei, per gli arabi. A un certo punto, tramite un loro bieco personaggio, che si chiamava Rinaldo di Chatilly, mettono in piedi un piano per conquistare la Mecca, in maniera da far pagare agli arabi l’obolo anche per visitare la Mecca. A quel punto gli arabi, che erano divisi, di fronte a un pericolo così forte si unificano e riconquistano Gerusalemme. Quindi, i Templari “muoiono” cent’anni prima di quando viene distrutto il loro ordine, perché perdono lo scopo: sono Templari senza tempio.Viene nominato l’ultimo gran maestro, De Molay, che invece apparteneva alla parte dei Templari non contaminata, che cerca di salvarli, ma purtroppo è tardi: il potere si è già coalizzato contro di loro, e Giacomo De Molay si chiamava Jacobus Burgundus De Molay, il che significava che era un burgundo, cioè un goto. Quindi, come vedete, la Radix Davidis cammina, viene preservata. Poi si estingue l’Ordine del Tempio, ma non si estingue il templarismo. Quindi, i Templari, con le loro conoscenze, vanno in Scozia, vanno a Kilwinning: la parte buona viene ricuperata e gestita dalla confraternita, e sceglie di dirottare tutte le proprie energie nel campo dell’arte. Allora trovare un Trecento, un Quattrocento e un Cinquecento dove i massimi rappresentanti della Radix Davidis sono nel mondo dell’arte. Trovate Leonardo, Botticelli, Raffaello, Tiziano. Pensavano che l’arte fosse il miglior modo per conservare quello che loro volevano conservare – messaggi, ad esempio. In particolare, invece, Leonardo viene utilizzato per depistaggio. Leonardo viene fabbricato, proprio: tenete presente che il nonno di Leonardo fa sparire i veri dati familiari.La famiglia di Leonardo piomba nella città di Vinci, ma non c’è nessun dato che dica da dove venga, come si chiami, dove stava prima. Dopodiché il nonno di Leonardo fa un’altra bella operazione: impone al figlio Piero di fare un figlio con una donna che a lui non piace, e che poi ripudierà per sempre, che oggi tutti gli studiosi dicono che era di provenienza mediorientale. Bastava guardare come la chiamava Leonardo per capire da dove venisse: Leonardo, la madre la chiama Catarina – non Caterina – e Catarina viene da Cataro, quindi probabilmente di provenienza mediorientale, quindi sempre di quella cosiddetta Radix Davidis. Leonardo è l’unico artista dei suoi tempi che ha sempre soldi in tasca, che non ha mai problemi economici, ma soprattutto che viene sempre gradito a qualunque potere – finché c’è il Moro è gradito al Moro, e quando arrivano i francesi è gradito ai francesi, che se lo portano in Francia. E in tutte le sue opere “pianta” tutta una serie di messaggi depistanti, che – se uno va a guardare – da Raffaello invece vengono corretti. Cioè, il messaggio depistante del Cenacolo, con l’identità della Maddalena con San Giovanni, viene rettificato da Raffaello in un quadro che si chiama “L’estasi di Santa Cecilia”, dove ci sono sia San Giovanni che la Maddalena. E San Giovanni sempre effeminato viene dipinto, ma perché aveva 17 anni.E’ questo, quindi, il ruolo di depistatore di Leonardo, che è servito poi per fabbricare tutta la letteratura su Rennes-Le-Chateau, che spinge tutti quanti a cercare il figlio di Gesù Cristo, sostanzialmente (perché poi questa è la verità, quindi il “Codice da Vinci”, eccetera: cioè, il mondo si divide tra quelli che mettono in dubbio il fatto che Gesù Cristo sia esistito e quelli che cercano il figlio; quelli che si occupano, invece, di quello che c’è stato in mezzo, a tutto questo, non esistono). Nel percorso parallelo, alchemico e artistico – di alchimisti che però erano proto-scienziati, come Michael Sendivogius, Rosacroce e alchimista, che è lo scopritore dell’ossigeno – arriviamo a Giordano Bruno. E’ lui il perno della rinascita rosicruciana; ricuperava tradizioni iniziatiche egizie, mitraiche, con una collocazione nell’ambito di una visione scientifica del mondo: il principale difensore di Galilei fu Giordano Bruno, che riorganizza la confraternita ribattezzandola Giordaniti. Fa questa riunione, in cui arrivano tutti i futuri Rosacroce – quindi: Simon Studion, Michele Mayer, Jacob Andreae (che è il nonno di quel Johan Valentin Andreae che è l’autore de “Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz”, il testo base dei Rosacroce).Nel momento in cui in qualche modo circola la notizia che Giordano Bruno ha deciso di portare i Giordaniti alla luce del sole, capisce che tutti i suoi sono in pericolo. E quindi, praticamente si consegna: perché quando lui è a Venezia, già in odore di scomunica, un nobile veneziano gli fa una specie di raccomandazione per andare a Roma; lui, con questa raccomandazione (che non conta nulla) va volontariamente a Roma e si fa imprigionare. E’ chiaro che è andato lì perché, facendosi imprigionare lui, salvava la vita a tutti gli altri – gli risparmiava un’ondata di persecuzioni. Nel 1600 Giordano Bruno viene giustiziano, e nel 1622 ricompaiono i manifesti rosicruciani a Parigi e viene adottato il nome Rosacroce. La rosa e la croce sono state accostate per la prima volta nel Paradiso della “Divina Commedia” di Alighieri. Da un punto di vista politico, la rosa (uno dei simboli di Lutero) simboleggiava una riunificazione del mondo cristiano. Un altro significato è che la rosa era il simbolo della sapienza orientale – attenzione: non la rosa rossa, la rosa gialla (la cosiddetta rosa Tea) – e la croce era il simbolo di quella che sarebbe stata la sapienza occidentale. Tutti questi accostamenti, possibili e immaginabili, sono tipicamente rosicruciani – l’attribuzione di un molteplice significato allo stesso simbolo, cioè la multifunzione.Nel momento in cui invece i Rosacroce si manifestarono, si avviarono grandi persecuzioni. L’imperatore, che aveva rappresentato la speranza dei Rosacroce, gli scatena contro una serie di guerre. A questo punto, succede che Valentin Andreae nega che esistano i Rosacroce. Dall’Inghilterra, Robert Fludd (un altro allievo di Giordano Bruno) scrive un’opera, “Silentium post clamores”, che è un messaggio preciso a tutti i confratelli: in realtà, siccome c’era stato molto chiasso, bisognava a essere invisibili, come dovevano essere i Rosacroce. Nel ‘700 avviene un’altra cosa molto importante. Le indicazioni rosicruciane, anche scientifiche, provocano tre conseguenze: la prima è la nascita dell’Illuminismo; il secondo punto è la morte della massoneria antica e la nascita della massoneria moderna. La massoneria antica aveva viaggiano in modo completamente collegato con i Rosacroce, la massoneria moderna no. L’ultimo gran maestro della massoneria antica si chiamava Christopher Wren, era un architetto inglese. Londra brucia; tra le altre cose, brucia anche il tempio della massoneria, con tutti i suoi archivi europei. Christopher Wren viene incaricato di fare il progetto per ricostruire Londra, e ricostruisce tutto meno che il tempio della massoneria (cioè: non rifà la massoneria).Nel 1717 si costituisce la cosiddetta massoneria moderna, quella speculativa, a Londra, con quattro logge che si riuniscono e fanno le cosiddette Costituzioni di Anderson. Ma si costituisce un qualcosa di diverso, tant’è vero che al suo interno ci sono ancora dei soggetti rosicruciani, ma sono soggetti che perderanno la loro battaglia. Il problema è che la massoneria moderna nasce come organizzazione diretta alla gestione del potere, punto. La massoneria antica non era così. E soprattutto, nasce una cultura scientifica che si mette a fare la guerra alla radice da cui è nat: i chimici fanno la guerra agli alchimisti, Newton viene buttato fuori dalla Royal Society perché accusato di alchimia, e il suo posto lo prende Robert Boyle, che è massone anche lui ma è questo nuovo massone. In Francia nasce un sentimento anti-cristiano nella massoneria, per cui non si giura più sulla Bibbia e non si parla più di Grande Architetto dell’Universo. Da questa cosa qui nasce poi la deviazione di cricche, che vorrebbero essere Rosacroce ma sono solo rosicruciane, in cricche addirittura sataniche, luciferine, prometeiche. Nascono la Societas Rosicruciana in Anglia, la Golden Dawn; nasce Crowley; nasce quella che Paolo Franceschetti chiama “La Rosa Rossa”: non so e poi si chiami veramente così, ma sicuramente all’80% Franceschetti ha ragione.Nel momento in cui viene emarginato completamente tutto un tipo di ricerca spirituale, esoterica e alchimistica, in nome dei “lumi della ragione”, l’unica parte che conviene al potere che sopravviva, di quella ricerca, è quella che rappresenta un buon motivo per diffamarla: al potere convengono i satanisti, convengono le logge deviate, conviene lo sputtanamento – conviene tutto questo, al potere, perché comporta la regressione della parte realmente pericolosa della ricerca spirituale (pericolosa per il potere, perché ne mette in discussione i fondamenti). E’ uno dei motivi per cui i Rosacroce a Yalta decidono di andare ad esaurimento, diciamo – infatti, da Yalta ad oggi non sono mai più emersi dei nuovi Rosacroce. Quando vedevano un artista, una persona particolare, di un certo livello, i Rosacroce tendevano ad accoglierlo, anche se non faceva parte geneticamente della Stirpe di David. Dalla riunione di Yalta, secondo i miei studi, i Rosacroce non hanno più accolto nessuno. Nel momento in cui ci fu Yalta, e poi la costituzione dell’Onu, all’interno del quale avevano degli esponenti, rivendicarono una serie di scelte, che non furono accolte: l’Onu doveva essere diverso, lo Stato di Palestina doveva essere fatto. Certo, c’erano le convenienze degli Stati nazionali, c’erano le lobby economiche che erano nate, c’era tutto un meccanismo di questo tipo: stava già nascendo quello che poi sarebbe diventato il Bilderberg, stavano già nascendo le organizzazioni. L’ultimo gran maestro è stato Salvador Dalì, e quando è morto non hanno fatto dei nuovi gran maestri. Sono andati ad estinguersi.(Gianfranco Carpeoro, “I RosaCroce”, intervista editata su YouTube il 23 settembre 2012. Avvocato, pubblicista e scrittore, massone e già “sovrano gran maestro” della Loggia di Piazza del Gesù, di rito scozzese, Carpeoro è uno studioso di Giordano Bruno nonché uno dei massimi esperti di simbologia).Innanzitutto, loro cominciano a chiamarsi Rosacroce da un certo punto in poi, ma esistevano anche prima. In quegli anni era normale che una confraternita di questo tipo fosse segreta; è oggi che questa segretezza lascia il tempo che trova – e anzi, tutto quello che è segreto, giustamente, desta sospetti. La confraternita dei Rosacroce – a mio avviso, secondo i miei studi – nasce da una precedente e più universale confraternita, che si chiamava Stirpe di David. Gioacchino da Fiore la chiama Radix Davidis. Questo nome, Radix Davidis, lo trovi un po’ dappertutto. Lo trovi, ad esempio, sul simbolo adottato dal diciassettesimo grado della massoneria, che – guarda che combinazione – è il grado precedente a quello di Rosacroce. Io mi sono chiesto a lungo questa Radix Davidis cosa fosse, finché ho scoperto che i presidenti degli Stati Uniti d’America giurano sulla Bibbia aperta in una certa pagina. Giurano lì, perché lì c’è la manifestazione di quello che avrebbe dovuto essere la Stirpe di David. Perché giurano sul Genesi, 49. Giacobbe prende i 12 figli, che poi sono i capi delle 12 tribù di Israele, e ne commenta quello che sarà il ruolo, gli attribuisce una funzione, o un giudizio.