Archivio del Tag ‘condanna’
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Toscani condannato per vilipendio della religione cattolica
Libertà d’opinione: ma se di mezzo c’è la Chiesa cattolica, si rischia? Il fotografo Oliviero Toscani s’è appena buscato una multa da 4.000 euro: condanna inflittagli dal tribunale di Milano su richiesta del pm Stefano Civardi per “vilipendio della religione cattolica”. Durante la trasmissione “La Zanzara” su “Radio24” del 2 maggio del 2014, rispondendo alle domande dei conduttori – Giuseppe Cruciani e David Parenzo – l’artista milanese aveva pronunciato frasi ritenute offensive da due associazioni cattoliche, “Giuristi per la vita” e “Pro vita”, che avevano presentato una denuncia. Pensando di essere un marziano piovuto improvvisamente in una chiesa, ricorda il “Fatto Quotidiano”, Toscani aveva detto: «Vedi uno inchiodato alla croce, un altare con bambini nudi che volano… Poi quell’altro sanguinante… la Chiesa sembra un club sadomaso». Nella conversazione radiofonica aveva poi aggiunto che «Papa Bergoglio dice cose banali», proseguendo: «Fanno santo Wojtyla che era contro il preservativo in Africa, un assassino». La richiesta di risarcimento delle associazioni era di 100.000 euro di danni, ma il giudice Ambrogio Moccia ha fissato la somma in soli 500 euro.In quella medesima intervista radiofonica, ricorda Salvatore Santoru su “Blasting News”, Toscani aveva lanciato anche altre pesanti provocazioni nei confronti della Chiesa, definita «la più grande organizzazione maschilista mondiale», nonché «la più grande associazione omosessuale». Lo stesso Toscani aveva anche esortato le donne a indignarsi nei confronti del clero e a chiedere maggiori diritti e parità di trattamento all’interno dell’istituzione religiosa. Quanto agli omosessuali, Papa Francesco ha detto, testualmente: «I gay devono essere rispettati», per poi aggiungere: «Come cristiani dobbiamo chiedere scusa», riferendosi alla storica discriminazione dei gay. Appena eletto Papa, aveva stupito per la sua prima affermazione sul tema («chi sono io, per giudicare?»), precisando in modo esplicito: «Il problema non è avere tendenze gay, ma fare lobby». Secondo il cardinale newyorkese Timothy Dolan, «Papa Francesco studia le unioni gay, vuole capire». Titola l’Huffinton Post: “Papa Francesco su aborto, gay e contraccettivi: i principi non negoziabili di Ratzinger passano in secondo piano”.Oliviero Toscani ha definito la Chiesa “organizzazione omosessuale”, come se l’intero clero fosse gay, ma non ha usato l’espressione “organizzazione pedofila”. Quello, semmai – oltre che un reato – è anche il vero dramma su cui lo stesso Bergoglio ha attirato l’attenzione pubblica, denunciando il fenomeno. Una piaga talmente vasta, nella Chiesa, che il 9 maggio lo stesso Bergoglio ha istituito l’obbligo di denunciare immediatamente qualsiasi abuso sessuale venga commesso in ambito ecclesiastico. Ricorda il “Messaggero”: «Sono migliaia i casi di abusi sessuali su minori commessi in tutto il mondo da uomini di Chiesa». Statistiche complessive e aggiornate non ne esistono, ma monsignor Charles Scicluna, già “promotore di giustizia” della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha annunciato l’arrivo di un dossier accurato e completo. Anche se non a tutti una chiesa può ricordare “un club sadomaso”, come sostiene Toscani, resta il fatto che, entrando in un tempio cattolico, ci si imbatte regolarmente nel crocifisso sanguinante, attorniato da “bambini nudi che volano”. Quanto a Wojtyla, il suo volto campeggiava nel documentario “Abc Africa” girato nel 2001 dal grande regista iraniano Abbas Kyarostami in Uganda per monitorare i lazzaretti dove madri e figli malati di Aids attendevano la morte. Nelle piazze della capitale, Kampala, le gigantografie del pontefice raccomandavano ai fedeli di non usare contraccettivi.Libertà d’opinione: ma se di mezzo c’è la Chiesa cattolica, si rischia di violare la legge? Il fotografo Oliviero Toscani s’è appena buscato una multa da 4.000 euro: condanna inflittagli dal tribunale di Milano su richiesta del pm Stefano Civardi per “vilipendio della religione cattolica”. Durante la trasmissione “La Zanzara” su “Radio24” del 2 maggio del 2014, rispondendo alle domande dei conduttori – Giuseppe Cruciani e David Parenzo – l’artista milanese aveva pronunciato frasi ritenute offensive da due associazioni cattoliche, “Giuristi per la vita” e “Pro vita”, che avevano presentato una denuncia. Pensando di essere un marziano piovuto improvvisamente in una chiesa, ricorda il “Fatto Quotidiano”, Toscani aveva detto: «Vedi uno inchiodato alla croce, un altare con bambini nudi che volano… Poi quell’altro sanguinante… la Chiesa sembra un club sadomaso». Nella conversazione radiofonica aveva poi aggiunto che «Papa Bergoglio dice cose banali», proseguendo: «Fanno santo Wojtyla che era contro il preservativo in Africa, un assassino». La richiesta di risarcimento delle associazioni era di 100.000 euro di danni, ma il giudice Ambrogio Moccia ha ridotto la somma a soli 500 euro.
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Giorni contati per il Conte-bis, Mario Draghi a Palazzo Chigi?
Campane a morto per Giuseppe Conte, ormai in rotta con Di Maio e incalzato ogni giorno dall’abile manovratore Renzi. Occhio, avverte Zingaretti: se il Vietnam contro il premier e il governo giallorosso non si arresta, il Pd potrebbe rompere e tornare al voto, ricandidando come primo ministro proprio il professor-avvocato di Volturara Appula, l’unico – secondo l’impalpabile “fratello di Montalbano” – ad avere chance elettorali. Non la pensano così personaggi televisivi come Alan Friedman, secondo cui Conte sarebbe «un uomo vuoto», e lo stesso Paolo Mieli, per il quale “l’avvocato degli italiani” avrebbe ormai i giorni contati, non disponendo di un reale peso parlamentare da opporre alle intemperanze dei renziani e al crescente malpancismo di un Di Maio emarginato da Grillo e contestato dai suoi. Lo scrittore Gianfranco Carpeoro l’aveva vaticinato a settembre: qui si rischia di tornare a votare entro tre mesi, al più tardi a gennaio. Ora Carpeoro rilancia: il governo traballa, e le elezioni anticipate potrebbero essere evitate solo dall’eventuale piano-Draghi, cioè l’ipotesi di potere che vorrebbe insediato a Palazzo Chigi il presidente uscente della Bce, il cui ruolo dietro le quinte potrebbe essere destinato a crescere, incidendo direttamente sull’Italia ex gialloverde, delusa dal modestissimo Conte-bis e spiazzata dalla fulminea alleanza tra Renzi e Grillo.
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Feltri: rimpiango Sandro Pertini, il coraggio della coerenza
Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro Paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.Quando egli entrò al Quirinale sulle ali del trionfo (832 voti su 995 votanti: un primato) circolò una battuta: finalmente ci tocca un evaso e non un evasore. Il riferimento era duplice. Al passato del nuovo inquilino, che tra carcere e confino, durante il fascismo, fu prigioniero del regime per 15 anni; e alla sua proverbiale onestà. Quest’ultima qualità non è considerata sufficiente per reggere uno Stato, però non guasta. Pertini aveva una forma maniacale di rispetto per il denaro non suo. «Andai a trovarlo – racconta Enzo Biagi – alla Camera, di cui era presidente. Bevemmo un caffè, e lui accennò a pagare. Ma gli uscieri glielo impedirono. Un finimondo. Lui si offese a morte, protestò. E alla fine riuscì a saldare il conto. Non si può dire che a quel tempo gli premeva che si sapesse in giro dei suoi scrupoli: non era ancora capo dello Stato, e nessuno avrebbe scritto l’episodio sui giornali. No, sulla sua correttezza non vi sono dubbi in assoluto». Aneddoti simili si sprecano. Forse vale la pena di rammentare solo l’ultimo, o almeno il più clamoroso. Il Parlamento propose di aumentare l’appannaggio del Quirinale, che era veramente ridicolo: poco più di cento milioni. La legge sarebbe stata approvata in cinque minuti e all’unanimità. Ma Pertini, come ne venne a conoscenza, si inalberò: «Finché qui rimango io, non verrà dentro una lira in aggiunta. Quel che piglio, mi basta e avanza». Mentiva. Era in bolletta nera.Se non ci fosse stato Maccanico, che si faceva anticipare di un biennio gli stipendi del personale, e depositandoli in banca usufruiva degli interessi, i quattrini per pagare tutti ogni mese non ci sarebbero stati. Onestà non soltanto in senso generale, ma anche intellettuale. Pertini non è mai venuto meno agli ideali, neanche a quelli che considerava doveri. Fin da giovanissimo. Era contrario all’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, essendo già simpatizzante socialista, ma al primo tonare di cannone era già in prima linea: allievo ufficiale nei mitraglieri. Aveva poco più di 19 anni e appena terminato il liceo. Non riteneva nemici coloro che erano al di là della linea, ma compagni di sventura; tuttavia, benché pacifista e convinto che sotto il sole nascente non vi fossero divisioni nazionali, combatté senza mai risparmiarsi. Aveva il senso dello Stato, e sapeva che “imboscarsi” avrebbe danneggiato i suoi compagni di trincea. Fu proposto addirittura per una medaglia d’argento, che non ebbe mai per “disguidi burocratici”. Questo il motivo agli atti. In realtà, non gliela diedero perché era “rosso”.Dopo il conflitto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Genova. E alla sezione socialista del suo paese, Stella (Savona), dov’era nato nel ‘96. Il padre, piccolo proprietario terriero, morto giovane; la madre, Maria Muzio, ebbe altri tre figli, due maschi e una femmina. Una famiglia borghese, tradizionalista, né ricca né povera. Sandro si laureò in fretta, e bene. Ma aveva altri orizzonti oltre quelli del diritto. E si trasferì a Ca’ Foscari, a Venezia, dove – sempre a gran velocità – ottenne il secondo dottorato: scienze sociali. Non era soltanto un uomo d’azione come è apparso a noi negli ultimi anni e si evince dal suo curriculum nella Resistenza: aveva una inclinazione piuttosto schietta per gli studi. Nei quali, però, non esauriva tutta la carica che aveva dentro. Ecco perché, nel partito, si buttò con ardore. Conobbe Treves e Turati e stabilì con loro una collaborazione intensa. Non si limitava ad arringare le folle; in piazza, ci andava anche a fare i volantinaggi, da umile attivista. E fu in una di queste circostanze, nel 1925, che esordì in galera.Era di maggio. Lo sorpresero nei pressi di casa sua, a Stella, mentre distribuiva una rudimentale pubblicazione intitolata: “Sotto il barbaro dominio fascista”, stampata in proprio. Scattarono le manette. Processo al tribunale di Savona: otto mesi di reclusione. Comincia per lui il “dentro e fuori”. Un dettaglio rivelatore dal carattere dell’uomo: durante l’udienza, egli non si difende affatto. Anzi, con un tono quasi di sfida, ammette di essere socialista e sottoscrive ogni responsabilità che gli viene addebitata. Accanto, c’è un colonnello dei carabinieri che strabilia. È ammirato da quel giovane col «pelo sullo stomaco», e si mette sugli attenti in segno di deferenza. Se non nei riguardi dell’imputato, almeno del suo coraggio. Nel ‘26 Pertini è a Milano, ospite di Carlo Rosselli. E insieme con Adriano Olivetti e Ferruccio Parri organizza la fuga di Filippo Turati. Un’impresa da matti. Partono in motoscafo da Savona e arrivano in Corsica per miracolo: il mare è grosso, l’imbarcazione sta insieme con lo spago. Turati scende. I “complici” si sparpagliano. Parri, Olivetti e Rosselli rientrano, e come mettono piede dalle nostre parti sono prelevati e condotti in cella. Sandro, che è rimasto in Francia per tenere i collegamenti con gli esuli, è condannato in contumacia.Sono anni tremendi. Gli tocca fare di tutto: lavamacchine, muratore. Cose di cui si è già scritto molto. Ma un particolare forse, se non inedito, è poco noto. Pertini, a un certo punto, decide che è ora di svegliare gli italiani. Come? La stampa clandestina è un fiasco perché non riesce a penetrare nelle maglie della censura; di fare riunioni carbonare, non se ne parla neanche. La circolazione delle idee, anche se affidata alle chiacchiere, è pericolosa: ogni persona può essere una spia. La soluzione ci sarebbe, la radio. Ma i costi sono pazzeschi. Lui, il “ribelle”, fa presto: vende la sua quota di eredità – podere e fattoria – e investe il ricavato in un impianto adatto all’alfabeto morse. Il “bip” del dissenso valica il confine e giunge in Liguria. L’autore dei messaggi si firma con lo pseudonimo Jaques Gauvin, ma suscita subito sospetti nelle autorità del fascismo che fanno una soffiata alla polizia d’oltralpe. L’emittente è costretta a tacere, sequestrata. E il proprietario rischia cinque anni di galera e l’espulsione.Ma gli va bene che i francesi colgano l’occasione del processo per svergognare la dittatura del Duce; la magistratura lo condanna a un mese con la condizionale e gli consente di rimanere sulla Costa Azzurra. Chiunque altro si sarebbe calmato, almeno per un periodo. Pertini non molla un secondo: con passaporto falso intestato a Luigi Roncaglia, va in Svizzera ampliando i reticoli dell’opposizione al regime. Poi si stufa di stare all’estero ed eccolo a Milano. Non si contenta, gira al Centro e al Meridione, su e giù in treno: nella borsa, solito materiale sovversivo. Fatale che lo becchino. Ancora prigioni, in una delle quali incontra Gramsci e diventano amici, per quanto, ogni tanto non manchino di litigare. Il leader sardo un giorno esprime un giudizio pesantuccio su Turati e Treves. Apriti cielo. L’altro gli risponde malamente e si imbroncia: non c’è verso di rasserenarlo. E soltanto quando Gramsci si scuserà, affermando che si trattava esclusivamente di una valutazione politica, Sandro sorriderà e gli stringerà la mano.La madre, che da anni non lo vede, preoccupata per la sua salute, di sua iniziativa chiede la grazia e lui non ne vuol sapere, scrive questa lettera al presidente del tribunale speciale: «Non mi associo a simile domanda perché sento che mancherei alla mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme». E rimprovera la povera donna che aveva agito per amore: «Mamma, con quale animo hai potuto fare questo». Anche a lei terrà a lungo il broncio. Intanto, fra un’amnistizia e nuovi arresti, condoni e libertà provvisorie, Pertini compie 40 anni: in pratica è sempre stato detenuto. Ovvio che il suo livore per le camicie nere sia incontenibile, e si traduca col tempo, specialmente durante il secondo conflitto mondiale, in un piano per toglierle di mezzo. Nella guerra partigiana, dal 1943, alla Liberazione, il suo ruolo sarà determinante insieme con quelli di Saragat e Nenni e di molti altri. Due capitone fondamentali: le insurrezioni di Firenze nel ‘44 e di Milano nel ‘45 furono capeggiate da lui. Fece di tutto: lo stratega e il manovale, l’ideologo e la sentinella, a seconda del bisogno.E a Liberazione avvenuta, nonostante la medaglia d’oro (stavolta arrivò), i meriti acquisiti sul piano politico e militare, e per la solidificazione del socialismo, nel partito gli riservano sistematicamente posti senza potere, benché di prestigio: direttore dell’“Avanti!” e del “Lavoro”, per esempio. È naturale, non aveva correnti, aborriva gli intrighi di corridoio, le cordate, le scalate; nessuna vocazione ai patteggiamenti, alle mediazioni, alle spartizioni, alle lottizzazioni. Mai entrato nella stanza dei bottoni dal 1946 al 1968, quando fu eletto presidente della Camera, seggiola che abbandonò nel 1976, l’indomani dell’avanzata comunista, e qualcuno pensò che alla falce e martello spettasse la guida di un ramo del Parlamento, a scopo di legittimazione democratica. Pertini, che negli otto anni aveva avuto esclusivamente consensi per aver retto la carica alla grande, mai guardando in faccia a nessuno se occorreva far osservare le regole, abbozzò: salutò il nuovo presidente, Pietro Ingrao, e non accese polemiche, per quanto non gli mancassero le ragioni.Il salto al Quirinale, due anni più tardi, fu casuale. Leone era stato costretto a dimettersi su pressioni del Pci, che era nella maggioranza e contava. Ma non esisteva un’alternativa accettabile a tutti i partiti della famosa ammucchiata, eufemisticamente definita “solidarietà nazionale”. Ogni candidato si bruciava in tre minuti. Inutile, trascorsero 10 giorni; quindici scrutini vani. Il paese non ne poteva più. Ci fu del panico nelle segreterie della Dc, del Psi e dello stesso Pci: che figura facciamo? Craxi tirò fuori dal cilindro la vecchia bandiera: Pertini. Sul quale – al punto in cui si era – piovvero i voti del cosiddetto arco costituzionale al completo. Alla gente il vecchio fu subito simpatico: immaginiamo che le ispirasse tenerezza, almeno all’inizio; poi venne la venerazione. Fu una conquista lenta e graduale, la sua; il pubblico cominciò ad apprezzare. E ora lo rimpiangiamo.(Vittorio Feltri, ritratto di Sandro Petrini pubblicato su “Libero” il 9 ottobre 2019).Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.
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Il “nuovo” Draghi spaventa i mostri del rigore eurocratico
Chi ha paura del “nuovo” Mario Draghi, che – insieme a Christine Lagarde – auspica una governance monetaria che sia l’esatto contrario di quella esibita finora, alla guida della Bce? Dopo gli attacchi arrivati da banche e assicurazioni tedesche, segnala il “Fatto Quotidiano”, la politica di Draghi finisce nel mirino della vecchia guardia dell’Eurotower. «Da ex banchieri centrali e cittadini europei assistiamo con crescente preoccupazione all’attuale modalità di crisi della Bce», si legge nel documento di due pagine firmato tra gli altri dall’ex capo economista della Bce, Juergen Stark. Il sospetto è che il nuovo quantitative easing, cioè il piano di acquisto di titoli di Stato, possa nascondere l’obiettivo di «proteggere i paesi altamente indebitati da un rialzo dei tassi di interesse». Inoltre, secondo gli ex banchieri centrali, i tassi di interesse bassissimi creano effetti redistributivi «a favore dei proprietari di asset immobiliari», che genererebbero «serie tensioni sociali», mentre «le giovani generazioni si vedono private dell’opportunità di provvedere alla vecchiaia con investimenti sicuri che rendano».Il documento è firmato anche da Herve Hannoun, ex vice governatore della Banque de France, dall’ex componente del comitato esecutivo della Bce Otmar Issing, dall’ex governatore della banca centrale austriaca Klaus Liebscher, dall’ex presidente della Bundesbank Helmut Schlesinger e dall’ex governatore della banca centrale olandese Nout Wellink. Le valutazioni sono state condivise anche dall’ex governatore francese Jacques de Larosiere. Il tono del documento è inequivocabile: «L’acquisto protratto di titoli da parte della Bce difficilmente produrrà un effetto positivo sulla crescita». Parole che sembrano comiche, se si tiene conto che a pronuciarle sono proprio gli ingegneri europei della non-crescita deliberata. Uomini come Issing, che – prima ancora dello stesso Draghi – hanno teorizzato apertamente la disciplina del massino rigore nei conti pubblici, condannando in tal modo i paesi Ue alla sofferenza economica. E infatti, ecco il punto: «Da un punto di vista economico, la Bce è già entrata nel territorio del finanziamento monetario della spesa dei governi, che è strettamente proibita dai Trattati», cioè gli accordi-sciagura su cui è stata costruita la stessa Eurozona.Due giorni prima, ricorda sempre il “Fatto”, Draghi era stato attaccato dal capo della più grande compagnia assicurativa europea, Oliver Baete della tedesca Allianz, che in un’intervista al “Financial Times” ha sostenuto che il banchiere centrale europeo non sarebbe indipendente dai governi. «La ragione per la quale non stiamo facendo riforme fiscali è perché tu stai rendendo facile per la gente spendere soldi che non ha», ha detto l’amministratore delegato di Allianz. «Mi dispiace. Invero abbiamo creato banche centrali indipendenti affinché questo non succedesse, affinché le banche centrali non stampassero denaro. La gente dice che Draghi è indipendente. No, non lo è», ha sostenuto. Getta la maschera, il potere finanziario eurocratico: voleva una Bce arcigna e non disponibile a garantire lo svilippo dell’economia reale con gli eurobond? Draghi ha eseguito gli ordini, per anni. Solo ora, lasciando l’incarico, evoca scenari di segno opposto. E questo, a quanto pare, basta a scatenare il panico tra i signori dell’austerity, quelli che hanno letteralmente sabotato proprio quelle “giovani generazioni” che fingono di tutelare.Chi ha paura del “nuovo” Mario Draghi, che – insieme a Christine Lagarde – auspica una governance monetaria che sia l’esatto contrario di quella esibita finora, alla guida della Bce? Dopo gli attacchi arrivati da banche e assicurazioni tedesche, segnala il “Fatto Quotidiano”, la politica di Draghi finisce nel mirino della vecchia guardia dell’Eurotower. «Da ex banchieri centrali e cittadini europei assistiamo con crescente preoccupazione all’attuale modalità di crisi della Bce», si legge nel documento di due pagine firmato tra gli altri dall’ex capo economista della Bce, Juergen Stark. Il sospetto è che il nuovo quantitative easing, cioè il piano di acquisto di titoli di Stato, possa nascondere l’obiettivo di «proteggere i paesi altamente indebitati da un rialzo dei tassi di interesse». Inoltre, secondo gli ex banchieri centrali, i tassi di interesse bassissimi creano effetti redistributivi «a favore dei proprietari di asset immobiliari», che genererebbero «serie tensioni sociali», mentre «le giovani generazioni si vedono private dell’opportunità di provvedere alla vecchiaia con investimenti sicuri che rendano».
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Pietro Ratto a Border Nights, nel nome di Julian Assange
«L’8 ottobre 1599, 420 anni fa, Giordano Bruno riceveva l’ultimatum definitivo dell’Inquisizione». Entro quaranta giorni gli si intimava di abiurare. «Un ultimatum che cadeva nel nulla: Bruno, infatti, non ritrattò. E il 17 novembre, alla scadenza del tempo concessogli, i suoi giudici dovettero ufficialmente prendere atto dell’irremovibilità del filosofo rispetto alle sue stesse idee». Esattamente tre mesi dopo, il 17 febbraio 1600, Giordano Bruno veniva quindi bruciato sul rogo, a Roma. «Ho scelto quella data così simbolica, l’8 ottobre, per far sentire la mia, la nostra solidarietà, a Julian Assange. Per fargli sapere che non è solo. Che siamo contrari alle torture psicologiche e ai soprusi a cui, da troppo tempo, è sottoposto». Così parla lo storico Pietro Ratto, autore di saggi di grande successo come quelli sulle dinastie finanziarie Rothschild, Warburg e Rockefeller. Tra gli interessi di Ratto, anche la storia antica: da quella (negata dalla storiografia vaticana) della Papessa Giovanna, unico pontefice donna, all’atroce fine di Jan Hus, il teologo boemo bruciato sul rogo a tradimento, a Costanza, nel 1415.Una pagina vergognosa, che Ratto ha ricordato nella “copertina” che da quest’anno conduce a “Border Nights”, la trasmissione web-radio condotta da Fabio Frabetti il martedì sera. La storia è nota soprattutto ai praghesi, che al coraggioso predicatore “francescano” hanno dedicato un monumento nella stupenda piazza nel cuore del centro storico della città. Hus fu condotto a Costanza col pretesto di discutere le sue tesi, nella riununione conciliare che finì per assolvere «un Papa criminale come il primo Giovanni XXIII, poi declassato al rango di antipapa». Il cardinale Baldassarre Cossa era infatti accusato di orribili reati, tra cui la pedofilia e l’omicidio, ma fu condannato solo per simonia. Al contrario, Hus fu bruciato vivo. «I testimoni si commossero – ricorda Ratto – perché la vittima, finché ebbe vita, non cessò di cantare lodi al Signore». Da quella data fatidica – l’8 ottobre – Ratto prende spunto per sostenere Julian Assange, il giornalista australiano fondatore di Wikileaks arrestato a Londra lo scorso 11 aprile, dopo la revoca dello status di rifugiato politico inizialmente concessagli dall’Ecuador, nella cui ambasciata londinese era rimasto rinchiuso per quasi otto anni. Quello che non si perdona ad Assange è l’aver rivelato corruzione, stragi e abusi di potere, a ogni livello, pubblicando documenti riservati di intelligence che imbarazzano gli Usa e i loro alleati.Pietro Ratto lancia anche un logo, in segno di solidarietà per Assange: «Chiedo dunque a tutti, d’ora in poi, di diffondere questa idea. Chiedo a persone, enti, associazioni, giornali, editori, di aderire a questa iniziativa: l’8 ottobre, sulla mia pagina Facebook, sulle vostre e ovunque ci sarà permesso, inseriremo scritti, video, lettere, riflessioni, documenti, per farci sentire. Tutti insieme». Ratto si impegna a inserire contenuti sul tema anche suo canale YouTube: «Cercherò, nel mio piccolo, di diffondere voglia di giustizia e di libertà», sottolinea. «Da adesso in poi, la strada è aperta. Se ce la sbarrano – annuncia – ce la riapriremo da soli». Sicuramente, uno spazio particolare è quello offerto da “Border Nights”, originale proposta di informazione indipendente che ora si arricchisce anche della voce di Ratto, tra quelle che popolano il palinsesto settimanale. Per esempio il giornalista Tom Bosco, esperto in X-Files e verità sottaciute anche in materia di Ufo. O una colonna come l’avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dei peggiori misteri italiani come quello del Mostro di Firenze, rileggendoli analizzando il loro profilo simbolico-esoterico.Voce ostinatamente libera, “Border Nights” ospita interlocutori sempre interessanti, nel campo dei “saperi di confine” (l’8 ottobre 2019 è atteso Corrado Malanga, studioso del fenomeno delle “abductions”). In più, l’offerta – a partire dall’appuntamento settimanale del martedì sera – si è progressivamente ampliata, con i web-streaming su YouTube a cadenza fissa, sempre aperti alle domande poste in diretta dagli ascoltatori. Si tratta di una platea di non meno di 25.000 persone, che ormai considerano irrinunciabile l’ascolto degli esperti proposti da Frabetti, a partire da Massimo Mazzucco il sabato mattina e da Gianfranco Carpeoro la domenica. Attualità politica e retroscena, 11 Settembre, sbarco sulla Luna. Da mesi, il carnet si è arricchito con Gioele Magaldi, che il lunedì mattina fornisce informazioni esclusive sul potere italiano e mondiale. New entry, l’appuntamento del venerdì con Franceschetti dedicato a un’originale reinterpretazione della “scienza astrologica”. Una scuderia nella quale ora entra a far parte anche Ratto, che insiste sull’8 ottobre con un’idea precisa: la suggestiva analogia tra due grandi eretici del loro tempo, Giordano Bruno e Julian Assange, entrambi ingiustamente perseguitati.«L’8 ottobre 1599, 420 anni fa, Giordano Bruno riceveva l’ultimatum definitivo dell’Inquisizione». Entro quaranta giorni gli si intimava di abiurare. «Un ultimatum che cadeva nel nulla: Bruno, infatti, non ritrattò. E il 17 novembre, alla scadenza del tempo concessogli, i suoi giudici dovettero ufficialmente prendere atto dell’irremovibilità del filosofo rispetto alle sue stesse idee». Esattamente tre mesi dopo, il 17 febbraio 1600, Giordano Bruno veniva quindi bruciato sul rogo, a Roma. «Ho scelto quella data così simbolica, l’8 ottobre, per far sentire la mia, la nostra solidarietà, a Julian Assange. Per fargli sapere che non è solo. Che siamo contrari alle torture psicologiche e ai soprusi a cui, da troppo tempo, è sottoposto». Così parla lo storico Pietro Ratto, autore di saggi di grande successo come quelli sulle dinastie finanziarie Rothschild, Warburg e Rockefeller. Tra gli interessi di Ratto, anche la storia antica: da quella (negata dalla storiografia vaticana) della Papessa Giovanna, unico pontefice donna, all’atroce fine di Jan Hus, il teologo boemo bruciato sul rogo a tradimento, a Costanza, nel 1415.
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Travaglio: giusto scavare su Berlusconi, mafia e terrorismo
Com’era prevedibile soprattutto da lui, il violento attacco di Renzi alla Procura di Firenze che indaga sull’ipotesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi del ‘92-93 ha scavalcato Salvini, Meloni e i vertici di Forza Italia (molto più prudenti) e suscitato l’entusiasmo del “Giornale” di Sallusti, oltre che le congratulazioni di molti “garantisti” dell’area Pd. Marco Travaglio, sul “Fatto”, spiega perché non sarebbe affatto “assurda” l’iniziativa degli inquirenti toscani contro il Cavaliere. «Forse, a distanza di 26-27 anni», afferma Travaglio, l’ipotesi investigativa «non troverà prove sufficienti per sfociare in un processo». Eppure, alla luce dei fatti accertati, è «pienamente logica, plausibile e coerente» con la storia del rapporto tra Cosa Nostra e la politica berlusconiana. La premessa del direttore del “Fatto” è semplice: crollata la Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite, sia la mafia che il patron di Mediaset vedevano crollare i loro tradizionali partiti di rifemento: «E’ così assurdo pensare che concordassero sull’urgenza di farne uno nuovo che li garantisse entrambi?». D’accordo, ma che c’entra Berlusconi con la mafia? Nella sentenza che lo condanna in via definitiva, la magistratura afferma che Marcello Dell’Utri, dal 1974 al 1992, era stato il «mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa Nostra».Patto? Secondo altri analisti, è possibile che Berlusconi si sia visto costretto a fronteggiare le cosche, dalle quali era stato pesantesente minacciato in senso estorsivo. All’inizio del ‘93, scrive invece Travaglio, i boss mafiosi Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella progettarono il partito autonomista “Sicilia Libera”, per poi scioglierlo a fine anno «per fare campagna elettorale alla neonata Forza Italia». Nel novembre di quell’anno, le agende di Dell’Utri registrano due incontri con Vittorio Mangano, uscito di galera 19 anni dopo l’ingaggio come “fattore” ad Arcore. «Di che parlavano i due? Del partito che Dell’Utri stava creando o – come giura lui – dei problemi di salute di Mangano?». Il 19-20 gennaio del ’94, Giuseppe Graviano, è a Roma: il boss di Brancaccio convoca il suo killer di fiducia, Gaspare Spatuzza (già autore materiale delle bombe in via D’Amelio, via dei Georgofili, via Palestro e alle due basiliche romane) al Bar Doney di via Veneto. Il bar, osserva il direttore del “Fatto”, è proprio «di fronte all’hotel Majestic, dove all’epoca soggiorna Dell’Utri per selezionare i candidati di Forza Italia». Lì – racconterà Spatuzza – il boss gli confida che Berlusconi e Dell’Utri «ci stanno mettendo l’Italia nelle mani», ma occorre il «colpo di grazia», ovvero: l’attentato all’Olimpico di Roma.Perché Spatuzza, pentito sempre puntualmente “riscontrato” a partire dalla confessione su via D’Amelio che spazzò via i depistaggi, dovrebbe inventarsi proprio quella frase? Il 23 gennaio, a due mesi dalle elezioni anticipate – continua Travaglio – Cosa Nostra tenta ma fallisce l’attentato all’Olimpico. «La strage è rinviata a una domenica successiva. Ma il 26 gennaio, col famoso videomessaggio, B. “scende in campo”. Il 27 i fratelli Graviano vengono arrestati a Milano (dove hanno procurato un lavoro a un loro favoreggiatore che deve seguire il figlio calciatore, dopo un provino nei pulcini del Milan ottenuto grazie all’interessamento di Dell’Utri). Cosa Nostra annulla la strage allo stadio e depone le armi: i boss sparavano da due anni a casaccio, o erano un po’ stanchini, o non volevano disturbare il partito amico?». Vinte le elezioni del ‘94 Berlusconi va al governo «e vara subito il decreto Biondi, con tre norme pro mafia, anticipate da Dell’Utri a Mangano nei loro incontri nella villa di Como», scrive Travaglio. Intanto, anche da premier e dopo tutte le stragi, Berlusconi «continua a pagare 250 milioni di lire ogni sei mesi a Cosa Nostra». Si domanda il direttore del “Fatto”: «La pax mafiosa sta dando i primi frutti, o anche queste sono coincidenze?».Nel 1996 il boss Salvatore Cancemi, già membro della Commissione di Cosa Nostra e ora pentito (il più alto in grado della storia d’Italia), parla di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi. «Lo seguiranno decine di altri collaboratori di giustizia», scrive Travaglio. «Ma, anche fingendo che non esistano, c’è il boss irriducibile Giuseppe Graviano che, intercettato in carcere nel 2016-2017, racconta le stragi al compagno d’ora d’aria come di “una cortesia” chiesta da “Berlusca”». A quanto pare, Cancemi freme d’ira contro Berlusconi perché 25 anni prima, dice, «mi sono seduto con te, mangiato e bevuto», «ti ho portato benessere», e ti invece «hai fatto il traditore», «mi hai pugnalato», «mi stai facendo morire in galera». Conclude Travaglio: perché mai, parlando delle stragi, Cancemi dovrebbe tirare in ballo Berlusconi e infuriarsi per il presunto tradimento, al punto di progettare un ricatto ai suoi danni? «Si annoiava? Voleva divertirsi?». O davvero, invece, Berlusconi e Dell’Utri «nel ‘93-94 gli avevano chiesto e promesso qualcosa?». Per questo, Travaglio invita «Renzi e gli altri mafiologi della mutua» a fornire «la loro versione dei fatti», visto che l’iniziativa giudiziaria su Berlusconi li scandalizza tanto.Com’era prevedibile soprattutto da lui, il violento attacco di Renzi alla Procura di Firenze che indaga sull’ipotesi di Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi del ‘92-93 ha scavalcato Salvini, Meloni e i vertici di Forza Italia (molto più prudenti) e suscitato l’entusiasmo del “Giornale” di Sallusti, oltre che le congratulazioni di molti “garantisti” dell’area Pd. Marco Travaglio, sul “Fatto”, spiega perché non sarebbe affatto “assurda” l’iniziativa degli inquirenti toscani contro il Cavaliere. «Forse, a distanza di 26-27 anni», afferma Travaglio, l’ipotesi investigativa «non troverà prove sufficienti per sfociare in un processo». Eppure, alla luce dei fatti accertati, è «pienamente logica, plausibile e coerente» con la storia del rapporto tra Cosa Nostra e la politica berlusconiana. La premessa del direttore del “Fatto” è semplice: crollata la Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite, sia la mafia che il patron di Mediaset vedevano crollare i loro tradizionali partiti di riferimento: «E’ così assurdo pensare che concordassero sull’urgenza di farne uno nuovo che li garantisse entrambi?». D’accordo, ma che c’entra Berlusconi con la mafia? Nella sentenza che lo condanna in via definitiva, la magistratura afferma che Marcello Dell’Utri, dal 1974 al 1992, era stato il «mediatore del patto tra Berlusconi e Cosa Nostra».
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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Carpeoro: Fusaro (oscurato da Fb) mi ricorda Franco Freda
«Facebook ha commesso l’ennesimo abuso, chiudendo anche le pagine del neonato movimento Vox Italia guidato da Diego Fusaro, le cui idee peraltro mi ricordano sinistramente quelle di Franco Freda». E’ una vera e propria bomba quella che Gianfranco Carpeoro sgancia sul giovane filosofo torinese, leader mediatico della nuovissima formazione “sovranista”. Vox Italia è stata battezzata ufficialmente il 14 settembre all’Hotel Quirinale di Roma alla presenza – fra gli altri – dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «A proposito: da Galloni mi aspetto un chiarimento – aggiunge Carpeoro – visto che è stato inserito nel comitato di presidenza della nuova formazione: per il Movimento Roosevelt non è un problema, ma Nino è anche fondatore del progetto del Psai, “Partito che serve all’Italia”, che invece esclude che si possa essere iscritti ad altri partiti». E poi: che c’entra, Galloni, col “rossobrunismo” di Fusaro e soci, che si ispirano al tradizionalismo del russo Alexandr Dugin, considerato l’ideologo del conservatore Putin? Fusaro riesce a mettere insieme il comunista Gramsci e il fascista Gentile, in linea con il “fasciocomunismo” del suo maestro, Costanzo Preve. E Franco Freda, citato da Carpeoro? Si è definito “nazi-maoista”, per le sue teorie a metà strada tra nazismo e maoismo.Decisamemte ardito, il parallelismo tra Fusaro – brillante intellettuale-contro, spesso coccolato dai media mainstraim – e il neofascista Freda, condannato per gli attentati dinamitardi del 1969 e indagato per la strage di piazza Fontana insieme al terrorista Giovanni Ventura e al giornalista Guido Giannettini, agente dei servizi segreti e militante dell’estrema destra negli anni di piombo. Cosa accomunerebbe l’editore Freda, fondatore di Ordine Nuovo, all’antagonista salottiero Fusaro? Forse, par di capire – ascoltando la diretta web-streaming del 22 settembre su YouTube – l’avvocato milanese, nonché saggista e massone progressista, allude al pericolo cui Fusaro potrebbe esporsi: un certo estremismo ideologico, in Italia, è stato puntualmente manipolato dai poteri che orchestrano la sovragestione del consenso, in altri tempi anche alimentando le nebulose ideologiche da cui, nel peggiore dei casi, scaturì anche il terrorismo, spesso controllatro dai servizi deviati. In video-chat con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro sembra domandarsi a chi possa essere utile, davvero, il “socialismo nazionale sovranista” agitato da Fusaro, messo in campo formalmente – con Vox Italia – dopo l’uscita di Salvini dal governo.Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, Fusaro è solo uno specchietto per allodole: comodo perché innocuo, come il suo intellettualismo presentato dai media come stravagante e quasi divertente, perfetto per mettere in burletta il tema, serissimo, della perdita di sovranità democratica imposta dall’euro-sistema. Carpeoro invece non esita a scomodare il fantasma di Freda, autore della collana editoriale Ar, che Wikipedia definisce “di ispirazione neofascista, tradizionalista e neonazista”. Strano, poi, che Facebook abbia chiuso le pagine di Vox Italia, poco dopo aver cancellato quelle di CasaPound: un movimento, quello neofascista Simone Di Stefano, che secondo il socialista Carpeoro, «pur essendo politicamente impalpabile, quanto a consistenza numerica, è stato regolarmente strumentalizzato, a prescindere dalle iniziative sociali anche valide che porta avanti». Probabilmente, aggiunge l’avvocato, il quadro si fa meno misterioso se si collega il network di Zuckerberg agli ambienti dell’intelligence. «Quella del giovane fenomeno che si è fatto da sé grazie a un’idea geniale è solo una leggenda», ricorda Carpeoro: «Facebook è una creazione della Cia, spiazzata di fronte all’opinione pubblica americana traumatizzata dall’11 Settembre».Di fronte alla necessità di schedare milioni di americani, il servizio di sicurezza partorì l’escamotage: fare in modo che fossero i cittadini stessi ad auto-schedarsi, con tanto di foto e “amici”. E’ un fatto: Zuckerberg, il manovale dell’operazione, ricevette 30 milioni di dollari da una consociata della holding Cia. «Ci sono passato anch’io, in questa commistione tra Facebook e i servizi segreti», racconta Carpeoro, che nel 2010 si vide chiudere la sua pagina col pretesto di una vignetta sul Papa. Chiese di riavere almeno i contenuti pubblicati, ma glielo negarono: scoprì a sue spese, allora, che il social network è l’unico proprietario dei testi, delle foro e dei video presenti nelle pagine personali. «Denunciai la cosa alla Procura di Milano, ma – scaduti i sei mesi di rito – scoprii che della mia denuncia non c’era giù traccia: era stata fatta sparire». L’avvocato racconta di aver ricevuto ben tre visite, da parte dei servizi italiani: «Mi fecero capire che processare Facebook “non era cosa”». Lui passò al contrattacco: «Come farete – disse – a far sparire 365 denunce, se sporgessi una querela al giorno in tutte le sedi giudiziarie italiane?». Alla fine, ricorda, gli proposero un accordo: avrebbe avuto una nuova pagina, nella quale gli sarebbero stati restituiti tutti i contenuti sottratti. «Accettai, anche se non è giusto».«C’è qualcosa di non democratico, in tutto questo, di non perfettamente legale», ribadisce Carpeoro. In altre parole, «lo Stato protegge precise aree di illegalità, perché fanno comodo al potere». La riprova? «Per aprire il suo locale, il pizzaiolo sotto casa deve firmare scartoffie per sei mesi e poi riceverà la visita della Guardia di Finanza. E invece Amazon, Google e affini aprono mega-servizi dalla sera alla mattina, facendo milioni a palate, e poi non pagano neppure le tasse in Italia». Come se ne esce? «Pretendendo il rispetto della piena legalità». Esempio: «Va bene sgomberare la palazzina illegalmente occupata da CasaPound a Roma, ma perché tollerare che i centri sociali di Milano continuino a occupare analogamente i loro spazi, cioè senza pagare affitto e bollette?». Di fronte al bavaglio imposto da Fecebook, in ogni caso, Carpeoro difende sia CasaPound che Vox Italia: «E’ vero che Facebook è un’azienda privata, ma lo spazio che usa – il web – è pubblico. Ed è ora che questo spazio venga legalmente regolamentato, mettendo fine a questa vergogna».«Facebook ha commesso l’ennesimo abuso, chiudendo anche le pagine del neonato movimento Vox Italia guidato da Diego Fusaro, le cui idee peraltro mi ricordano sinistramente quelle di Franco Freda». E’ una vera e propria bomba quella che Gianfranco Carpeoro sgancia sul giovane filosofo torinese, leader mediatico della nuovissima formazione “sovranista”. Vox Italia è stata battezzata ufficialmente il 14 settembre all’Hotel Quirinale di Roma alla presenza – fra gli altri – dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «A proposito: da Galloni mi aspetto un chiarimento – aggiunge Carpeoro – visto che è stato inserito nel comitato di presidenza della nuova formazione: per il Movimento Roosevelt non è un problema, ma Nino è anche fondatore del progetto del Psai, “Partito che serve all’Italia”, che invece esclude che si possa essere iscritti ad altri partiti». E poi: che c’entra, Galloni, col “rossobrunismo” di Fusaro e soci, che si ispirano al tradizionalismo del russo Alexandr Dugin, considerato l’ideologo del conservatore Putin? Fusaro riesce a mettere insieme il comunista Gramsci e il fascista Gentile, in linea con il “fasciocomunismo” del suo maestro, Costanzo Preve. E Franco Freda, citato da Carpeoro? Si è definito “nazi-maoista”, per le sue teorie a metà strada tra nazismo e maoismo.
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De Magistris, giustizia militante: un politico del medioevo
L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».Da Rold polemizza col nostro sistema giudiziario: i Pm: sono rimasti gli ultimi, negli ordinamenti democratici occidentali, a essere ancora parificati ai giudici. E in più «si rifiutano di seguire la grande separazione di tutti i poteri che, sin dal Settecento, si teorizzava anche nella distinzione tra giudice e pubblica accusa». È vero che va di moda Jean-Jacques Rousseau, il filosofo radicale “adottato” da Casaleggio, «ma Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, appunto noto come Montesquieu, precisava con forza che se il giudice facesse lo stesso mestiere del pubblico accusatore sarebbe un abuso». La prova del nove? «Le democrazie di quasi tutto il mondo seguono Montesquieu». Famosi nemici della separazione tra magistratura inquirente e giudicante, due personaggi non proprio democratici: il leader fascista Dino Grandi e il dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, «anche lui appassionato dell’unicità di vedute tra accusa e chi formula il giudizio». I tempi cambiano, ma non per tutti: «Ora anche il Portogallo ci ha ripensato; l’Italia invece difende combattiva la non-separazione».Tornando alla cronaca: la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Salerno che dichiarava prescritti i reati contestati all’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, e all’avvocato generale Dolcino Favi, che avevano avocato i fascicoli sottraendoli all’attuale sindaco di Napoli. Resta dunque valida la sentenza di primo grado del tribunale di Salerno, che aveva assolto i due magistrati di Catanzaro. E l’assoluzione riguarda anche l’ex senatore e avvocato Giancarlo Pittelli, il procuratore Mariano Lombardi (nel frattempo deceduto) e l’imprenditore Antonio Saladino, assolti «per insussistenza del fatto, così come avvenuto in primo grado». A parole, de Magistris (due volte sconfitto) non si arrende: «Continuerà probabilmente a parlare di complotti», avverte Da Rold. «Ma tutta la sua vicenda – aggiunge – è degna di un libro (che infatti è in gestazione) per dimostrare lo strapotere, o forse l’unico potere forte, che è rimasto oggi in Italia: quello della magistratura, gestita principalmente – per un lungo periodo – proprio dai Pm alla de Magistris».Per rendersi conto di quanto capitato, continua Da Rold, vale la pena di vedere quale autogol de Magistris ha fatto in Cassazione e leggere la dichiarazione rilasciata dall’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Murone: «La Cassazione ha finalmente e definitivamente chiuso a mio favore la vicenda “Why not”. Tutte le mistificazioni, le bugie, le cattiverie sono finite. L’assoluzione di primo grado è stata ribadita, a dimostrazione che le vicende successe al signor de Magistris non sono il frutto di congiure e complotti, di poteri forti a livelli superiori, ma solo il suo modo di fare il pubblico ministero, già stigmatizzato dai provvedimenti di carriera che lo hanno colpito, portandolo fuori dalla magistratura». Insomma: per Da Rold, «Luigi de Magistris, tonitruante sindaco di Napoli, non rispettava neppure le regole della pubblica accusa su un impianto procedurale discutibile, come più volte hanno ricordato tanti uomini politici». Marco Pannella fece addirittura della battaglia per la separazione delle carriere una missione della sua vita e portò Enzo Tortora al Parlamento Europeo. «Ma la vocazione inquisitoria della tradizione italiana resiste», anche se «tutti sanno quanto è causa di autentici drammi umani».“Why not” è durata dodici anni. L’imprenditore Tonino Saladino ha visto sua moglie ammalarsi e i suoi figli storditi dalla sua vicenda umana, annota Da Rold. «Ogni tanto si ricorda sbigottito e sgomento il 12 marzo 2007, quando alle sette di mattina gli piombarono in casa i carabinieri per un’ispezione alla ricerca di carte che neppure sapevano che cosa fossero o rappresentassero». Tutta quella storia di “Why not” fu «uno scontro durissimo che coinvolse il governo dell’epoca, quello di Romano Prodi, che alla fine andò in crisi», travolgendo il ministro della giustizia, Clemente Mastella, e sua moglie. «Per placare le acque all’interno della magistratura e nel perenne scontro tra magistratura e politica dovette intervenire nel 2008 anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano». Non era una novità, in quegli anni della già affermata Seconda Repubblica: l’Italia, ricorda Da Rold, era un paese «destabilizzato da svendite di grandi aziende pubbliche, da una cronica mancanza di crescita e da una confusione demenziale della classe dirigente, politica e imprenditoriale», con i magistrati inquirenti spessissimo sopra le righe.Una fenomenologia cominciata in realtà nel 1992, quando la magistratura italiana, «risvegliatasi dal suo torpore, aveva “scoperto” le tangenti politiche, che esistevano dal 1946». Senza contare i circa 1.000 miliardi di lire (secondo Stéphane Courtois) che affluivano al Pci dall’Urss, «potenza ufficialmente nemica». E tutto poi «amnistiato, naturalmente». In fondo, continua Da Rold, la vicenda di “Why not” era il seguito inevitabile delle apparizioni televisive, in gruppo, del pool Mani Pulite: giornate scandite dalle “sensazionali rivelazioni” che qualche talpa del Palagiustizia passava sottobanco ai giornali. «È stata una lunga cavalcata non molto edificante, con alla fine un Francesco Saverio Borrelli che confessa i suoi dubbi a Marco Damilano; con la sempre cacofonica parlata giurisprudenziale italiana del “grande manettaro” Antonio Di Pietro; con la visione del “geniale” Pier Camillo Davigo che pensa di trovarsi di fronte a 60 milioni di italiani potenzialmente colpevoli, che naturalmente devono giustificare la loro condotta». Per non parlare della battaglia delle “correnti” all’interno della magistratura, fino alla pagina nera del Csm con il clamoroso “caso Palamara”, l’inciucio col Pd, di cui si cerca di parlare il meno possibile, sui media.Teoricamante il nostro è uno Stato di diritto, eppure «la giustizia segue tempi scoraggianti, dove gli aspetti inquisitori sono sempre prevalenti». E il peggio è, scrive Da Rold, che non si ha il coraggio di riconoscere che in Italia «questa amministrazione giudiziaria è gestita da una casta feudale, dove le procure rappresentano i feudi superstiti o dei nuovi feudi, che ogni tanto si fanno pure la guerra l’uno contro l’altro, spesso in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale o secondo interpretazioni delle norme che farebbero inorridire un filosofo del diritto come Hans Kelsen». Ogni speranza di riforma finisce per naufragare, grazie anche alle “intemerate” del fedelissimo Marco Travaglio, «che spesso anticipa i tempi persino delle sentenze». Buio pesto anche dal ministro Alfonso Bonafede, devoto a Giuseppe Conte, «quindi un visconte per tradizione feudale».«E pensare che la riforma della giustizia, in agenda del nuovissimo governo, ora che i grillini sono diventati europeisti con Ursula von der Leyen, dovrebbe rispettare, o almeno tenere in considerazione, la risoluzione numero 112/97 approvata dal Parlamento Europeo il 4 luglio 1997», chiosa Da Rold. In questo si dice: «È anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati – i cosiddetti “examining magistrates” – e quella del giudice, al fine di assicurare un processo giusto». Sentenze autorevolmente emesse, al termine di processi in cui si condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ha voglia di scherzare, Da Rold: «Perché non si organizza su questo tema un bel convegno tra de Magistris, Davigo, Di Pietro e Travaglio come moderatore?». In questo caso, aggiunge, «lo spettacolo sarebbe assicurato, e poi si potrebbe emigrare tranquillamente».L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».
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Grillo decisivo: dalla “rivoluzione” alla palude giallorossa
Vuoi vedere che c’è un nesso tra il voltafaccia di Grillo, improvvisamente innamoratosi del “partito di Bibbiano e della Boschi”, e le indagini su suo figlio Ciro, indiziato per stupro, emerse solo dopo l’accordo per il Conte-bis anche se i fatti risalirebbero a luglio? L’ipotesi è maliziosamente ventilata su “Micidial” da Massimo Bordin, vicino all’elettorato dei 5 Stelle: chi votò Di Maio nel 2018 lo fece «perché contrario alla politica del governo precedente, guidato da un partito – il Pd – a torto o a ragione considerato la quintessenza del “sistema”». Come accettare che ora il M5S vada a braccetto con Renzi? Voltagabbana, d’accordo: ma non è che li hanno minacciati? Suona perlomeno sospetto, sostiene Bordin, il perfetto sicronismo tra le rotture simmetriche di Salvini e Grillo per staccare la spina al governo gialloverde. Alla richiesta di Salvini (elezioni anticipate), Grillo ha risposto a stretto giro di posta, sdoganando improvvisamente il Pd. Ma a parte le dietrologie di Bordin, dichiaratamente sopra le righe («questo pezzo è ironico e vietato ai cretini: dunque non leggetelo, se non avete senso dell’umorismo») c’è chi pensa che il M5S non sia mai stato altro, fin dall’inizio, che un semplice contenitore di dissenso, per dirottare la rabbia popolare verso esiti innocui. Solo gatekeeping per elettori ingenui? Non la pensa così Gioele Magaldi: senza i 5 Stelle, dice, la politica italiana sarebbe ancora congelata nel vecchio freezer.Eminente dietrologo, autore del saggio “Massoni” in cui smaschera i maggiori protagonisti della politica italiana rivelandone l’identità supermassonica (l’affiliazione alle superlogge internazionali), Magaldi inforca gli occhiali della politologia per rivendicare giustizia per i 5 Stelle: solo la “discesa in campo” di Grillo – sostiene, in video-chat su YouTube – ha reso fluido il panorama politico italiano, prima ingessato nel finto scontro tra centrodestra e centrosinistra. Due forze che hanno paralizzato per decenni qualsiasi riforma progressista, sottoponendo entrambe il paese alla ricetta imposta dal neoliberismo imperante, somministrato agli europei (sotto forma di austerity) attraverso la tecnocrazia di Bruxelles. Taglio dei deficit, aumento delle tasse, privatizzazioni e precarizzazione del lavoro. Vero obiettivo, fissato dall’élite neo-oligarchica della massoneria reazionaria: impedire allo Stato di continuare a produrre benessere diffuso. Il sociologo Luciano Gallino la chiamò “lotta di classe alla rovescia”, sintetizzando: è stata un’operazione storica, che ha drenato risorse dal basso verso l’alto, grazie alla finanziarizzazione globalizzata dell’economia che ha impoverito la classe media, erodendo i risparmi e costringendo i giovani alla disoccupazione o alla precarietà di lavoretti iper-flessibili e sottopagati. Risultato automatico: il boom dei grillini e ora della Lega.E’ stato proprio Grillo, ricorda Magaldi, a terremotare la palude italiana: senza di lui, staremmo ancora a parlare (in modo sempre più surreale) di destra e sinistra. Terminologie sepolte dalla storia e dall’attualità, oggi tornate in voga in modo abusivo: il nuovo ministro dell’economia Roberto Gualtieri, in quota alla componente teoricamente “di sinistra” del governo “giallorosso”, in realtà «viene dai bassi ranghi della cucina neoliberista e neoaristocratica europea», vale a dire «la destra economica più reazionaria». Non a caso, Gualtieri fu addirittura «applaudito da Christine Lagarde», la lady di ferro del Fmi che mise in ginocchio il popolo greco, costringenolo alla fame. Per contro, tra le fila della Lega spiccano gli unici economisti virtualmente “di sinistra” sulla scena politica, come i keynesiani Alberto Bagnai (Senato) e Antonio Maria Rinaldi (Parlamento Europeo). Meglio rottamarla, la dicotomia destra-sinistra, se serve solo a imbrogliare le carte. E il primo a farlo – ricorda sempre Magaldi – fu proprio Beppe Grillo, dieci anni fa, con il movimento creato insieme a Gianroberto Casaleggio. Lo stesso Magaldi, peraltro, non ha mai fatto sconti ai grillini, colpevoli di troppe confusionarie incongruenze e qualche imperdonabile ipocrisia. Per esempio, quella sulla massoneria: demonizzata in pubblico ma frequentata sottobanco.«Era massone, Gianroberto Casaleggio», dice Magaldi: «E fu lui stesso a dirmi che non intendeva rivelarlo». Il figlio, Davide, lo ha smentito a mezzo stampa: «Mio padre non è mai stato massone». Casaleggio junior, però, si è sottratto all’invito di Magaldi: «Partecipi con me a un incontro pubblico: gli spiegherò quando e come suo padre fu iniziato massone, e perché non voleva che si sapesse». Da Casaleggio a Di Maio, il passo è breve: «In modo ipocrita e anche incostituzionale, i 5 Stelle hanno vietato ufficialmente ai massoni l’accesso al Movimento e all’area gialloverde, pur sapendo che il primo governo Conte era imbottito di massoni, da Tria a Moavero, per non parlare dei sottosegretari». Primo: discriminare qualcuno per la sua appartenenza è contrario alla Costituzione. Secondo: era massone Meuccio Ruini, coordinatore della Costituente. «Niente di strano: se l’Italia fosse meno ipocrita, ammetterebbe che la stessa democrazia – libertà, diritti, suffragio universale – è una conquista storica della massoneria». Ma a parte i grembiulini, a sconcertare è stato il vuoto politico dei 5 Stelle. Ai tanti proclami non è mai seguito quasi nulla. In un solo anno, i grillini al governo hanno disatteso tutte le loro promesse: elettori traditi sull’obbligo vaccinale, sul Muos e gli F-35, sulle trivelle in Adriatico, sull’Ilva di Taranto, sul gasdotto Tap, e infine anche sul Tav Torino-Lione. Politica alternativa? Non pervenuta. Mai una parola chiara sul paradigma economico da adottare. Un caso?A proposito di gatekeeping: già nel 2016, Grillo tentò in modo tragicomico di traslocare il gruppo europarlamentare, lasciando l’Ukip populista di Farage per gli ultra-euristi dell’Alde. E questo, dopo aver agitato lo spettro di un referendum sull’euro. Almeno a parole, la Lega lo ha affrontato davvero, il problema-Bruxelles (i grillini, mai). Era stato Salvini, infatti, a candidare all’economia Paolo Savona: già ministro con Ciampi – e non a caso temuto da Draghi e Juncker – Savona avrebbe avuto l’autorevolezza necessaria a rinegoziare condizioni favorevoli all’Italia. Azzoppato sul nascere, il governo gialloverde si è ridotto alla misera elemosina del “reddito di cittadinanza” trasformato in un’amara beffa, mentre solo la Lega (con le pensioni facilitate da Quota 100) ha messo mano, davvero, all’economia delle famiglie. La Flat Tax? Sabotata con le dimissioni forzate del suo ideatore, Armando Siri, e poi insabbiata da Tria e da Conte insieme all’altro escamotage leghista per aggirare l’euro-rigore, cioè l’introduzione di moneta parallela (“minibiot”, crediti fiscali scambiabili). Dai grillini, nessuna vera battaglia. Ma peggio: i 5 Stelle hanno gatto harariki facendo eleggere la tedesca Ursula von der Leyen, candidata della Merkel, alla Commissione Europea: un ceffone plateale, rifilato a Salvini (e agli italiani).Checché ne pensi Bordin, che evoca il possibile giallo politico sul figlio di Grillo, non stupisce più di tanto il voltafaccia del Beppe nazionale, che ora ha costretto Di Maio a ingoiare Renzi e accettare Conte come nuovo “leader di fatto”, perfetto supplente per la smarrita scolaresca grillina, terrorizzata all’idea di perdere la poltrona in caso di elezioni anticipate. Nemmeno Salvini, peraltro, sarebbe sufficiente a cambiare le regole del gioco. A differenza della maggioranza degli osservatori, Magaldi sostiene comunque che il leader della Lega abbia scelto accuratamente di rompere, consapevole del fatto che, viceversa, sarebbe finito in trappola: la nuova finanziaria lo avrebbe costretto a deludere gli elettori, grazie all’azione frenante esercitata da Conte su ordine dei poteri eurocratici anche attraverso i consueti terminali italiani, dal Quirinale a Bankitalia. Ci si sono messi anche i giornali, che hanno gonfiato la barzelletta del Russiagate, polpetta avvelenata cucinata da servizi segreti (di quelli italiani la delega è rimasta a Conte, non al ministro dell’interno). Ma neppure i magistrati hanno scherzato: quelli siciliani hanno accusato Salvini di “sequestro di persona” per aver impedito lo sbarco di migranti (che in realtà erano liberi di andarsene altrove). E quelli di Genova hanno condannato la Lega a versare 49 milioni di euro allo Stato: il conto esorbitante di un ammanco presunto, solo teorico, calcolato in base ai rimborsi elettorali pluriennali, e non legato alla cifra contestata a Bossi (inferiore al milione di euro) quando Salvini era solo consigliere comunale a Milano. Messaggio chiarissimo: tagliare i fondi a un partito, impedendogli materialmente di fare politica, significa privare gli elettori di precisi diritti democratici. Evidente il fine: sbarazzarsi di Salvini, con ogni mezzo. Magari il più classico: la congiura di palazzo all’italiana, attingendo all’endemico trasformismo parlamentare, alla faccia degli elettori.Attenzione: Salvini non ha subito gli eventi. Secondo Magaldi, al contario, li ha calcolati con precisione e tempismo. Se ha tardato tanto a staccare la spina (Giorgetti premeva per la rottura già alle europee) è stato per lasciare pochissimo tempo all’inciucio, di fronte allo spettro dell’aumento dell’Iva nel caso saltasse la finanziaria: se avessero voluto davvero evitare le elezioni, o almeno un super-rimpasto (cacciando Conte e Tria) i “traditori” avrebbero dovuto ribaltare la loro posizione dalla sera alla mattina, di fronte agli italiani – come infatti è avvenuto. Risultato: lo sconcio è visibile dalla Luna. E questo pone Salvini (non vittima, ma regista dell’operazione) in una posizione privilegiata: potrà demolire ogni giorno gli eroi del Conte-bis, preparandosi all’incasso. Non senza prima “aver studiato”, aggiunge Magaldi: Salvini sa benissimo che la sua Lega – già profondamente migliorata, rispetto al Carroccio nordista di Bossi – non è ancora adeguata alla guida del paese. Per molti aspetti è assai meglio della concorrenza, ma non basta: occorre crescere ancora in senso keynesiano, per sfidare la Disunione Europea – non con l’arma spuntata del sovranismo, opportunistico e miope, ma chiedendo a Bruxelles una Costituzione democratica capace di restituire vera sovranità ai cittadini europei.Senza riscrivere i trattati non si va da nessuna parte: il Conte di turno non potrà che replicare gli inchini di Letta, Renzi e Gentiloni, sperando solo nelle briciole (come quelle che ora probabilmente saranno elargite, assolutamente insufficienti a rilanciare l’economia italiana). Primo passo: chiedere di stralciare dal bilancio le misure salva-Italia. E cioè: taglio del cuneo fiscale per le aziende, abbattimento delle tasse per tutti, investimenti produttivi e rigenerazione delle infrastrutture strategiche. Temi su cui insiste il Movimento Roosevelt presieduto da Magaldi, tra i padri del cantiere politico del “Partito che serve all’Italia”. Obiettivo: rianimare la prospettiva progressista, resuscitando la democrazia sostanziale. «Non serve creare l’ennesimo partitino autoreferenziale», chiarisce Magaldi: occorre un partito di massa, capace di cavalcare «le praterie che si sono aperte». Alle europee un elettore su tre ha votato Lega, ma quasi metà degli aventi diritto ha disertato le urne: italiani nauseati dal Pd, delusi dai 5 Stelle, non convinti da Salvini. Magaldi appare fiducioso: presto o tardi, sembra dire, la verità risulterà evidente anche ai più sprovveduti. E chi ancora dorme sarà svegliato dalle “meraviglie” del Conte-bis, condannato in partenza a obbedire ai diktat di chi ha messo l’Italia nei guai. Con buona pace dei grillini, che hanno sconcertato il loro elettorato. Oggi risalirebbero nei sondaggi manistream? Strano: alle ultime regionali sono letteralmente scomparsi. E ora il voto in Umbria e in Emilia dirà cosa resta, davvero, del grande bluff pentastellato.08:37 11/09/2019Vuoi vedere che c’è un nesso tra il voltafaccia di Grillo, improvvisamente innamoratosi del “partito di Bibbiano e della Boschi”, e le indagini su suo figlio Ciro, indiziato per stupro, emerse solo dopo l’accordo per il Conte-bis anche se i fatti risalirebbero a luglio? L’ipotesi è maliziosamente ventilata su “Micidial” da Massimo Bordin, vicino all’elettorato dei 5 Stelle: chi votò Di Maio nel 2018 lo fece «perché contrario alla politica del governo precedente, guidato da un partito – il Pd – a torto o a ragione considerato la quintessenza del “sistema”». Come accettare che ora il M5S vada a braccetto con Renzi? Voltagabbana, d’accordo: ma non è che li hanno minacciati? Suona perlomeno sospetto, sostiene Bordin, il perfetto sicronismo tra le rotture simmetriche di Salvini e Grillo per staccare la spina al governo gialloverde. Alla richiesta di Salvini (elezioni anticipate), Grillo ha risposto a stretto giro di posta, sdoganando improvvisamente il Pd. Ma a parte le dietrologie di Bordin, dichiaratamente sopra le righe («questo pezzo è ironico e vietato ai cretini: dunque non leggetelo, se non avete senso dell’umorismo») c’è chi pensa che il M5S non sia mai stato altro, fin dall’inizio, che un semplice contenitore di dissenso, per dirottare la rabbia popolare verso esiti innocui. Solo gatekeeping per elettori ingenui? Non la pensa così Gioele Magaldi: senza i 5 Stelle, dice, la politica italiana sarebbe ancora congelata nel vecchio freezer.
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Grillo coi nemici dell’Italia che vogliono Draghi al Quirinale
Mister Europa osserva divertito il massacro politico italiano andato in scena in mondovisione. E’ vomitevole la marmellata di democrazia confezionata grazie al prezioso tritacarne del signor Beppe Grillo, sceso in campo a muso duro – dando ordini ai suoi valletti in Parlamento, terrorizzati all’idea di tonare al voto – per blindare il piccolo potere italiano e restituirlo interamente all’establishment europeo. Grillo obbedisce al vero potere che tiene in pugno il Belpaese dai tempi del Britannia, il grazioso panfilo che lo stesso giorno, il 2 giugno 1993, ospitò a bordo l’allora giovane direttore generale del Tesoro e il comico genovese vicino a De Mita, cacciato dalla Rai nel 1986 per una fatale battutaccia sulle ruberie dei socialisti. Mario e Beppe, due destini che tornano a incrociarsi: è grazie a Grillo se oggi il mitico Super-Mario vede avvicinarsi a grandi passi il Quirinale, quando cioè Mattarella – tra un paio d’anni – vedrà scadere il suo mandato alla presidenza della Repubblica. Sbagliava, chi scorgeva in Draghi un candidato di ferro per Palazzo Chigi dopo Conte: puntando proprio al Colle, il sommo banchiere europeo non ha commesso l’errore di rendersi inevitabilmente impopolare, mettendosi a capo di un governo-vergogna come quello che oggi Renzi e il fantasma di Di Maio si apprestano a sorreggere, calpestando la volontà popolare degli italiani.Si commenta da solo lo sconcio offerto al pubblico, anche internazionale: un governo di nani obbedienti, coalizzati per disperazione e con sprezzo del ridicolo. Missione: emarginare Salvini, come vuole il padrone, e impedire agli elettori di tornare a votare. La classica manovra di palazzo, che comporterà conseguenze spiacevoli per i congiurati: il discredito definitivo del Pd e l’estinzione politica dei 5 Stelle, condannati a essere presi a pesci in faccia dagli elettori di oggi e di domani. Si aprono praterie sconfinate per chiunque ambisca a portarsi a casa i milioni di voti in fuga dall’increscioso e indecente equivoco pentastellato. Ma intanto, al padrone interessa innanzitutto “la roba”: vale a dire le 500 nomine pesanti in arrivo l’anno prossimo, nei posti che contano. Sfrattato l’intruso leghista grazie al signor Beppe e ai suoi diligenti camerieri travestiti da parlamentari, i posti-chiave saranno scelti accuratamente tra Berlino, Parigi e Bruxelles; i nomi saranno comunicati a tempo debito ai prestanome italiani, in quota al Pd e ai 5 Stelle. Dopo il varo dell’impresentabile Conte-bis, quello sarà il secondo step della Lunga Marcia. Il terzo, definitivo, si avrebbe con l’incoronazione del venerabile maestro Mario Draghi, come tredicesimo presidente della Repubblica italiana.La leggenda di Super-Mario? Salvatore dell’euro e santo protettore della sventurata Penisola. Vero il contrario, purtroppo: di formazione progressista e keynesiana, studente cresciuto alla corte dell’insigne ecomomista democratico Federico Caffè (scomparso nel nulla dalla sua abitazione romana nel 1987), Draghi è l’emblema stesso del tradimento: il cattivo allievo, lo ribattezzò Bruno Amoroso, formatosi con Caffè insieme a Nino Galloni. Amoroso e Galloni hanno tenuto alto l’onore dell’antico maestro, tramandandone la lezione. Che è questa: lo Stato non è una famiglia, perché – a differenza delle famiglie e delle aziende – dispone del potere monetario. Può emettere moneta in modo virtualmente illimitato. Ergo: il deficit, in termini di spesa pubblica strategica, è puro ossigeno per i cittadini, le famiglie, le imprese. Viceversa, il suo contrario – il pareggio di bilancio – condanna l’economia. E se migliaia di imprese si arrendono alla crisi, strangolate dalle tasse, il loro business viene letteralmente rastrellato dai grandi gruppi, dotati di elevato potenziale finanziario. L’alleanza storica tra multinazionali, banche d’affari e vertice politico in Europa ha un nome esemplare: Mario Draghi.Per via delle altissime responsabilità rivestite nel disastro sociale europeo, proprio Super-Mario rappresenta al meglio, da grande tecnocrate, il potere oligarchico che ha piegato i governi, confiscato la democrazia, ridotto le elezioni a pura ritualità. Lo si vede anche oggi, ancora una volta, con l’immondo esito della crisi parlamentare italiana. In Europa, la menzogna neoliberista (più tagli, più cresci) è aggravata dalla prassi mercantile dell’ordoliberismo di marca teutonica: all’impoverimento programmato del popolo si aggiuge la sottomissione sociale dei dominati. Dopo la Grecia, l’Italia è scandalosamente in cima alla classifica dello sfruttamento: da moltissimi anni il nostro paese, a cui i tizi come Draghi rimproverano di aver vissuto “al di sopra delle sue possibilità”, è addirittura in avanzo primario. Ovvero: lo Stato spende, per i cittadini, meno di quanto i cittadini versino in tasse. In questo, proprio Draghi – massimo sacerdote dell’austerity (altrui) – incarna il massimo tradimento possibile della dottrina di Keynes e di Caffè, economisti progressisti cui si deve – nel mondo, e anche in Italia – l’archiettura dell’economia statale espansiva che permise ai popoli di risollevarsi, accedendo a stagioni di grande benessere, mobilità sociale, futuro da costruire con fiducia e ottimismo.Tutto questo doveva finire: non per via di leggi economiche, ma a causa di determinazioni politiche, in parte palesi (il neoliberismo di Milton Friedman e soci) e in parte occulte, di matrice iniziatica. Già nell’Ottocento, il medico francese Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorizzò la dottrina della “sinarchia”. In spiccioli: la politica è un affare troppo serio perché sia lasciata al popolo bue. A guidarlo dev’essere un’élite illuminata. Questa élite reazionaria si è nascosta, nel Novecento, dovendo subire l’offensiva delle democrazie sociali, le conquiste dei diritti del lavoro. Poi è rimersa, lentamente, a partire dagli anni Settanta. In Europa, l’Italia era un boccone golosissimo: eravamo il paese del boom, trainato dal maggior conglomerato industriale d’Europa, l’Iri, gestito dallo Stato. Le vaste inefficienze dell’Iri, di origine clientelare, erano largamente compensate dalle enormi ricadute sull’indotto privato. A demolire l’Iri fu chiamato il tecnocrate di turno, l’allora semisconisciuto Romano Prodi, mentre a Draghi – direttore del Tesoro – fu chiesto di oliare lo smembramento privatizzatore gli altri gioielli industriali italiani: Telecom, Eni, Enel, Comit, Credito Italiano.Dal Britannia in poi, Mario Draghi si è fatto apprezzare dai padroni del mondo, che l’hanno ricompensato da par loro. Una marcia trionfale: Goldman Sachs, Bankitalia, Bce. Ora, Draghi ha rifiutato di sostituire Christine Lagarde al vertice del Fmi. Si è tenuto libero per Palazzo Chigi? No: per il Quirinale. Vanta crediti importanti, sulla strada del Colle. D’intesa con Napolitano, nel 2011 disarcionò Berlusconi (ultimo premier eletto dagli italiani, nel 2008: da allora, alla guida del governo si sono succeduti soltanto politici non eletti dai cittadini, da Monti fino a Conte). E’ la declinazione italica della “sinarchia” del marchese Saint-Yves d’Alveydre: guai a lasciare che il popolo si governi da sé. A tener aperta la strada del Quirinale per Mario Draghi è il finto outsider e falso rivoluzionario Beppe Grillo: solo grazie all’inventore dei 5 Stelle il super-banchiere dell’élite può sperare, domani, di raggiungere la meta. Non è solo, ovviamente: oltre a Grillo e al solito servizievole Pd, Draghi può contare sulle potenti superlogge massoniche internazionali in cui milita. E’ affiliato a ben 5 Ur-Lodges di stampo reazionario: si chiamano “Three Eyes” e “Pan-Europa”, “Edmund Burke”, “Der Ring” e “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. E’ per questi signori che in fondo lavorano Beppe Grillo e il suo figurante sistemato a Palazzo Chigi, il carneade “Giuseppi” Conte, sedicente “avvocato degli italiani”: un piccolo e infido mestierante, di cui oggi i connazionali farebbero volentieri a meno.Mister Europa osserva divertito il massacro politico italiano andato in scena in mondovisione. E’ vomitevole la marmellata di democrazia confezionata grazie al prezioso tritacarne del signor Beppe Grillo, sceso in campo a muso duro – dando ordini ai suoi valletti in Parlamento, terrorizzati all’idea di tonare al voto – per blindare il piccolo potere italiano e restituirlo interamente all’establishment europeo. Grillo obbedisce al vero potere che tiene in pugno il Belpaese dai tempi del Britannia, il grazioso panfilo che lo stesso giorno, il 2 giugno 1993, ospitò a bordo l’allora giovane direttore generale del Tesoro e il comico genovese vicino a De Mita, cacciato dalla Rai nel 1986 per una fatale battutaccia sulle ruberie dei socialisti. Mario e Beppe, due destini che tornano a incrociarsi: è grazie a Grillo se oggi il mitico Super-Mario vede avvicinarsi a grandi passi il Quirinale, quando cioè Mattarella – tra un paio d’anni – vedrà scadere il suo mandato alla presidenza della Repubblica. Sbagliava, chi scorgeva in Draghi un candidato di ferro per Palazzo Chigi dopo Conte: puntando proprio al Colle, il sommo banchiere europeo non ha commesso l’errore di rendersi inevitabilmente impopolare, mettendosi a capo di un governo-vergogna come quello che oggi Renzi e il fantasma di Di Maio si apprestano a sorreggere, calpestando la volontà popolare degli italiani.
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Non morì in croce e aveva 43 anni: l’altro Gesù, quello vero
Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità.E’ la possibile, vera storia di Yehoshua di Gàmala, poi ribattezzato Gesù di Nazareth (villaggio che all’epoca probabilmente non esisteva ancora), secondo l’affascinante ricostruzione che il biblista Mauro Biglino fornisce insieme a Francesco Esposito, studioso del cristianesimo delle origini. Ne parlano nell’avvincente saggio “Dei e semidei”, che esplora “il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”. A differenza dei negazionisti, anche autorevoli, che escludono categoricamente la reale storicità del personaggio, i due ricercatori sono propensi a credere che quel “rabbi giudeo messianista”, poi trasformato nella fonte stessa del successivo cristianesimo, sia realmente esistito. Doveva essere un individuo temerario, capace di sfidare il peggior potere: cioè le armi dei colonialisti romani e quelle dei loro alleati e collaborazionisti, i vari Erode e la potente casta sacerdotale del Sinedrio di Gerusalemme. Caduto il Tempio nel 70 dopo Cristo, quella stessa nomenklatura (che era stata capace di denunciare a Pilato il rivoltoso) finirà poi per trasferirsi a Roma, ottenendo di beneficiare di una vita dorata tra i lussi della capitale, come premio per aver ceduto all’impero l’ingente tesoro ebraico, mettendo così fine a ogni ulteriore tentativo di insurrezione nazionalistica. E proprio Roma, secoli dopo, diverrà la capitale della nuova religione.“Dei e semidei” esplora lo strano rapporto tra il futuro “Cristo” e Giovanni Battista, di cui era forse cugino. Entrambe le madri, Maria ed Elisabetta, erano rimaste incinte dopo aver incontrato “l’arcangelo Gabriele”, cioè il Ghevèr-El (ambasciatore di un El, personaggio in carne e ossa), che secondo il teologo e cardinale Jean Daniélou verrà poi chiamato “spirito santo”, nel corso della plurisecolare spiritualizzazione con cui le religioni hanno deformato gradualmente il testo biblico, ex-post, fino a introdurvi elementi mistici del tutto assenti nella versione letterale. Nell’ebraico originario, infatti, non esiste neppure la parola Dio, né l’idea stessa di divinità universale onnisciente, così come non c’è traccia dei concetti di eternità, spirito, onnipotenza. L’Antico Testamento racconta semplicemente la storia del patto stipulato tra la sola tribù di Giuda, uno dei 12 figli di Giacobbe-Israele, e l’El chiamato Yahwè, uno dei tanti Elohìm presenti nel testo. Quello che compare per primo, presentandosi ad Abramo, si fa chiamare El-Shaddài, cioè “signore della steppa” secondo la prestigiosa École Biblique di Gerusalemme, fiore all’occhiello dell’esegesi domenicana. In altri passi della Bibbia viene citato Elyòn, il capo supremo, che a un certo punto ammonisce gli Elohìm in assemblea: fate gli arroganti solo perché siete potenti e molto longevi, ma – li avverte – un giorno morirete anche voi, proprio come gli umani.Sempre la Bibbia parla spesso degli “angeli”, i messaggeri degli Elohìm. In ebraico, sono i “malachìm”. Il greco traduce correttamente il termine “malàch” con “ànghelos”, portaordini, mentre il latino – anziché adeguarsi al greco, (magari con il termine “legatus”?) – preferisce coniare il neologismo “angelus”, importandolo direttamente dalla lingua greca senza tradurlo, e preparandosi poi – nell’iconografia successiva – a sfornare angioletti alati e asessuati. Paolo di Tarso, l’inventore del cristianesimo, è il primo a scrivere – nelle sue lettere – che è meglio che le ragazze si coprano i capelli, nelle assemblee in cui sono presenti “gli angeli”, perché quei tizi poco raccomandabili non vanno tanto per il sottile, con le donne giovani. Le successive traduzioni bibliche tradiranno il testo in modo sconcertante: gli angeli cominceranno ad “apparire e scomparire”, persino a “volare con leggerezza”, quando invece la Bibbia scrive che erano fatti come noi, sudavano e soffrivano, e li si vedeva arrivare arrancando, “sfatti di fatica”. I cosiddetti arcangeli? Dal greco: angeli-capi. I “Gabriele”, per esempio: essere un “Ghevèr-El” significava avere la statura di un pezzo da novanta, che gestisce il potere per conto di un El. Fu proprio un “Gabriele”, forse addirittura lo stesso, a ingravidare (come, non si sa) prima Elisabetta e poi Maria.I loro figli, Giovanni e Yehoshua (Giosuè) secondo i Vangeli si incontrano e si conoscono benissimo: hanno lo stesso mandato, o funzioni parallele? Forse il primo ha un’investitura sacerdotale (discendente da Aronne), mentre l’altro politica, davidica (ereditata da Israele). Nelle acque del Giordano, Giovanni battezza i giudei zeloti, cioè i membri della fazione ostile ai romani: lo si capisce dai loro nomi. Ed è uno strano battesimo: razza di vipere, li chiama. E li avverte: se non cambiate subito mentalità, per voi la scure è già pronta, e i vostri corpi bruceranno nella Gheenna, o meglio il Ghe-Hinnom (la discarica lungo il torrente Hinnom, dove venivano gettati e arsi i cadaveri dei guerrieri sconfitti). In un mondo come quello giudeo, ultra-materiale e privo di qualsiasi cognizione di spiritualità – è la tesi del libro – sembra lecito domandarsi se, più che redimere “anime”, a Giovanni non interessasse reclutare guerriglieri: l’elenco dei loro “peccati”, infatti, è una sfilza di crimini cruenti (peraltro quasi esibiti, rivendicati con fierezza). Preparativi di una rivolta?Così dovette vederla Erode, che non ci pensò due volte: prima che fosse troppo tardi, fece decapitare il sedizioso “battista”. Di fronte alla cui morte, il suo alter ego Yehoshua-Giosuè pensò che era meglio cambiare aria. I testi evangelici dicono che si ritirò “nel deserto”, cioè sulle alture della Galilea, per 40 giorni. Ma probabilmente – secondo Biglino ed Esposito – la pausa di riflessione durò anni. Al suo ritorno, poi, ci mise poco e reclutare gli ex discepoli di Giovanni. Lo conoscevano già e in fondo lo aspettavano, per il grande momento: rovesciare finalmente la corrotta oligarchia del Sinedrio, che aveva svenduto il paese ai romani in cambio dei privilegi concessi dal potere imperiale. Il primo tentativo doveva essere fallito, con la cacciata dei mercanti dal Tempio. Il secondo, quello decisivo, fu preparato con l’ipotetica “resurrezione” di Lazzaro a Betania, paese d’origine della Maddalena. Il crisma del messia? Forse proprio questo doveva emergere, nell’evento raccontato come miracoloso: alla portata solo di un profeta, cioè un individuo prescelto e autorizzato a parlare e agire in nome di un El. Ma il carisma di Yehoshua, che non bastò a infiammare il popolo (che infatti non lo riconobbe come “mashiàh” e quindi non lo sostenne), fu sufficiente ad allarmare la casta sacerdotale, che provvide a denunciarlo per sbarazzarsene.Poi la storia si appanna, tra possibili doppi giochi: da un lato il presunto traditore Giuda l’Iscariota, e dall’altro l’uomo-ombra, il misterioso Giuseppe d’Arimatea, a sua volta membro del Sinedrio ma segretamente alleato dei “gesuani”, capace di reclamare il corpo del condannato e forse anche di salvargli la vita, tirandolo giù dalla croce in extremis e poi facendolo curare. Ricostruzione coerente? Sì, ma solo se “facciamo finta” che quella storia sia realmente accaduta, dicono Biglino ed Esposito: le tracce disponibili sono davvero esigue e frammentarie. Stando al gioco, gli autori prendono per buoni i Vangeli canonici, facendoli però letteralmente a pezzi: inevitabile, perché offrono versioni lacunose e discordanti, spesso inverosimili. L’ipotetico puzzle si completa solo attingendo ad altri testi, come i Vangeli apocrifi e gli scritti di storici come Giuseppe Flavio. “Dei e semidei” resta una lettura complessa, che procede con la massima cautela in una selva di citazioni, con il supporto di decine di autori e non meno di 90 volumi puntualmente chiamati in causa. «Restiamo nel campo legittimo delle semplici ipotesi», ammettono alla fine i due studiosi, la cui unica sicurezza è «la non certezza del dato tradizionale». Nel corso dei secoli, infatti, la tradizione «ha volontariamente coperto, attraverso sempre più complicate elaborazioni teologiche, quella che può essere una storia semplice e allo stesso tempo affascinante».E’ questo, infatti, il vero cuore del libro: con estrema accuratezza, dimostra come si sia potuti arrivare a fabbricare un culto che ha cambiato la storia dell’umanità, pretendendo di poggiarlo su documenti solidi ma in realtà franosi, se non inesistenti. La vicenda dell’aspirante messia ebraico? Umanissima, e affrontata dagli autori con profondo rispetto. Non senza rilevarne, però, le patetiche contraddizioni – non del messia, ma dei successivi narratori (evidentemente infedeli). Si racconta ad esempio che ad essere giustiziato sul Golgota fu un personaggio fenomenale, sovrumano, capace di ridestare i defunti. Ma chi sarebbe così pazzo – si domandano gli autori – da condannare un individuo capace davvero di resuscitare i morti? Non sarebbe meglio pregarlo, cortesemente, di resuscitare tutti? E allora dove sta l’inghippo? Nella datazione delle opere. Tutti i Vangeli – i cui reali autori restano tuttora sconosciuti – sono di gran lunga successivi alle famose lettere di Paolo, vero punto di partenza della nuova fede. A coniare quella religione, decenni dopo la crocifissione, è stato l’autoproclamatosi apostolo di Tarso, che però il messia non l’aveva mai conosciuto. Va da sé che i “gesuani”, gli autentici seguaci di Yehoshua, andassero su tutte le furie, nello scoprire che Paolo spacciava per vera una storia che s’era inventato da capo a piedi. Da quella narrazione di fantasia, purtroppo, nacquero in seguito i testi evangelici.Davvero uno strano cristiano, San Paolo: un perfetto politeista. «Sappiamo che vi sono molti dèi», scrive, «ma noi ne seguiamo uno solo». Dunque la sua era monolatria, non certo monoteismo. Ebreo colto, Paolo conosceva la Bibbia. Ma sapeva che il pubblico delle sue lettere – greco e romano – non sapeva leggere l’ebraico. E così ebbe buon gioco nell’inventare la fiaba che sarà poi Sant’Agostino a perfezionare. Si racconta infatti che Adamo ed Eva fossero addirittura immortali, prima del peccato originale. Si sa perfettamente che non è vero, e gli ebrei sanno anche che – nell’Antico Testamento – il peccato originale non esiste: la cacciata dall’Eden è preventiva, non punitiva, dopo che Adamo ed Eva hanno scoperto di poter avere una loro discendenza virtualmente autonoma dai guardiani del “giardino”. Ma peggio: Paolo di Tarso si mette a parlare del rabbi messianista (che non ha mai conosciuto) raccontando che aveva a cuore le sorti dell’intera umanità, non solo quella del suo popolo. Nasce qui il primo germe del geniale universalismo cattolico: la speranza della vita eterna offerta a tutti, indistintamente, proviene dall’esclusiva creatività letteraria di Paolo. Ed è qui che il contrasto coi “gesuani”, indignati, diventa insanabile: chi ha vissuto con Giosuè, standogli accanto fino alla fine, non può tollerare che sul suo conto vengano impunemente spacciate simili fandonie.Ma neppure Paolo arriva, da subito, all’idea della resurrezione: vi perviene in corso d’opera, per necessità, quando – con crescente impazienza – i nuovi fedeli gli chiedono come mai il famoso messia non sia ancora tornato, instaurando il nuovo regno (terreno) che aveva promesso, dandolo per imminente. Al che, il teorico del cristianesimo comincia a parlare di “regno dei cieli”, garantendo la sicura resurrezione anche dei primissimi fedeli, nel frattempo defunti insieme alla loro speranza di fare in tempo a veder ritornare, gloriosamente, il “salvatore”. La cui identità ufficiale, comunque – aggiungono sempre Biglino ed Esposito – verrà definita soltanto tre secoli dopo, al Concilio di Nicea, nel quale sarà l’imperatore Costantino a imporre un canone teologico univoco ai tanti cristianesimi dell’epoca. La religione imperiale nasce quindi politicamente, per votazione: dopo aver tentato di sbarazzarsene con le persecuzioni (4-5.000 vittime), il potere romano ha capito che è meglio farseli amici, i cristiani, dal momento che sono destinati a conquistare il popolo, essendo gli unici a promettere a tutti l’impensabile, cioè la resurrezione dalla morte.Nei primi due secoli, però, l’antico rabbi messianista ebraico – nel frattempo ribattezzato Gesù Cristo – è tante cose insieme, l’una in contraddizione con l’altra: risorto o non risorto, morto sulla croce o non morto, figlio di Dio o emanazione di Dio stesso, oppure un semplice profeta, o meglio ancora un semidio come tanti. «In passato ne furono inviati sulla terra anche 70 per volta», scrive Celso, citando i cristiani (che combatte). Un autore ultra-cristiano come il filosofo e poi martire Giustino, futuro Padre della Chiesa, spiega invece all’imperatore Antonino Pio che, in fondo, Gesù di Nazareth è fatto della stessa pasta di tutti gli altri semidei: «Non è che uno dei tanti figli di Zeus», nientemeno. Tracce evidenti, annotano Biglino ed Esposito, del lungo viaggio – da Oriente a Occidente – compiuto dalle cosiddette “sacre scritture”, incessantemente ritoccate e manipolate, fino al medioevo, per adeguarle agli umori culturali delle varie epoche. Atto d’inizio: il ritorno del popolo ebraico dall’esilio babilonese, all’alba del 500 avanti Cristo. Già allora si rompe l’integrità della tradizione mosaica, strettamente materialista, quando nutriti gruppi di ebrei – anziché tornare in Palestina – si disperdono ai quattro angoli del Mediterraneo, assorbendo gradualmente la cultura ellenistica, impregnata di filosofia greca.Il colpo più grave alla tradizione veterotestamentaria è inferto dalla Bibbia dei Settanta, redatta nel III secolo avanti Cristo dagli ebrei riparati in Egitto nella colonia ellenica di Elefantina: scritta in greco e destinata al pubblico non ebreo, la Septuaginta inaugura la consuetudine delle traduzioni più arbitrarie e spericolate, spiritualizzando il testo, in un’operazione che poi contaminerà la stessa Bibbia in latino. Ancora oggi, per molte comunità ebraiche come quelle italiane, il lavoro dei Settanta è considerato «una disgrazia, per l’umanità». E’ in quelle pagine, infatti, che il Khavod (il velivolo bellico di Yahwè) diventa “doxa”, insegnamento, mentre il Ruach (astronave?) si trasforma magicamente in “pneuma”, spirito. A suggerire l’ipotesi delle “macchine volanti”, pericolose e fragorose, Biglino arriva per deduzione, leggendo in modo coerente il contesto degli episodi narrati nell’Antico Testamento, in cui questi “oggetti misteriosi” agiscono. In ogni caso, in ebraico – alla lettera – Khavòd significa “pesante”, e Ruach “vento”. Eppure, con la Septuaginta, si dà fiato alle traduzioni di fantasia (anima, conoscenza) in omaggio alla cultura egemonica dell’ellenismo, in un paesaggio dominato da divinità olimpiche e mitologie letterarie, platonismo filosofico e spiritualità misterica e gnostica.Tutte espressioni culturali estranee all’ebraismo originario, adottate – con la riscrittura integrale della Bibbia – per indurre egiziani, romani e greci ad accettare gli ebrei della diaspora come depositari di una tradizione culturale altrettanto antica, e per di più allineata alla temperie religiosa del momento. Nulla, comunque, in confronto alla surreale distorsione teologica dell’Antico Testamento condotta per quasi un millennio, dai primi secoli fino al medioevo, dai Padri della Chiesa. Erano alle prese con una missione impossibile: far discendere “Gesù” dal presunto “Dio unico” dell’Antico Testamento. «Come ci sono riusciti? Facendo come se la Bibbia non esistesse proprio, cioè infischiandosene del contenuto ebraico e del suo significato originario», spiegano Biglino ed Esposito. Stessa sorte per Giosuè, alias Yehoshua di Gàmala, cittadina del Golan forse depennata fin dall’inizio per allontanare collegamenti indesiderati, visto che proprio Gàmala – roccaforte degli zeloti anti-romani – era stata un importante centro della resistenza militare ebraica contro l’invasione imperiale.Nessun rispetto, sottolineano gli autori di “Dei e semidei”, per il futuro protagonista dei Vangeli. E’ stato infatti impunemente trasformato, all’occorrenza, da rabbi giudeo messianista a salvatore del mondo, passando attraverso stadi intermedi: “logos” gnostico, oppure rassicurante semidio, perfettamente sovrapponibile alle altre divinità del periodo, adorate dai pagani, allora largamente maggioritari. La situazione si sarebbe invertita solo con l’Editto di Teodosio del 380 dopo Cristo, quando i neo-cristiani avrebbero potuto cominciare a perseguitare con ferocia, anche compiendo stragi efferate, i seguaci del paganesimo. I nodi, comunque, secondo Esposito e Biglino stanno venendo al pettine, sia pure con lentezza. Uno dei “cerotti” storicamente usati per tenere insieme Antico e Nuovo Testamento si è appena scollato: è il caso della presunta profezia “cristica” di Isaia, in realtà inesistente, con cui si pretendeva di sostenere che la Bibbia ebraica anticipasse l’avvento del redentore.“La vergine concepirà”, si traduceva fino a ieri, lasciando intendere che il sommo profeta ebraico alludesse a Maria e Gesù. Ora è emersa anche ufficialmente la traduzione corretta, recepita in primis dai vescovi tedeschi: “La ragazza è incinta”, si legge ora. Dunque non era vergine (si scriverebbe “betulà”, in ebraico), ma semplicemente giovinetta (“almà”, come infatti è scritto), e aveva il concepimento già alle sue spalle. Non era Maria, infatti, la donna citata da Isaia, ma una fanciulla vissuta secoli prima, di nome Abià, da cui si sperava nascesse un bambino destinato a trasformarsi in liberatore politico di Israele. Chi era, invece, il vero Yehoshua di Gàmala, meglio noto come Gesù di Nazareth? Certo non il personaggio che è stato raccontato, ovvero fabbricato. E questa è l’unica certezza di Biglino ed Esposito. Che si congedano dal lettore regalandogli un ultimo dubbio, dedicato all’arcangelo Gabriele: siamo proprio così sicuri che il futuro Cristo non fosse davvero un semidio, come tanti altri dell’antichità, discesi sulla terra “anche in numero di 70 alla volta”, come ricordava Celso? Erano tutti mezzosangue: nati in modo anomalo, con un genitore terrestre e l’altro celeste, o comunque non umano. Valoroso e sfortunato, “Gesù”, come gli eroi omerici figli di uomini e dèi, formidabili ma non immortali?(Il libro: Mauro Biglino e Francesco Esposito, “Dei e semidei. Il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”, UnoEditori, 340 pagine, euro 16.90).Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della comune mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità?