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L’Egitto ’schiera’ i suoi faraoni contro i signori del Covid
Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.Una lettura visionaria? Per capire che così non è, basta osservare l’espressione dell’attuale “faraone” in carica, il generale Al-Sisi, appena colpito dall’oscuro, minaccioso blocco del Canale del Suez con l’anomalo incagliamento del cargo Ever Given, riconducibile (nella compagine azionaria degli armatori) al club di Bill Gates e Hillary Clinton. Nelle immagini televisive della “Pharaohs’ Golden Parade”, Al-Sisi ostenta un’espressione inequivocabile: ai suoi occhi, quelle mummie in viaggio sono una sorta di totem nazionale, il cuore sacro dell’Egitto. Attenzione: è un classico, il ricorso alla simbologia (esoterica) da parte del grande potere. Sul suo canale YouTube, Giorgio Di Salvo ha sottolineato le stranezze della cerimonia di insediamento dello stesso Joe Biden: «E’ stata la rappresentazione di un vero e proprio rito di iniziazione, incentrato sulla figura dell’eccentrica Lady Gaga, abbigliata in modo da riprodurre il vestiario e il corredo della Statua della Libertà: non quella famosa, al porto di New York, ma quella che per i massoni americani è la vera Statua della Libertà. Si tratta della statua che sormonta la cupola del Campidoglio, a Washington: la “libertà armata”, che richiama la dea greca Athena».Come se non bastasse, Di Salvo rievoca un’altra cerimonia di insediamento, quella di Emmanuel Macron a Parigi: «Per un attimo (in modo però attentamente studiato) le braccia levate del neo-eletto, sullo sfondo della piramide del Louvre, disegnano alla perfezione la combinazione simbolica costituita da squadra e compasso». Da Napoleone in poi, l’Egitto si è conquistato un posto d’onore, sulle rive della Senna. «Ma mentre i riti massonici di ispirazione egizia sono di origine moderna, nelle terre che vanno dal Nilo all’Eufrate sopravvivono in modo clandestino le ritualità cultuali antiche», precisa lo storico Nicola Bizzi, presente con Matt Martini e Tom Bosco nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, sul canale YouTube di “Border Nights”. Lo stesso Martini cita la religione egizia tuttora praticata da «importanti sceicchi del Cairo», sotto la vernice ufficiale dell’Islam. Dal canto suo, Bizzi conferma che in Iraq «si praticano culti di origine sumerica, al riparo dei circoli Sufi (in teoria, islamici) che ospitavano personalità vicinissime al potere già all’epoca del regime di Saddam Hussein».Curioso che poi lo stesso Saddam sia stato abbattuto dai Bush – padre e figlio – che Gioele Magaldi presenta come fondatori della nefasta superloggia “Hathor Pentalpha”, dedita anche al terrorismo internazionale, avendo arruolato tra le sue fila prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis. C’è chi fa notare il collegamento tra l’acronimo Isis (Islamic State of Iraq and Sirya) e il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor. Iside-Hathor è la vedova di Osiride, nonché la madre di Horus: il trio incarna la “sacra famiglia” dell’antico Egitto faraonico, la “trimurti” fondativa del Nilo. Padre, madre e figlio, a sottolineare una tripartizione “energetica” successivamente reinterpretata in modo difforme dalla Trinità cristiana, rimodellando teologicamente la Tetractis triangolare di Pitagora: figura ricomparsa – in modo clamoroso – nella coreografia della grande Parata dei Faraoni appena proposta al Cairo, nel segno del recupero dell’antica sapienza “pagana”.«La grande kermesse egiziana è stata anche un atto di magia cerimoniale», sostiene Matt Martini a “L’Orizzonte degli Eventi”. «Obiettivo: risvegliare “l’eggregore” nazionale, il genio egizio: una vera e propria evocazione, tramite il ruolo delle mummie solennemente traslate da un museo all’altro, in mezzo ad ali di folla». Le mummie regali egizie, dice Martini, vanno considerate – nelle intenzioni degli organizzatori – come «veri e propri talismani umani: quelle salme sono state preparate ritualmente e trattate come oggetti di culto: per migliaia di anni, hanno ricevuto offerte votive». Dunque, per Martini, «sul piano magico sono strumenti perfetti, per fare da ponte con altre dimensioni». Spiega il saggista: «Si crede che la mummia, se conservata, contenga ancora il Ka del defunto: un’impronta dell’anima. A sua volta, il Ka viene visitato dal Ba, cioè l’anima che sale e scende. Infine, il Ba comunica con l’Akh, lo spirito trasfigurato dell’iniziato (il faraone), che secondo l’antica religione egizia resta in contatto con la dimensione degli Aku, i principi divini, gli Splendenti». In altre parole: un ascensore per il cielo, nel nome dell’Egitto delle piramidi.Martini invita a far caso ai numeri: sono state trasferite 22 salme, precisamente quelle di 18 faraoni e di 4 regine. Tutti regnanti compresi tra la 17esima e la 20esima dinastia. «La 17esima dinastima fu l’ultima del Secondo Periodo Intermedio, quello dominato dal caos, quando l’Egitto fu invaso dagli Hyksos. La dinastia successiva, quella Ramesside, segnò invece la restaurazione del potere faraonico egizio: l’inizio del Nuovo Regno». Anche al Cairo, assicura Martini, il potere gioca con i simboli: è come se il generale Al-Sisi paragonasse se stesso ai faraoni di nome Ramses, rifondatori dell’Egitto dopo le tempeste della storia. L’ultima, in questo caso, si chiama Covid: «Si noti: la mascherina non viene indossata né dai figuranti, spesso assiepati, né dalle migliaia di spettatori che assistono al corteo, stretti l’uno all’altro». Sembra un messaggio diretto ai “signori del coronavirus” e agli stessi vicini israeliani, che hanno trasformato il loro paese in area-test per la vaccinazione di massa. Per inciso: in concomitanza con lo strano incidente di Suez, Al-Sisi ha fatto riaprire (dopo anni) il valico di Rafah, a Gaza: l’unico non controllato da Israele.Oggi l’Egitto è un paese islamico e anche cristiano, ricorda Martini, alludendo all’importante confessione copta. Ma Al-Sisi – aggiunge – come militare impegnato in politica è pur sempre erede del nazionalismo laico, incarnaato dall’ex partito Baath, socialista e panarabo, cresciuto nel mito del grande leader terzomondista Abdel Gamal Nasser, che sfidò Francia, Gran Bretagna e Israele per rivendicare la piena sovranità del suo paese. Non si scherza, con l’Egitto: nel 1956 – quando inglesi e francesi sbarcarono a Porto Said per rovesciare Nasser, che aveva bloccato il Canale di Suez perché la Banca Mondiale non voleva concedere agli egiziani il prestito per erigere la diga di Assuan – l’Unione Sovietica (con il tacito consenso degli Usa) arrivò a minacciare gli invasori anglo-francesi di ricorrere alla bomba atomica, se non avessero lasciato l’Egitto. Finì nell’ignominia – e con il trionfo politico di Nasser – l’ultimo colpo di coda del colonialismo europeo nel Mediterraneo. Poi gli uomini del pararabismo Baath sono stati perseguitati: ucciso Saddam, invasa la Siria di Assad.Abdel Fattah Al-Sisi, in qualche modo erede di Mubarak (già allievo della scuola ufficiali di Mosca) si è imposto nel 2014 incarcerando i Fratelli Musulmani, inizialmente votati dagli egiziani dopo la turbolenta “primavera araba” innescata al Cairo dallo storico discorso incendiario del massone Obama, con l’obiettivo di “resettare” le oligarchie nordafricane non-allineate al potere di Washington (preservando invece le brutali petro-monarchie del Golfo, in primis quella saudita, devotissime al superpotere statunitense). Siamo tuttora in pieno caos: Giulio Regeni, reclutato (a sua insaputa) dall’intelligence britannica tramite una Ong universitaria, è stato barbamente assassinato per ostacolare i nascenti rapporti strategici tra Italia ed Egitto, dopo la scoperta da parte dell’Eni di un immenso giacimento marittimo di gas e petrolio al largo delle coste egiziane. Regeni – scrisse il “Giornale”, citando servizi segreti italiani – fu ucciso da manovalanza del Cairo, ma su ordine inglese, proprio per mettere in imbarazzo Al-Sisi, proprio mentre l’Italia stava chiedendo la protezione militare dell’Egitto, allora influente in Cirenaica, nell’ipotesi di inviare un contingente italiano in Libia.Oggi, Bengasi è passata sotto il controllo della Russia: è avvenuto dopo che, in modo simmetrico, Tripoli è caduta nelle mani della Turchia. Altro volto del caos di oggi è l’insidioso neo-ottomanesimo di Erdogan, supermassone reazionario e illustre membro della spietata “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi. Con un gesto inaudito, che riporta l’Italia al centro della scena in politica estera, Mario Draghi ha definito “un dittatore” il sultano di Ankara. Si tratta di un messaggio in codice – spiega Dario Fabbri, di “Limes” – rivolto agli Usa: Draghi li invita a non sacrificare gli interessi italiani in Libia, dopo che Ergodan ha promesso di aprire il Mar Nero alle portaerei americane (in funzione anti-russa) se lo Zio Sam chiuderà un occhio, anzi due, sulle ambizioni imperiali dei turchi nel Mediterraneo. Dalla parte dell’Italia c’è sicuramente l’Egitto, nuovo Eldorado per l’Eni dopo i problemi sopraggiunti in Libia. Nonostante le proteste per il doloroso caso Regeni, infatti, l’Italia ha appena ceduto al Cairo due fregate Fremm, gioiello della marina militare che l’Egitto immagina di dover impiegare, come arma di dissuasione, anche e soprattutto contro la Turchia di Erdogan.Modernissime fregate lanciamissili, ma non solo: la vera arma di Al-Sisi, a quanto pare, potrebbero essere proprio i venerati faraoni della 18esima dinastia, omaggiati come il Graal dell’Egitto. «Nella “Pharaohs’ Golden Parade” – insiste Matt Martini – si può leggere il ritorno alle origini ancestrali della nazione». Martini è attentissimo ai dettagli: le salme traslate con tutti gli onori sono 22, «come le lettere dell’alfabeto ebraico, che potrebbe derivare dall’alfabeto geroglifico egizio». Il trait d’union, dice l’analista, potrebbe essere stato l’alfabeto proto-sinaitico, una forma linguistica di transizione tra l’egizio geroglifico e gli alfabeti semitici (fenicio e aramaico, fino poi al più recente ebraico biblico). Sempre 22 – aggiunge Martini – erano anche i Nòmoi (i distretti amministrativi) dell’Alto Egitto, che aveva per capitale Tebe, la città della dinastia Ramesside. «Sono numeri non casuali: esprimono un preciso linguaggio, simbolico e operativo: quello di un’operazione di magia cerimoniale, a scopi politici e meta-politici».Indicazioni che Martini trae dall’analisi della grande parata del Cairo. «Allì’inizio, la soprano al centro della scena canta un inno a Iside. Poi, i militari sfilano in un viale illuminato di rosso, che è il colore di Seth e anche degli Hyksos: quindi, è come se i militari egiziani stessero calpestando gli Hyksos, nemici dell’Egitto». Quindi, il cambio di scenografia: «A un certo punto, il viale diventa blu: ed entra in scena una figurante (blu, anch’essa) che incarna Nuit, o Nut, la dea egizia del cielo stellato». Si vede una moltitudine di ancelle agitare un contenitore luminoso: «Qui punti di luce simboleggiano proprio le stelle, con un’allusione precisa: i nostri antenati ancestrali – di cui i faraoni erano i rappresentanti terreni – venivano dal cielo: erano Figli delle Stelle».Al Cairo, la grande parata è conclusa dal corteo dalle mummie, racchiuse nei loro sarcofagi trasportati su carri scenografati in modo un po’ hollywoodiano, per ricordare i mezzi di trasporto di migliaia di anni fa. «Per la religione tradizionale egizia – precisa Martini – le mummie vengono dal Duat, dalla dimensione stellare degli Aku. Questi faraoni non sono comuni mortali: sono tecnicamente delle divinità, non vengono dall’oltretomba infero ma dalla dimensione stellare». Significati sottolineati dalla stessa data scelta per la grandiosa cerimonia: «Il 3 aprile è il 23esimo giorno del mese di Ermuti, dedicato a Iside. Ed è l’ultimo giorno di un ciclo di festività dedicate a Horus, che è il vendicatore di suo padre, e dunque il vendicatore dell’Egitto». Messaggio: «Il potere che ha allestito la parata ha voluto celebrare un atto magico, per il risveglio nazionale dell’Egitto». Si tratta di un’élite che «lavora anche sul piano “sottile” e pratica ancora la teurgia, cioè l’arte di comunicare con le divinità». Non pensiate – assicura Martini – che la cosa sia sfuggita, ai “signori del Covid”: «Queste sono operazioni molto temute, da chi vuole nascondere certe cose». L’oligarchia ostile è avvisata: contro i nemici, ora l’Egitto schiera i suoi faraoni.Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.
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Gozi nel governo Macron: un italiano a Parigi, contro l’Italia
«Tra una mia elezione come eurodeputato (di “En Marche”, ndr) e la vittoria dell’Italia ai Mondiali? L’Italia può aspettare». La volontà di entrare nell’organico del partito di governo francese non l’ha mai nascosta, ma dopo aver sbattuto contro la bocciatura per una poltrona al Parlamento Ue, Sandro Gozi entra direttamente nel governo francese al servizio di Emmanuel Macron: l’ex sottosegretario agli Affari europei dei governi Renzi e Gentiloni ricoprirà lo stesso incarico, nell’esecutivo che ha come premier Edouard Philippe. A quanto si è saputo, Gozi (che è anche indagato a San Marino per una presunta consulenza “fantasma” da 220mila euro con l’accusa di amministrazione infedele in concorso) dovrebbe rimanere nella sede del primo ministro a Parigi in attesa di prendere posto a Bruxelles dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. «L’europarlamentare avrà il compito di monitorare la creazione di nuove istituzioni europee e le relazioni con il Parlamento Ue, operando in stretta collaborazione con il Segretariato generale per gli affari europei francese», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una nomina che ha scatenato le proteste di tutti i principali partiti italiani – tranne il Pd – che in coro hanno chiesto: di chi ha fatto gli interessi, Sandro Gozi, mentre serviva l’Italia?Dura la reazione del grillino Stefano Buffagni, sottosegretario per gli affari regionali: «Che schifo! Ecco da chi eravamo governati fino allo scorso anno, ecco a voi i membri del Pd che fanno la morale a tutti». Leggere di un ex membro del governo Renzi che viene nominato nell’esecutivo del paese che più di ogni altro oggi contesta l’Italia, per Buffagni «è qualcosa di veramente vomitevole e preoccupante». Tra i “successi” di Gozi, l’aver perso l’Agenzia Europea del Farmaco, richiesta da Milano nel 2017. «La domanda sorge quindi spontanea: per chi lavorava allora Gozi? Rappresentava davvero gli interessi dell’Italia o giocava su altri campi per altri paesi? Non c’è il rischio di alto tradimento contro la personalità dello Stato italiano?», si domanda Buffagni. Un altro pentastellato, Pino Cabras, capogruppo nella commissione esteri della Camera, evidenzia il filo rosso che lega la Francia e alcuni esponenti del partito di Zingaretti: «Dopo le schiere di 13 esponenti Pd, da Fassino a Franceschini, passando per Letta e Sala, che negli ultimi sedici anni hanno ricevuto la Legion d’Onore francese, non potendo ricevere una seconda onorificenza per Sandro Gozi è scattata direttamente la nomina a responsabile degli Affari Europei del governo Macron».Quali dossier tra Italia e Francia ha trattato, Gozi, «evidentemente non certo a sfavore degli amici d’Oltralpe», durante il suo mandato governativo con Renzi e Gentiloni? Per Cabras, si tratta di «una una nomina che inquieta, e che desta politicamente più di un sospetto». La pensa così anche Giorgia Meloni: «Voglio sapere perché Emanuel Macron e il governo francese ci tengano a premiare così un signore che, fino a qualche mese fa, avrebbe dovuto fare gli interessi degli italiani». Stessa musica da Matteo Salvini: «Gozi, già sottosegretario agli affari europei con Renzi e Gentiloni, con la benedizione di Macron viene ora nominato, nello stesso ruolo, nel governo francese: immaginate di chi facesse gli interessi questo personaggio quando era nel governo italiano. Pazzesco, questo è il Pd». Tra i dossier “caldi” che vedono contrapposte Italia e Francia, ricorda sempre il “Fatto Quotidiano”, il primo è certamente il rapporto con le diverse fazioni in campo nello scacchiere libico. «Come è noto, mentre l’Italia, già al tempo di Gozi sottosegretario, rappresenta uno dei principali interlocutori del Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj, oltre che il partner di riferimento per l’Unione Europea, la Francia è uno dei pochi paesi dell’Ue a vantare rapporti privilegiati con la controparte della Cirenaica, con a capo il generale Khalifa Haftar».In un clima di tensione nuovamente alta nel paese nordafricano, con le milizie di Tobruk che da mesi spingono per rovesciare l’esecutivo tripolino, sostenute da alcuni alleati regionali come Arabia Saudita ed Emirati, oltre alla Russia (e almeno in passato, la Francia) un ex membro del governo italiano ora al servizio di Parigi «potrebbe essere a conoscenza di accordi mai resi pubblici stipulati tra Roma e le varie fazioni in campo: Tripoli, Misurata, altre milizie non allineate e lo stesso Haftar, con cui l’Italia sta cercando di intavolare un dialogo per arrivare il prima possibile a un cessate il fuoco». Poi ovviamente c’è il tema migranti: da una parte si chiede all’Italia di accoglierli, mentre la Francia resta libera di respingerli. «L’immigrazione, inoltre, è un tema sul quale Italia e Francia si sono già scontrate negli anni passati: basta ricordare i respingimenti della Gendarmeria d’Oltralpe a Ventimiglia, i fatti di Bardonecchia e un altro respingimento in territorio italiano, in Alta Val Susa».Restando in Libia, quella tra Haftar e al-Sarraj non è solo una lotta per governare il paese, ma «uno scontro tra diverse alleanze internazionali per mettere le mani su giacimenti di petrolio tra i più ricchi e appetibili del mondo», aggiunge il “Fatto”. In questa battaglia sono schierate da una parte l’Eni, dall’altra la Total. «A febbraio 2019, ad esempio, il portavoce dell’Esercito nazionale libico, che fa capo ad Haftar, aveva annunciato la presa del campo petrolifero di Al Sharara, nella regione di Ubari, a 900 km a sud di Tripoli, la cui produzione era bloccata da 2 mesi. Il sito è strategico per l’economia dell’intera Libia e per gli Stati che hanno interessi petroliferi nel paese: gestito dalla società Akakus, joint-venture tra la Noc, la compagnia petrolifera nazionale controllata dal governo di Fayez Al Sarraj, principale interlocutore dell’Italia, la spagnola Repsol, la Total, l’austriaca Omv e la norvegese Statoil». Non è tutto: a scaldare i rapporti tra Italia e Francia già durante i governi Pd di cui faceva parte Gozi – continua il giornale di Travaglio – ci sono più controversie tra le grandi multinazionali italiane e francesi, sia pubbliche che private. La prima partita economica è senz’altro quella su Fincantieri-Stx: «Dopo un lungo tira e molla, nel settembre 2017, il governo Gentiloni riuscì a sbloccare l’operazione ottenendo per Fincantieri il 50% di Stx più l’1% in prestito dallo Stato francese. Ma il prestito è sottoposto a verifiche periodiche e il governo francese ha facoltà di chiedere indietro la quota prestata in caso di inadempienza italiana».Nel caso in cui l’1% venga ritirato, Fincantieri può solo decidere di cedere tutto il 50% di Stx a Parigi. «Il governo transalpino ha quindi oggettivamente la possibilità di rendere difficile la vita a Fincantieri che è controllata dal Tesoro via Cassa Depositi e Prestiti». Altre vicende, anche se legate ad affari privati (in cui lo Stato è però già intervenuto in passato) sono quelle relative a Tim-Vivendi e Mediaset-Bolloré. «Nel maggio 2018, ad esempio, il fondo Elliott è riuscito a modificare gli equilibri di potere in Tim grazie al voto favorevole del socio pubblico Cassa Depositi e Prestiti. La vicenda non è piaciuta a Vivendi, estromessa dalla guida del gruppo, e al suo socio di riferimento, Vincent Bolloré, azionista anche di Mediobanca e di Mediaset, in guerra aperta con la famiglia Berlusconi». Sono tanti i dossier che un ex membro di governo potrebbe aver gestito o di cui potrebbe aver sentito parlare. E anche per questo Giorgia Meloni ha annunciato che Fratelli d’Italia ha già depositato un’interrogazione: «Vogliamo sapere quali sono tutti i dossier che Sandro Gozi ha seguito quando era alla presidenza del Consiglio italiano che riguardano anche i francesi. Noi vogliamo sapere che cosa deve Emmanuel Macron a Sandro Gozi».«Tra una mia elezione come eurodeputato (di “En Marche”, ndr) e la vittoria dell’Italia ai Mondiali? L’Italia può aspettare». La volontà di entrare nell’organico del partito di governo francese non l’ha mai nascosta, ma dopo aver sbattuto contro la bocciatura per una poltrona al Parlamento Ue, Sandro Gozi entra direttamente nel governo francese al servizio di Emmanuel Macron: l’ex sottosegretario agli Affari europei dei governi Renzi e Gentiloni ricoprirà lo stesso incarico, nell’esecutivo che ha come premier Edouard Philippe. A quanto si è saputo, Gozi (che è anche indagato a San Marino per una presunta consulenza “fantasma” da 220mila euro con l’accusa di amministrazione infedele in concorso) dovrebbe rimanere nella sede del primo ministro a Parigi in attesa di prendere posto a Bruxelles dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue. «L’europarlamentare avrà il compito di monitorare la creazione di nuove istituzioni europee e le relazioni con il Parlamento Ue, operando in stretta collaborazione con il Segretariato generale per gli affari europei francese», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una nomina che ha scatenato le proteste di tutti i principali partiti italiani – tranne il Pd – che in coro hanno chiesto: di chi ha fatto gli interessi, Sandro Gozi, mentre serviva l’Italia?
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Piano Usa: Libia divisa in tre (regia della Banca Mondiale)
Tripoli ha rotto le relazioni con la Francia “perché sostiene Haftar”. Una decisione che semplifica il quadro ma nello stesso tempo lo complica, perché allontana la possibilità di un accordo che fermi lo scontro tra Tripoli e Tobruk. Agli Stati Uniti appartiene la chiave della soluzione: sembrano distanti, ma in realtà la prospettiva di una spaccatura della Libia (in due o tre parti) sarebbe coerente con il progetto che Washington persegue da decenni. Lo afferma Ibrahim Magdud, intellettuale e arabista libico, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. «Ci sono due volontà in conflitto», premette Magdud: «Una è quella del governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, l’altra è quella espressa dal Parlamento di Tobruk, eletto regolarmente dal popolo libico». Tutto comincia dall’applicazione degli accordi di Skhirat (Marocco) del 2015. Il Consiglio presidenziale avrebbe dovuto essere di nove membri, ma vi aderirono tre persone soltanto. Attualmente, la comunità internazionale riconosce come unico rappresentante della Libia Fayez al-Serraj e come legittima la Camera di Tobruk, ma non il governo nato da quel Parlamento. Serraj e la Camera di Tobruk sono entrambi legittimati, ma il governo di Tripoli non è espressione del Parlamento eletto. E così, l’appoggio di alcuni paesi esteri all’uno o all’altro dei contendenti ha ulteriormente inasprito la conflittualità fra le parti.Haftar vuole risolvere il problema della Libia a modo suo: «Sostiene di voler entrare a Tripoli e liberarla dalle milizie che la tengono in ostaggio». Non si pensi a semplici bande armate, avverte Magdud: «Sono gruppi organizzati che comandano a tutti i livelli dell’istituzione pubblica». Gli avversari di Haftar, invece, sostengono che intenda varare lo stato d’emergenza e mantenerlo per 2-3 anni, così da stabilire una dittatura militare su tutto il paese. «È verosimile», conferma il professore. Il generale della Cirenaica, sostenuto dalla Francia, «formerebbe un consiglio militare e probabilmente indirebbe le elezioni, col rischio che queste possano essere manovrate se svolte in un simile contesto di forte pressione», tenendo contro che in Libia c’è neppure una Costituzione. Per contro, Serraj «gode formalmente dell’appoggio dell’Onu e di tutta la comunità internazionale, in particolar modo di Qatar, Turchia, Italia e Regno Unito». Ma quel sostegno si sta indebolendo, avverte Magdud. Poi c’è la Russia: «Mosca vuole conquistare spazio strategico nel Mediterraneo. L’eventuale sostegno ad Haftar è funzionale a questo progetto. La stessa situazione in Siria ne è parte integrante». La Francia? «A Parigi interessa la Libia perché a sud confina con il Ciad e il Niger. E laggiù c’è l’uranio. Non sono dunque interessi limitati al petrolio libico».Cosa dovrebbe fare il nostro governo? «Essere più attivo all’interno dell’Ue, lavorando per portare quanti più paesi è possibile sulle posizioni italiane», sostiene Magdud. «Senza questo allineamento non otterrà molto di più rispetto a quello che sta facendo». Il nostro alleato più importante è l’America, osserva Ferraù, e Washington sembra addirittura volersi ritirare dal Mediterraneo. Ovviamente, però, nessuno lo crede. «Il filo del burattinaio c’è sempre, anche se non si vede», conferma Magdud. «Da Washington arriva fino al Qatar e muove in molti modi, non solo con le armi, ma anche con il lasciar fare al momento opportuno». Secondo il professore «c’è un progetto americano, risalente ai primi anni ‘80, che prevedeva una messa in sicurezza del Medio Oriente attraverso lo smembramento dei paesi arabi». Quel progetto, aggiunge Magdud, «è stato ideato dall’orientalista Bernard Lewis e adottato dall’establishment americano», ormai da diverse decadi. «L’ultima ad averlo sostenuto è stata Robin Wright sul “New York Times” nel 2013». E il piano prevede una Libia divisa in tre: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.La frantumazione degli Stati arabi disegnata da Washington preconizza inoltre una bipartizione dell’Iraq, la divisione della Siria in tre parti e la frammentazione della stessa Arabia Saudita addirittura in 5 regioni, quelle precedenti l’epoca contemporanea, più un allargamento del territorio israeliano. «Molto di questa “previsione” si sta avverando, o ci va molto vicino». Oggi, ovviamente, a far notizia è soprattutto Tripoli: e rimane il fatto che il caos libico «può essere risolto solo dagli americani», afferma Magdud. «Oltre ad avere il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, hanno ottimi rapporti bilaterali con i paesi che ne fanno parte». Sempre sul “Sussidiario”, Ferraù fa notare che nessuno, in questa crisi, sembra occuparsi della Noc, la compagnia petrolifera di Stato libica. Perché? La Noc, risponde Magdud, è saldamente in mano ad al-Serraj, il presidente di Tripoli. «Lo è anche la banca centrale libica, garantita a sua volta dalla Banca Mondiale». Chiosa Magdud, rivolto a Ferraù: «Adesso sono io che le chiedo: chi comanda in quest’ultima?».Tripoli ha rotto le relazioni con la Francia “perché sostiene Haftar”. Una decisione che semplifica il quadro ma nello stesso tempo lo complica, perché allontana la possibilità di un accordo che fermi lo scontro tra Tripoli e Tobruk. Agli Stati Uniti appartiene la chiave della soluzione: sembrano distanti, ma in realtà la prospettiva di una spaccatura della Libia (in due o tre parti) sarebbe coerente con il progetto che Washington persegue da decenni. Lo afferma Ibrahim Magdud, intellettuale e arabista libico, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. «Ci sono due volontà in conflitto», premette Magdud: «Una è quella del governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, l’altra è quella espressa dal Parlamento di Tobruk, eletto regolarmente dal popolo libico». Tutto comincia dall’applicazione degli accordi di Skhirat (Marocco) del 2015. Il Consiglio presidenziale avrebbe dovuto essere di nove membri, ma vi aderirono tre persone soltanto. Attualmente, la comunità internazionale riconosce come unico rappresentante della Libia Fayez al-Serraj e come legittima la Camera di Tobruk, ma non il governo nato da quel Parlamento. Serraj e la Camera di Tobruk sono entrambi legittimati, ma il governo di Tripoli non è espressione del Parlamento eletto. E così, l’appoggio di alcuni paesi esteri all’uno o all’altro dei contendenti ha ulteriormente inasprito la conflittualità fra le parti.
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L’Eni gonfia di gas l’Egitto, che ora vuole annettersi la Libia
Non è da scartare l’idea che l’Italia possa inviare il suo esercito in Libia, prima che la situazione esploda davvero. Lo sostiene Aldo Giannuli, ricostruendo le tappe dell’ultima, convulsa crisi. Il vero motore del caos nordafricano? Non è neppure la Libia, ma l’Egitto. Tutto “merito” dell’Eni, che al largo delle coste egiziane ha scoperto il giacimento di Zhor: è il maggiore deposito di gas del Mediterraneo, esteso su 100 chilometri quadrati. Un mare di gas, che proietta l’Egitto – di cui la Cirenaica di Haftar è una “dépendance” – verso un ruolo leader, nella regione. L’altro problema è che Haftar ha bisogno di Tripoli, per poter esportare il petrolio cirenaico. Da qui il tentativo di abbattere con una guerra-lampo il fragile regime di Serraj. In altre parole: è il controllo energetico la chiave della crisi geopolitica. Tutto il resto – il solito risiko delle potenze, dal Golfo all’Europa, dagli Usa alla Russia – è un gioco di rimbalzi e contromosse. Il vero nodo, sostiene Giannuli, è rappresentato proprio dal gas egiziano, che dovrebbe rendere l’Egitto autosufficiente dal punto di vista energetico e trasformarlo in paese esportatore. Subito dopo le rilevazioni di Zohr sono iniziate trivellazioni al largo delle coste di Israele, Libano, Cipro e Turchia, con buone probabilità di altre scoperte. In ogni caso, il solo giacimento di Zhor «cambia lo scenario geopolitico mediorientale, facendo dell’Egitto un attore ben più potente del passato».Peraltro, aggiunge Giannuli, la guerra del 2011 ha declassato la Cirenaica al rango di satellite egiziano, incarnato dal regime di Haftar. «Come è noto, la parte più rilevante dei giacimenti petroliferi libici si trova in Cirenaica, tuttavia questo non significa che Haftar ne abbia il controllo pieno e possa disporne come gli pare: per un complesso gioco di ragioni (non ultima l’accesso al gasdotto algerino che collega l’Africa settentrionale all’Europa) il generale filo-egiziano non è in grado di commercializzare il suo greggio sin quando c’è Serraj a Tripoli, e questo spiega il suo costante tentativo di abbattere il rivale e unificare tutta la Libia sotto il suo dominio». Dunque, osserva Giannuli, «una Libia unificata sotto l’egida del Cairo diventerebbe un formidabile polo di attrazione per i paesi confinanti: dal Nord Sudan, che soffre ancora delle ferite della secessione delle province meridionali, all’Algeria in piena crisi del sistema politico, alla Tunisia sempre insidiata dal radicalismo islamico, sino alla Turchia dove il regime di Erdogan è il declino e con il quale si litiga per il ruolo dei Fratelli Musulmani». Insomma, un effetto domino che potrebbe trasformare del tutto il Medio Oriente: e data la posta in gioco, si capisce l’interesse di molti a metterci il dito.Russia, Francia e Arabia Saudita sono schierate con Haftar, mentre l’Europa (tranne la Francia) sta dalla parte di Serraj, insieme agli Usa e al Qatar. «Sin qui la guerra di Libia non è stata molto sanguinosa, sia perché la popolazione è piuttosto scarsa, sia perché, in particolare dalla comparsa di Haftar in poi, è stata un curioso misto di colpi di mano, di acquisto di tribù e zone desertiche a suon di dollari e di propaganda». Dopo la conquista di Bengasi, il generale amico del Cairo «non ha affrontato grandi combattimenti campali, ma ha effettuato veloci incursioni impadronendosi di varie zone versando più dollari che sangue». E forse anche per questo, spiega Giannuli, l’Europa non si è preoccupata più di tanto dell’offensiva su Tripoli, «nella convinzione che si tratta solo di un espediente propagandistico di Haftar per tornare a sedersi al tavolo delle trattative con più forza contrattuale». Ma questo calcolo potrebbe dimostrarsi sbagliato: «Le cose si sono spinte troppo oltre, questa volta si combatte sul serio (comincia ad esserci il primo centinaio di morti) e ai cirenaici potrebbe costare caro fermarsi o tornare indietro». Il fatto sarebbe vissuto come una sconfitta: non solo tornerebbero al tavolo delle trattative indeboliti, ma per l’effetto psicologico della sconfitta «correrebbero il rischio di perdere quelle zone di Fezzan appena conquistate».A sua volta, Haftar ha fatto male i suoi conti: «Una vera e propria guerra prolungata non è quello che cerca e non è nei suoi interessi», per cui «ha pensato che il regime di Serraj si sarebbe facilmente sfaldato sotto la pressione della sua colonna di blindati». In effetti le forze di Tripoli sono inferiori, «e c’è sempre da contare sulle defezioni prezzolate». Da qui l’illusione di una guerra-lampo che mettesse la comunità internazionale davanti al fatto compiuto. Ma i cirenaici avevano sottovalutato «il nucleo delle forze di Medina, leali a Tripoli, determinate a combattere e molto ben addestrate dal Quatar». La marcia trionfale s’è già fermata, lasciando spazio alla diplomazia: gli americani, che avevano ritirato il loro contingente (forse dando per scontata la vittoria dei cirenaici) hanno deciso di tornare, mentre la Francia «inizia ad essere in serio imbarazzo», e infatti «non ha dato il via libera all’assalto finale». Con Haftar restano i finanziatori sauditi, gli egiziani «che continuano a fornire armi» e soprattutto i russi, «che potrebbero essere seriamente tentati di inviare tecnici e contractors vari». Solo che, a quel punto, «anche gli indecisi americani e i pavidissimi europei potrebbero decidere di intervenire». Scenario: «La guerra potrebbe diventare molto più lunga e sanguinosa delle previsioni», avverte Giannuli: «Rischieremmo una nuova Siria, per di più ad un braccio di mare dalle coste italiane». Sicuri che sia così sbagliata l’idea che l’Italia sbarchi in Libia con i carri armati?Non è da scartare l’idea che l’Italia possa inviare il suo esercito in Libia, prima che la situazione esploda davvero. Lo sostiene Aldo Giannuli, ricostruendo le tappe dell’ultima, convulsa crisi. Il vero motore del caos nordafricano? Non è neppure la Libia, ma l’Egitto. Tutto “merito” dell’Eni, che al largo delle coste egiziane ha scoperto il giacimento di Zhor: è il maggiore deposito di gas del Mediterraneo, esteso su 100 chilometri quadrati. Un mare di gas, che proietta l’Egitto – di cui la Cirenaica di Haftar è una “dépendance” – verso un ruolo leader, nella regione. L’altro problema è che Haftar ha bisogno di Tripoli, per poter esportare il petrolio cirenaico. Da qui il tentativo di abbattere con una guerra-lampo il fragile regime di Serraj. In altre parole: è il controllo energetico la chiave della crisi geopolitica. Tutto il resto – il solito risiko delle potenze, dal Golfo all’Europa, dagli Usa alla Russia – è un gioco di rimbalzi e contromosse. Il vero nodo, sostiene Giannuli, è rappresentato proprio dal gas egiziano, che dovrebbe rendere l’Egitto autosufficiente dal punto di vista energetico e trasformarlo in paese esportatore. Subito dopo le rilevazioni di Zohr sono iniziate trivellazioni al largo delle coste di Israele, Libano, Cipro e Turchia, con buone probabilità di altre scoperte. In ogni caso, il solo giacimento di Zhor «cambia lo scenario geopolitico mediorientale», facendo dell’Egitto un attore ben più potente che in passato.
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Con Haftar, la Francia riprova a sfrattare l’Italia dalla Libia
La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.«Khalifa Aftar punta ad essere il nuovo Gheddafi», spiega Farina. «Per questo ha preso la rincorsa con le sue troppe mobili per prendersi tutta la Libia». Haftar è partito da Bengasi, capitale della Cirenaica, per occupare la Tripolitania, e sconfiggere «quelli che chiama – non del tutto a torto – “i terroristi”». Sulla carta, a Tripoli siede il governo unitario di tutta la Libia, guidato da Fayez al Serraj. «Costui in effetti è un re travicello, espressione dei Fratelli Musulmani, piazzato dall’Onu e in rapporti di sudditanza con i gruppi islamisti coinvolti con il traffico di migranti, che gli tengono la pistola sulla tempia». Tuttavia, aggiunge Farina, Serraj è anche l’uomo che tutti i recenti governi italiani «hanno accettato, sostenuto, e con cui hanno trattato». Per due ragioni: «Partivano dalle coste della Tripolitania i battelli dei migranti condotti dai trafficanti d’uomini; ed è soprattutto in quel territorio che l’Eni pompa petrolio e gas, e per noi è strategico preservare le forniture d’energia». Il problema? In una Libia frantumata, abbiamo preteso di risolvere le questioni «occupandoci solo dell’ultimo miglio, e da soli». E l’abbiamo fatto «prima con una meritoria opera di salvataggio e accoglienza, poi con una chiusura senza brividi di umanità». In un caso e nell’altro, sostiene Farina, «senza visione geopolitica», ovvero senza la capacità di «mettere al servizio degli ideali la conoscenza del rapporto tra le potenze nella consapevolezza dei fattori in gioco».Certo non è facile, ammette Farina, che però ricorda che l’Italia vanta «un patrimonio storico rappresentato dal filone De Gasperi, Moro, Andreotti, Cossiga, Craxi», ovvero «gente capace di dialogo, uomini che vedevano la collocazione dell’Italia nel Mediterraneo come un’occasione di amicizia e di pace, cerniera positiva tra l’Occidente dalle radici cristiane con il mondo musulmano ed ebraico». Tutto questo è stato dimenticato, osserva Farina. Nella Libia del dopo-Gheddafi ci siamo limitati a «guadagnare legami superficiali e spesso ricattatori di convenienza, senza lungimiranza, con chi capitava e poteva garantirci un minimo di tranquillità sui confini». Secondo Farina, dal 2011 in poi il solo Marco Minniti – ministro dell’interno con Gentiloni, ha «provato a spezzare le catene di un minimalismo pragmatico», cercando di «andare con Tripoli ma oltre Tripoli, non riducendo la politica delle migrazioni al tentativo illusorio di tamponare il flusso». Anziché limitarsi alla gestione del “rubinetto”, Minniti avrebbe cercato di stabilire rapporti di fiducia «sia con le tribù che proteggevano gli schiavisti, sia con i governi che si affacciano sul Sahara». La speranza: «Impiantare sia in Italia sia in Europa la consapevolezza che, se abbandoniamo l’Africa, essa morendo ci ucciderà».Oggi, continua Farina, dinanzi all’azione improvvisa di Haftar, «che manda al diavolo tutte le strette di mano e gli accordi con Serraj», l’Italia è si è scoperta «totalmente sprovveduta e balbettante». Haftar, spiega Farina, non è solo il capo della Cirenaica, il generale legato all’Egitto, all’Arabia Saudita e alla Russia. «Haftar è la Francia», sottolinea Farina: «Non un amico della Francia, ma il suo personale Gheddafi». Tanto per capirci: «Il tentativo di Sarkozy, appoggiato dalla Clinton e da Cameron, di prendere il posto dell’Italia come riferimento economico e strategico di Tripoli, può realizzarsi con la sperata vittoria di Haftar, armato da Parigi con il tramite degli Emirati Arabi Uniti». Solo che la guerra-lampo non ha funzionato. «Haftar credeva di schiantare le milizie legate ai Fratelli Musulmani (finanziate dal Qatar e dalla Turchia) in pochi giorni. Si era comprato l’accordo con molte delle 240 milizie all’opera in Libia. Ma sono accordi beduini, scritti appunto sulla sabbia. E il trionfo non gli è riuscito». La Russia, «che in teoria dovrebbe stare con Haftar, e che ha disegni egemonici sul Mediterraneo in sostituzione degli Usa», di fatto «non ha condiviso l’azione frettolosa del generale, la cui formazione è stata nell’Armata Rossa sovietica». E dal suo l’America, com’era prevedibile, «dinanzi al colpo di mano ha alzato la voce». E così «la Francia ha dovuto adeguarsi, chiedendo ai cirenaici di fermarsi e trattare».Buona cosa, osserva Farina, che aggiunge: il ministro degli esteri del governo gialloverde, Enzo Moavero Milanesi, ha conoscenza delle procedure e credibilità internazionale. Le doti ideali, insomma, per poter essere un ottimo mediatore. «Perché la cosa peggiore di tutte, in ogni senso – scrive Farina – è l’esplodere di una guerra civile, con migliaia di morti». La conseguenza immediata sarebbe «la sua tracimazione in Italia con attentati tramite “foreign fighters”, centomila migranti caricati su canotti e mandati allo sbaraglio». Sempre secondo Farina, «è bene che non si premi l’aggressione di Haftar (e della Francia)». Alla vigilia dell’assemblea di concordia nazionale, organizzata dall’Onu a Ghadames a metà aprile (proprio nel giorno in cui il segretario generale Onu era a Tripoli) Haftar «ha fatto come Brenno, ha messo la sua spada sul piatto della bilancia». Comunque vada a finire, conclude Farina, gli equilibri in Libia sono cambiati a suo favore: e non ci possiamo fare niente. «Ma sarebbe un prezzo accettabile, purché gli si imponga ragionevolezza, si ottenga la pace e un percorso elettorale trasparente, sorvegliato con un preminente impegno dell’Italia». Niente guerra civile, insomma, o interventi armati occidentali. Molto meglio «rendere conveniente la pace», tramite «pressioni diplomatiche consapevoli di forze piccole e grandi, implicate nell’ombra dello scacchiere». Soprattutto: «Alziamo lo sguardo, non chiudiamoci nel nostro orto con il filo spinato. Marciremmo, e pure male».La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.
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Dinaro africano: perché Hillary fece assassinare Gheddafi
Le mail appena rivelate mostrano che la Nato intervenne in Libia perché Gheddafi voleva creare una propria moneta, agganciata all’oro, per competere con l’euro e il dollaro. Lo afferma Brad Hoff su “Foreign Policy”. A capodanno sono state pubblicate oltre 3.000 nuove e-mail della Clinton quando era al Dipartimento di Stato. «La “Cnn” ovviamente si è concentrata sulle più futili», mentre gli analisti si sono soffermati «sulle conferme esplosive ivi contenute: ammissioni di crimini di guerra, infiltrati in Libia sin dall’inizio delle rivolte, la presenza di Al-Qaeda nell’opposizione appoggiata dagli Usa, paesi occidentali che si combattono per il petrolio libico e la preoccupazione per le riserve d’oro e d’argento di Gheddafi che minacciavano l’euro». Il 27 marzo scorso, una nota di Sidney Blumenthal, storico consigliere dei Clinton e raccoglitore di intelligence per Hillary, contiene evidenti testimonianze di crimini di guerra compiuti dai ribelli sostenuti dalla Nato. Citando come fonte un comandante dei ribelli, Blumenthal riferisce confidenzialmente che «sotto l’attacco delle forze aeree e navali degli alleati», le truppe libiche «hanno cominciato sempre più ad unirsi ai ribelli». Commento della fonte: «In confidenza, un comandante ribelle ha detto che le sue truppe continuano a uccidere tutti i mercenari stranieri catturati nei combattimenti».Mentre l’illegalità degli omicidi degli “squadroni della morte” di Hillary è facilmente riconoscibile, dietro al riferimento ai “mercenari stranieri” potrebbe esserci una sinistra realtà, non immediatamente evidente alla maggior parte della gente, scrive Hoff in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Gheddafi era noto per avvalersi di aziende europee e internazionali per lavori di sicurezza e infrastrutture, e guarda caso nessuna di queste è stata presa di mira dai ribelli. Ci sono invece molte testimonianze che dimostrano che civili libici e lavoratori sub-sahariani, popolazione favorita da Gheddafi nelle sue politiche per l’Unione Africana, sono stati obiettivi della “pulizia razziale” dei ribelli, che vedevano i neri libici come troppo legati al regime. Questi ultimi sono stati comunemente etichettati dai ribelli come “mercenari stranieri” per la loro fedeltà assoluta al leader, sono stati soggetti a torture ed esecuzioni e hanno subìto una pulizia etnica. Ne è un esempio Tawergha, città popolata interamente da 30.000 libici “scuri”, scomparsi nell’agosto 2011 dopo la sua presa da parte delle brigate Nrc Misratan, sostenute dalla Nato».Questi attacchi erano ben noti fin dal 2012 e spesso filmati, come conferma il report del “Telegraph”: «Dopo la cattura di Gheddafi ad agosto, centinaia di lavoratori migranti provenienti dagli Stati vicini sono stati imprigionati da combattenti alleati alle nuove e provvisorie autorità. Accusano gli africani neri di essere mercenari del defunto leader». In più, «sembra che la Clinton venisse personalmente informata dei crimini dei suoi amati combattenti anti-Gheddafi ben prima che questi avvenissero». La mail di Blumenthal, aggiunge Hoff, conferma anche il sospetto che le forze speciali di addestramento avessero collegamenti con Al-Qaeda. Sempre Blumenthal ammette che unità speciali britanniche, francesi ed egiziane stavano formando militanti libici lungo il confine egiziano-libico e nelle periferie di Bengasi. «Questa è la prova definitiva che forze speciali erano sul territorio subito dopo l’inizio delle proteste scoppiate a metà febbraio 2011 a Bengasi». Dal 27 marzo di quella che si era presunto fosse una semplice “rivolta popolare”, operativi esterni stavano già «sovrintendendo al trasferimento di armi e forniture ai ribelli», tra cui «una fornitura apparentemente infinita di fucili Ak-47 e relative munizioni».Solo alcuni paragrafi dopo questa ammissione, aggiunge Hoff, si invoca invece cautela sulle milizie che queste forze speciali occidentali stavano formando. C’era infatti la preoccupazione che «gruppi radicali terroristici come il Gruppo dei combattenti islamici libici e Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim) infiltrassero l’Ntc e il suo comando militare». Anche se la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu proposto dalla Francia diceva che la “no-fly zone” sulla Libia era per proteggere civili, una mail di aprile 2011 inviata ad Hillary con l’argomento “il cliente francese e l’oro di Gheddafi” svela altri fini. Indica infatti che Sarkozy «era in prima fila nell’intervento in Libia, per cinque ordini di motivi: ottenere il petrolio libico, consolidare l’influenza nella regione, aumentare la propria reputazione a livello nazionale, affermare il potere militare francese e togliere l’ascendente di Gheddafi sull’“Africa francofona”». La cosa più sorprendente, aggiunge Hoff, è la lunga sezione che descrive l’enorme minaccia posta dalle riserve d’oro e argento del leader, stimate in 143 tonnellate ciascuna, al franco francese (Cfa), che circola come prima moneta africana. Altro che “responsabilità alla protezione”, a tutela dei civili. La spiegazione “riservata” è la seguente: «Questo oro è stato accumulato prima della ribellione attuale ed era destinato a creare una moneta pan-africana basata sul dinaro».Il piano, continua l’email riservata, era di «dare agli africani francofoni un’alternativa al franco». Secondo gli esperti, questa quantità d’oro e d’argento valeva più di 7 miliardi di dollari. «L’intelligence francese ha scoperto questo progetto poco dopo l’inizio dell’attuale ribellione e questo è il motivo della decisione di Sarkozy». Da notare che il salvataggio dei civili non viene neanche menzionato, chiosa Hoff. «Invece, la grande paura era che la Libia potesse dare indipendenza al Nord Africa col dinaro. L’intelligence francese “ha scoperto” l’alternativa libica all’euro: non poteva essere concesso». All’inizio del conflitto libico, la Clinton accusò formalmente Gheddafi e il suo esercito di usare lo stupro di massa (con l’aiuto del Viagra) come strumento di guerra. «Sebbene numerose organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty, dimostrarono subito la falsità di queste affermazioni, le accuse vennero pompate da politici e media occidentali: visto che infangava il leader libico, la cosa venne presa per buona dai network».Altra fiaba: il regime “sposta cadaveri” là dove cadono le bombe Nato. E’ lo stesso Blumenthal ad ammettere che sono semplici “rumors”, cui ha dato eco Robert Gates, allora segretario alla difesa, mentre la «narrativa degli stupri» è stata rilanciata da Susan Rice, ambasciatrice Usa all’Onu, nell’accusare pubblicamente la Libia davanti al Consiglio di Sicurezza. «Queste mail confermano che il Dipartimento di Stato non solo sapeva della natura spuria di ciò che Blumenthal chiama “voci” che avevano come fonte esclusiva il lato dei ribelli, ma anche che non ha fatto nulla per impedire che tali false notizie arrivassero ai piani alti, che ne hanno poi dato “credibilità”», conclude Hoff. «Sembra inoltre che la storia del Viagra probabilmente sia stata inventata di sana pianta da Blumenthal stesso». Interamente falso, dunque, il castello di accuse: Gheddafi, semplicemente, doveva cadere. Rappresentava una sfida all’impero euro-atlantico dell’euro e del dollaro, nonché un argine allo jihadismo, che è funzionale alla Nato: andava eliminato, per poter costruire la leggenda successiva, quella dell’Isis.Le mail appena rivelate mostrano che la Nato intervenne in Libia perché Gheddafi voleva creare una propria moneta, agganciata all’oro, per competere con l’euro e il dollaro. Lo afferma Brad Hoff su “Foreign Policy”. A capodanno sono state pubblicate oltre 3.000 nuove e-mail della Clinton quando era al Dipartimento di Stato. «La “Cnn” ovviamente si è concentrata sulle più futili», mentre gli analisti si sono soffermati «sulle conferme esplosive ivi contenute: ammissioni di crimini di guerra, infiltrati in Libia sin dall’inizio delle rivolte, la presenza di Al-Qaeda nell’opposizione appoggiata dagli Usa, paesi occidentali che si combattono per il petrolio libico e la preoccupazione per le riserve d’oro e d’argento di Gheddafi che minacciavano l’euro». Il 27 marzo scorso, una nota di Sidney Blumenthal, storico consigliere dei Clinton e raccoglitore di intelligence per Hillary, contiene evidenti testimonianze di crimini di guerra compiuti dai ribelli sostenuti dalla Nato. Citando come fonte un comandante dei ribelli, Blumenthal riferisce confidenzialmente che «sotto l’attacco delle forze aeree e navali degli alleati», le truppe libiche «hanno cominciato sempre più ad unirsi ai ribelli». Commento della fonte: «In confidenza, un comandante ribelle ha detto che le sue truppe continuano a uccidere tutti i mercenari stranieri catturati nei combattimenti».
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Manchester Satanic e terroristi Nato, nessuno è innocente
Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.Ora, secondo l’“Independent”, Salman Abedi, il figlio stragista di Manchester, si trovava nella Libia Orientale nel 2011, quando gli aerei britannici bombardavano le truppe del governo libico per portare al potere i Takfiri. Era giovanissimo. Secondo i suoi compagni di scuola, cambiò allora: «Prima era un ragazzo di compagnia, beveva, fumava erba – ma quando tornò dalla Libia nel 2011 era un’altra persona. Diventò religioso. Per qualche tempo è stata innalzata una bandiera nera con scritte in arabo sul tetto della casa degli Abedi a Elsmore Road». Spero che i lettori non abbiano dimenticato come, sotto gli auspici di Hillary Clinton allora segretaria di Stato, carichi e carichi di armamenti saccheggiati dai forniti arsenali di Gheddafi furono spediti in Siria, per armare i Takfiri mercenari arruolati per abbattere il legittimo governo. Una sporchissima faccenda in cui trovò la morte l’ambasciatore Usa Chris Stevens, sacrificato con la sua scorta di Marines per non far saltare fuori la storia. Potevano essere salvati, un commando era pronto a decollare dalla Sicilia, fu dato l’ordine di “stand-down”. Insomma la strage “islamica” di Manchester è un effetto collaterale delle sovversioni britanniche in Libia e in Oriente in obbedienza ai neocon americani. A meno che non sia un’operazione voluta dagli stessi servizi britannici – l’attentatore era ben noto agli agenti – per distrarre l’opinione pubblica da qualcos’altro (Brexit? Elezioni?).Personalmente penso che valga più la prima ipotesi. Ma, come si dice: mai sprecare un disturbato mentale utilizzabile come islamista kamikaze. Quanto alla pop-star Ariana Grande, idolo delle giovanissime: nel 2014, in una intervista a “Billboard”, ha rivelato di essere divenuta “kabbalista” (complimenti) secondo «gli insegnamenti del rabbino Philip Berg», un agente d’assicurazione di New York, fondatore di una organizzazione magica chiamata Centro della Kabbala. Ariana Grande non è la sola celebrità ad aderirivi: Naomi Campbell, Madonna, Leonardo Di Caprio, Britney Spears, Demi Moore e (poteva mancare?) Paris Hilton si dice ne facciano parte. La giovanissima Ariana Grande ne deve essere particolarmente addentro, perché in una intervista ha parlato di come talora venga “abitata” da presenze inequivocabili: «Appena ho chiuso gli occhi ho sentito questa vampata davvero forte vicino alla mia testa… quando ho chiuso gli occhi ho iniziato di nuovo con i sussurri per molto tempo… ho iniziato a vedere questa immagine veramente inquietante, come con forme rosse».Sul web naturalmente si sono affollati complottisti che hanno intuito “messaggi” kabbalisti, per esempio, nell’età dell’attentatore e nella data della strage (22 è il numero delle lettere ebraiche su cui si basa la magia della Kabbala); altri hanno indicato simboli kabbalistici nei videoclip della piccola. La cosa ci stupirebbe poco e poco ci interessa. Oltretutto un produttore cinematografico che ha passato la vita ad Hollywood, Jon Robberson, ha appena accusato l’industria cinematografica hollywoodiana di essere «un nido di pedo-criminalità di natura luciferina». Il che, naturalmente, ci stupirà ancor meno. Stupirebbe di più il fatto che nessun giudice in Usa voglia riprendere in mano la faccenda della strana morte di Seth Rich, un addetto del comitato elettorale democratico che aveva rivelato a Wikileaks migliaia di mail compromettenti sul funzionamento interno del partito: fra cui i trucchi e i giochi sporchi con cui quel partito favoriva la Clinton e sabotava l’altro candidato, Bernie Sanders. «Seth Conrad Rich, 27 anni, fu assassinato per strada l’8 luglio in Washington Dc, da una o diverse persone che non gli rubarono nulla di quello che indossava, lasciando anche la sua ventiquattrore, il suo orologio o il cellulare». Julian Assange accusò Hillary come mandante dell’omicidio (Hillary: «Ma non c’è un drone, qualcosa, per ammazzarlo?»). Il fatto è che si stanno accumulando prove, indizi e testimonianze che puntano ai colpevoli nel Partito Democratico. Ma i giudici e i politici Usa sono tutti concentrati a cercare prove sul delitto originale di Trump, quello di essere un agente di Putin.(Maurizio Blondet, “Manchester Satanic, nessuno è innocente”, dal blog di Blondet del 25 maggio 2017).Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.
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La Cina ricostruirà la Libia: colossali investimenti a Tobruk
“Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.Il primo ministro del governo di Tobruk, Abdullah Al-Thinni, in un’intervista all’emittente televisiva “Al-Hadath” riportata dal “Libya Herald”, ha dichiarato che l’ingente investimento, frutto di una cordata di investitori cinesi, dovrebbe portare al compimento delle opere in un periodo di soli tre anni, con un effettivo impatto sull’economia locale già nel breve periodo. Il progetto «potrebbe avere una significativa rilevanza anche per le relazioni commerciali libiche», scrive Francesca La Bella su “Nena News”, ricordando che dopo la caduta di Muhammar Gheddafi e l’inizio della guerra civile, sia le imprese sia i lavoratori cinesi impegnati in Libia lasciarono il paese e, negli anni successivi, il capitale cinese non riuscì a trovare canali d’accesso per il paese nordafricano. «Oggi, invece, in linea con un programma di penetrazione imponente in tutto il territorio africano, Pechino potrebbe dare nuova linfa alle relazioni commerciali sino-libiche». Di riflesso, questo rinnovato slancio economico della Cirenaica, unito al programma di esportazione del greggio dai porti della mezzaluna petrolifera, «renderebbe Tobruk sempre più centro nevralgico dell’economia del paese, con inevitabili ricadute dal punto di vista politico».La debolezza del governo Sarraj, aggiunge Francesca La Bella, si contrappone alla solidità e al radicamento delle forze di Tobruk. E i numerosi attori coinvolti nella contesa libica sembrano schierarsi sempre più a favore di una riconciliazione tra Tripoli e Tobruk per garantire la stabilità politica ed economica della Libia. Riflessi geopolitici: «A fronte di una produzione del petrolio in continua ascesa e di uno Stato Islamico in lento arretramento, la possibilità di una ripresa libica sembra essere ora plausibile». E se la Cina entra in campo gocando pesante, l’Occidente – che la Libia l’ha rasa al suolo – vede ora complicarsi le sue mire di rapina su quello che, con Gheddafi, per l’Onu era il primo paese, in Africa, per indice di sviluppo umano. «La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio», scrive Alberto Negri sul “Sole 24 Ore”. Il sottosuolo libico contiene il 38% del petrolio africano, pari all’11% dei consumi europei. «È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra».In questo momento, scrive Negri, a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione «conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare». L’Italia ha già perso in Libia 5 miliardi di commesse, aggiunge il “Sole”. «La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi». Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della banca centrale e del Fondo sovrano libico, che sta a Londra, «dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City». Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica – dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi – gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari. «Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica».E dire che i libici «hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela». Gli interessi occidentali, «mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio», quando cioè il presidente francese Nicolas Sarkozy «attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata», scrive ancora Neri. «Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total». Finti amici, gli occidentali, in realtà concorrenti-rivali. Su cui ora irrompe la Cina, con il suo piano – gigantesco, storico – per lo sviluppo del paese, a comiciare da Tobruk.“Aiutiamoli a casa loro”, è il refrain dei politici europei a corto di voti, di fronte all’esodo dei migranti. Di fronte all’incresciosa geopolitica dell’Occidente, che abbatte Gheddafi e poi arma l’Isis, la Cina risponde con un colossale piano di investimenti – 36 miliardi di dollari – in Cirenaica, mentre il governicchio di Fayez al Sarraj di stanza a Tripoli cerca di recitare una nuova unità nazionale ripartita in “cantoni”, secondo i desiderata dei padroni europei e americani. Secondo quanto riportato dai media locali, scrive “Nena News”, il gigante asiatico, secondo solo all’Italia come partner commerciale dell’import-export libico, ha scelto di finanziare un grande progetto infrastrutturale nell’area di Tobruk che prevede la costruzione del più grande porto del paese in acque profonde. La Cina si impegna inoltre a realizzare un aeroporto commerciale e una ferrovia lungo il confine con l’Egitto in direzione Sudan. E poi 10.000 case, un ospedale con 300 posti letto e un’università. A questo complesso progetto di rilancio infrastrutturale si dovrebbe aggiungere un piano per lo sviluppo dell’esportazione di energia solare verso la Grecia con la costruzione di una centrale energetica a Jaghbub, nel deserto libico orientale.
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Italia in guerra in Libia? Ora aspettiamoci i nostri Bataclan
Aspettiamoci pure il nostro Bataclan: arriverà presto, grazie all’appoggio dell’Italia ai bombardamenti americani sulla Libia. Lo sostiene Massimo Fini, che accusa gli Stati Uniti: «Prima costituiscono in Libia un governo fantoccio, quello di Al-Sarraj, che fino a poco tempo fa era così ben visto dalla popolazione libica che era costretto a starsene, con i suoi ministri, su un barcone imboscato nel porto di Tripoli. Adesso che questo governo ha ottenuto l’appoggio della fazione di Misurata, ma non quello del governo antagonista di Tobruk e tantomeno delle altre mille milizie che agiscono in Libia, gli Stati Uniti gli han fatto chiedere il loro soccorso. Qualcosa che somiglia molto alla richiesta di ‘aiuto’ dei paesi fratelli quando l’Urss invadeva l’Ungheria e la Cecoslovacchia che erano insorte contro i governi filosovietici». Secondo gli americani, i loro raid su Sirte e altrove saranno “di precisione”. «Speriamo che non abbiano gli stessi effetti dei ‘missili chirurgici’ e delle ‘bombe intelligenti’ usati nella prima Guerra del Golfo del 1990», replica Fini, ricordando che in quella guerra, secondo dati ufficiali del Pentagono, morirono 167.000 civili, tutti arabi, fra cui 48.000 donne e 32.195 bambini.Naturalmente, Al-Sarraj s’è affrettato ad assicurare che il suo governo respinge qualsiasi intervento straniero senza la sua autorizzazione. «Il fantoccio di Tripoli – scrive Fini sul “Fatto Quotidiano”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte” – sa benissimo che una guerra aperta e dichiarata alla Libia compatterebbe tutti i libici di qualsiasi fazione», grazie all’orgoglio nazionale. «E questo andrebbe a tutto vantaggio dell’Isis, che è il gruppo più forte, meglio armato, più determinato, che in breve tempo ingloberebbe anche le altre milizie». Ma ciò che dice al-Sarraj «è una barzelletta a cui è difficile credere, sia perché ciò che nega è già avvenuto, sia perché è alle dirette dipendenze del governo americano a cui è legata la sua sopravvivenza». Sicché, «gli Usa faranno quello che vorranno», e inoltre «sul terreno sono già presenti truppe speciali americane, inglesi e francesi». Dopo aver raso al suolo il regime di Gheddafi – contro gli interessi dell’Italia – trasformando la Libia in un inferno terroristico, adesso la ri-bombardano, continua Fini. «Non c’è niente da fare, passano gli anni e i decenni ma noi non riusciamo a liberarci della pelosa tutela dell’‘amico amerikano’».Nel 1999, ricorda il giornalista, partecipammo all’aggressione alla Serbia (gli aerei americani partivano da Aviano), guerra anche questa a cui l’Onu s’era dichiarata contraria. E anche con la Serbia noi italiani avevamo solidi rapporti di amicizia che risalivano addirittura ai primi del ‘900, quando a Belgrado si pubblicava un quotidiano intitolato “Piemonte”: «I serbi infatti vedevano nell’Italia che si era da poco unita un esempio per conquistare la propria indipendenza sotto le forme di una monarchia costituzionale». Non era obbligatorio aderire alla guerra anti-serba, aggiunge Fini, «tant’è che la piccola Grecia, che fa parte anch’essa della Nato, si rifiutò di parteciparvi». Adesso è il turno della Libia, secondo round. E noi «saremo costretti a fornire la nostra base di Sigonella dove sono presenti una dozzina di droni e di caccia americani. Bel colpo». Finora il governo Renzi, seguendo la linea di Angela Merkel, si era tenuto prudentemente ai margini del caos mediorientale, «e per questo l’Isis non aveva colpito né noi né i tedeschi (gli attentati terroristici in Germania sono stati fatti da psicopatici, sulle cui azioni poi l’Isis ha messo il cappello)». Adesso, invece, «dovremo attenderci anche in Italia attacchi dell’Isis che più viene colpita in Medio Oriente e più, logicamente, porta la guerra in Europa. Vedremo come reagiranno le mamme italiane quando avremo anche noi i nostri Bataclan».Aspettiamoci pure il nostro Bataclan: arriverà presto, grazie all’appoggio dell’Italia ai bombardamenti americani sulla Libia. Lo sostiene Massimo Fini, che accusa gli Stati Uniti: «Prima costituiscono in Libia un governo fantoccio, quello di Al-Sarraj, che fino a poco tempo fa era così ben visto dalla popolazione libica che era costretto a starsene, con i suoi ministri, su un barcone imboscato nel porto di Tripoli. Adesso che questo governo ha ottenuto l’appoggio della fazione di Misurata, ma non quello del governo antagonista di Tobruk e tantomeno delle altre mille milizie che agiscono in Libia, gli Stati Uniti gli han fatto chiedere il loro soccorso. Qualcosa che somiglia molto alla richiesta di ‘aiuto’ dei paesi fratelli quando l’Urss invadeva l’Ungheria e la Cecoslovacchia che erano insorte contro i governi filosovietici». Secondo gli americani, i loro raid su Sirte e altrove saranno “di precisione”. «Speriamo che non abbiano gli stessi effetti dei ‘missili chirurgici’ e delle ‘bombe intelligenti’ usati nella prima Guerra del Golfo del 1990», replica Fini, ricordando che in quella guerra, secondo dati ufficiali del Pentagono, morirono 167.000 civili, tutti arabi, fra cui 48.000 donne e 32.195 bambini.
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Guerra in Libia, non sarà certo l’Italia a decidere il da farsi
Stupidamente in questi giorni ci chiediamo se, quando e come l’Italia debba andare a combattere in Libia. Stupidamente, perché, in forza dei trattati di pace con gli Usa e del fatto che i banchieri yankee controllano il sistema bancario italiano, sarà Washington (con al più Londra e Parigi) a decidere che cosa farà l’Italia, anche questa volta, come già ha fatto con Kuwait, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Gheddafi. E lo deciderà senza riguardo agli interessi italiani e alla vita degli Italiani. La storica stabilità della politica estera italiana malgrado la storica mutevolezza dei suoi governi, dipende dal semplice fatto che, a seguito della resa incondizionata agli angloamericani l’8 settembre 1943, sono stati imposti protocolli che stabiliscono che l’Italia obbedisca agli Usa in materia di politica estera (e in altre materie, comprese quella finanziaria), al disopra delle norme costituzionali che proibiscono che l’Italia faccia guerre. Quando personaggi istituzionali italiani e non, preposti alla sicurezza e alla difesa, dicono che si cerca di evitare la guerra e che il problema è in mano all’intelligence, intendono che i servizi segreti militari di paesi Nato, tra cui l’Italia, stanno eseguendo serie di uccisioni mirate di capi “nemici” mediante droni armati, mediante tiratori scelti trasportati con velivoli silenziati o stealth, mediante commandos di Legione Straniera o di corpi simili dei paesi Nato e di Israele.In questi giorni Renzi ha firmato e subito segretato un decreto che estende ai corpi speciali dell’esercito le coperture riservate ai servizi segreti. Il che vuol dire, esplicitamente, che manda le forze armate italiane a uccidere, cioè a fare la guerra, in Libia. Se qualcuno di quei militari sarà catturato dall’Isis, probabilmente sarà torturato e ucciso, oppure scambiato con armi o prigionieri, ma la sua cattura e uccisione (così come lo scambio) sarà tenuta segreta anche ai suoi familiari, non solo alla stampa. Il decreto in questione, essendo in contrasto con l’art. 11 della Costituzione, è illegittimo. La guerra è già in corso, in segreto, non dibattuta, non dichiarata, non autorizzata dal Parlamento, decisa da Washington. E così andava anche con le altre guerre in cui l’Italia ha partecipato: anche i nostri governi mandavano militari sotto copertura a uccidere i capi dei gruppi considerati nemici da Washington. Ma queste pratiche segrete sono da sempre la norma nella politica estera di tutti i paesi. E’ soltanto l’opinione pubblica ignorante, sistematicamente educata dai media a una visione cosmetica della realtà, che si stupisce e scandalizza.Tornando alla Libia, che si dovrebbe fare per stabilizzarla? Il paese chiamato “Libia” comprende 3 regioni storicamente differenti: Fezzan, Tripolitania, Cirenaica, abitate da molte tribù da secoli in competizione o guerra tra loro. Un paese con una popolazione tribale, senza senso civico e democratico, più abituata a combattere che a lavorare, e con un’enorme ricchezza petrolifera che attira gli appetiti armati di potenze occidentali, le quali ricorrono alla guerra per assicurarsi pozzi e porti, e per toglierli agli altri (all’Eni, in particolare – vedi l’assassinio di Mattei). Come stabilizzare un siffatto paese e un siffatto popolo? E’ ovvio: bisogna che Washington, Londra e Parigi si accordino per spartirsi quelle risorse, che distruggano le forze in campo (usando l’Onu e lo pseudo-governo di Tobruk per deresponsabilizzarsi e dando il comando militare alla serva Italia), che mettano al potere un dittatore armato e finanziato da loro, col duplice incarico di reprimere ogni opposizione o disordine col terrore, e di consentire lo sfruttamento delle risorse petrolifere. Mutatis mutandis, è quello che stanno realizzando in Italia mediante Renzi e le sue riforme elettorale e costituzionale, che concentrano nel premier i tre poteri dello Stato, limitano la rappresentatività del Parlamento e neutralizzano la funzione dell’opposizione.(Marco Della Luna, “Italia, Libia, guerra, intelligence”, dal blog di Della Luna del 4 marzo 2016).Stupidamente in questi giorni ci chiediamo se, quando e come l’Italia debba andare a combattere in Libia. Stupidamente, perché, in forza dei trattati di pace con gli Usa e del fatto che i banchieri yankee controllano il sistema bancario italiano, sarà Washington (con al più Londra e Parigi) a decidere che cosa farà l’Italia, anche questa volta, come già ha fatto con Kuwait, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Gheddafi. E lo deciderà senza riguardo agli interessi italiani e alla vita degli Italiani. La storica stabilità della politica estera italiana malgrado la storica mutevolezza dei suoi governi, dipende dal semplice fatto che, a seguito della resa incondizionata agli angloamericani l’8 settembre 1943, sono stati imposti protocolli che stabiliscono che l’Italia obbedisca agli Usa in materia di politica estera (e in altre materie, comprese quella finanziaria), al disopra delle norme costituzionali che proibiscono che l’Italia faccia guerre. Quando personaggi istituzionali italiani e non, preposti alla sicurezza e alla difesa, dicono che si cerca di evitare la guerra e che il problema è in mano all’intelligence, intendono che i servizi segreti militari di paesi Nato, tra cui l’Italia, stanno eseguendo serie di uccisioni mirate di capi “nemici” mediante droni armati, mediante tiratori scelti trasportati con velivoli silenziati o stealth, mediante commandos di Legione Straniera o di corpi simili dei paesi Nato e di Israele.