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Archivio del Tag ‘Cia’

  • Il massone Bob Dylan, Kennedy e i golpisti del coronavirus

    Scritto il 05/4/20 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Conferma Tosh Plumlee, pilota della Cia: fu lui a trasportare a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.
    Alla vigilia, in un drammatico summit nella città texana, il piano venne convalidato dal Deep State: con lo stesso Howard Hunt, nella villa del petroliere Clint Murchinson c’era Edgar Hoover (Fbi) insieme al vice di Kennedy, Lyndon Johnson, e ad altri due futuri presidenti degli Stati Uniti, Richard Nixon e George Bush. Potere criminale: ma perché riparlarne oggi, come fa Bob Dylan, suggerendo un collegamento tra quell’atroce mattanza e il coronavirus? «State attenti e mettetevi al riparo», ha scritto Dylan sul suo sito, il 27 marzo, presentando l’esplosiva “Murder Most Foul”, regalata al pubblico “worldwide”, in modo sorprendente e spettacolare. Una strepitosa ballad lunga 1016 secondi (quasi 17 minuti) che ripercorre “l’omicidio più ignominioso”, facendo di Kennedy il simbolo di un’America che si stava svegliando, anche sulle ali della musica, per uscire dall’incubo della guerra fredda e della segregazione razziale, del terrore nucleare, del Vietnam.
    Perché farlo proprio adesso? Perché diventa così loquace, un solitario come Dylan, sempre ultra-reticente con la stampa? Probabilmente, la domanda contiene già la risposta: era indispensabile lanciare un avvertimento, sia pure filtrato dall’eleganza del linguaggio artistico. Un messaggio però anche esplicito, con indizi messi lì apposta per lasciarsi decodificare: l’invito a “suonare il numero 3, il numero 9″, cioè la perfezione dell’armonia. Roba da esoteristi: come il massonico 33, evocato a proposito dei “fratelli” che avrebbero organizzato “l’inferno”, a Dallas. «Nessun mistero: Bob Dylan è, da sempre, un massone radicalmente ultra-progressista», afferma – clamorosamente – Gioele Magaldi, evidentemente autorizzato a dare ufficialmente la notizia. «Dylan milita nei medesimi circuiti massonici progressisti ai quali appartengo anch’io», aggiunge Magaldi, che nel 2014 – nel saggio “Massoni”, edito da Chiarelettere – ha denunciato le trame anche golpiste e terroristiche della supermassoneria reazionaria.
    L’accusa: è stata la superloggia “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush, ad architettare l’11 Settembre e il crollo delle Torri Gemelle, per poi inventarsi anche l’Isis. Se qualche sprovveduto crede ancora alla storiella degli aerei che avrebbero abbattuto le Twin Towers (cadute per “demolizione controllata”, come ormai dimostrato da oltre tremila architetti e ingegneri americani), proprio l’omicidio Kennedy – giudiziariamente irrisolto, dopo oltre mezzo secolo – sta lì a ricordare a tutti che, a volte, “l’impossibile” diventa possibilissimo. Tant’è vero che qualcuno ci lascia la pelle: anche in modo inimmaginabile, persino se si tratta di un intoccabile come il presidente degli Stati Uniti. Magaldi mette in fila gli eventi: la stessa élite reazionaria, che nel 1975 usò la Trilaterale di Kissinger per dichiarare guerra alla democrazia sociale, oggi sovragestisce la crisi planetaria della pandemia secondo il modulo Wuhan, fondato sulla sospensione della libertà costituzionale.
    Attenti, avverte Magaldi: fu proprio il club di Kissinger a sdoganare la Cina, aprendola al mercato globale, per farne una specie di Frankenstein: formidabile efficienza economica, ma niente democrazia. Un modello perfetto da trapiantare in un futuro Occidente distopico, raggelante, oggi con il pretesto psico-sanitario del coronavirus, il coprifuoco imposto a tutti (provvisorio, ma con la prospettiva che le libertà di ieri non tornino mai più). Ed ecco, allora, Bob Dylan. «La sua uscita – sottolinea Magaldi – è perfettamente sincronizzata con l’altrettanto clamorosa lettera di Mario Draghi al “Financial Times”, in cui l’ex presidente della Bce (fino a ieri massone neoaristocratico, e oggi tornato ai lidi keynesiani delle origini) dichiara guerra alla “teologia” del rigore neoliberista, evocando addirittura il New Deal rooseveltiano: cioè la necessità di ricorrere a massicci aiuti di Stato per svincolare l’economia dal ricatto della finanza speculativa. Un regime che tuttora strangola l’Italia nella morsa dell’Ue, proprio adesso che il paese ha un bisogno drammatico di fondi che non si trasformino in debito».
    Draghi e Dylan, strano tandem: in modo diverso paiono dire la stessa cosa. Ovvero: siamo ormai giunti a un bivio esiziale, messi di fronte – con l’accelerazione planetaria della pandemia – a una scelta di campo ormai ineludibile: se la globalizzazione solo finanziaria porta dritti a Wuhan, l’alternativa sta nel riscrivere da zero le regole del mondo. E chi, meglio di John Kennedy, riuscì a esplicitare questo concetto? Era il sogno della New Frontier: un mondo unito, pacificato e libero. Di recente, s’è scoperto un carteggio segreto con Nikita Krushev: i due leader impegnavano Usa e Urss a mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Ma a costare la vita a Kennedy, probabilmente, fu altro: per esempio, la decisione di stampare direttamente banconote di Stato, svincolate dal sistema bancario. Ed ecco che Jfk, riletto oggi, sembra parlare direttamente a noi, alle prese con le maschere dell’euro-rigore “tedesco”. Ma chi era, veramente, Kennedy?
    «Tra le altre cose, il presidente assassinato a Dallas era un inziato eleusino», rivela lo storico fiorentino Nicola Bizzi, che nel sorprendente libro “Da Eleusi a Firenze” mette a fuoco l’ascendenza “eleusina” del Rinascimento italiano. Ovvero: la regia occulta, nel potere della signoria medicea, della tradizione misterica risalente al 1300 avanti Cristo, quando – secondo la narrazione – la dea Demetra avrebbe rivelato ai fedeli di Eleusi, alle porte di Atene, l’origine “atlantidea” della nostra specie, “creata” dagli dei Titani come Poseidone, signore dei mari. Kennedy eleusino? «Di più: era anche un templare, direttamente collegato a Dante Alighieri». Lo sostiene Luca Monti, autore del volume “Firenze, città santa dei templari”, pubblicato da Aurora Boreale, editrice di cui è titolare lo stesso Bizzi. Collegato alla rete odierna del templarismo, Monti spiega: l’autore della Divina Commedia ereditò la guida segreta dell’Ordine del Tempio dopo il rogo in cui fu arso vivo l’ultimo gran maestro ufficiale, Jacques de Molay. E il collegamento con il presidente assassinato a Dallas? «Il successore dell’Alighieri-templare fu Gherarduccio dei Gherardini, antenato di John Fitzgerald Kennedy», nientemeno.
    Stupefacente? Be’, sì. Ma questo aiuta a leggere un po’ meglio tra le righe, persino nei riferimenti simbolico-esoterici di cui è gremito l’amletico testo del massone Dylan, “Murder Most Foul”. Va preso sul serio, Luca Monti? Fate voi. Nel 2016, intervistato da Paolo Franceschetti, si sbilanciò con questa previsione: «Nel 2020 succederà qualcosa di inaudito, a livello mondiale». La fonte? Numeri, ancora: nella Commedia di Dante, ricorre il 515. Le profezie contenute nel poema sono intervallate dal medesimo numero di versi, “centodieci e quinque”. «Io penso che questo 515 arriverà verso il 2020», disse Monti, spiegando: «Questo numero rappresenta anche la riunificazione; noi siamo tutti in potenza parti di Dio, particelle divine, e il 515 rappresenta la riunione di noi stessi col divino». Suggestioni da brividi? Certo, si tratta di materiale con cui Bob Dylan ha sempre dimostrato un’estrema confidenza: nessuno come lui ha saputo maneggiare – e con uno slang “pop”, per giunta – la stessa Bibbia e i simboli pescati nei territori dell’alchimia, dell’astrologia, dei tarocchi, della mitologia. Se Kennedy era anche un neo-templare e un iniziato “eleusino”, oltre che un celebrato campione della democrazia, suona sempre meno strano l’omaggio che il grande cantautore gli tributa, in mezzo al panico da coronavirus, come se “Murder Most Foul” fosse anche una dichiarazione di guerra, oltre che un esercizio di pietà.
    Cade dall’alto, il guanto di sfida lanciato dall’ex ragazzo di Duluth, con alle spalle sessant’anni di carriera, oltre 50 dischi e anche l’Oscar cinematografico per la colonna sonora di “Things have changed”. Il prestigio culturale di Bob Dylan è già scritto nella storia: Premio Pulitzer, Nobel per la Letteratura, Legion d’Onore francese, Premio Principe delle Asturie. Risale al ‘97 il riconoscimento dei Kennedy Center Honors, e al 2012 la Medaglia Presidenziale della Libertà (massimo “award” civile, negli Stati Uniti). Neppure il Dylan politico è una sorpresa, dai tempi di “Blowin’ in the wind” e “Masters of war”. Suo il primo atto d’accusa, frontale, contro la globalizzazione: “Union Sundown”, nel 1983, anticipa profeticamente la tragedia delle delocalizzazioni, in un mondo che sarebbe stato devastato dallo strapotere delle multinazionali. Forte l’attitudine a scendere in campo direttamente, in modo anche spericolato: l’affarista William Zantzinger dichiarò di essere stato rovinato, da Dylan, per la canzone “The lonesome death of Hettie Carroll”, domestica nera uccisa a bastonate. Il pugile afroamericano Rubin Carter, vittima di un caso giudiziario condizionato dal razzismo, fu letteralmente scarcerato in seguito alla campagna per la sua liberazione lanciata da Dylan con il brano “Hurricane”.
    «Siamo un paese costruito sulla schiena degli schiavi», disse, in prossimità dell’uscita dell’album “Tempest”, pubblicato nel 2012, in cui riecheggia la guerra civile americana nell’interpretazione del poeta Herny Timrod. Sempre rarissime, le interviste, ma quasi tutte memorabili. «Come spiegare la mia longevità artistica? Be’, da giovane ho fatto un patto con il “comandante in capo”». Tradotto: consacro la mia arte alla maggiore delle cause. Obiettivo: far fermentare il talento, alchemicamente, al servizio dell’umanità. Un modo per “tendere al divino”, per citare il 515 dantesco? Più esplicitamente: «Pensate alla trasfigurazione di Cristo, nel Getzemani». Simboli, certo. Positivi e negativi: «Ha vinto Walt Disney», sentenziò anni fa: «Quindi abbiamo perso tutti». Prigioneri della Matrix, in un mondo di plastica? Ecco, forse il velo potrebbe squarciarsi, oggi, di fronte al dramma del coronavirus che sembra distruggere ogni certezza. A patto però – e qui è il “templare” kennedyano che riemerge, il “massone progressista” – che si abbia il coraggio di metterci la faccia. Per esempio regalando ai senzatetto milioni di dollari, ricavati dal disco natalizio “Christmas in the heart” pensato nel 2009 per sfamare gli homeless d’America (gesto di liberalità squisitamente massonico, se non addirittura rosacrociano).
    A proposito: tra i leggendari Rosa+Croce, elusiva confaternita iniziatica capitanata nel secondo ‘900 dal pittore Salvador Dalì, un simbologo italiano come Gianfranco Carpeoro include il grande Freddie Mercury. E il suo gruppo – i Queen – è l’unico citato da Dylan nella sequenza finale di “Murder Most Foul”, in cui si dispiega lo splendore della colonna sonora degli irripetibili anni Sessanta. Un indizio rivelatore: siamo di fronte a una stretta parentela, non solo artistica? In recenti conferenze, insieme allo stesso Magaldi, Carpeoro ha svelato la cifra massonica di artisti come David Bowie e, in particolare, l’identità anche rosacrociana del massone progressista Michael Jackson, cresciuto nella Prince Hall Freemasonry, l’obbedienza dei neri americani. A costargli la vita, a quanto pare, sarebbe stata la canzone “They don’t care about us”, contro gli abusi del grande potere globalista. Un verso recita: «Tutto questo non succederebbe, se Roosevelt fosse ancora qui». Alla moglie di Franklin Delano, Eleanor, madrina della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il giovanissimo Bob Dylan dedicò “Dear Mrs. Roosevelt”, scritta dal suo antico maestro Woody Guthrie.
    Sempre Dylan fu tra le star che risposero all’appello di Michael Jackson, autore con Lionel Richie del brano corale “We are the World”, destinato a raccogliere fondi (campagna “Usa for Africa”) per assistere la popolazione dell’Etiopia colpita dalla spaventosa carestia del 1985. Oggi, a quanto sembra, siamo all’ennesimo appuntamento con la storia: si tratta di disseppellire John Kennedy, per aiutare il mondo a ritrovare il suo stesso coraggio. Cambiare tutto, senza paura: né del coronavirus, né nei suoi ipotetici “sovragestori”, che probabilmente sognano un pianeta di neo-sudditi, schiavizzati dal terrore dei virus (oggi il “corona”, domani chissà), e sottoposti alla dittatura orwelliana di una polizia sanitaria capace di imporre vaccini e microchip, azzerando la privacy e la libertà. Messaggio: il momento è cruciale. La sfida è lanciata: “Murder Most Foul” è nell’aria, ne sta parlando il mondo intero. «State al riparo, e state attenti», si congeda il quasi ottantenne Dylan. «E che Dio sia con voi».
    (Giorgio Cattaneo, 5 aprile 2020).

    Vide il corpo di Kennedy sobbalzare in avanti, e capì che Chuck Nicoletti lo aveva colpito alla schiena, sparando dal palazzo accanto a quello in cui era appostato il futuro capro espiatorio Lee Oswald. Il presidente era ferito, ma in modo non mortale. Un’intuizione millimetrica, lo spazio di un secondo: poi la limousine si sarebbe allontanata dalla fatale collinetta dell’agguato. Fu in quel preciso istante che il secondo killer sparò a sua volta, con il suo Fireball, facendogli saltare il cervello e ribaltando all’indietro il corpo di Jfk. «Sono stato, io a esplodere il colpo mortale», dice James Files – detenuto negli Usa per altri reati – nel documentario (mai distribuito nel circuito televisivo) che svela la vera storia dell’omicidio, realizzato in mondovisione il 22 novembre 1963 a Dallas. Versione confermata in punto di morte da Howard Hunt, allora numero due della Cia. Per l’assassinio del secolo, gli 007 reclutarono la mafia di Chicago. Se ne accorse Zack Shelton, agente dell’Fbi, subito messo a tacere. Altra fonte, un “pentito”: il criminale Chaucey Holt. Un pilota della Cia, Tosh Plumlee, conferma di aver trasportato a Dallas i gangster incaricati di eliminare Jfk.

  • Waters: se uccidete Assange, vi accuseremo anche da morti

    Scritto il 07/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Siamo qui oggi per Julian Assange. Ma ho quattro nomi su questo pezzo di carta. Il primo e l’ultimo naturalmente è Julian Assange, un giornalista, un coraggioso faro illuminante in luoghi oscuri da cui le potenze vorrebbero che ci allontanassimo. Julian Assange. Un nome da scolpire con orgoglio in ogni monumento al progresso umano. Julian è il motivo per cui siamo qui oggi, ma questa non è una protesta campanilistica. Oggi siamo parte di un movimento globale, un movimento globale che potrebbe essere l’inizio dell’illuminazione globale di cui questo fragile pianeta ha disperatamente bisogno. Va bene. Secondo nome. Mandatomi dal mio amico VJ Prashad. Il secondo nome è Aamir Aziz: Aamir è un giovane poeta e attivista di Delhi, coinvolto nella lotta contro Modi e la sua legge sulla cittadinanza, la sua legge razzista. Tutto sarà ricordato. Uccideteci, diventeremo fantasmi e scriveremo dei vostri omicidi, con tutte le prove. Voi scrivete barzellette in tribunale; noi scriveremo “giustizia” sui muri. Parleremo così forte che anche i sordi sentiranno. Scriveremo così chiaramente che anche i ciechi leggeranno. Voi scrivete “ingiustizia” sulla terra; noi scriveremo “rivoluzione” nel cielo.
    Tutto sarà ricordato; tutto sarà registrato. Questo riversamento dello spirito umano dall’India avviene in un momento di rivolta, quando le catene della proprietà sono messe da parte. Mentre ci incontriamo qui a Londra. Dall’altra parte dell’Atlantico, in Argentina, migliaia di donne scendono in strada per chiedere la legalizzazione dell’aborto al presidente Fernández. Non è solo l’Argentina. Quest’ultimo anno abbiamo visto grandi proteste scoppiare in tutto il mondo contro i regimi neoliberali e fascisti. In Cile, in Libano, in Colombia, in Ecuador, ad Haiti, in Francia e ora, naturalmente, anche in Bolivia, dove si combatte la nuova dittatura militare imposta dagli Stati Uniti… Quando vedremo il nome dell’Inghilterra in allegato a questa nobile lista? Sento rumore delle teste grattate nei salotti di tutti questi paesi: “Di cosa sta parlando, quell’uomo è un dannato pervertito filocomunista, un dannato antisemita, di cosa sta parlando? Non viviamo in una dittatura, questo è un paese libero, una democrazia, con tutte le migliori tradizioni del fair play, pah!”. Bene, ho una notizia per voi: “scontento di Tunbridge Wells” [moralisti conservatori scandalizzati, ndr]. Ci piacerebbe pensare che questo fosse un paese libero, ma siamo davvero liberi?
    Perché, quando Julian Assange viene portato sul banco degli imputati, nella minuscola corte dei magistrati all’interno della prigione di Belmarsh ci sono così tanti posti occupati da anonimi colletti bianchi americani, che sussurrano istruzioni all’orecchio attento del principale avvocato dell’accusa, James Lewis Qc? Perché? Perché non viviamo in un paese libero, viviamo in un canile glorificato e abbaiamo e/o scodinzoliamo al comando dei nostri signori e padroni dall’altra parte dell’oceano. Oggi mi trovo qui, davanti alla Madre dei Parlamenti, e lei è lì che arrossisce in tutto il suo imbarazzo. E proprio qui sopra c’è Runnemede, dove nel 1215 noi, gli inglesi, abbiamo esposto i rudimenti del diritto comune. La Magna Carta, ratificata nel 1297 con l’articolo 29 che ci ha dato l’Habeus Corpus. Oppure no? Diceva: «Il corpo di un uomo libero non deve essere arrestato, né imprigionato, né messo al bando, né esiliato, né in alcun modo rovinato, né il re deve andare contro di lui o mandarlo con la forza contro di lui, se non per giudizio dei suoi pari o per la legge della terra».
    Purtroppo, l’articolo 29 non è applicabile nel diritto moderno. La Magna Carta è solo un’idea, e in questo mondo moderno, guidato dalla propaganda, non prevede alcun controllo di principio per il Parlamento che legifera contro i diritti dei cittadini. Abbiamo comunque un trattato di estradizione con gli Stati Uniti e nel primo paragrafo dell’articolo 4 di tale trattato si afferma: «L’estradizione non è concessa se il reato per il quale è richiesta l’estradizione è un reato politico». Julian Assange non ha commesso alcun crimine, ma ha commesso un atto politico. Ha detto la verità al potere. Ha fatto arrabbiare alcuni dei nostri padroni a Washington dicendo la verità e come punizione per l’atto di dire la verità vogliono il suo sangue. Ieri, davanti alla centrale elettrica di Battersea, ho fatto un’intervista televisiva per “Sky News” per promuovere questo evento; non c’era nessun collegamento visivo, quindi il mio unico contatto con la signora che mi ha fatto domande è stato tramite un auricolare su un filo riccio. Ho imparato qualcosa sul dire la verità nella formulazione delle sue domande. Mi è venuta addosso come un Don Chisciotte impazzito con tutte le sue domande, fitte di sbavature e insinuazioni, e le false accuse con cui i potenti hanno cercato di annerire il nome di Julian Assange.
    Ha fatto scattare una narrazione stanca, ma ben preparata, e poi mi interrompeva costantemente durante le mie risposte. Non so chi sia, può darsi che abbia buone intenzioni. Se lo sapesse, il mio consiglio sarebbe quello di smettere di bere il Kool-aid [credere a tutto ciò che le dicono fino alla morte, ndt], e se davvero ha un minimo di interesse per la usa professione, muova il suo dispiaciuto culo e si unisca a noi. Quindi, Inghilterra: invito il nostro primo ministro, Boris Johnson, a dichiarare i suoi colori. Sostiene lo spirito della Magna Carta? Crede nella democrazia, nella libertà, nel fair play, nella libertà di parola e soprattutto nella libertà di stampa? Se la risposta a queste domande è sì, allora suvvia, primo ministro, sia il bulldog britannico che vorrebbe far credere a tutti noi. Si opponga alla spacconata dell’egemonia americana, annulli questo processo-spettacolo, questa farsa, questo tribunale-canguro. «Le prove davanti alla corte sono incontrovertibili». Julian Assange è un uomo innocente. È un giornalista che fa un lavoro molto importante per “noi, il popolo”, esponendo i crimini di potenti sociopatici nei corridoi del potere. Vi chiamo a liberarlo oggi stesso.
    Non posso lasciare questa fase senza menzionare Chelsea Manning, che ha fornito parte del materiale che Julian ha pubblicato. Chelsea è stata chiusa in una prigione federale per un anno in carcere dagli americani per aver rifiutato, a titolo principale, di testimoniare davanti a un gran giurì appositamente convocato per fare di Julian Assange un esempio. Che coraggio. Le stanno anche facendo una multa di 1.000 dollari al giorno. Chelsea è un altro nome da scolpire nell’orgoglio; ho letto le ultime notizie sul tuo caso: sembra che il tuo team legale stia trovando la luce alla fine del tunnel; pregando Dio, speriamo uscirai presto per tornare dai tuoi cari, sei un vero eroe. Lei esemplifica lo spirito da bulldog di cui parlavo poc’anzi. Anche Daniel Hale. Daniel è un informatore che forse non conoscete ancora. Era in un grande film documentario, “National Bird”, realizzato dalla mia cara amica Sonia Kennebeck. Faceva parte del programma di droni degli Stati Uniti che prendeva di mira gli afghani nel loro paese da un centro di comando mobile a Navada. Quando il suo periodo nell’Usaf è finito, il buon cuore di Daniel si rifiutò di eliminare il peso del rimorso che portava e decise molto coraggiosamente di raccontare la sua storia.
    Da allora l’Fbi e la Cia hanno perseguitato Daniel senza pietà, e ora è in prigione in attesa di processo. Quello di Daniel è un altro nome da scolpire nell’orgoglio. Chi di noi non ha mai compromesso la propria libertà nella causa della libertà, chi non ha mai preso in mano la fiaccola accesa e l’ha tenuta tremante per i crimini dei suoi superiori, non può che meravigliarsi dello straordinario coraggio di chi l’ha fatto. Ci sono altri oratori, qui, quindi mi farò da parte; potrei stare qui tutto il giorno a inveire contro la morte della luce, se non dovessimo stare in piedi come bulldog, con le braccia legate, i ranghi chiusi davanti al nostro fratello e compagno Julian Assange. E quando i lacchè dell’impero americano verranno a prenderlo, a distruggerlo e ad impiccarlo nella siepe come monito per spaventare i futuri giornalisti, li guarderemo negli occhi e con una sola voce intoneremo loro: “Sopra i nostri cadaveri”.
    (Roger Waters, discorso pronunciato a Londra il 22 febbraio 2020, in favore di Julian Assange; testo editato sul sito di Waters, storico leader dei Pink Floyd, e tradotto da Riccardo Donat-Cattin per “Come Don Chisciotte”. Attivista per i diritti umani, Waters è perseguitato da Israele, che lo accusa di “antisemitismo” per il suo impegno a favore dei civili palestinesi, brutalmente sottoposti al regime israeliano di apartheid).

    Siamo qui oggi per Julian Assange. Ma ho quattro nomi su questo pezzo di carta. Il primo e l’ultimo naturalmente è Julian Assange, un giornalista, un coraggioso faro illuminante in luoghi oscuri da cui le potenze vorrebbero che ci allontanassimo. Julian Assange. Un nome da scolpire con orgoglio in ogni monumento al progresso umano. Julian è il motivo per cui siamo qui oggi, ma questa non è una protesta campanilistica. Oggi siamo parte di un movimento globale, un movimento globale che potrebbe essere l’inizio dell’illuminazione globale di cui questo fragile pianeta ha disperatamente bisogno. Va bene. Secondo nome. Mandatomi dal mio amico VJ Prashad. Il secondo nome è Aamir Aziz: Aamir è un giovane poeta e attivista di Delhi, coinvolto nella lotta contro Modi e la sua legge sulla cittadinanza, la sua legge razzista. Tutto sarà ricordato. Uccideteci, diventeremo fantasmi e scriveremo dei vostri omicidi, con tutte le prove. Voi scrivete barzellette in tribunale; noi scriveremo “giustizia” sui muri. Parleremo così forte che anche i sordi sentiranno. Scriveremo così chiaramente che anche i ciechi leggeranno. Voi scrivete “ingiustizia” sulla terra; noi scriveremo “rivoluzione” nel cielo.

  • Mai sprecare un’arma: virus, la guerra ibrida contro la Cina

    Scritto il 25/2/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La politica delle nuove Vie della Seta, o Belt and Road Initiative (Bri), era iniziata con il presidente Xi Jinping nel 2013, prima in Asia centrale (Nur-Sultan) e poi nel sud-est asiatico (Jakarta). Un anno dopo, l’economia cinese, a parità di potere di acquisto, aveva superato quella degli Stati Uniti. Inesorabilmente, anno dopo anno dall’inizio del millennio, la quota statunitense dell’economia globale si è andata riducendo, mentre quella della Cina è in costante ascesa. La Cina è già il centro nevralgico dell’economia globale e il principale partner commerciale di quasi 130 nazioni. Mentre l’economia degli Stati Uniti è un guscio vuoto e il modo, tipico dei giocatori d’azzardo, con cui il governo degli Stati Uniti si autofinazia (i mercati dei pronti contro termine e tutto il resto) viene visto come un incubo distopico, lo stato della civiltà avanza in una miriade di aree della ricerca tecnologica, anche grazie al Made in China 2025. La Cina supera di gran lunga gli Stati Uniti nel numero dei brevetti registrati e produce almeno otto volte più laureati Stem [scienze, tecnologia, ingegneria e matematica] all’anno rispetto agli Stati Uniti, guadagnandosi lo status di miglior contributore alla scienza globale.

  • Usa e Germania ci vendevano il programma con cui spiarci

    Scritto il 21/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.
    Tra i suoi clienti, nazioni democratiche e dittature: l’Iran prima e dopo la rivoluzione khomeinista, paesi del Terzo Mondo o Stati rivali fra di loro come India e Pakistan, e perfino il Vaticano. «Quello che nessuno ha mai saputo fino ad oggi – scrive Valentino – è che la Crypto Ag era segretamente di proprietà della Cia in società con la Bnd, i servizi segreti tedesco-occidentali». Gli 007 di Bonn «manipolavano sistematicamente le apparecchiature, in modo da poter poi facilmente rompere i codici usati dai vari paesi per mandare i loro messaggi segreti e leggerli». Negli Anni ‘80, aggiunge il “Corriere”, gli strumenti di Crypto consentivano di decodificare il 40% di tutti i cablo diplomatici e le altre comunicazioni intercettate dai servizi Usa. A rivelarlo, scrive sempre Valentino, è uno straordinario pezzo di giornalismo investigativo, realizzato insieme dal “Washington Post” e dalla “Zdf”, la seconda rete televisiva pubblica tedesca, basato su documenti interni sia della Cia che del Bnd, che raccontano sin dalle origini tutti i dettagli dell’operazione, all’inizio denominata Thesaurus e poi ribattezzata Rubicon.
    «E’ stato il colpo d’intelligence del secolo», si legge negli atti americani: «I governi stranieri pagavano senza saperlo milioni di dollari agli Stati Uniti e alla Germania Ovest per il privilegio di avere le loro più segrete comunicazioni lette dai nostri servizi». Non tutti però abboccavano alle lusinghe di Crypto Ag: «Nel clima di sospetto della Guerra Fredda, i paesi leader del campo rivale, l’Urss e la Cina, non furono mai clienti della premiata compagnia, svizzera solo di nome». Ma la lista di chi usava le apparecchiature truccate, «pagandole milioni di dollari e facendo fare grassi profitti alle due intelligence», comprendeva anche i più stretti alleati occidentali e membri della Nato: Spagna, Grecia, Turchia e ovviamente l’Italia. A partire dal 1970, racconta il “Washington Post”, fu la National Security Agency, l’intelligence militare americana, a prendere il controllo di tutte le operazioni di Crypto insieme ai partner tedeschi, «comprese le assunzioni, la scelta delle tecnologie, il sabotaggio degli algoritmi, la promozione delle campagne di vendita a clienti precisi».
    Tra il 1970 e il 1975, prosegue il “Corriere”, le vendite annuali di Crypto Ag esplosero: da 15 milioni, passarono a 51 milioni di franchi svizzeri. «Ascoltarono e decrittarono di tutto: i mullah iraniani durante al crisi degli ostaggi del 1979, le comunicazioni dei militari argentini durante la guerra delle Falkland nel 1982 debitamente girate agli inglesi, gli ordini per le campagne omicide delle dittature latino-americane come l’assassinio del leader socialista cileno Orlando Letelier, ucciso nel 1976 in piena Washington dagli agenti di Pinochet. Non ultimo, le comunicazioni del presidente egiziano Anwar Sadat col Cairo durante i negoziati di Camp David tra Egitto e Israele nel 1972». Per inciso, annota Valentino, la famosa gaffe di Reagan sulla Libia insospettì gli iraniani, che erano a conoscenza del fatto che anche i libici usassero la tecnologia svizzera per le comunicazioni segrete. Qualche anno dopo, gli ayatollah arrestarono a Teheran uno dei rappresentanti di Crypto Ag, un cittadino tedesco, e lo rilasciarono solo nove mesi dopo, dietro il pagamento di un riscatto di un milione di dollari: soldi forniti in segreto proprio dal Bnd, l’intelligence di Bonn, dopo che la Cia si era rifiutata di pagare, invocando la linea americana di non versare mai riscatti per ostaggi.
    Le due documentazioni, messe a confronto dai reporter del “Post” e della televisione di Berlino, rivelano incomprensioni e polemiche tra tedeschi e americani: i primi attenti soprattutto all’aspetto economico della joint venture, che portava milioni di dollari in cassa, gli altri mai stanchi di «ricordare che si trattava di un’operazione di spionaggio». Inoltre i tedeschi erano basiti di fronte alla determinazione e all’entusiasmo dei colleghi Usa nello «spiare su tutti gli alleati». Testualmente: «Gli americani si comportano con i paesi alleati esattamente come con quelli del Terzo Mondo», è la frase di Wolbert Smidt, già direttore del Bnd, citata nei documenti tedeschi. La collaborazione clandestina si concluse nel 1990, finita la Guerra Fredda, quando il governo tedesco ordinò al Bnd di uscire da Crypto Ag: «La Cia, semplicemente, acquistò le quote tedesche e continuò il vecchio andazzo». Crypto Ag non esiste più, ma i suoi prodotti sono venduti ancora oggi a una dozzina di paesi. La vecchia compagnia – conclude Valentino – è stata smembrata nel 2018, «liquidata da azionisti la cui identità rimane ben nascosta dalle leggi del Liechtenstein». Al suo posto ci sono due società: CyOne Security e Crypto International. «Entrambi affermano di non avere alcuna connessione con il mondo dell’intelligence. Ma questa è un’altra storia».

    Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.

  • Sanders in vantaggio: come lo fermerà il Deep State dem?

    Scritto il 20/2/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    I falchi guerrafondai dei servizi segreti e del complesso militare industriale – chiamati in gergo “Deep State” – hanno un grave problema: gli manca un canditato valido da contrapporre a Trump nelle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Purtroppo per loro, il candidato che avevano prescelto – Joe Biden – sta perdendo colpi in maniera vistosa, e difficilmente riuscirà a vincere la nomination dei democratici. Biden sarebbe stato il perfetto continuatore della politica espansionistica di Obama. Una politica che, travestita da progressismo globalista, incarna invece i peggiori aspetti dell’imperialismo americano. Ma Biden, come dicevamo, sta deludendo i suoi sostenitori. Dopo aver perso malamente le primarie in Iowa, ha raddoppiato la sconfitta, facendo ancora peggio nel New Hampshire. E, stando alle statistiche, nessun candidato ha mai vinto la nomination che non avesse vinto almeno una delle due primarie iniziali. Ora Biden cercherà di rifarsi in Nevada e South Carolina, ma ormai è evidente che la sua reputazione è stata fortemente danneggiata dalla guerra con Trump.
    Il semplice fatto che Trump abbia chiesto al presidente Zelensky di indagare sulle attività oscure del figlio di Biden in Ucraina – anche senza ottenere niente di concreto – deve aver influito negativamente sulla percezione che gli americani hanno di Joe Biden. E, come sappiamo, in politica la percezione è tutto. Nel frattempo è emerso per i democratici un altro grave problema, che porta il nome di Bernie Sanders. Anzi, è riemerso un vecchio problema. Come molti ricordano infatti, Sanders aveva già avuto un’ottima partenza nelle primarie democratiche di quattro anni fa, ma poi fu lo stesso Dnc (la dirigenza del partito democratico) a mettergli i bastoni fra le ruote, boicottandolo in ogni modo possibile per favorire la candidata “moderata” Hillary Clinton. Riuscirono così a far vincere la Clinton e fare fuori Sanders, anche se poi la Clinton venne sconfitta da Trump. Ora il problema si ripete: il candidato Sanders è ripartito in quarta, vincendo il New Hampshire e sfiorando la vittoria nello stesso Iowa, e ora si trova nettamente in testa nei sondaggi nazionali.
    Ma i democratici sanno bene che Sanders farebbe molta fatica a battere Trump a livello nazionale, perché è troppo “di sinistra” per convincere la famosa fetta di indecisi, che sono quelli che ogni quattro anni determinano le elezioni presidenziali. E ora che Biden perde i pezzi, ai democratici resta soltanto il giovane Buttigieg per presentare all’America del Mid-West un volto rassicurante per le presidenziali di novembre. E Buttigieg non ha certo il peso politico né il carisma necessari per portare a casa una vittoria contro Donald Trump. Ci si domanda quindi cosa faranno a questo punto i democratici, che in realtà rappresentano il volto pubblico del Deep State. Si rassegneranno a riconsegnare la Casa Bianca a Trump per altri quattro anni, oppure cercheranno di fare un altro sgambetto a Sanders, inventandosi all’ultimo momento un candidato alternativo, come ad esempio Michael Bloomberg?
    (Massimo Mazzucco, “Deep State, we have a problem”, da “LuogoComune” del 13 febbraio 2020).

    I falchi guerrafondai dei servizi segreti e del complesso militare industriale – chiamati in gergo “Deep State” – hanno un grave problema: gli manca un canditato valido da contrapporre a Trump nelle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Purtroppo per loro, il candidato che avevano prescelto – Joe Biden – sta perdendo colpi in maniera vistosa, e difficilmente riuscirà a vincere la nomination dei democratici. Biden sarebbe stato il perfetto continuatore della politica espansionistica di Obama. Una politica che, travestita da progressismo globalista, incarna invece i peggiori aspetti dell’imperialismo americano. Ma Biden, come dicevamo, sta deludendo i suoi sostenitori. Dopo aver perso malamente le primarie in Iowa, ha raddoppiato la sconfitta, facendo ancora peggio nel New Hampshire. E, stando alle statistiche, nessun candidato ha mai vinto la nomination che non avesse vinto almeno una delle due primarie iniziali. Ora Biden cercherà di rifarsi in Nevada e South Carolina, ma ormai è evidente che la sua reputazione è stata fortemente danneggiata dalla guerra con Trump.

  • Mazzucco, l’11 Settembre e la religione di Fausto Biloslavo

    Scritto il 17/2/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Se il simpatico Fausto Biloslavo fosse un avvocato, anziché un giornalista, il suo assisito – gli Usa – non avrebbe scampo: l’ergastolo non glielo leverebbe nessuno. Il difensore, infatti, non sa spiegare le circostanze fondamentali del crimine, i fatti: non sa spiegare come mai le Torri Gemelle crollarono su se stesse in pochi secondi, come può avvenire solo nei casi di demolizione controllata (con edifici minati dalle fondamenta), né sa spiegare com’è possibile che un Boeing possa volare a 900 chilometri orari, ad appena duecento metri di altezza, senza disintegrarsi nell’impatto con l’aria. Tra le tante, basterebbero queste due “prove regine” a inchiodare l’imputato: la sua versione risulta palemesente falsa. Eppure “l’avvocato” Biloslavo (che su questo si dichiara incompetente) ammette, candidamente, di “credere” alla versione ufficiale sull’11 Settembre. Unanime il verdetto: non della corte, ma del pubblico (in questo caso, della trasmissione “Il Ring”, offerta da “ByoBlu” mettendo a confronto Biloslavo con Massimo Mazzucco, autore di due monumentali documentari sull’attacco alle Torri, il primo dei quali – “Inganno globale” – trasmesso nel 2006 da Enrico Mentana a “Matrix”, in prima serata su Canale 5).
    Beninteso: è fuori discussione l’assoluta buona fede di Biloslavo, rinomato reporter di guerra in forza al “Giornale”. Lo dimostra il candore con cui ribadisce la sua tesi, sorvolando sull’evidenza dei fatti principali: gli Usa furono davvero colpiti da un maxi-attentato inatteso, e solo l’indomani decisero di approfittare della “nuova Pearl Harbor”, abusando del loro potere “imperiale” per esportare la guerra in mezzo mondo. «Me lo disse il comandante Massud, in persona: Al-Qaeda si stava preparando a colpire le città occidentali». E chi era, Al-Qaeda? E’ evidente, ammette Biloslavo, il ruolo dei sauditi. Il giornalista non esclude neppure che qualche settore dell’intelligence Usa possa esser stato al corrente della minaccia, che sarebbe stata in ogni caso sottovalutata. Sempre ricorrendo alla sua fede nella versione ufficiale, lo stesso Biloslavo esclude categoricamente che lo stratega americano Zbiginew Brzezinski possa aver reclutato Osama Bin Laden, in Afghanistan, originariamente in funzione antisovietica. Sul web circolano foto che ritraggono i due, ma Biloslavo – senza un perché – afferma di non credere all’autenticità di quelle foto, che peraltro (dice) non ha neppure mai visto.
    Se uno volesse inforcare le lenti della dietrologia, scoprirebbe che Gioele Magaldi, nel libro “Massoni” (Chiarelettere, 2014) afferma di poter esibire prove schiaccianti, contenute in documenti riservati ma all’occorrenza pubblicabili. Testualmente: proprio Brzezinski affiliò Bin Laden alla superloggia “Three Eyes”, dominata da Kissinger, per farne una pedina strategica del disegno imperiale statunitense durante la guerra fredda. Più tardi, caduta l’Urss, lo stesso Brzezinski ci rimase male, quando il “fratello” Bin Laden abbandonò la “Three Eyes” per passare alla “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, con un obiettivo preciso: elevare all’ennesima potenza il ruolo del terrorismo internazionale, “islamico” solo nella sua manovalanza, per farne un decisivo strumento di potere a livello geopolitico. Da quella “officina supermassonica” nacque il Pnac dei neocon, in cui – nel 2000 – si scrive che, per militarizzare il pianeta, occorre l’alibi di una “nuova Pearl Harbor”. L’anno dopo, tutto accadde in tre giorni: il 9 settembre venne ucciso Massud, il 10 settembre Bush esaminò il piano di invasione dell’Afghanistan e l’indomani, finalmente, crollarono le Torri.
    Per Biloslavo, a uccidere il leader dell’Alleanza dei Nord fu Al-Qaeda. I due killer erano agli ordini del “signore della guerra” Burnuddin Hekmathyar. Non è più un segreto per nessuno che lo stesso Hekmathyar fosse a libro paga dell’Isi, il servizio segreto militare del Pakistan, longa manus della Cia. Lo ribadì Benazir Bhutto, annunciando di volersi candidare a Islamabad anche per denunciare il legame tra servizi segreti atlantici e Al-Qaeda: hanno ucciso Massud, disse, per eliminare l’unico leader autorevole in circolazione in Afghanistan, capace quindi di restituire piena sovranità al paese una volta sfrattati i Talebani. Faceva così paura, la verità di Benazir Bhutto, che fu uccisa con un’automoba nel 2007, alla vigilia di elezioni che, secondo ogni previsione, l’avrebbero incoronata alla guida del Pakistan con un autentico plebiscito. Ma in un’ora e mezza di serrato confronto – quasi cavalleresco, se non fosse per le continue interruzioni imposte da Biloslavo a Mazzucco, nonostante l’ottima conduzione di Francesco Toscano – il giornalista non ha neppure vagamente sfiorato la maniglia della porta proibita, quella che permette di accedere alle fonti che raccontano l’altra verità, la più scomoda.
    Biloslavo preferisce credere alle dichiarazioni processuali di un terrorista tuttora nelle mani degli americani, che l’hanno torturato per vent’anni a Guantanamo (Khalid Sheik Mohammed: sostiene di esser stato il regista dell’operazione su ordine di Bin Laden), mentre ritiene inattendibili le testimonianze di 108 pubblici ufficiali – poliziotti e pompieri di New York – che dichiarano di aver percepito distintamente una serie di esplosioni simultanee, nelle Torri Gemelle, in prossimità dell’impatto dei velivoli. Semplicemente, Biloslavo ritiene implausibile la teoria dell’auto-attentato: un gesto troppo mostruoso, e un complotto troppo difficile da attuare (mantenendo poi il silenzio per vent’anni). Una tesi che ricorda quella agitata, per decenni, dai sostenitori della versione ufficiale sull’omicidio di John Kennedy. Tuttora, c’è chi ripete che non esistono ragioni valide per dubitare che l’assassino fu Lee Harvey Oswald. Peccato che la versione ufficiale sia stata letteralmente demolita dagli stessi autori del complotto, esecutori e mandanti intermedi. Storia che lo stesso Mazzucco ha ricostruito, prove alla mano, in un esemplare documentario di mezz’ora.
    L’amante di Lyndon Johnson, che odiava i Kennedy, ha ammesso che l’allora vicepresidente le confessò l’imminente fine di Jfk, la sera prima dell’attentato, dopo un summit a Dallas con i vertici della Cia e dell’Fbi. In punto di morte, l’allora numero due della Cia – Howard Hunt – registrò una dichiarazione in cui ammise di aver orchestrato il delitto usando sicari della mafia. Il pilota di un aereo della Cia, Tosh Plumlee, ha ammesso di aver trasportato a Dallas uno dei capimafia incaricati dell’esecuzione, Johnny Rosselli, confermando che il tiratore scelto – Chuck Nicoletti – li attendeva nella città texana. A far esplodere il cervello di Kennedy fu James Files, reo confesso, tuttora detenuto negli Usa. Consegnò a un detective privato, Joe West, la pistola fumante: se fate riesumare la salma di Kennedy, gli disse, troverete nel cranio le tracce di mercurio con cui era imbottito il fatale proiettile. Il detective West corse dal giudice, ma non fece in tempo a far riaprire il caso: morì in seguito a complicazioni cliniche dopo un ordinario intervento chirurgico. Il killer, James Files, è ancora in carcere, senza che nessuno si sia preso la briga di interrogarlo, né di far riesumare il cadavere di Kennedy. Si preferisce ancora credere che a sparargli fu Oswald, presentato come uno squilibrato assassino solitario, senza complici né coperture.
    Troppo dura, ammettere che siano stati i vertici di uno Stato a decidere di ammazzare il presidente? Se c’è un complotto, prima o poi la verità viene sempre a galla, dice Biloslavo. La confessione di Howard Hunt, altissimo dirigente della Cia, è datata 2007: quasi mezzo secolo dopo il crimine. Dall’11 Settembre sono passati appena vent’anni, ma molte verità sono già emerse. Per una piena confessione occorreanno ancora un paio di decenni? Biloslavo ride, del cosiddetto complottismo: gli sembra puro delirio, come quello dei terrapiattisti. Proprio per questo, probabilmente, Mazzucco – nei panni di pubblico ministero di un ipotetico processo – si tiene alla larga da qualsiasi tesi: non si sbilancia sui possibili autori del complotto, né sulle modalità di esecuzione. Per esempio: quali esplosivi sarebbero stati usati per minare le Torri? «Non sta a me sostenere l’onere della prova» ribadisce: «Mi basta dimostrare che la versione ufficiale non regge». Per 3.500 ingegneri e architetti americani, le Twin Towers furono demolite in modo controllato: in base alle leggi della fisica, solo abbattendo i supporti sottostanti si può verificare un crollo simile, in pochi secondi.
    Quanto agli aerei è la stessa Boeing a confermare: a quella quota, se un aereo come quelli volasse a 900 chilometri orari perderebbe i pezzi, subendo il distacco delle ali. E dunque? Se quelli non erano Boing normali ma aerei-bomba rinforzatati e telecomandati, dove sarebbero finiti i passeggeri? Bella domanda, dice Mazzucco: forse un giorno lo scopriremo. I 19 ipotetici dirottatori – quelli che in realtà non erano in grado di pilotare aerei – non sono mai stati filmati, negli scali d’imbarco. E sono almeno una trentina i fatti – i riscontri oggettivi, incontrovertibili – che demoliscono la versione ufficiale, nella quale Biloslavo dichiara di “credere” (se non altro perché non osa prendere in considerazione, psicologicamente, l’idea del maxi-complotto). Intanto – e non è poco – ha comunque accettato di confrontarsi con Mazzucco, stimatissimo negli Usa per il suo lavoro di indagine giornalistica. E, con la trasmissione web-streaming del 14 febbraio su “ByoBlu”, Messora e Toscano hanno fatto un piccolo capolavoro di informazione: dimostrando, in un leale confronto alla pari, che il mainstream media non sa spiegare, tecnicamente, perché le Torri Gemelle crollarono in quel modo (e neppure se lo domanda, a distanza di vent’anni).

    Se il simpatico Fausto Biloslavo fosse un avvocato, anziché un giornalista, il suo assistito – gli Usa – non avrebbe scampo: l’ergastolo non glielo leverebbe nessuno. Il difensore, infatti, non sa spiegare le circostanze fondamentali del crimine, i fatti: non sa spiegare come mai le Torri Gemelle crollarono su se stesse in pochi secondi, come può avvenire solo nei casi di demolizione controllata (con edifici minati dalle fondamenta), né sa spiegare com’è possibile che un Boeing 767 possa volare a 900 chilometri orari, ad appena duecento metri di altezza, senza disintegrarsi nell’impatto con l’aria. Tra le tante, basterebbero queste due “prove regine” a inchiodare l’imputato: la sua versione risulta palesemente falsa. Eppure “l’avvocato” Biloslavo (che su questo si dichiara incompetente) ammette, in modo disarmante, di “credere” alla versione ufficiale sull’11 Settembre. Unanime il verdetto: non della corte, ma del pubblico (in questo caso, della trasmissione “Il Ring“, offerta da “ByoBlu” mettendo a confronto Biloslavo con Massimo Mazzucco, autore di due monumentali documentari sull’attacco alle Torri, il primo dei quali – “Inganno globale” – trasmesso nel 2006 da Enrico Mentana a “Matrix”, in prima serata su Canale 5).

  • Usa e Israele ricattano l’Italia, pavida e disonesta con l’Iran

    Scritto il 25/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Dilaga la disonestà intellettuale. Per avventura ho partecipato a una trasmissione televisiva dove un invitato e la conduttrice non sapevano niente di Iran e delle sanzioni imposte dagli Usa alla Repubblica islamica, distorcendo i fatti e la realtà. In onda si perde tempo a correggere errori marchiani di gente che per ignoranza o evidenti motivi ideologici – demonizzare l’Iran e sostenere Usa e Israele – non sa neppure la sequenza degli eventi. È la propaganda del nostro regime mediatico, asservito a Washington e a Israele, sostenuto dai cosiddetti sovranisti con la complicità di una sinistra ufficiale inesistente. Soprattutto adesso che l’Europa – con Gran Bretagna, Francia e Germania – contesta agli iraniani la violazione dell’accordo sul nucleare del 2015 in seguito alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio che è seguita all’uccisione da parte di Trump del generale Qassem Soleimani. Riepiloghiamo i fatti. L’accordo, un trattato internazionale supervisionato dall’Onu, entra in vigore alla fine del 2015 e con molte difficoltà l’Iran rientra nel circuito degli scambi internazionali. In realtà neppure con Obama era facile: le banche occidentali erano costantemente bersaglio del Tesoro americano se aprivano linee di credito con Teheran.
    L’Italia che aveva 30 miliardi di euro di commesse con l’Iran dovette rinegoziare con il governo iraniano arrivando a un accordo per una linea di credito da 5 miliardi di euro, che doveva coprire le nostre esportazioni. Il governo Gentiloni aspettò la vigilia delle elezioni nel 2018 e non fece mai il decreto attuativo perché messo sotto pressione di Usa e Israele. Così abbiamo perso altri soldi e posti di lavoro. Nel 2018 Trump straccia l’accordo sul nucleare ma per un anno l’Iran non vìola nessuna delle regole del trattato e non arricchisce l’uranio. Il governo del moderato Hassan Rohani, tenendo a freno i falchi del regime, aspettava che l’Europa mettesse a punto un sistema, definito Instex, per l’aggiramento delle sanzioni. A questo sistema, voluto da Gran Bretagna, Francia e Germania, aderiscono oggi sei nazioni europee ma l’Italia non vi partecipa ancora. Ufficialmente perché lo sta studiando, in realtà in quanto ha subito nuove pressioni americane e israeliane, anche da parte dei sovranisti della Lega che al governo con i Cinquestelle sostenevano soprattutto Israele e non gli interessi nazionali. I Cinquestelle, prima ancora della rottura con la Lega, hanno adottato le stesse posizioni con Conte e Di Maio nonostante una parte del movimento fosse contrario.
    Il sistema Instex comunque non ha ancora funzionato e il governo iraniano si è così trovato strangolato da continue sanzioni: ecco perché Teheran, sotto attacco di Trump, ha ripreso l’arricchimento dell’uranio. Il presidente americano continua falsamente a dire di essere pronto a negoziare una nuova intesa con Teheran che comprenda anche i missili balistici, non solo il nucleare. Ma invece di incoraggiare il negoziato prima fa assassinare il vero numero 2 del regime poi impone altre sanzioni giugulatorie. Trump non vuole negoziare con Teheran ma strangolarla, e spingere se possibile verso un cambio di regime sfruttando le piazze e le laceranti divisioni interne. Senza naturalmente sapere bene chi mettere al posto degli ayatollah, magari aprendo altre voragini come è accaduto in Iraq o in Libia o come stava per accadere in Siria. È parso evidente che Trump in Medio Oriente ha a cuore soltanto le sorti di Israele e quelle dell’Arabia Saudita, il suo maggiore cliente di armi. Il prossimo G-20 a Riad sancirà la piena assoluzione del principe ereditario Mohammed bin Salman, mandante, anche secondo la Cia, dell’assassinio del giornalista Jamaal Kashoggi.
    In questo ultimo anno Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana di Gerusalemme e del Golan e sarebbe pronto a farlo anche per la Cisgiordania: contro tutte le risoluzioni Onu. Trump odia i trattati multilaterali e la legalità internazionale: li considera un impedimento all’uso della forza. Gli europei devono stare bene attenti. Ora Trump bastona arabi e iraniani, poi toccherà anche a noi europei. Anzi ha già iniziato, praticamente sciogliendo la vecchia Nato e consentendo a un suo membro, la Turchia, di acquistare armi dalla Russia, di fare una strage di curdi siriani, i nostri maggiori alleati contro il terrorismo e l’Isis, e di tentare l’avventura libica con soldati e mercenari jihadisti. La Nato gli serve soltanto per mettere i soldati italiani ed europei al posto dei marines in Iraq se gli americani se ne dovessero andare o ridurre le truppe: carne da cannone per avere mano libera nei raid con i droni. Ma la cieca propaganda dei media italiani e in parte europei fa sì che andremo al macello senza lamentarci. Non come agnelli sacrificali di biblica memoria ma come asini felici di essere bastonati. Anzi, meno ancora degli asini, perché ogni tanto pure loro si ribellano e mollano quale calcione. E i media dietro, a tirare il carro della propaganda. Che stampa, bellezza!
    (Alberto Negri, “Sull’Iran dilaga la disonestà intellettuale”, dal “Manifesto” del 17 gennaio 2020; articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    Dilaga la disonestà intellettuale. Per avventura ho partecipato a una trasmissione televisiva dove un invitato e la conduttrice non sapevano niente di Iran e delle sanzioni imposte dagli Usa alla Repubblica islamica, distorcendo i fatti e la realtà. In onda si perde tempo a correggere errori marchiani di gente che per ignoranza o evidenti motivi ideologici – demonizzare l’Iran e sostenere Usa e Israele – non sa neppure la sequenza degli eventi. È la propaganda del nostro regime mediatico, asservito a Washington e a Israele, sostenuto dai cosiddetti sovranisti con la complicità di una sinistra ufficiale inesistente. Soprattutto adesso che l’Europa – con Gran Bretagna, Francia e Germania – contesta agli iraniani la violazione dell’accordo sul nucleare del 2015 in seguito alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio che è seguita all’uccisione da parte di Trump del generale Qassem Soleimani. Riepiloghiamo i fatti. L’accordo, un trattato internazionale supervisionato dall’Onu, entra in vigore alla fine del 2015 e con molte difficoltà l’Iran rientra nel circuito degli scambi internazionali. In realtà neppure con Obama era facile: le banche occidentali erano costantemente bersaglio del Tesoro americano se aprivano linee di credito con Teheran.

  • Koenig: vergogna, Soleimani invitato a Baghdad da Trump

    Scritto il 23/1/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.
    I giornalisti del sistema mainstream media sono troppo codardi per temere di rischiare il lavoro o di perdere l’accesso alla sala stampa della Casa Bianca. Tuttavia, questo è esattamente ciò che il primo ministro iracheno, Adil Abdul-Mahdi, ha detto, incredulo per l’accaduto: «Trump prima mi chiede di mediare con l’Iran, e poi uccide il mio invitato». Abdul-Mahdi ha sicuramente più credibilità di Trump o di uno dei suoi compari, dello stesso Pompeo che, non molto tempo fa, disse a “Rt”: «Quando ero il direttore della Cia, mentivamo, tradivamo, rubavamo. Abbiamo avuto interi corsi di formazione. Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano». Il generale Soleimani è stato prelevato all’aeroporto di Baghdad da Abu Mahdi al-Muhandis, comandante militare iracheno e leader delle forze di mobilitazione popolare. Sono partiti con un Suv, quando i missili-drone statunitensi li hanno colpiti e polverizzati, insieme ad altri 10 militari di alto rango di entrambi i paesi. Soleimani aveva l’immunità diplomatica – e gli Stati Uniti lo sapevano. Ma nessuna regola, nessuna legge e nessuno standard etico è rispettato da Washington. Un comportamento molto simile a quello dei barbari.
    Il generale Soleimani, che era molto più che un generale, era anche un grande diplomatico, fu richiesto dal primo ministro Abdul-Mahdi per conto di Trump di venire a Bagdad per far parte di un processo di mediazione che Trump aveva chiesto a Mahdi di guidare, per allentare le tensioni tra Iran e Arabia Saudita, nonché tra Stati Uniti e Iran. Era uno stratagemma vile e codardo per assassinare Qassem Soleimani. Quanto in profondità puoi affondare? Non ci sono parole per descrivere un crimine così orribile. Pompeo, rotto a ogni menzogna, ha trovato immediatamente una formula di copertura: Soleimani era un terrorista e un pericolo per la sicurezza nazionale Usa. Attenzione, caro lettore: nessun iraniano, né il generale Soleimani né nessun altro, ha mai minacciato gli Stati Uniti, né con le parole, né con le armi. Invece, il capo-barbaro ha avuto l’audacia di minacciare l’Iran di colpire 52 siti del suo patrimonio culturale, nel caso in cui l’Iran avesse osato vendicarsi. Come ulteriore atto immediato contro la legge, Trump ha vietato al ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, di andare alle Nazioni Unite a New York per rivolgersi al Consiglio di Sicurezza, semplicemente rifiutando il visto d’ingresso negli Stati Uniti.
    Ciò è contrario alla Carta delle Nazioni Unite firmata dagli Stati Uniti nel 1947, in base alla quale ai rappresentanti stranieri deve essere sempre consentito l’accesso al territorio delle Nazioni Unite a New York (lo stesso vale per le Nazioni Unite a Ginevra). E dov’è il signor António Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, quando ne hai bisogno? Che cosa ha da dire?  Nulla, un grande nulla. Non ha nemmeno condannato l’omicidio del generale Soleimani. Ecco cos’è diventato l’Onu: un corpo senza denti e senza valore, pronto a eseguire le disposizioni dell’Impero Barbarico. Che triste eredità. Quand’è che la maggioranza degli Stati membri chiederanno l’espulsione degli Stati Uniti dall’Onu? Ci sono 120 Stati non allineati che si trovano dietro paesi che sono molestati, oppressi e sanzionati dagli Stati Uniti, come Venezuela, Cuba, Iran, Afghanistan, Siria, Corea del Nord. Perché non alzarsi all’unisono e fare dell’Onu – senza più il tiranno barbarico – ciò che la sua carta dice di essere?
    (Peter Koenig, estratto dal post “L’Occidente è gestito da barbari”, pubblicato su “Global Research” il 13 gennaio 2020. Economista e analista geopolitico, specialista in ecologia e risorse idriche, Koenig ha lavorato per oltre 30 anni con la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità in tutto il mondo).

    Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.

  • Noi terroristi e i diritti altrui: l’Impero ha assorbito l’America

    Scritto il 16/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici.”
    Apparentemente, Soleimani era volato a Baghdad con un volo commerciale “terroristico” segreto, per recarsi ad una sorta di incontro diplomatico “terroristico” altrettanto segreto, dove avrebbe dovuto discutere di de-escalation con i sauditi (che sicuramente non sono “terroristi”), quando l’esercito americano lo aveva preventivamente ucciso con un drone Mq-9b Reaper della General Atomics Aeronautical Systems. L’Iran, (ufficialmente un paese “terrorista” fin dal gennaio 1979, quando gli iraniani avevano rovesciato il brutale fantoccio dell’Occidente che la Cia e l’Mi6 avevano installato come loro “Shah” nel 1953, che aveva defenestrato il primo ministro iraniano, reo di aver nazionalizzato la compagnia petrolifera anglo-persiana, in seguito conosciuta come British Petroleum), aveva reagito all’omicidio preventivo del loro generale “terrorista” proprio come un paese di “terroristi”. L’ayatollah Khamenei (avete indovinato, un “terrorista”) aveva lanciato una serie di minacce “terroristiche” contro i 50.000 uomini del personale militare degli Stati Uniti che, più o meno, circondano completamente il suo paese, con basi in tutto il Medio Oriente.
    Milioni di iraniani (attualmente “terroristi,” ad eccezione dei membri del Mek), che, secondo i funzionari statunitensi odiavano Soleimani, erano scesi nelle strade di Teheran e di altre città per piangere la sua morte, bruciare bandiere americane e gridare “morte all’America” e altri slogan “terroristici”. L’Impero era andato a Defcon 1. L’82a Divisione Aviotrasporta era stata messa in allerta. Il Dipartimento di Stato aveva consigliato agli americani in vacanza in Iraq di andarsene da lì, #worldwar3 aveva iniziato a fare tendenza su Twitter. I paesi amanti della libertà di tutta la regione stavano per essere annientati. L’Arabia Saudita aveva posticipato la sua già programmata edizione del fine settimana di decapitazioni pubbliche. Israele aveva attivato le sue inesistenti armi nucleari. I kuwaitiani avevano messo guardie armate davanti alle loro incubatrici. Qatar, Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e gli altri fedeli avamposti dell’Impero avevano fatto quello che di solito si fa quando si è di fronte all’Armageddon nucleare.
    Negli Stati Uniti, era un’isteria collettiva. I media corporativi avevano iniziato a pompare storie su Soleimani con «le mani che grondavano sangue», «il terrorista numero uno al mondo», reo di aver ucciso centinaia di soldati americani che, nel 2003, dopo aver preventivamente invaso e distrutto l’Iraq, stavano preventivamente massacrando e torturando gli iracheni per impedire loro di attaccare l’America con le loro inesistenti armi di distruzione di massa. Gli americani (la maggior parte dei quali non aveva mai nemmeno sentito parlare di Soleimani fino a quando il loro governo non lo aveva ucciso, e che non sarebbe in grado trovare l’Iran su una carta geografica) si erano buttati su Twitter per chiedere l’immediato bombardamento dell’Iran direttamente dallo spazio. Il sindaco Bill de Blasio aveva ordinato a una divisione di forze “anti-terrorismo” pesantemente armate di vigilare su New York City, fucili imbracciati, per impedire agli iraniani di attraversare a nuoto l’Atlantico (insieme al loro delfini assassini comunisti), toccare terra ad East Hampton Beach, prendere la metropolitana fino in città e commettere atrocità “terroristiche” devastanti, che sarebbero poi state commemorate per l’eternità su portachiavi, magliette e tazze da caffè extralarge.
    Trump, da buon agente russo, aveva tenuto i nervi saldi e non si era fatto scoprire, eseguendo il suo numero di “completo deficiente” come solo un esperto agente russo è in grado di fare. Mentre l’Iran era ancora in lutto, aveva iniziato a farfugliare in pubblico sul cadavere smembrato di Soleimani, sul bombardamento di siti culturali iraniani e a schernire grossolanamente l’Iran come un ubriaco da strada emotivamente alterato. La sua strategia era chiaramente quella di convincere gli iraniani (e il resto del mondo) di essere un pericoloso imbecille che avrebbe ucciso i funzionari di qualsiasi governo straniero che Mike Pompeo gli avesse indicato, e che poi avrebbe incenerito i loro musei e le loro moschee e, presumibilmente, anche tutto il resto del loro “cessoso” paese, se solo avessero pensato a ritorsioni. Ciononostante, gli iraniani avevano reagito. In una sadica esibizione di “spietato terrorismo”, avevano lanciato una tempesta di missili balistici “terroristici” contro due basi militari statunitensi in Iraq, non uccidendo nessuno e non ferendo nessuno, ma riducendo in cenere alcuni edifici vuoti, un elicottero e un paio di tende.
    Prima, però, al fine di massimizzare il “terrore”, avevano chiamato i funzionari dell’ambasciata svizzera a Teheran e avevano chiesto loro di avvertire i militari statunitensi che, a breve, avrebbero lanciato alcuni missili contro le loro basi. Come riportato dal sito web di “Moon of Alabama”: «L’ambasciata svizzera a Teheran, che rappresenta gli Stati Uniti, era stata avvertita almeno un’ora prima dell’attacco. Intorno alle 0:00 Utc, la Federal Aviation Administration degli Stati Uniti aveva emesso un avviso agli aviatori (Notam) che proibiva i voli civili statunitensi su Iraq, Iran, Golfo Persico e Golfo di Oman». Sulla scia del devastante contrattacco degli iraniani e delle non-vittime di massa risultanti, chiunque in possesso di una connessione ad Internet o ai canali televisi era sceso nel proprio bunker anti-terrorismo e aveva trattenuto il respiro, in previsione dell’inferno nucleare che Trump avrebbe sicuramente scatenato. Confesso di aver seguito anch’io il suo discorso, uno degli spettacoli pubblici più inquietanti a cui abbia mai assistito.
    Trump era uscito a passo di carica dalle porte del Grand Foyer della Casa Bianca, drammaticamente retroilluminato, “abbronzato” di fresco, accigliato come un lottatore di wrestling, e aveva annunciato che, finché sarebbe stato presidente, «all’Iran non sarà mai permesso di avere armi nucleari», come se uno qualsiasi degli eventi della settimana precedente avesse avuto a che fare con le armi atomiche (di cui gli iraniani non hanno bisogno e che non vogliono, tranne che in qualche delirio dei Neoconservatori, a meno che non intendano suicidarsi come nazione nuclearizzando Israele). Non ce l’avevo fatta ad ascoltare tutto il suo discorso, proferito in uno staccato affannato e robotico (forse perché Putin, o Mike Pompeo, glielo dettavano, parola per parola, nel suo auricolare), ma era stato chiaro fin dall’inizio che si era evitato lo scontro nucleare completo, faccia a faccia, con l’Asse della Resistenza, o l’Asse del Terrore, o l’Asse del Male o l’asse di qualunque cosa. Ma, seriamente, isteria di massa a parte, nonostante qualunque atrocità debba ancora arrivare, la Terza Guerra Mondiale non scoppierà. Perché, vi chiederete?
    Ok, ve lo dico, ma non vi piacerà. La Terza Guerra Mondiale non ci sarà perché la Terza Guerra Mondiale è già avvenuta … e l’Impero Capitalista Globale ha vinto. Date un’occhiata alle mappe della Nato (con tutte le varie basi). Guardate la mappa dello Smithsonian delle località in cui i militari statunitensi “combattono il terrorismo”. E ci sono molte altre mappe che potete cercare con Google. Quello che vedrete è l’Impero Capitalista Globale. Non l’Impero Americano, l’Impero Capitalista Globale. Se questo suona come una distinzione senza importanza, be’, in un certo senso lo è (e in un certo senso, no). Quello che voglio dire è che non è l’America (cioè l’America come Stato-nazione, in cui la maggior parte degli americani crede ancora di vivere) che sta occupando militarmente gran parte del pianeta, facendosi beffe del diritto internazionale, bombardando, invadendo altri paesi e assassinando capi di Stato e militari in totale impunità. O meglio, certo, è l’America: ma l’America non è l’America.
    L’America è una simulazione. È la maschera che l’Impero Capitalista Globale indossa per nascondere il fatto che non esiste l’America, che esiste solo l’Impero Capitalista Globale. L’intero concetto di Terza Guerra Mondiale, di potenti Stati-nazione che conquistano altri potenti-Stati-nazione, è pura nostalgia. L’”America” non vuole conquistare l’Iran. L’Impero vuole ristrutturare l’Iran e poi assorbire l’Iran nell’Impero. Se ne sbatte della democrazia, del fatto che alle donne iraniane sia permesso o meno indossare la minigonna o degli altri “diritti umani”. Se così non fosse, ristrutturerebbe l’Arabia Saudita e applicherebbe la “massima pressione” su Israele. Allo stesso modo, l’idea che “l’America” in Medio Oriente abbia commesso una serie di sfortunati “errori strategici” è una conveniente illusione. Certo, la sua politica estera non ha senso dal punto di vista di uno Stato-nazione, ma è perfettamente logica dal punto di vista dell’Impero.
    Mentre “l’America” sembra agitarsi senza senso, come un toro in un negozio di porcellane, l’Impero sa esattamente cosa sta facendo e ha continuato a farlo fin dalla fine della Guerra Fredda, aprendo mercati precedentemente inaccessibili, eliminando le resistenze interne, ristrutturando in modo aggressivo tutti quei i territori che non volevano accettare le regole del capitalismo globale. So che è gratificante sventolare la bandiera (o bruciarla, a seconda della vostra propensione politica) ogni volta che le cose si infiammano militarmente; ma ad un certo punto, noi (americani, inglesi, occidentali) dovremo affrontare il fatto che viviamo in un impero globale, che persegue attivamente i suoi interessi globali, e non in Stati nazionali sovrani che fanno gli interessi degli Stati nazionali. (Il fatto che lo Stato-nazione sia defunto è il motivo per cui stiamo assistendo ad una rinascita del “nazionalismo”. Non è un ritorno agli anni Trenta. E’ l’agonia dello Stato-nazione, del nazionalismo e della sovranità nazionale… la supernova di una stella morente). La Terza Guerra Mondiale è stata una battaglia ideologica, tra due sistemi egemonici in competizione. È finita. Questo è un mondo capitalista globale.
    Come afferma Jensen nel film “Network”: «Sei un vecchio che pensa in termini di nazioni e di popoli. Non ci sono nazioni. Non ci sono popoli. Non ci sono russi. Non ci sono arabi. Non ci sono Terzi Mondi. Non c’è Occidente. Esiste un solo sistema olistico di sistemi: un vasto, immane, intrecciato, interconnesso, multivariato, multinazionale dominio dei dollari. Petro-dollari, elettro-dollari, multi-dollari, reichsmark, yen, rubli, sterline e shekel. È il sistema internazionale delle valute che determina la totalità della vita su questo pianeta. Questo è l’ordine naturale delle cose, oggi». Quel sistema di sistemi, quel dominio multivariato e multinazionale di dollari, ci tiene tutti per le palle, gente. Tutti quanti. E non sarà soddisfatto fino a quando il mondo non si sarà trasformato in un inutile e privatizzato grande mercato neo-feudale. Quindi dovremmo dimenticarci della Terza Guerra Mondiale ed iniziare a concentrarci sulla Quarta Guerra Mondiale. Sapete di quale guerra sto parlando, vero? Quella dell’Impero Capitalista Globale contro i “terroristi.”#
    (C.J. Hopkins, “La Terza Guerra Mondiale”, da “Unz.com” del 13 gennaio 2020, post tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).

    Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici”.

  • Magaldi: Iran, Cia e Mossad. Ma in palio c’è la democrazia

    Scritto il 14/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.
    «Un’élite occulta e reazionaria si era impossessata delle istituzioni statunitensi, progettando direttamente l’attentato delle Torri Gemelle». Il piano: «Fingere di “esportare la democrazia” in Medio Oriente, usando il terrorismo “false flag” (fabbricato in casa) per promuovere guerre devastanti come quelle che hanno prostrato l’Iraq, col risultato di distruggere il prestigio degli Usa nella regione». Parola di Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha svelato nomi e cognomi del club del terrore chiamato “Hathor Pentalpha”, inventore delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Stragismo atlantico clandestino, cinicamente progettato con l’affiliazione nella “Hathor” di supermassoni occulti come Osama Bin Laden (Al-Qaeda) e poi Abu Bakr Al-Bahdadi, sedicente “califfo” dell’Isis. La “Hathor” fu creata da Bush senior poco dopo l’insediamento a Teheran del regime degli ayatollah: era comodissimo, il turbante di Khomeini, per prepararsi a inoculare nei media occidentali il veleno del famoso “scontro di civiltà”. La tesi: l’Islam è un nemico, non può coesistere col sistema socio-economico occidentale. Bufale, e tanta ipocrisia: «Gli Usa – sottolinea Magaldi – convivono tuttora benissimo con le monarchie petrolifere del Golfo come l’Arabia Saudita, il cui autoritarismo teocratico è forse persino peggiore di quello dell’Iran khomeinista».
    Il grande alibi, per tutti, è sempre stato Israele: ovvero l’ostilità islamica verso lo Stato ebraico, accusato di aver schiacciato i palestinesi. L’uomo che stava per metter fine a mezzo secolo di massacri – Yitzhak Rabin, Premio Nobel per la Pace – venne assassinato nel 1995 da un fanatico israeliano ultra-sionista. Tolto di mezzo il massone progressista Rabin (e il miraggio dello Stato palestinese) si sono scatenati i “neocon” statunitensi, con il loro piano di egemonia e business fondato sulla “guerra infinita”, alimentata dagli “inside job” del terrorismo condotto sotto falsa bandiera, da manovalanza jihadista pilotata da servizi segreti occidentali. Attorno alle macerie dell’Iraq e della tormentatissima Striscia di Gaza sono quindi gradualmente riaffiorate le potenze regionali, accanto a Israele: l’Arabia Saudita, la Turchia e, naturalmente, l’Iran. Quest’ultimo, di recente, ha ampliato enormemente la sua sfera d’influenza: dallo Yemen al Libano, da Gaza alla Siria fino al vicino Iraq. Uomo-chiave della Mezzaluna Sciita, il grande stratega Qasem Soleimani, considerato una sorta di eroe nazionale per aver fermato i tagliagole dell’Isis tenendoli lontani dalle frontiere iraniane, indirettamente minacciate dagli impresari occulti dello Stato Islamico.
    Proprio la riconosciuta funzione patriottica di Soleimani – oltre alle sconcertanti modalità della sua morte, un atto terroristico apertamente rivendicato dagli Usa – spiega la folla oceanica ai funerali, milioni di persone (e addirittura una quarantina di morti, nella calca, in una manifestazione di dolore collettivo, intensamente popolare, esibito per giorni di fronte al mondo). Un militare integerrimo, Soleimani, che aveva rifiutato la politica per restare tra i suoi soldati, la temutissima brigata Al-Quds, specializzata in operazioni coperte, oltre i confini. L’eroe di Teheran era da tempo nel mirino del Mossad, che ne temeva le mosse d’intesa con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano. In Iraq, era stato determinante (accanto alle forze coordinate da Trump) nello sconfiggere il Califfato. Idem in Siria: con i russi, l’esercito di Assad e i miliziani sciiti libanesi, Soleimani aveva contribuito in modo decisivo a ripulire il paese dai terroristi inizialmente armati, addestrati e protetti dall’Occidente. Perché sia stato ucciso il 3 gennaio 2020 (e in quel modo, in un paese terzo, con un missile sparato da un drone) resta un mistero.
    Le fonti mainstream occidentali lo accusano di aver orchestrato, nei giorni precedenti, l’assalto all’ambasciata statunitense di Baghdad. Il governo iracheno smentisce: al contrario, afferma, Soleimani era stato chiamato dall’Iraq per una delicata missione diplomatica. Doveva innanzitutto calmare le acque tra le milizie sciite (alcune ostili al predominio iraniano) e, soprattutto, consegnare un messaggio strategico destinato all’Arabia Saudita, cui Teheran proponeva una de-escalation nella regione. Chi ha ucciso Soleimani, dunque, intendeva tagliare le gambe a una possibile intesa di pace tra la nazione leader degli sciiti e quella dei sunniti? Altre vere spiegazioni, del resto, non giungono da nessun’altra parte: la propaganda mediatica statunitense s’è limitata, in modo imbarazzante, a definire “un terrorista” l’uomo-chiave dell’intelligence militare dell’Iran. Giulietto Chiesa ricorda i propositi omicidi di Yossi Cohen, il capo del Mossad, e cita il senatore repubblicano Lindsay Graham, che ha minacciato Trump: se ritira le truppe Usa dal Medio Oriente, può scordarsi l’appoggio di metà del partito al Senato, quando si dovrà decidere sull’impeachment. Il solito network filo-sionista, che il cospirazionismo chiama impropriamente lobby ebraica?
    Gianfranco Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt fondato da Magaldi, fa un’altra ipotesi: sempre sotto la minaccia dell’impeachment (e quindi dell’appoggio condizionato per le imminenti elezioni presidenziali) sarebbe stata proprio la famigerata “Hathor Pentalpha”, annidata nel Deep State americano, a indurre Trump a colpire Soleimani per “rimediare” alla recente, sbandierata uccisione di Al-Baghdadi, esponente della “Hathor”. Una ricostruzione che però non convince Magaldi: «Il network massonico-progressista internazionale, a cui io stesso appartengo – dice – contribuì a far eleggere Trump proprio per tenere lontana la “Hathor” dalle stanze del potere». E inoltre – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – i supermassoni della “Hathor” «continuano a vedere Trump come il fumo negli occhi: impensabile un accordo tra loro e la Casa Bianca». Ma allora, perché Soleimani è stato ucciso proprio ora? Secondo Magaldi, l’episodio fa parte della spietata logica simmetrica della guerra permanente, che è aberrante ma tragicamente coerente: se hai a lungo sfidato la superpotenza egemone (e i suoi terroristi) anche utilizzando milizie pronte a usare il medesimo terrorismo, non puoi non sapere che un giorno potresti cadere sul campo a tua volta, come qualsiasi altro combattente.
    Soleimani però non era un combattente qualsiasi, era il massimo responsabile della politica dell’Iran sul terreno mediorientale. Di più: era il grande protagonista della riconquista sciita dei territori disastrati dall’imperialismo Usa, tra le macerie della regione petrolifera perennemente funestata dalla piaga dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese, spesso usato come alibi da entrambe le parti per perseguire politiche di potenza. «Non è un mistero – dice Magaldi – che i “falchi” israeliani si siano accordati, in passato, anche con i “falchi” iraniani: si finge di combattersi all’infinito, e lo spettro del nemico esterno – vero o presunto – è comodissimo per rafforzare il potere interno». Magaldi invita a esaminare quale fosse il principale referente di Soleimani: l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran e capo dell’ala più reazionaria del regime. Gli stessi Pasdaran, di cui la Quds Force di Soleimani è la punta di lancia, rappresentano una bella fetta del potere, anche economico, della teocrazia sciita. Un bersaglio perfetto, il valoroso generale, per chi avesse voluto colpire la radice più intransigente dei “padroni” di Teheran: un capitolo di quella che Federico Rampini chiama “la seconda guerra fredda”, che oggi vede Trump fronteggiare bruscamente la Cina e i suoi alleati. Nel mirino c’è quindi l’Iran, snodo nevralgico del Golfo Persico lungo la nuova Via della Seta. Un paese da quarant’anni ostile agli Usa, e ora alleato con Pechino e Mosca.
    «Non mi sorprende l’estrema prudenza con cui Cina e Russia hanno reagito all’uccisione di Soleimani», ribadisce Magaldi, il primo a scommettere – a caldo – sul fatto che l’omicidio (benché così eccellente) non avrebbe provocato l’Armageddon bellico paventato da più parti. Violazione del diritto internazionale? Certo: «Sono episodi brutali, ai quali non vorremmo mai assistere, ma – ripeto – in qualche modo simmetrici, e dettati da una spietata logica squisitamente geopolitica». Al punto che oggi Magaldi arriva a sostenere che Trump, vista l’assenza di ritorsioni clamorose da parte dell’Iran (eccetto il bombardamento missilistico solo dimostrativo, su alcune basi statunitensi in Iraq) sia da considerarsi un obiettivo tecnicamente raggiunto, senza troppi danni: «Se volevano liberarsi di Soleimani, ci sono riusciti: e questo è un fatto». Meglio quindi non lasciarsi condizionare dall’emotività, insiste Magaldi: l’indignazione non aiuta a capire cosa si muove veramente, là fuori, oltre il teatro anche sanguinoso delle apparenze. Sempre secondo Magaldi, poi, l’espansionismo sciita – orchestrato dal regime teocratico di Teheran – oltre Atlantico è considerato come speculare, in qualche modo (almeno, nel richiamo esplicito alla legge coranica, interpretata nel modo più drastico) al terrorismo dell’Isis: stessa visione politica violenta, figlia di un’analoga interpretazione fanatica del medesimo credo religioso?
    Le differenze sono vistose: in Iran non sono all’opera tagliagole. I macellai dell’Isis, messi in campo dall’Occidente, hanno invece terrorizzato per anni interi Stati mediorientali. Per contro, a Teheran resiste un regime che ignora i diritti civili e pratica una brutale censura, mortifica le donne, nega ogni libertà di espressione, reprime il dissenso, tortura e fa sparire i detenuti scomodi. In altre parole una sorta di dittatura, che trae la sua forza proprio dal durissimo assedio al quale è stata ininterrottamente sottoposta a partire dalla comparsa del turbante di Khomeini. Embargo, sanzioni, minacce militari dirette e indirette. Timidi i tentativi di tregua, come lo storico accordo promosso da Obama sul nucleare, ora stracciato da Trump anche col sangue di Soleimani. Se lo spettacolo non è esattamente edificante, Magaldi si sforza di guardare oltre: la vera sfida, ripete, oppone democrazia e oligarchia, progressisti e reazionari. «Un errore imperdonabile, da parte dell’élite globalista, è stato quello di aver concesso alla Cina di entrare, senza nemmeno uno straccio di democrazia formale, nel grande gioco del commercio planetario, permettendole così di diventare una grande potenza». Sbaglia, sostiene Magaldi, chi si limita a puntare il dito contro l’imperialismo americano: la lobby (massonica) che ha costruito questa globalizzazione senza diritti, mettendo in ginocchio anche il lavoro in Occidente con la tragedia delle delocalizzazioni, era composta da oligarchi di svariati paesi, incluso il gigante cinese. E questa cupola è ancora largamente al comando, mettendo in campo soggetti solo formalmente democratici (come l’Ue) e protagonisti geopolitici che non tentano neppure di fingersi ispirati dalla democrazia.
    La dialettica tra esponenti progressisti e reazionari, aggiunge Magaldi, «attraversa tutti i gangli del vero potere, persino le più importanti strutture di intelligence come la Cia e il Mossad, dove storicamente coesistono anime antitetiche tra loro». Tutto questo avverrebbe molto in alto, a nostra insaputa, e spesso al di sopra dei governi stessi, ridotti a pedine. Anche per questo, forse, è morto il conservatore Qasem Soleimani, leale soldato dell’Iran degli ayatollah? Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, tutto è relativo: nessuno può arrogarsi il diritto di decretare quale sia il sistema politico migliore. Quando scriveva le sue opere, però, la globalizzazione non si era ancora manifestata in tutta la sua potenza: il cosiddetto terzo mondo lottava per liberarsi dai suoi parassitari colonizzatori. All’epoca, da Teheran, non partivano Boeing ucraini carichi di studenti iraniani diretti in Canada. Tragedia nella tragedia, l’abbattimento del volo civile nei cieli della capitale iraniana. «Intendiamoci: non è certo una specialità dell’Iran», precisa Magaldi: «Ne sappiamo qualcosa in Italia, con il caso di Ustica». Amato da Godard e Scorsese, il cinema di Kiarostami ha mostrato al mondo un Iran meraviglioso, fatto di umanità e silenzi. Ricordarsi che esiste anche quello, forse, può aiutare a uscire dal buio sanguinoso di un’attualità nutrita di propaganda, ignoranza e rombanti menzogne quotidiane.

    Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.

  • Vietato stupirsi se gli Usa, popolo eletto, calpestano i diritti

    Scritto il 09/1/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Gli Usa, giovani come sono, quasi mai sono stati in pace e hanno una lunga storia di soprusi, di omicidi e di vio­lazioni dei diritti dell’uomo nonché del diritto internazionale, il quale ultimo si dimostra, ancor più del diritto nazionale, pieghevole nella sua interpretazione ed effettività a seconda dei rapporti di forze in lizza. Nei libri di storia per le scuole non lo si racconta, ma durante la IIª Guerra Mondiale, gli Usa hanno violato le convenzioni internazionali in modo non sporadico, ma metodico. Bombarda­vano frequentemente quartieri residenziali e persino scuole (Gorla) e giostre (Grosseto). Eseguivano anche mitragliamenti di civili a volo radente. Me lo hanno confermato testimoni oculari e vittime. Ricordiamo i 300.000 civili circa bruciati vivi con un bombardamento al fosforo su Dresda, bersaglio stra­tegicamente inutile; i circa due milioni di prigionieri tedeschi, dopo la fine della guerra, nei campi di concentramento, prigionieri che gli Usa ridefinirono giuridicamente Disarmed Enemy Forces onde esimersi dalla Convenzione di Ginevra del 1929 a tutela dei prigionieri di guerra e darsi così il diritto di ridurre le loro razioni sotto le soglie di sopravvivenza, negando loro anche i ripari contro le intemperie.

  • Cacciari, il sangue di Soleimani e l’osceno silenzio europeo

    Scritto il 08/1/20 • nella Categoria: idee • (1)

    Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precdeenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.
    Fa impressione sentirlo dire in televisione dal filosofo Massimo Cacciari, solitamente prudente, ospite di Bianca Berlinguer il 7 gennaio 2020 insieme all’altrettanto compassato Paolo Mieli, parimenti preoccupato dall’inaudito omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, assassinato senza preavviso in un paese neutrale e teoricamente sovrano, l’Iraq devastato dalle guerre americane. A spaventare Cacciari è innanzitutto la morte clinica della politica: senza nemmeno citare l’increscioso Salvini che tifa per i missili omicidi, auto-espellendosi dal club delle personalità pubbliche abilitate a occuparsi di noi, ciò che sconcerta è il vuoto pneumatico, culturale prima ancora che politico, che contraddistingue le cancellerie europee di fronte al pericolosissimo valzer di sangue innescato dal proditorio assassinio di Soleimani, eroe nazionale dell’Iran, le cui esequie in mondovisione hanno esibito nelle piazze il dolore di milioni di persone. Si ha un bel dire che il regime di Teheran non è certo un esempio di libertà e democrazia: la discussione si potrebbe svolgere alla pari quando l’Iran bombardasse l’Europa o l’America, ammazzando leader occidentali.
    Certo, se il mondo sembra sull’orlo dell’abisso, non bisogna dimenticare che – dietro le quinte – agiscono potentissime consorterie riservate, spesso tacitamente in accordo tra loro, pronte anche a sacrificare innocenti pur di incolparsi a vicenda e rafforzare nel modo più sleale il ferreo dominio sui rispettivi popoli, drogati di propaganda. Di fronte al suo omicidio così infame, imposto al mondo in modo pericoloso e oscenamente sfrontato, i media occidentali ripetono che Soleimani era una specie di terrorista, evitando di ricordare che proprio il comandante dei Pasdaran era il nemico numero unico del terrorismo targato Isis, da lui personalmente sgominato prima in Iraq e poi in Siria. Dove pensa di andare, un Occidente che si priva della minima dose vitale di verità? In nome di quale presunta superiorità democratica ritiene di prevalere sulla brutale teocrazia degli ayatollah, sulla “democratura” russa e sull’oligarchia cinese?
    Si abbia almeno la decenza di riconoscere che il generale Soleimani era innanzitutto un uomo del suo popolo, protesta – sempre alla televisione italiana, ospite di Barbara Palombelli – un intellettuale come Pietrangelo Buttafuoco, il solo a rammentare al gentile pubblico che l’Isis, il mostro che Soleimani ha sconfitto in Iraq e in Siria, era armato e protetto proprio da noi, Occidente democratico. Per la precisione, ha ricordato il saggista Gianfranco Carpeoro, a mettere in piedi l’inferno chiamato Isis è stata una Ur-Lodge supermassonica, la “Hathor Pentalpha”, creata nel 1980 dal clan Bush, reclutando prima Osama Bin Laden e poi il “califfo” Abu Bakr Al-Baghadi. Proprio la recente uccisione del macellaio Al-Baghdadi, uomo-chiave del Deep State statunitense, secondo Carpeoro avrebbe indotto la “Hathor” a premere su Trump, ricattandolo: se uccidi Soleimani, la passerai liscia al Senato per l’impeachment e avrai dalla tua parte, nella corsa per le presidenziali di novembre, anche l’ala repubblicana più reazionaria e naturalmente il potentissimo network sionista che i complottisti chiamano impropriamente “lobby ebraica”.
    Analisi, suggestioni e indizi che non raggiungono neppure lo 0,1% del pubblico, a cui viene raccontato che il generale Soleimani era “un feroce assassino”, senza mai specificare come, quando e dove si sarebbe esercitato nella sua diabolica specialità, così riprovevole e lontana mille miglia dalla soave, squisita e leggendaria gentilezza dei democraticissimi generali statunitensi e israeliani. Era attivo in Libano, Soleimani? Certo, ma lo erano anche i colleghi israelo-occidentali, che notoriamente in Libano ci vanno abitualmente come turisti. Era stato impegnato in Iraq, il generale iraniano, ed è noto a tutti che l’Iraq è da sempre nei cuori delle umanitarie democrazie occidentali, madrine dei diritti umani. Il bieco Soleimani era di casa pure in Siria, altro paese amatissimo dai democratici di Washington, Ankara, Riad e Tel Aviv. Per inciso: Siria, Libano e Iraq erano i paesi da cui gli impresari occidentali dell’Isis contavano di esportare i tagliagole in Iran, per abbattere finalmente l’odiato regime (sovrano) degli ayatollah. Paolo Barnard ha titolato un suo bestseller con la più scomoda delle domande: perché ci odiano? Tra le sue fonti: il numero due di Al-Qaeda in Egitto.
    E’ decisivo scoprire che il cuore nero e inconfessabile del jihadismo è l’invenzione perversa di un’élite occidentale criminale. Ma restando sulla superficie, questo non cambia il quadro, il bilancio finale: le nostre forze armate, impegnate in paesi islamici, hanno provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di esuli. Perché ci odiano, dunque? Supporre che al nostro posto chiunque altro – Russia, Cina – si sarebbe comportato nello stesso modo, non è di grande consolazione. Alcuni incrollabili atlantisti, che vedono comunque negli Stati Uniti l’unica possibile fonte di riscatto democratico per il pianeta, sperano che il lume della ragione prenda possesso del governo imperiale della superpotenza prima che sia troppo tardi. Si illudono? Sono domande senza risposta, su cui pesa il vistoso smarrimento di Cacciari di fronte al vergognoso silenzio dell’Europa: com’è possibile, accusa, non prendere le distanze da un atto di terrorismo di Stato come quello compiuto dagli Usa ai danni dell’Iran?
    Lo stesso Cacciari, sempre in televisione, non si nasconde le possibili conseguenze: se gli Usa dovessero reagire alle ovvie rappresaglie iraniane bombardando Teheran, la potenza nucleare russa sarebbe costretta a intervenire. La chiamano: Terza Guerra Mondiale. Nessuno la vorrebbe, ma sembra avvicinarsi in modo terrificante, con sviluppi imprevedibili. Simone Santini, su “Megachip”, accosta la morte di Soleimani a quella dell’afghano Massud. Stessa dinamica e stessi mandanti, identico obiettivo: assassinare un leader autorevole, per far esplodere il caos e indebolire il paese finito nel mirino della potenza imperiale. La pakistana Benazir Bhutto accusò Bush e la Cia dell’omicidio Massud, candidandosi a ripulire il Pakistan, per poi rimarginare anche le ferite dell’Afghanistan: fu assassinata a sua volta, alla vigilia delle elezioni. Un conto però sono le autobombe, dice oggi Massimo Cacciari, e un altro è l’omicidio manu militari commesso impunemente, alla luce del sole. Non era mai accaduto prima, nella storia. E nessuno ha avuto il coraggio di protestare. Se stiamo zitti di fronte a questo, aggiunge Cacciari, cosa potrà accaderci, domani? Com’è possibile non capire che il sangue versato da Qasem Soleimani interroga personalmente ognuno di noi, prima ancora che i nostri impresentabili politici?
    (Giorgio Cattaneo, 8 gennaio 2020).

    Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non a spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precedenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.

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