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Veneziani: vi presento l’altro Pertini, iracondo e stalinista
Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.Da presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”». Si veda al proposito “Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali, 2001).«Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «Come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini sì, Pertini no” (Settimo Sigillo, 1990).Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della “Domenica del Corriere” Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista, che vi risparmio; circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti… Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io», per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».(Marcello Veneziani, “Il presidente impertinente”, da “Il Tempo” del 14 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.
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Border Nights, dove sono di casa le domande più scomode
«Se non ci foste, bisognerebbe inventarvi». Che faccia farebbero, al Tg1, se ricevessero un messaggio simile? Qualcuno ha mai scritto, a Mentana, qualcosa come «grazie di esistere»? Quello, semmai, è il tenore delle comunicazioni rivolte, in modo sistematico, a “Border Nights”, trasmissione web-radio in live streaming su “Web Radio Network” ogni martedì sera da ormai otto anni. E’ seguita da migliaia di appassionati ascoltatori, fedelissimi di lunga data o fan più recenti, che poi scrivono: «M’è capitato una volta di sentirvi e, da allora, non mi perdo una puntata». Fabio Frabetti, il giovane conduttore – affiancato da Paolo Franceschetti per la consueta mezz’ora “a ruota libera”, spesso condita di autorionia esilarante – si avvale anche delle interviste di Stefania Nicoletti su temi di scottante attualità, mentre una vera signora della radiofonia, Barbara Marchand (Radio Montecarlo, RadioRai), ha licenza di curiosare tra libri e film, giganti del pensiero e follie contemporanee. Nell’assortimento della “notte ai confini” ci sono anche lo stile genuinamente complottistico del “Maestro di Dietrologia”, le divagazioni esoteriche di Federica Francesconi, i singolari profili astrologici con i quali Germana Accorsi tratteggia politici, star e protagonisti della cronaca. Cuore di ogni puntata: grandi ospiti, presenti in diretta, coi i quali gli ascoltatori possono interagire in tempo reale inviando messaggi, via email e in chat.Tra le ultime voci intervenute, quelle di Giovanni Fasanella (il caso Moro) e Gioele Magaldi (elezioni), lo scomodo reporter Gianni Lannes, il regista Massimo Mazzucco (“American Moon”, l’uomo sulla Luna secondo Washington), che si aggiungono a quelle dei vari Giulietto Chiesa, Marcello Foa, Claudio Messora di “ByoBlu”. Geopolitica e temi spinosi, spesso dribblati dal mainstream, che invece a “Border Nights” trovano piena cittadinanza: dalle strane morti per doping ai misteriosi delitti rituali, passando per le scie chimiche e i gialli irrisolti della storia italiana. Vicende come il delitto di Pasolini e la morte di Rino Gaetano ricostruita dall’avvocato Bruno Mautone, fenomeni come il satanismo e la saga horror del Mostro di Firenze (secondo Carmelo Carlizzi e il pm perugino Giuliano Mignini). “Verità cercasi”, fino alla recente sentenza che condanna il ministero della difesa per il silenzio sul sequestro di Davide Cervia, specialista elettronico della marina militare italiana rapito sulla porta di casa e sparito nel nulla 28 anni fa. Dalla tragedia di Ustica a quella della Costa Concordia, passando per gli attentati firmati Isis, si cerca sempre una lettura diversa – anche simbolica – sulle tracce di possibili indizi.“Border Nights” è anche una finestra sui “saperi altri”, come la spettacolare lettura simbologica offerta da Michele Proclamato, tra Cartesio e Arcimboldo, Vitruvio e i “cerchi nel grano”. E poi la lettura “spirituale” proposta da Fausto Carotenuto, la lezione di Steiner secondo Piero Cammerinesi, le vie “alternative” alla conoscenza (Ambra Guerrucci, Stefano Mayorca, Manuela Pompas) e la medicina reinterpretata da Gabriella Mereu (approccio psicologico) e Marcello Pamio (vaccini). C’è davvero di tutto, su “Border Nights”: la Bibbia riletta da Mauro Biglino, la scienza divenuta ultra-dogmatica per Enzo Pennetta, la “dittatura” tecnologica del mondo contemporaneo senza più diritti (Ugo Mattei). Una giovane ricercatrice come Enrica Perucchietti denuncia le menzogne orwelliane del mainstream, fra terrorismo “false flag” e psicosi “fake news”, mentre lo storico Enrico Montermini svela il rapporto tra Mussolini e i circoli massonici internazionali che favorirono l’avvento del fascismo. Lara Pavanetto illumina altre pagine inesplorate di storia, mentre Varo Venturi, Roberto Pinotti, Corrado Malanga e Massimo Barbetta si addentrano – in modi diversissimi – nel mondo dell’ufologia, cioè nell’universo “rivelato da Giordano Bruno”, come spiega l’astrofisica Giuliana Conforto.Sempre tra le stelle, il celebre astrologo Marco Pesatori si muove in modo del tutto inedito, quasi quanto il poetico Silvano Agosti nella vita quotidiana, sognando la sua “Kirghisia”, il mondo di armonia al quale abbiamo voltato le spalle. Last but not least, naturalmente, Gianfranco Carpeoro: avvocato e scrittore nonché colonna portante di “Border Nights”, il simbologo e gran maestro, cultore dei Rosacroce, offre spunti spiazzanti e memorabili la domenica mattina nella rubrica “Carpeoro Racconta”, in web-streaming su YouTube, appuntamento imperdibile per i fan della “notte ai confini”. «Viviamo, senza saperlo, immersi in un pensiero di tipo magico: tendiamo a chiederci sempre e solo “come” fare qualcosa, mai “perché”». La tesi di Carpeoro si traduce in una sorta di manifesto, che “Border Nights” fa proprio: offre spazi generosi a voci spesso isolate, autori poco noti, denunce inascoltate. Trasmissioni mai banali, sempre stimolanti – non è un caso, il “grazie di esistere” che la redazione si vede così spesso recapitare. E’ un nuovo modo di fare informazione: aperto e leale, rispettando e coinvolgendo il pubblico. Beninteso: la trasmissione si regge sul solo volontariato. Ai “follower” più affezionati, ora si propone una sorta di libera sottoscrizione, mediante crowdfunding, su “Produzioni dal basso”. «Ma in ogni caso – assicura Frabetti – noi continueremo come prima, offrendo il nostro lavoro settimanale gratuitamente, a tutti».«Se non ci foste, bisognerebbe inventarvi». Che faccia farebbero, al Tg1, se ricevessero un messaggio simile? Qualcuno ha mai scritto, a Mentana, qualcosa come «grazie di esistere»? Quello, semmai, è il tenore delle comunicazioni rivolte, in modo sistematico, a “Border Nights”, trasmissione web-radio in live streaming su “Web Radio Network” ogni martedì sera da ormai otto anni. E’ seguita da migliaia di appassionati ascoltatori, fedelissimi di lunga data o fan più recenti, che poi scrivono: «M’è capitato una volta di sentirvi e, da allora, non mi perdo una puntata». Fabio Frabetti, il giovane conduttore – affiancato da Paolo Franceschetti per la consueta mezz’ora “a ruota libera”, spesso condita di autorionia esilarante – si avvale anche delle interviste di Stefania Nicoletti su temi di scottante attualità, mentre una vera signora della radiofonia, Barbara Marchand (Radio Montecarlo, RadioRai), ha licenza di curiosare tra libri e film, giganti del pensiero e follie contemporanee. Nell’assortimento della “notte ai confini” ci sono anche lo stile genuinamente complottistico del “Maestro di Dietrologia”, le divagazioni esoteriche di Federica Francesconi, i singolari profili astrologici con i quali Germana Accorsi tratteggia politici, star e protagonisti della cronaca. Cuore di ogni puntata: grandi ospiti, presenti in diretta, coi i quali gli ascoltatori possono interagire in tempo reale inviando messaggi, via email e in chat.
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Limonov: Putin obbedisce a 30 famiglie. Skripal? False flag
«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».Il quotidiano milanese presenta Limonov, protagonista della premiatissima biografia dedicatagli da Emmanuel Carrère, come «scrittore e politico, bolscevico e nazionalista, playboy e gay, combattente nei Balcani e punk newyorkese». Rifiuta categoricamente l’idea che i servizi segreti di Mosca abbiano avuto un ruolo nel caso Srkipal. Di Putin, che detesta, dice: «Nella sua famiglia vivono a lungo, i suoi genitori sono arrivati a 90 anni. Ma voi europei siete ossessionati, pensate che Putin sia il motore di tutto». Della Russia, offre la seguente rappresentazione: «Il paese è governato da 30 famiglie, l’1% che possiede il 74% delle ricchezze. Peggio che in India». Il nuovo Zar «è solo il loro brillante portavoce, una delle torri del Cremlino. Non gestisce la baracca. Ha padroni che si chiamano Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Group», colosso finanziario. E gli oppositori? «Tutti finti. Navalny è uno che stava nel board dell’Aeroflot, raccomandato dal banchiere Lebedev. L’ambiziosa Ksenia Sobchak è parente di Putin: le hanno dato la parte della liberale, ha voluto perdere in partenza dicendo subito che la Crimea va restituita all’Ucraina. E poi c’ è quel furbastro Grudinin che si fa passare per comunista: un idiota, predica il socialismo e possiede una società per azioni, fa il padrone capitalista».In ogni caso, «il caso Skripal è una messa in scena», insiste Limonov, in un’intervista all’Ansa ripresa dall’“Huffington Post”. «La Russia non avrebbe avuto nessun tornaconto ad ammazzarlo, anzi: se fosse stato davvero pericoloso, non lo avrebbero liberato per poi tentare di ammazzarlo. Col nervino si muore in pochi minuti, mentre lui invece è ancora vivo». La Russia, argomenta Limonov, era stata “depennata” nel 1991 dalla lista degli avversarsi, causando frustrazione: la caccia al “nemico”, benché inventato, è la spiegazione dell’isteria anti-russa che si sta scatenando. «Basta vedere la caccia alle streghe in corso oggi negli Usa, e il modo in cui la Russia viene vista in Occidente, in modo ripugnante. È davvero senza precedenti. Anche perché un tempo esisteva la diplomazia, oggi non più». Secondo Limonov, l’Occidente ha un’idea semplificata del sistema politico russo e, soprattutto, sopravvaluta il potere di Vladimir Putin. «Le decisioni – dice – non le prende lui da solo, ma in modo collettivo. Il paese – ribadisce – è governato da circa 30 famiglie. E Putin, più che uno zar, è il portavoce di questo gruppo». Il sistema politico russo, insiste Limonov, «non si esaurisce con Putin».Secondo Igor Sibaldi, filologo e scrittore di madre russa, non si riflette mai con attenzione su un dettaglio: «Nel Kgb, Putin non era un generale, ma solo un colonnello». Come dire: un leader, certo, ma obbligato a rendere conto del suo operato ad altri soggetti. Uomini che restano nell’ombra, all’interno dell’impianto di potere creato da Yurij Andropov addirittura alla fine degli anni ‘60, pensato già allora per tenere in piedi la Russia dopo l’eventuale collasso dell’Urss, ritenuto inevitabile prima ancora dell’era Breznev. Se oggi i russi non c’entrano con il caso Skripal, sono comunque nella bufera – non a caso, a pochi giorni dall’annuncio del 1° marzo in cui Putin ha presentato le nuovissime super-armi di Mosca, destinate a ristabilire la parità strategica con gli Usa. Uno schiaffo ai “signori della gerra” – che poi, secondo Gianfranco Carpeoro (autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”) sono anche i veri registi occulti delle stragi europee firmate Isis. «Il neo-terrorismo – afferma Carpeoro – è nato da una spaccatura all’interno della supermassoneria più reazionaria: a un certo punto, qualcuno ha cessato di appoggiare quel tipo di strategia della tensione internazionale». Carpeoro, su “Border Nights”, ha spesso dichiarato di temere un super-attentato, in Europa, stile 11 Settembre – che però non c’è stato. «Vero, e questo significa che si sono rimessi d’accordo su come agire, a livello di “sovragestione”». Basta stragi “false flag” in Europa. Meglio la guerra a Putin?«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Credito ai poveri, e nacque il banchiere più grande al mondo
C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoro per la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisi del ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore. Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra.Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amedeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.(Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.
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Elezioni-farsa in un paese invaso, dal Piano Marshall all’Ue
«Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa». Proprio per questo, infatti, «non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità». Su “Come Don Chisciotte”, Francesco Mazzuoli è esplicito: al netto della propaganda, «le elezioni avvengono in un paese occupato militarmente da più di settanta anni». Le basi militari Usa ufficialmente dislocate in Italia sono 59 e, «secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve». La cosa non deve destare meraviglia, aggiunge Mazzoni: «Il servilismo da noi è ereditario». La tesi: prima, il paese (sconfitto, nella Seconda Guerra Mondiale) è stato “comprato” coi miliardi del Piano Marshall, e poi è stato declassato al rango di sub-colonia, nell’Unione Europea “imperiale” e anti-russa, affidata alla Germania. Mazzuoli ricorda che, a guerra non ancora conclusa, nel libro “Lettere dall’Italia perduta” (Sellerio) lo storico Gioacchino Volpe «scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un paese irrilevante, una grande Grecia». Volpe sognava un futuro «in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini». Per Mazzuoli «parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori».Il mito della “liberazione” già imperversava in un paese bombardato, «di straccioni in ginocchio con il piattino dell’elemosina in bocca», scrive Mazzuoli dell’Italia dell’immediato dopoguerra: un paese «indebitato con la carta straccia delle Am-lire, e comprato a saldo stralcio con i soldi del Piano Marshall: come non avere davanti agli occhi lo squallido spettacolo di De Gasperi, ritornato dal viaggio in Usa sventolando il nostro nuovo vessillo, l’assegno con il quale era stata appena comprata la fedeltà italiana?». Basterebbe dare un’occhiata al libro che Cossiga licenziò nei suoi ultimi anni, dal titolo emblematico, “Fotti il potere”, per comprendere che in Italia non si è mai mossa foglia che lo Zio Sam non volesse, «a partire dal condizionamento delle elezioni del 1948, operazione che costituisce uno dei primi grandi successi della Cia, creata soltanto un anno prima». Venne poi il “miracolo italiano”, all’interno della più generale prosperità dell’Europa occidentale: «Benessere – si badi bene – voluto dai padroni americani per disporre di nuovi mercati e allontanare le sirene della propaganda social-comunista». Finita l’onda lunga del consumismo industriale, mentre negli Stati Uniti la componente finanziaria «acquisiva sempre più rilevanza e spingeva per un diverso modello di sfruttamento economico dei paesi occupati», anche attorno all’Italia «cominciò a stringersi il cappio insaponato dell’europeismo».Non fu il parto spontaneo di pacifisti ispirati da alti valori umani di collaborazione tra i popoli: come mostrato dallo storico Joshua Paul, il disegno europeista «altro non è che un progetto americano, teso a tenere sotto il proprio tallone l’Europa occidentale e impedire che una potenza antagonista possa mai ergersi a minacciare la supremazia americana in quest’area geopolitica cruciale». Secondo Mazzuoli, lo dimostra anche lo sforzo prodotto dal cinema: con il famoso film “Vacanze Romane”, «Hollywood riuscì a trasformare una commediola sentimentale in un pretesto per parlare della bontà e necessità della cooperazione tra i popoli europei». La pellicola è degli anni ‘50, e proprio nel 1957 Roma fu scelta come sede dello storico accordo fondativo della Cee. Poi, a fine anni ‘80, il crollo dell’Urss «fornì l’occasione per dare una vertiginosa accelerazione al progetto europeista, con la riunificazione tedesca», inutilmente osteggiata da Andreotti («Amo così tanto la Germania preferisco averne due»). Pietra tombale: il famigerato Trattato di Maastricht «che ci avviava, nel silenzio dei media, verso le nostre magnifiche sorti e regressive».Il progetto, continua Mazzuoli, è stato costruito dagli strateghi americani attorno alla Germania, conferendole «un esorbitante vantaggio al fine di tenerla saldamente legata al carro atlantico e di distoglierla da tentazioni di liaisons con la Russia, esiziali per gli interessi geopolitici a stelle e strisce». In questo quadro, «l’euro nasce appositamente per conferire alla Germania uno straordinario vantaggio economico: ed è per questa ragione che non può essere smantellato». Ecco perché l’appello No-Euro «è soltanto un argomento demagogico per raccogliere consenso». Coincidenze? Avvicinandosi alle elezioni, l’uscita dalla moneta unica è «sparita magicamente, e all’unisono, da tutti i programmi partitici». Salvini? Ha dichiarato che «la Nato non si discute». Di Maio? E’ volato a Washington «a giurare fedeltà al padrone». Dopo anni di propaganda, convegni e pubblicazioni come il libriccino “Basta euro”, «al momento di fare sul serio e di proporsi come potenziale forza di governo, la Lega ci presenta come soluzione alla morte del paese, l’emissione dei “mini bot”, perché – udite – non violano i trattati. Ci rendiamo conto di quale dichiarazione di sudditanza, di impotenza, di servilismo e di mancanza di coraggio è contenuta in questa proposta da piattino in bocca?».Nessuno di questi “statisti” che oggi chiedono il voto degli italiani oserà mai svelare come stanno davvero le cose: «C’è infatti una tragica verità, che nessun politico vi dirà mai». Ovvero: «L’unificazione europea prevede il sacrificio dell’Italia, la colonia più servile, la più indifesa, per motivi storici e antropologici», scrive Mazzuoli. «Chi si opponeva a questo progetto di marginalizzazione del paese (Moro, Craxi, parte della Dc) è stato eliminato con Tangentopoli e il paese è stato immolato agli interessi americani e dei loro alleati privilegiati», cioè «in primis la Germania e subito dopo la Francia». Finti alleati, che il nostro paese «lo divorano a brani, grazie allo zelante collaborazionismo della nostra classe dirigente, che quando non è venduta è perché non trova acquirenti». Siamo ancora in piedi, conclude Mazzuoli, solo grazie alla ricchezza reale che ci è rimasta. E adesso «attendiamo fiduciosi l’ultima aggressione al succulento boccone del nostro risparmio», che ancora regge il sistema-Italia, «assieme alle pensioni e alle case di proprietà (i soprammobili sono già al Monte dei pegni)». Il Belpaese? «Un territorio». L’Italia «non è mai stata una nazione e non è più nemmeno uno Stato». La minaccia più grave e immediata? «Oltre il 30% di disoccupazione effettiva». Questa è la storia, «il resto è propaganda».«Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa». Proprio per questo, infatti, «non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità». Su “Come Don Chisciotte”, Francesco Mazzuoli è esplicito: al netto della propaganda, «le elezioni avvengono in un paese occupato militarmente da più di settanta anni». Le basi militari Usa ufficialmente dislocate in Italia sono 59 e, «secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve». La cosa non deve destare meraviglia, aggiunge Mazzoni: «Il servilismo da noi è ereditario». La tesi: prima, il paese (sconfitto, nella Seconda Guerra Mondiale) è stato “comprato” coi miliardi del Piano Marshall, e poi è stato declassato al rango di sub-colonia, nell’Unione Europea “imperiale” e anti-russa, affidata alla Germania. Mazzuoli ricorda che, a guerra non ancora conclusa, nel libro “Lettere dall’Italia perduta” (Sellerio) lo storico Gioacchino Volpe «scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un paese irrilevante, una grande Grecia». Volpe sognava un futuro «in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini». Per Mazzuoli «parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori».
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Hai un’opinione? Errore: ti è stata venduta, a tua insaputa
La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.Di origine ebraica, emigrato a New York verso la fine del 1800, Bernays fu amico di Franklin Delano Roosevelt e della First Lady, Eleanor Roosevelt, nonostante Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema – anch’egli di origine austro-ebraica – lo accusasse di essere «un avvelenatore professionista dei cervelli della gente», ricorda Federico Povoleri in una ricostruzione proposta dal blog “La Crepa nel Muro”. Consulente dell’ufficio propaganda durante la Prima Guerra Mondiale, Bernays ha dominato a lungo la scena della comunicazione in America. Un maestro, nel manipolare l’opinione pubblica anche nei periodi di crisi come la Grande Depressione del ‘29. Definito «il patriarca della persuasione occulta», aveva compreso «l’importanza dell’uso massiccio e spregiudicato dei media, che utilizzava per lanciare un prodotto, un candidato politico o una causa sociale». Nel 1933, Joseph Goebbels rivelò a un giornalista americano che il libro “Crystallizing Public Opinion”, pubblicato da Bernays nel 1923, fu utilizzato dai nazisti per le loro campagne. Una Bibbia per ogni politico, da Hitler a George Bush, fino a Obama. Primo comandamento: “Controlla le masse senza che esse lo sappiano”.Inizialmente, continua Povoleri, Bernays studiò l’opera di Gustav Le Bon, “Psicologia delle folle”, pubblicata nel 1895. Opera di riferimento per molti uomini politici, fu meticolosamnete studiata anche da Lenin, Stalin, Hitler, e Mussolini. Quest’ultimo commentò: «Ho letto tutta l’opera di Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua “Psicologia delle Folle”. E’ un’opera capitale, alla quale ancora oggi spesso ritorno». Migliaia di individui separati, spiega Le Bon, «in un dato momento, sotto l’influenza di violente emozioni – un grande avvenimento nazionale, per esempio – possono acquistare i caratteri di una folla psicologica». Un qualunque caso che li riunisca «basterà allora perché la loro condotta subito rivesta la forma particolare agli atti delle folle». Infatti, «in certe ore della storia, una mezza dozzina di uomini possono costituire una folla psicologica», cosa che invece non riuscirà a «centinaia di individui riuniti accidentalmente». Per le folle, secondo Le Bon, «l’illusione risulta essere più importante della realtà». E’ decisiva l’apparenza: «Le folle non si lasciano influenzare dai ragionamenti», scrive Le Bon. «Sono colpite soprattutto da ciò che vi è di meraviglioso nelle cose. Esse pensano per immagini, e queste immagini si succedono senza alcun legame».Per la folla, l’inverosimile non esiste: preferisce nutrirsi di suggestioni. E la prima suggestione formulata «s’impone, per contagio, a tutti i cervelli», stabilendo subito l’orientamento generale. Secondo Le Bon, non c’è differenza tra un celebre matematico e l’ultimo calzolaio: «Può esserci un abisso in termini intellettuali, ma quando essi facciano parte di una folla (una folla può essere composta anche da cinque persone, non è il numero che conta), agiranno nello stesso modo e reagiranno emotivamente e non più con la ragione». Si verifica cioè un appiattimento verso il basso, «perché la ragione e il raziocinio vengono totalmente eliminati». Bernays mise insieme le idee di Le Bon (e di altri studiosi come Wilfred Trotter) con le teorie sulla psicologia elaborate dal celebre zio Freud, «intuendo che la gente sarebbe stata sensibile a una manipolazione inconscia, basata sia sull’emotività, sia sull’uso massiccio di immagini simboliche».Bernays intuì con grande anticipo la potenza delle nuove tecnologie della comunicazione di massa, aggiunge Povoleri. E concluse che una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse potesse svolgere un ruolo importante in una società democratica. Chi fosse stato in grado di padroneggiare questo dispositivo sociale – pensava Bernays – avrebbe costituito un potere invisibile capace di dirigere una nazione: «Quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla», scrive Bernays nel libro “Propaganda”, uscito nel ‘29. «Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare». E’ indispensabile, sostiene, per gestire un regime sociale democratico, una società politicamente “tranquilla”. «In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale – agiunge – siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone. Coloro che hanno in mano questo meccanismo, costituiscono il vero potere esecutivo del paese».Bernays applicò con implacabile successo le sue leggi. Inventore delle relazioni pubbliche, diede anche origine alla figura professionale dello spin-doctor: le regole da lui scritte vengono oggi applicate in ogni ambito sociale e di comunicazione mediatica, dalla politica alla pubblicità. Sua l’invenzione – sempre nel 1929 – delle “brigate della libertà”, fiaccolata di donne con sigaretta tra le labbra. Un atto di sfida e di indipendenza, in una società che non riconosceva alla donna la parità dei diritti? Forse, ma non solo: «Ben poche femministe sanno che quella del “diritto al fumo”, fino ad allora riservato ai soli uomini, non fu affatto una ribellione spontanea delle donne, ma il risultato di un’operazione mediatica su larga scala, concepita orchestrata da Edward Bernays, che aveva ricevuto l’incarico dalla “American Tobacco Company”», ricorda Povoleri. Va da sé che la “brigata della libertà” conquistò le prime pagine, facendo esplodere il fatturato del tabacco. «Migliaia di donne iniziarono a emulare le ragazze newyorchesi della sfilata; il messaggio era stato recepito chiaramente: chi era anticonformista e indipendente non poteva non fumare». In pochi mesi, annota Povoleri, la Chesterfield triplicò le vendite. «E molti anni dopo la Philip Morris, memore di quell’evento, sfruttò lo stesso concetto inventando il cowboy della Marlboro per pubblicizzare le sue sigarette».Anche nel nuovo millennio, nei paesi in via di sviluppo, la sigaretta continua ad essere l’emblema dell’emancipazione femminile. Ma Bernays non si fermò qui: collaborò con l’Ama (Associazione Medici Americani) per produrre ricerche scientifiche che dimostrassero che il fumo “fa bene alla salute”. «Da allora – scrive Povoleri – è diventata prassi, per le multinazionali, finanziare ricerche scientifiche al fine di confermare la bontà dei prodotti che progettano di vendere». E l’ineffabile Bernays «suggeriva che vi fosse sempre una terza parte, indipendente, che garantisse la credibilità del prodotto o dell’immagine da promuovere». Esempio: chi mai crederebbe alla General Motors se fosse lei a a dire che il riscaldamento globale è “una bufala inventata dagli ambientalisti”? Ben altro impatto avrebbe, invece, un istituto di ricerca indipendente, chiamato ad esempio “Alleanza per il clima globale”. «Ecco perché Bernays mise in piedi una quantità impressionante di istituti e fondazioni, finanziati in segreto dalle stesse industrie i cui prodotti dovevano venirne valutati, per garantirne la qualità. Fu così che questi istituti sfornarono una moltitudine di rapporti scientifici, che poi la stampa rendeva pubblici, aiutando a creare l’immagine positiva del prodotto da lanciare».Lasciando un segno permanente, continua Povoleri, Bernays stupì il mondo degli affari statunitense per la sua capacità di controllare l’opinione pubblica su larga scala quando, assieme a Walter Lippman e su commissione del presidente Woodrow Wilson, fece una campagna tesa a spingere l’opinione pubblica ad accettare l’entrata nella Prima Guerra Mondiale, a fianco della Gran Bretagna, in un momento in cui la stragrande maggioranza del popolo americano era pacifista e isolazionista. «In soli sei mesi Bernays sovvertì completamente l’idea avversa della gente verso l’entrata in guerra, provocando una mastodontica ondata di isteria anti-tedesca, che impressionò profondamente (tra gli altri) anche Adolf Hitler, che sarebbe diventato un profondo conoscitore della sua opera». Nel ‘28, tra le pagine del saggio “L’ingegneria del consenso”, aveva scritto: «Se capisci i meccanismi e le logiche che regolano il comportamento di un gruppo, puoi controllare e irreggimentare le masse a tuo piacimento e a loro insaputa». Le idee di Bernays cambiarono il vecchio concetto che prevedeva che i bisogni venissero soddisfatti da politica, industria e finanza. Capovolse la gerarchia: prima di tutto, la creazione dei bisogni attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica. Politica, industria e finanza non servono più a soddisfare bisogni, ma a controllare la società.Nascono così i luoghi comuni creati dalla persuasione occulta operata dalla rivoluzione di Bernays. Per lo scrittore americano Russ Kick, la lista è infinita. Esempio: i medicinali ridanno la salute, i vaccini rendono immuni. Gli americani scoppiano di salute, sono quellio che stanno meglio al mondo. Il virsu Hiv è la causa dell’Aids, il fluoro nell’acqua potabile protegge i nostri denti, la vaccinazione anti-influenzale previene l’influenza. Ancora: i dolori cronici sono una naturale conseguenza dell’età. La soia? E’ la più salutare fonte di proteine. «Per costruire queste illusioni sono stati spesi miliardi di dollari, grazie ai quali oggi milioni e milioni di persone la pensano allo stesso modo», sottolinea Povoleri. In “Trust Us, We’re Experts” i sociologi John Stauber e Sheldon Rampton hanno raccolto una serie di dati che descrivono la scienza della creazione dell’opinione pubblica in America. Sono assiomi, scaturiti dalla nuova scienza delle “pierre”. Tipo: la tecnologia è in se stessa una religione. Oppure: se la gente è incapace di formulare un pensiero razionale, la vera democrazia è pericolosa. Quindi: le decisioni importanti dovrebbero essere lasciate agli esperti. Consigli per il manipolatore: stai lontano dalla sostanza, limitati a creare delle immagini. E non affermare mai chiaramente un bugia dimostrabile.«Le parole stesse vengono selezionate in base al loro impatto emozionale: nelle nuove scienze delle pubbliche relazioni sono entrate prepotentemente le tecniche di controllo mentale, che sfruttano le basi della psicologia e le linee guida di Bernays con le tecniche dell’illusionismo». Immagine, simbologia, parole e perfino musica e suoni. «Cinema e televisione hanno un potere enorme (esteso ora a tutta l’industria dell’intrattenimento, compreso i moderni videogiochi) in quanto hanno la capacità di ricombinare tra loro tutti questi elementi», agiunge Povoleri. «Sono molti gli esempi di uso politico del potere della musica, utilizzata come strumento psicologico di persuasione di massa. Non è un caso che durante la Seconda Guerra Mondiale la “Bbc” proibisse la messa in onda della musica di Wagner, utilizzata invece in modo mirato e massiccio dal nazismo, o che la sigla di apertura della nota emittente fossero le note basse che richiamavano la celebre apertura della Quinta di Beethoven». Secondo il filosofo Theodor Adorno, la musica crea “riflessi condizionati” che riguardano l’inconscio. Lo ricorda il consulente psicologico Matteo Rampin nel saggio “Tecniche di controllo mentale”. Nel suo filone tedesco, la musica da camera (legata alla “Sonata”, «tipica creazione della società normativa aristocratica e poi borghese») ha una componente “agonistica” che «deriva dalla struttura concorrenziale della società borghese». E così, chi ascolta quella musica «assimila inconsciamente queste strutture fondanti».Per Rampin, «si codifica un modo di ascoltare musica classica disciplinato, senza battere i piedi, in silenzio assoluto, che è parte di una educazione alla “staticità”». Se la musica produce un’educazione alla postura dei corpi, c’è da chiedersi «quali effetti avrà nel tempo l’abitudine contemporanea di ascoltare la musica in maniera autistica, mentre si lavora, si cammina, si studia, attraverso cuffie individuali e dispositivi portatili». Sempre Rampin sottolinea come l’utilizzo del sistema “Sensorround” nel film “Terremoto” (di Mark Robson, 1974) abbia proposto frequenze inferiori a quelle percepibili dall’orecchio umano (16 Hertz), in modo da traumatizzare profondamente molti spettatori, senza che questi ne sapessero il motivo. «Una delle tecniche più utilizzate nella guerra psicologica e nel lavaggio del cervello era arrivata in aiuto al filone dei film catastrofici», spiega David Annan nel saggio “Catastrophe, The end of the cinema”, del ‘75. Fu Eisenstein a sostenere che gli elementi di una singola ripresa possono essere pensati in modo matematico, al fine di produrre uno shock emozionale: il cinema ha trasformato la cultura, la percezione e forse anche la struttura mentale di miliardi di individui. Poi è arrivata la televisione, il trionfo definitivo del non-pensiero di Bernays: «Non ci sintonizziamo per scoprire cosa succede (perché in generale succedono sempre le stesse cose) ma per passare del tempo in compagnia dei personaggi». Non si cerca un programma specifico: si accende il televisore. La tv distrugge il tempo, rimpiazza la famiglia. «Per molti di noi, vive al nostro posto».La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.
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Pantani ucciso dai boss del doping che lanciarono Armstrong?
Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio. La sua fine? Un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa. Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava puntito e infangato con la pena del contrappasso. Hai denunciato il doping? Bene, morirai disonorato: spacciato per cocainomane.Sono in tanti, a livello internazionale, ad aver ormai capito che il delitto Pantani era a doppio fondo. Lo sostiene la Pavanetto, autrice di originali ricerche storiche. Sul suo blog cita due giornalisti: il francese Pierre Ballester, già inviato de “L’Equipe”, e l’inglese David Walsh, del “Sunday Times”. Nel loro libro “L.A. Confidential, i segreti di Lance Armstrong”, avanzavano già nel 2004 pesanti sospetti sulle sei vittorie consecutive di Armstrong al Tour, dal 1999 al 2004, dopo il primo campionato del mondo vinto nel ‘92. Successi strabilianti, quelli del Tour, che avevano sollevato pesanti dubbi, dopo la gravissima malattia che aveva tolto Armstrong dalle corse per un paio d’anni, dalla fine del ‘96 a metà del ‘98. Tumore: asportazione di un testicolo, intervento chirurgico su gravi metastasi ai polmoni e al cervello, pesantissime cure chemioterapiche. Vengono in mente le parole del Pirata, citate nel libro del giornalista francese Philippe Brunel, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” (Bur, 2008): «Non hai fatto il corridore? Tu lo sai cosa vuol dire scalare una montagna, correre sotto il caldo. Credi davvero che si possa vincere il Tour dopo aver battuto il cancro?». Con il loro libro, annota Pavanetto, Ballester e Walsh avevano anticipato un’inchiesta pubblicata nel 2001 dallo stesso Walsh sul “Sunday Times”, dal titolo “Suspicion”. Il giornalista era partito dalla denuncia di un ex corridore junior, Greg Strock: secondo i suoi allenatori, Armstrong «aveva valori biologici eccezionali che non si trovavano in Usa dai tempi di Lemond».Nel 2000, ricorda Lara Pavenetto, Strock si era laureato in medicina. Grazie alle competenze acquisite, aveva denunciato la Federazione americana per averlo sottoposto a un doping sistematico che lo aveva fatto ammalare, fino a costringerlo allo stop dell’attività. Anche Armstrong, nota Walsh, era in nazionale in quel periodo. Strock chiamava in causa due tecnici della nazionale, uno dei quali, Chris Carmichael, era uno dei personaggi più vicini ad Armstrong da sempre. Nell’inchiesta si parlava anche del licenziamento improvviso dalla Us Postal (la squadra di Armstrong sponsorizzata dal ministero delle Poste statunitense) nel 1996. Fu licenziato anche il medico Steffen Prentice, che secondo Strock si era rifiutato di dopare dei ciclisti della squadra. Walsh raccolse anche la dichiarazione di un ex professionista, compagno di Armstrong alla Motorola dal 1992 al 1996, che sotto anonimato dichiarò: «Passammo all’epo nel 1995 perché non si vinceva, e avevamo avuto un 1994 nero». In “L.A. Confidencial”, Ballester e Wash hanno ricostruito anche il caso del litigio fra Armstrong e Greg Lemond a proposito di Michele Ferrari, il medico italiano coinvolto in numerosi processi di doping in Italia e difeso a spada tratta dal corridore texano. Ma la parte più interessante del racconto, scrive Lara Pavanetto, riguarda la testimonianza di Emma O’Really, massaggiatrice per tre anni (a partire dal 1998) dell’Us Postal, la squadra del trionfatrice al Tour.Nel giugno del 1999, la O’Really registra sul suo diario un colloquio con Lance. L’americano le dice che, con l’ematocrito basso, non si possono fare grosse performace. Lei allora gli chiede cosa intenda fare: «Quello che fanno tutti gli altri», ribatte lui, che più tardi, durante il Tour, le chiederà anche di coprire con fondotinta i segni delle iniezioni sulle braccia. L’americano fu trovato positivo ai corticoidi ad un controllo al Tour de France del 1999, ma fu discolpato dall’Uci (Unione ciclismo internazionale) dopo aver spiegato di aver «utilizzato una pomata contenente una sostanza vietata per curare una ferita procuratagli dal sellino della bicicletta». Armstrong affermò sempre di non avere mai assunto prodotti vietati, neppure a causa del suo tumore, che gli provocava una carente produzione fisiologica di testosterone, con la necessità dunque di assumerlo. Il libro riporta anche i pareri di scienziati illustri, i quali ritenevano umanamente impossibile – dopo un tumore, metastasi, operazioni, chemioterapie – andare forte come Armstrong, e vincere sei Tour de France.A Philippe Brunel, per il libro uscito nel 2002, Marco Pantani confida: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione. Io, in ogni caso non ci credo. E non ci crederò mai. È un personaggio finto, una specie di eroe dei fumetti – guarda, è Spiderman. Ora, chi l’ha creato? Chi lo ha voluto così? Non ne so nulla. Ma sono troppo realista per credere alla sua storia». Ma Lance Armstrong in quegli anni poteva fare e dire di tutto, e – come diceva Pantani – nessuno sembrava vedere nulla. Era “invicibile”, Armstrong. «L’amico dei repubblicani, l’amico di George W. Bush. L’amico di tanti politici e tante star di Hollywood. Armstrong sognava di correre un giorno per la poltrona di governatore del Texas e magari in seguito puntare anche alla Casa Bianca», scrive Pavanetto. Le sue perfomance “aliene” «avevano accelerato la mondializzazione di uno sport che storicamente era di matrice europea: grazie a lui, nel mondo del ciclismo la lingua inglese soppiantò il francese». Con Lance Armstrong diventarono volti abituali quelli dei cronisti del “New York Times”, del “Financial Times”, del “Wall Street Journal”, e quelli degli inviati di reti televisive come la “Cnn” o la “Cbs”, «che non perdevano una tappa se targata Armstrong: il re assoluto e incontrastato del ciclismo, temuto e idolatrato».Armstrong fu anche «l’amico di tanti potenti dello sport mondiale», e donò all’Uci centomila dollari nel 2000 per comprare dei macchinari antidoping. «Tutto quello che ha fatto Armstrong è stato possibile perché qualcuno gliel’ha permesso». Parafransando le parole di Pantani: «Chi lo ha creato? Chi l’ha voluto così?». Il doping serve a vincere, ma soprattutto a fare moltissimi soldi, ricorda Lara Pavanetto. «In due decenni di attività come ciclista professionista, grazie alle sponsorizzazioni, Lance Armstrong ha accumulato un patrimonio stimato attorno ai 125 milioni di dollari». Ma anche gli sponsor fanno fiumi di soldi col doping, «per cui la diffusione del fenomeno non è attribuibile solo ad atleti, allenatori, medici o direttori sportivi, ma anche a chi alimenta l’ingranaggio». Come l’Us Postal Service: «Fu lo sponsor di Armstrong tra il 2001 e il 2004, spese 32,27 milioni di dollari per sponsorizzare il team di Armstrong e ricevette benefici di immagine e marketing per 103,63 milioni». Come sottolineò l’avvocato di Armstrong, Tim Herman, a scandalo doping ormai scoppiato, «il ritorno per il ministero delle Poste statunitensi fu del 320% in quattro anni».I guai di Pantani, ricorda Pavanetto, iniziano il 5 giugno 1999 subito dopo l’arrivo a Madonna di Campiglio, penultima tappa di un Giro d’Italia che il Pirata aveva dominato e praticamente già vinto. «Sottoposto a un controllo del sangue, il suo ematocrito fu trovato fuori norma e, da regolamento, gli fu vietato di gareggiare per i seguenti 15 giorni. Il Giro dunque era perso». Anche le sue vittorie passate, a questo punto, vengono messe in discussione. «Tutta la sua carriera è messa in dubbio», tanto che Pantani non partecipò al Tour de France un mese dopo. «In quel momento era un campione nella sua fase di massimo rendimento: l’anno prima, il 1998, aveva vinto sia il Giro che il Tour. La sua popolarità era enorme e internazionale». Nel 2000, Pantani riuscì a prepararsi per partecipare al Tour e ne fu ancora un protagonista. Ma nel 2001 al Giro d’Italia ci fu la vicenda della siringa di insulina trovata nell’albergo dei ciclisti e attribuita a lui, che fu condannato. «Per questo episodio Leblanc, l’organizzatore del Tour, rifiutò l’iscrizione di Pantani all’edizione di quell’anno». Nel Giro del 2003, Pantani arrivò quattordicesimo, un risultato normale considerata la preparazione per forza scadente. «Quando Leblanc rifiutò nuovamente la sua iscrizione al Tour di quell’anno, Pantani gettò la spugna». Pochi mesi dopo, il 14 febbraio 2004, fu trovato morto nel residence “Le Rose” di Rimini, dove aveva soggiornato per una settimana, confermando l’alloggio giorno per giorno.Il motivo della morte fu fissato dal medico legale in overdose di cocaina, e ancora ad oggi questa è la versione ufficiale. «Nel frattempo c’erano anche stati i procedimenti giudiziari aperti contro di lui dalla giustizia ordinaria italiana, sempre per illecito uso di sostanze dopanti», scrive Pavanetto. «Alla fine Pantani era stato assolto da ogni reato, ma intanto sette Procure lo avevano portato a giudizio e le sue spese legali erano ammontate in totale a un miliardo e mezzo di lire». Nel frattempo comincia a brillare la stella di Lance Armstrong, che proprio a partire dal 1999 inizia a vincere “facile”: cinque Tour de France di fila (dal 1999 al 2003). «Ogni volta succede qualcosa che gli toglie di mezzo l’avversario più forte, cioè Marco Pantani: nell’edizione del ‘99 Pantani era assente per la vicenda di Madonna di Campiglio; in quella del 2000 era presente ma psicologicamente sotto pressione, il 2 marzo si era ritirato dalla Vuelta de Murcia per “stato acuto di stress”; al Giro aveva subito gli umilianti controlli medici a sorpresa dell’Uci; nelle successive gare Pantani era assente perché la sua iscrizione era stata respinta». Lara Pavanetto fa notare che nel 2000, pur nelle condizioni in cui era, il Pirata era stato l’unico ad attentare alla leadership di Armstrong: «Vinse due importanti tappe di montagna, una scalando il Mont Ventoux e l’altra a Courchevel». E’ indubbio che l’assenza di Pantani spianò la strada ad Armstrong.Alcuni mesi dopo la conclusione del Giro del 1999, continua Pavanetto, emerse l’ipotesi che Pantani fosse stato boicottato dall’ambiente delle scommesse clandestine italiane. Un’ipotesi che è ritornata prepotentemente in auge con due libri usciti di recente: “Pantani è tornato. Il complotto, il delitto, l’onore”, di Davide de Zan (Piemme, 2014), e “Il caso pantani. Doveva morire”, di Luca Steffenoni (Chiarelettere, 2017). Quella delle scommesse clandestine «resta sempre sullo sfondo ormai come unica ipotesi, quasi unico movente, assieme alla cocaina, della carriera rovinata del campione e poi della sua morte». Ma se lo scopo era quello di far perdere a Pantani, a due giornate dalla fine, un Giro che aveva già vinto per guadagnare sulle puntate, perché poi – si domanda Pavanetto – continuare il complotto negli anni successivi e nei vari livelli in Italia e in Francia, e presso l’Unione Ciclistica Internazionale? «E chi mai, nell’ambiente delle scommesse clandestine italiane, avrebbe avuto tali poteri di manipolazione a livello mondiale?». Ancora: «Il fatto che il ministero delle Poste americano sponsorizzasse uno squadrone ciclistico che, si può ben dire, andò all’attacco del ciclismo europeo, non è mai sembrato strano a nessuno?».Soltanto dopo la morte di Pantani si seppe che la “prodigiosa” ascesa di Lance Armstrong «fu viziata da un uso criminale del doping, per vincere a tutti i costi». Ma, appunto: «Nessuno all’epoca vide nulla?». Come disse Pantani: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione». Forse, conclude Lara Pavanetto, «era molto pericoloso avere un’opinione sullo squadrone e sulla star della Us Postal Service». E a quanto sembra, «ancora oggi è meno pericoloso avere un’opinione sulle scommesse della criminalità organizzata, che sulla storia dell’Us Postal Service». Si può parlare con una certa tranquillità delle scommesse clandestine gestite dalla mafia attorno al ciclismo delle gare truccate, mentre resta estremamente rischioso, ancora oggi, aprir bocca «sulla strana sincronicità degli eventi che videro tramontare la stella del Pirata e sorgere, luminosa e prepotente, quella di Lance Armstrong».Sulla misteriosa morte di Pantani, dice Pavanetto, resta fondamentale l’analisi offerta da Paolo Franceschetti sul suo blog: un delitto “rituale”, firmato Rosa Rossa nel residence “Le Rose” con quel sibillino biglietto: “Oggi le rose sono contente, la rosa rossa è la più contata”. In realtà, sottolinea la ricercatrice ricorda che nessun esame grafologico ha finora attestato che quelle frasi – su carta intestata dell’hotel – siano state scritte proprio da Pantani. «Io ne dubito fortemente – dice – anche perché secondo me in quelle poche, apparenti sconnesse righe potrebbero esserci la firma e il movente dell’assassino, seppure espresso in un modo allegorico e per certi versi burlesco, quasi si trattasse di un macabro gioco». A parte il passaggio sulle “rose”, il libro di Philippe Brunel sostiene che, in quel foglio, Pantani (o chi per lui) parla di «coincidenze saline» e di «una strana alchimia, dove si mette in relazione il fosforo con il potassio, la linfa, la “clorofilla di sangue”», e si legge: «Tutto passa come il mare». L’alchimia è la prima cosa che salta all’occhio, conferma Pavanetto. «Queste parole sembrano descrivere una trasmutazione alchemica. Il fosforo, simbolo dell’illuminazione spirituale; il potassio, la linfa; e soprattutto la “clorofilla di sangue”, e infine quel “tutto passa con il mare”».La clorofilla è chiamata anche “sangue vegetale” e può essere considerata un vero rigeneratore per le cellule, in quanto apporta ossigeno. «Può essere utile in varie forme di anemia, migliora la contrazione cardiaca e si rivela utile soprattutto per gli sportivi poiché ne aumenta la resistenza». E’ chiamata “sangue vegetale”, spiega Pavanetto, perché la sua struttura chimica è simile a quella dell’emoglobina, con la sola differenza che la clorofilla contiene magnesio anziché ferro. «Sin dal 1936 fu studiata come fattore per la rigenerazione del sangue, soprattutto in relazione all’emofilia». Studi che poi «servirono molto nel mondo del doping, dove appunto si “esercita” la rigenerazione del sangue». Sembra un macabro gioco di specchi e scatole cinesi, continua Lara Pavanetto: sapete qual è il simbolo alchemico del magnesio? La lettera D. E Pantani soggiornava (e morì) nella camera D5.Attenzione: il numero 5, «essenza del Pentacolo, è ricondotto al numero degli elementi, la quintessenza spirituale e i quattro elementi abituali: Acqua, Fuoco, Terra e Aria». I quattro elementi alchemici. “E tutto passa come il mare”: il mare «fu per gli alchimisti l’acqua mercuriale, l’elisir, l’oceano increato dove la materia prima subì il processo di trasformazione e di maturazione fino allo stato di perfezione». E, a proposito di “contrappasso” dantesco, Lara Pavanetto ricorda il canto primo del Purgatorio, nella “Divina Commedia”, in cui Virgilio lava Dante dalla “nerezza” dell’Inferno: «Con le mani bagnate dalla rugiada del mattino, Virgilio rimuove dalle guance lacrimose di Dante quella nerezza che l’Inferno gli aveva lasciato. Poi lo cinge con un giunco sottile che cresce nel limo del mare, giunco che nasce miracolosamente là dove viene reciso. E’ un nuovo battesimo, una nuova purificazione eseguita questa volta con la rugiada, cioè acqua che viene dal cielo, simbolo di doni spirituali». Recita quel fatidico biglietto: “E tutto passa come il mare”. Firma e chiave “rituale”, con spiegazione simbolica, dell’omicidio del campione ribelle che doveva essere punito in modo esemplare?Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe “performanti”, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio? La sua fine: un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa? Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava punito e infangato con la pena del contrappasso. Aveva evocato lo spettro del doping? Bene, sarebbe morto disonorato: spacciato per cocainomane.
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Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
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Dope, squallore tossico: così Pinocchio si trasforma in asino
L’uomo è bravissimo a crearsi l’Inferno. Lo vediamo già nell’intimità del singolo: il suo grado di felicità dipende direttamente dagli influssi che lascia entrare o che lascia crescere nel teatro della mente. Lo percepiamo ancora di più nella collettività: quando stati mentali simili si uniscono vengono create gabbie di concretezza. Il tema “droga” esemplifica appieno quanto stiamo dicendo. Chi l’assume decide consciamente o inconsciamente di scendere nel suo proprio inferno, di perdersi in una degenerazione progressiva. E anche quando confonde l’eccitazione con la lucidità, non fa altro che dileguare il suo senso animico dietro le coltri dell’apparenza, fino a quando la trasformazione asinina non è completa (si torni a leggere Pinocchio). Anche a livello collettivo il teatro-droga genera inferni di cui potremmo tranquillamente fare a meno. Eppure diventano così concreti e pressanti da incidere come uno scalpello nel tessuto di interi popoli, di intere generazioni. E il tutto è un ologramma di cui non ci sarebbe, umanamente, alcuna necessità.“Dope”, Netflix. Un documentario a episodi che andrebbe mostrato nelle scuole: lo squallore del mercato della droga e di chi ne fa uso, la distruzione del tossicodipendente, l’ottusità della polizia, la criminalità del mercato. Il tutto in una guerra che da decenni miete milioni di vittime. Una guerra che potrebbe terminare domani legalizzando e informando. Ma la guerra alla droga è soprattutto teatro, una pantomima che genera i fondi neri indispensabili per i deep state celati dietro i governi ufficiali. L’idea di trasformare in qualcosa di figo l’uso degli stupefacenti è la ciliegina sulla torta che fa leva sulla facile suggestionabilità di ogni essere umano.In “Dope” si sta lontani dalla mitizzazione epica creata da serie come “Breking Bad”, “Narcos” o “The Ozark”. Là non si vedono quasi mai gli effetti, si disquisisce della tenzone, del confronto guerresco tra bande o tra personalità. “Dope” è invece un documentario che mostra i drogati sulle strade, ne mostra l’abbruttimento e la progressiva disumanizzazione. Gli stessi poliziotti ammettono che è una guerra che nessuno potrà vincere. È un gioco che viene tenuto in piedi, c’è chi deve fare la guardia e chi deve fare il ladro, la gente muore, i ruoli vengono interpretati da nuovi attori e tutto procede. Chi tiene al futuro della nostra società dovrebbe fare un unico atto per essere davvero un rivoluzionario: smettere di farsi.(Paolo Mosca, “Dope, lo squallore tossico”, dal blog “Mosquicide”, gennaio 2018).L’uomo è bravissimo a crearsi l’Inferno. Lo vediamo già nell’intimità del singolo: il suo grado di felicità dipende direttamente dagli influssi che lascia entrare o che lascia crescere nel teatro della mente. Lo percepiamo ancora di più nella collettività: quando stati mentali simili si uniscono vengono create gabbie di concretezza. Il tema “droga” esemplifica appieno quanto stiamo dicendo. Chi l’assume decide consciamente o inconsciamente di scendere nel suo proprio inferno, di perdersi in una degenerazione progressiva. E anche quando confonde l’eccitazione con la lucidità, non fa altro che dileguare il suo senso animico dietro le coltri dell’apparenza, fino a quando la trasformazione asinina non è completa (si torni a leggere Pinocchio). Anche a livello collettivo il teatro-droga genera inferni di cui potremmo tranquillamente fare a meno. Eppure diventano così concreti e pressanti da incidere come uno scalpello nel tessuto di interi popoli, di intere generazioni. E il tutto è un ologramma di cui non ci sarebbe, umanamente, alcuna necessità.
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Bin Laden massone, Kevin Spacey silurato dal Bohemian
Tutti a gonfiare il coro istituzionale contro le cosiddette “fake news” provenienti dal web, ma tutti zitti se la valanga del gossip al veleno travolge un monumento del cinema come Woody Allen. O magari un altro big di Hollywood del calibro di Kevin Spacey, messo fuori gioco – combinazione – dopo che la seguitissima serie di cui era protagonista, “House of Cards”, un successo platenario, aveva appena evocato l’ombra del super-potere massonico dietro alla Casa Bianca. “Fake news”? Maneggiare con cura, specie se a bandire l’attuale crociata è questo mainstream reticente e asservito, negazionista e tendenzioso: stampa e network televisivi sono sempre stranamente “distratti” di fronte alle verità più imbarazzanti. Una delle peggiori? Osama Bin Laden socio dei Bush: non solo per affari di petrolio, ma anche di terrorismo. Possibile? «Eccome. Così com’è assolutamente pacifico il fatto che Bin Laden fosse massone». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014. Il capo di Al-Qaeda in grembiulino? «Senz’altro. Fu iniziato alla Ur-Lodge “Three Eyes” da quel grande stratega americano che fu Zbigniew Brzezinski, “mente” geopolitica dell’amministrazione Carter, poi “king maker” per l’elezione di Wojtyla al soglio pontificio e infine ispiratore della candidatura Obama».E’ un fiume in piena, Magaldi, nella diretta radiofonica “Massoneria on Air” ai microfoni di “Colors Radio” il 29 gennaio. «Scusi, ma lei come fa a dire che Bin Laden era massone?», lo incalza un ascoltatore. «Lo seppi direttamente da chi lo iniziò», risponde Magaldi: «Fu Brzezinski a rivelarmelo», mostrandogli anche la documentazione comprovante l’affiliazione di Bin Laden alla “Three Eyes”, superloggia neo-conservatrice alla quale, secondo Magaldi, appartengono eminenti figure dell’attuale panorama istituzionale – fra gli italiani, Mario Draghi e Giorgio Napolitano, insieme a Marta Dassù (Finmeccanica) e Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), fino all’ex ministra renziana Federica Guidi. Un peso massimo, la “Three Eyes” (leader storico, Henry Kissinger) nell’ispirazione delle politiche neo-feudali e neoliberiste, fedelmente “eseguite” da personaggi come la francese Christine Lagarde (Fmi), l’americana Condoleezza Rice, il portoghese Pedro Passos Coelho, l’ex premier greco Antonis Samaras, l’olandese Mark Rutte. Ma Bin Laden? «Fu “reclutato” da Brzezinski per essere impiegato in Afghanistan in chiave anti-sovietica», poi però lo stesso Bin Laden lasciò la “Three Eyes”, spiazzando Brzezinski, per approdare alla “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush.La “Hathor” è la “loggia del sangue della vendetta” sospettata di aver orchestrato il maxi-attentato dell’11 Settembre. Secondo Magaldi vi fanno parte l’inglese Blair, il francese Sarkozy, il turco Erdogan e lo stesso Abu Bakr Al-Bahdadi, il fantomatico capo dell’Isis, cioè l’ultima incarnazione della “strategia della tensione internazionale” che ha suscitato sconcerto persino tra i falchi della destra economica super-massonica. «Posso provare ogni mia affermazione, esibendo 6.000 pagine di documenti», assicura Magaldi. Qualcuno gliene ha fatto richiesta? Nessuno, mai. Silenzio assoluto, anche sui giornali, di fronte a notizie teoricamente esplosive, perché consentono di mappare il vero potere e smascherare molta ipocrisia ufficiale. Ma il mainstream, semplicemente, tace. Preferisce frugare tra le lenzuola di Woody Allen, fingendo di ignorare l’ipotesi più ovvia, «e cioè che Mia Farrow, moglie abbandonata, gli abbia “messo contro” i figli adottivi per metterlo in cattiva luce». Addirittura sinistro il caso di Spacey, anche lui accusato di molestie, dopo che “House of Cards” ha lasciato intravedere il ruolo del Bohemian Club, «nota associazione paramassonica mondialista che è lo schermo di alcune potentissime Ur-Lodges neo-aristocratiche».Per Magaldi, questo «nuovo maccartismo, di strano segno» non ha giustificazioni: «Le “bufale” esistono, per carità, ma – se costituiscono diffamazione – sono perseguibili per legge. Altra cosa, invece, è questo clima infame, da caccia alle streghe, degno dei regimi polizieschi di sovietica memoria: un metodo “perfetto”, per far fuori chiunque sia scomodo, prendendo per buone le accuse di qualcuno che ce l’ha con te e, per distruggerti, riesuma episodi vecchi di trent’anni. Hai voglia a difenderti in tribunale: finisci alla berlina all’istante, emarginato». Sta accadendo a Woody Allen, ormai in difficoltà con la distribuzione del suo ultimo film, anche per colpa di «attori anche mediocri, o magari vincitori di un Oscar proprio grazie a lui, che oggi lo scaricano in una gara di zelo verminoso, come fosse un appestato da mettere al bando». Il guaio? «Questo meccanismo, fondato sulla delazione indiscriminata e senza controllo, rende tutti più vulnerabili». Un sospetto: «Penso che alcune “manine” americane abbiano soffiato sul fuoco, per creare un clima adatto a eliminare personaggi non graditi al potere». “Manine” americane, fino agli esecutori italiani: «Da noi, grazie all’ineffabile Minniti, sarà la polizia – non la magistratura – a stabilire se una notizia web è vera o no. Siamo al Ministero della Verità di Orwell, sembra di tornare ai tempi dell’Inquisizione». E nel frattempo, silenzio di tomba sulle notizie più indigeste. Bin Laden? Ma certo, il fanatico islamico: il capo dei cattivi.Tutti a gonfiare il coro istituzionale contro le cosiddette “fake news” provenienti dal web, ma tutti zitti se la valanga del gossip al veleno travolge un monumento del cinema come Woody Allen. O magari un altro big di Hollywood del calibro di Kevin Spacey, messo fuori gioco – combinazione – dopo che la seguitissima serie di cui era protagonista, “House of Cards”, un successo platenario, aveva appena evocato l’ombra del super-potere massonico dietro alla Casa Bianca. “Fake news”? Maneggiare con cura, specie se a bandire l’attuale crociata è questo mainstream reticente e asservito, negazionista e tendenzioso: stampa e network televisivi sono sempre stranamente “distratti” di fronte alle verità più imbarazzanti. Una delle peggiori? Osama Bin Laden socio dei Bush: non solo per affari di petrolio, ma anche di terrorismo. Possibile? «Eccome. Così com’è assolutamente pacifico il fatto che Bin Laden fosse massone». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014. Il capo di Al-Qaeda in grembiulino? «Senz’altro. Fu iniziato alla Ur-Lodge “Three Eyes” da quel grande stratega americano che fu Zbigniew Brzezinski, “mente” geopolitica dell’amministrazione Carter, poi “king maker” per l’elezione di Wojtyla al soglio pontificio e infine ispiratore della candidatura Obama».
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Gramsci: io sono libero, per me ogni mattina è capodanno
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita.Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante. Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca. Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.(Antonio Gramsci, “Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno”, da “L’Avanti!” del 1° gennaio 1916, edizione torinese, rubrica “Sotto la Mole”; articolo riproposto da “Senza Soste” il 1° gennaio 2018. Politico e filosofo, politologo e giornalista, ma anche linguista e critico letterario italiano, nel 1921 Gramsci fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, divenendone segretario e leader prima di essere arrestato dai fascisti nel 1926. Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, Gramsci analizzò la struttura culturale e politica della società elaborando in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne).Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita.