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Carpeoro: Craxi ucciso dai nostri nemici, complici gli italiani
Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” l’Italia, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».Avvocato per trent’anni, Carpeoro (Pecoraro, all’anagrafe) – massone, simbologo, saggista e romanziere – era cresciuto tra i giovani socialisti calabresi alla corte di Giacomo Mancini. A Milano, aveva seguito Bobo Craxi e ricoperto vari incarichi nel Psi. Poi, tra lui e il leader socialista c’erano stati dissapori, quando a Carlo Tognoli fu preferito Paolo Pilliteri come sindaco milanese: «Il problema, con Bettino, era che non accettava che gli si desse torto, né in pubblico né in privato». Si riconciliariono in piena tempesta Mani Pulite: «Gli scrissi, apprezzò le mie parole. Poi, quando riparò ad Hammamet, andai a trovarlo due volte». Beninteso: «Craxi non è semplicemente morto: è stato ucciso», sottolinea Carpeoro, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. L’accusa: gli fu impedito di essere curato in modo adeguato, in Italia, senza venire arrestato. Era piagato dal diabete, insidiato da un tumore. E Craxi preferì morire, piuttosto che affrontare il carcere. In un suo libro appena uscito, Fabio Martini ricorda: l’allora premier Massimo D’Alema chiese al procuratore Francesco Saverio Borrelli di attivare una procedura umanitaria, in modo che Craxi potesse essere operato a Milano, da uomo libero. Ma Borrelli rifiutò. A quel punto, D’Alema avrebbe potuto emanare un decreto, ma non osò farlo. E Craxi, poco dopo, morì. «In carcere, sarebbe sopravvissuto tre giorni», dice Carpeoro: «E per impedirgli di dire la sua, comunque, gli avevano minacciato i figli».Rivelazioni clamorose, anticipate da Carpeoro nel 2015 durante una conferenza dell’associazione “Salus Bellatrix” di Vittorio Veneto, guidata da Francesca Salvador. «Perché Craxi non si difese a viso aperto, contrattaccando, visto che si sentiva vittima di un complotto? Ci aveva provato, contattando Paolo Mieli, Giovanni Minoli e Giancarlo Santalmassi, cioè il “Corriere” e la televisione. Ma quella sera stessa lo raggiunse un avvertimento anonimo e minaccioso all’hotel Raphael, dove alloggiava a Roma». Messaggio esplicito: attento, se parli colpiremo i tuoi figli. «Nel giro di poche ore lo chiamarono Bobo e Stefania: lui aveva trovato la sua casa messa a soqquadro, mentre a lei avevano anche preso i vestiti dagli armadi e glieli avevano bruciati sul terrazzo». I figli erano spaventati, il padre pure: i responsabili della sicurezza di Craxi gli dissero che si trattava di minacce credibili, pericolose. Al che, continua Carpeoro, Bettino rinunciò alle interviste-bomba e passò al Piano-B: «Chiamò l’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, e lo incaricò di mediare coi giudici di Milano». L’offerta: siate “morbidi”, e io lascerò l’Italia. Detto fatto: «In molti notarono l’anomala mitezza di Di Pietro nell’interrogatorio di Craxi». Era il segnale atteso: Craxi lasciò il paese da uomo libero, come pattuito. «La Tunisia, l’estradizione non l’avrebbe mai concessa. Ma l’Italia non l’ha comunque mai chiesta».Ipocrisie colossali? E non è tutto: «Nell’archivio del tribunale di Milano – aggiunge Carpeoro – c’è una stanza inaccessibile dove sono tuttora tenuti sotto chiave i dossier riguardanti 6 anni di indagini condotte prima che si venisse a sapere di Mani Pulite». Indagini-fantasma? «A quanto pare, condotte con metodi non legali», cioè senza avvertire gli indagati. «Me ne parlò direttamente un magistrato», dichiara Carpeoro. «Riferii subito la cosa a Bettino, ma decise di non fare nulla: sottovalutò il pericolo. Io comunque sono pronto a testimoniare in aula, se si apre un’inchiesta su questo». Si riaprirà? Carpeoro ne dubita: «Troppi poteri forti non vogliono che se ne parli: dovranno passare altri dieci anni, prima che questo capitolo si possa riaprire». Ancora tanti, i protagonisti in circolazione. L’ex giustiziere Di Pietro? «Una figura interamente costruita per affondare l’Italia colpendo Craxi. Ogni giorno era a colazione con il console americano: al punto che, per l’imbarazzo, gli Usa furono costretti a liberarsi di quel diplomatico». Bruciava ancora la notte di Sigonella: quale altro leader europeo aveva mai osato far circondare i marines dalla propria polizia, per proteggere un commando palestinese? Gli americani volevano Abu Abbas, inviato da Arafat per risolvere la crisi della nave da crociera Achille Lauro. Craxi lo difese, in nome della sovranità nazionale, pagando per questo un prezzo altissimo.«Quello che i cialtroni della nostra carta stampata continuano a non dire, e a far finta di non sapere – aggiunge Carpeoro – è che l’unica vittima dei sequestratori della nave, l’anziano paralitico Lion Klinghoffer, non era solo un pensionato ebreo con passaporto statunitense: era anche e soprattutto un alto esponente del B’nai B’rith», l’esclusiva massoneria ebraica che rappresenta il nerbo del Mossad, che in quegli anni si era reso responsabile di azioni sanguinose contro i palestinesi. Era il 1985: l’Italia, quinta potenza industriale del mondo, aveva ancora una politica estera (oltre che un vero governo). Bel problema: andava “risolto”. Aldo Moro era stato “sistemato” come sappiamo, dopo esser stato minacciato di morte da Henry Kissinger. Un anno dopo Sigonella, i killer colpirono Olof Palme a Stoccolma: «Era il leader carismatico dei socialisti europei», ricorda Carpeoro: «Lui vivo, non sarebbero mai riusciti a fare questo aborto di Ue». Per un po’ resistette la Francia, «ma lo stesso Mitterrand fu messo fuori gioco». Restava Craxi, e si sa com’è finita. «Se ti metti contro certi poteri, devi solo sperare di vincere», aggiunge Carpeoro: «Sai già in partenza che, se perdi, poi finisci ad Hammanet. E infine muori, assassinato – di fatto – dai nemici del tuo paese, e con la complicità dei tuoi stessi concittadini, che il potere ha messo contro di te».Carpeoro non fa sconti, agli italiani: si sono lasciati manipolare, come i topolini dal pifferaio di Hameln. Solo oggi, vent’anni dopo, molti di loro aprono gli occhi. «Craxi aveva un progetto ben preciso: voleva un’Europa unita, ma governata dai socialisti». Era stata la dottrina di Olof Palme: «Tagliare le unghie al capitalismo, frenarne gli eccessi». Peccato che il potere, in programma, avesse ben altro: neoliberismo assoluto e “totalitario”, svuotamento della democrazia e sottomissione della politica. Tagli alla spesa, crollo della classe media, rigore fiscale, mortificazione dell’economia reale a favore delle grandi concentrazioni finanziarie. In altre parole, l’attuale Disunione Europea: «Profetiche, in questo senso, le invettive di Craxi da Hammamet di fronte all’avvento dell’euro: ma ormai era un leader screditato in ogni modo, esiliato, latitante». Si era battuto per l’Italia, senza che gli italiani se ne accorgessero. La fine della scala mobile? Per Carpeoro, una concessione tattica al sistema. Il “serpente monetario” Sme? Una vittoria craxiana: uno stratagemma per proteggere la lira dalle speculazioni dei Soros. Dopo di lui, il diluvio: privaizzazioni selvagge, fine dello Stato. Oggi l’Italia è in ginocchio, col cappello in mano a mendicare elemosine a Bruxelles, e senza uno straccio di progetto politico – e men che meno, di statista – in grado di disegnare un futuro diverso.Ha stravinto il peggior potere, il neoliberismo finanziario che ci ha imposto l’austerity come dogma religioso. E l’Italia l’ha messa nel sacco nel solito modo, cooptando italiani “collaborazionisti”. «Siamo un paese così, fin dal Rinascimento: pur di sconfiggere la signoria rivale, ci si allea con gli stranieri». Ben lieti, i baroni dell’ex Pci, di accettare il “vincolo esterno” imposto dall’Ue alla politica italiana: caduta la Prima Repubblica arrivarono finalmente al governo, ma a patto di obbedire agli ordini della sovragestione internazionale. «Craxi fu tolto di mezzo perché, esattamente come Moro, una cosa simile non l’avrebbe mai accettata. Non c’era modo di piegarlo: bisognava eliminarlo». Il suo grande errore? «Si fidava degli italiani: immaginava che prima o poi capissero che lavorava per loro». E invece, gli hanno dato del ladro. Non cambiarono idea neppure il giorno che nessun parlamentare alzò la mano per contestarlo, quando in Parlamento chiese: qualcuno può dire di non aver mai percepito finanziamenti politici illegali? «Si evita sempre di ricordare che, in assenza di una legge adeguata per coprire i costi della politica, la Dc fu finanziata per decenni dagli Usa, e il Pci dall’Urss». Ma il ladro era “Bottino” Craxi, come lo chiama Travaglio, anche se persino Borrelli – prima di morire – si è domandato se Mani Pulite non abbia finito per favorire i grandi poteri che volevano depredare l’Italia.«E’ vero che i soldi servivano a finanziare il partito, ma qualcosa restava attaccato alle dita», dice a Craxi un personaggio del film “Hammamet”. «Di sicuro – replica Carpeoro – le dita non erano quelle di Craxi, che per sé non hai preteso una lira: del suo famoso “tesoro”, solo immaginario, non c’è traccia». Aveva tollerato personaggi discutibili, nel Psi? «Certo, ma era inevitabile: se avesse tagliato anche quelli, avrebbe dimezzato i voti. E il suo grande cruccio è sempre stato quello di non essere riuscito a superare il 15%. Già così, comunque, dava fastidio sia alla Dc che al Pci, che avrebbero preferito fingere in eterno di combattarsi, continuando a spartirsi il potere sottobanco in modo consociativo». Cos’è mancato, a Craxi? Gli italiani: il consenso del paese, nonostante gli enormi successi economici. «E il bello è che la parola “socialismo” riscuoteva generale simpatia». Il maggior merito di Craxi? «Aver sgombrato il campo, una volta per tutte, dalla lotta di classe: l’idea di poter raggiungere un socialismo vero con le riforme, cioè senza la violenza di una rivoluzione». Riforme per il popolo, non contro il popolo (come quelle neoliberiste). E com’è che il potenziale campione diventa un nemico pubblico? Pensiero magico: la fabbricazione dell’Uomo Nero. Carpeoro ne fa una teoria argomentata: si educa la gente a votare “contro”, se si vuole distruggere un paese. Caduto un avversario, eccone un altro. L’importante è non costruire mai niente di buono. Ed eccoci qua, con Salvini e le Sardine, Conte e Di Maio. E l’Italia – o quel che ne resta – divorata in un sol boccone dal pescecane di turno.Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere in crescita stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” il Belpaese, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».
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Cretini di sinistra, la “mafia” ipocrita che rimpiange Sciascia
Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.Oggi prevale la favoletta della neutralità di Sciascia tra lo Stato e le Br, il famoso né né. In realtà Sciascia riteneva poco credibile la linea della fermezza dopo decenni di connivenza, di zona grigia e di cedimento dello Stato a ogni livello. E denunciava la rete larga di complicità intorno al terrorismo rilevando che «è in atto un’espansione del partito armato che sta trovando insediamenti sociali», mentre si continuava a negare la matrice comunista. «Le Brigate Rosse – scrisse Sciascia – erano rosse e non nere come tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale desideravano che fossero». Anzi, notava Sciascia, le Br si appellavano alla stessa fonte di legittimazione dello Stato democratico e antifascista: «La Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate Rosse: credono di esserne i figli». Le azioni terroristiche delle Br per lui saldarono il sistema, non lo fecero saltare. Il terzo spunto, connesso al precedente, fu il suo giudizio sul potere democristiano e su Aldo Moro. Le sue interpretazioni furono espresse già nel ’76 in “Todo Modo” e poi ne “L’Affaire Moro” e dispiacquero non solo alla Dc, ma anche al Pci e ai grandi giornali. Berlinguer arrivò a querelarlo. Scalfari lo stroncò prima che il suo libro sul caso Moro uscisse.Sciascia denunciò in Moro lo scarso senso dello Stato. Per lui Moro non era uno statista ma «un grande politicante». A Moro rimproverò pure di non aver speso una parola nelle sue tante lettere dal carcere per la sua scorta trucidata in via Fani. E come Pasolini, anche Sciascia ritenne che Moro avesse inventato un linguaggio incomprensibile, di cui fu detentore ma anche vittima (perché nessuno colse i messaggi cifrati delle sue lettere dal carcere delle Br), che secondo Sciascia serviva a tenere oscura e impenetrabile la chiave del potere. La lingua di Moro era per lo scrittore siciliano come il latino usato dalla Chiesa per rendersi incomprensibile al volgo e così alimentarne l’ossequio devoto. La lingua morotea a suo dire corrompeva la democrazia perché rendeva i percorsi del potere politico inaccessibili e arcani al popolo sovrano. Il quarto spunto di Sciascia è sulla sinistra antifascista. Mi limito a due citazioni riassuntive, tratte da “Nero su nero”: «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è».E poi: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero solo a destra e perciò l’evento non ha trovato registrazione». Ecco l’antifascista di sinistra, intollerante ma cretino. Mirabile sintesi, assai attuale. Infine, in tema di Sicilia e di malgoverno, Sciascia dette una lezione di non conformismo, paragonando l’inefficacia e la corruttela che aveva accompagnato i terremoti avvenuti durante la repubblica italiana con quel che invece era accaduto ai tempi “nefasti” della controriforma e della vituperata dominazione spagnola. Nel 1693, nella Sicilia sotto la prepotenza spagnola, un terremoto colpì una cinquantina di Comuni, tra cui Catania, Avola, Lentini e Noto. Si recò sul luogo del disastro il duca di Camastra, vicario del vicerè, con pieni poteri e con la benedizione della Chiesa. Il signorotto, la Chiesa, i fondi da gestire: il triangolo perfetto del malaffare meridionale.E invece quel duca brusco, altero e devoto, che passava a cavallo tra le macerie, in pochi mesi ricostruì al meglio quei paesi. Il duca, scrisse Sciascia, temperava il rigore cattolico con il culto della bellezza; non si dirà lo stesso dei democratici che gestirono i terremoti più recenti e i loro fondi. Sono riusciti a far rimpiangere la dominazione spagnola. E Sciascia, volterriano laico, onestamente lo riconosceva. Quanti dei signorini che oggi lo invocano e lo rimpiangono avrebbero fatto altrettanto? Certo, Sciascia ha scritto ben altro, non si può ridurre la sua opera a queste polemiche. Ma ogni volta che comincia la messa cantata su Pasolini e Sciascia che ci mancano (a noi mancano anche tanti altri scrittori rimossi perché dalla parte sbagliata), allora vorrei far notare che per questo loro non conformismo subirono in vita linciaggi verbali e peggior sorte avrebbero avuto oggi. Magari anche dalle mafie culturali che ne piangono la scomparsa.(Marcello Veneziani, “Sciascia, rimpianto con ipocrisia”, da “La Verità” del 19 novembre 2019).Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro (un Conte ante litteram). Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate Rosse.
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Terrore e menzogne: tutto, purché l’Italia non rialzi la testa
Qualunque cosa accada o non accada all’Italia, ombelico fragile e vittima predestinata dell’ordoliberismo post-democratico europeo, non si può prescindere dal ricordare la grande menzogna che ammorba il pianeta dall’11 settembre 2001, il maxi-attentato alle Torri Gemelle di Manhattan. L’impensabile era già in marcia da molti anni, certo: il Memorandum Powell per la riscossa storica delle oligarchie, la “crisi della democrazia” promossa dalla Trilaterale, la liquidazione di Allende e Sankara, Olof Palme e Aldo Moro, l’ipocrita “terza via” battuta da Blair e Clinton per rottamare la sinistra classica e lanciare la post-sinistra mercantilista dei Prodi, degli Schroeder, dei Renzi. Ma fu il fatidico 2001 a metter fine nel modo più brutale al breve sogno del globalismo mite vagheggiato da Gorbaciov dieci anni prima, che aveva dato al pianeta una meravigliosa e breve illusione: poter finalmente vivere un disgelo universale, con la fine della guerra fredda, cominciando a rimettere insieme i cocci di un mondo devastato dall’ingiustizia. Oggi sono i vigili del fuoco di New York a invocare la riapertura del caso 11 Settembre, sostenendo che le Twin Towers sarebbero state minate con esplosivi.Dopo 18 anni, tuttavia, a tener banco è ancora la verità ufficiale: aerei dirottati da fanatici islamisti ispirati da Osama Bin Laden, l’ex socio dei Bush ed ex fiduciario della Cia che poi il signor Obama ha raccontato al mondo di aver fatto assassinare il 2 maggio 2011 ad Abbottabad, in Pakistan, da un reparto speciale di Navy Seals poi stranamente morti a loro volta, abbattuti da fuoco amico a Kabul. Spesso si evita di mettere in relazione l’11 Settembre, e quindi la conseguente devastazione del mondo tuttora in corso a suon di guerre, con l’evento quasi altrettanto simbolico che lo precedette: l’inaudito delirio di violenza esploso al G8 di Genova, due mesi prima. A indicare la connessione è Wayne Madsen, all’epoca dirigente della Nsa: Madsen sostiene che la strategia della tensione affidata ai misteriosi black bloc, accuratamente preparata dalla National Security Agency, doveva servire a stroncare una volta per tutte il caotico movimento NoGlobal, di cui l’élite finanziaria pare avesse una gran paura.Fu casuale la scelta di provocare quella mattanza proprio in Italia? Il nostro paese era già stato durissimamente colpito dal terrorismo, incluso quello delle stragi nelle piazze, fino all’epilogo del sequestro Moro: fu allora immolato un politico grigio ma tenace, che in fondo incarnava l’irriducibile diversità italiana, inconciliabile con il progetto turbo-mercantile in cantiere, truccato da europeismo. Non doveva sopravvivere, l’anomalia italiana, con la sua economia-boom sorretta dal decisivo volano pubblico dell’Iri, il complesso industriale più grande d’Europa. Nel romanzo “Nel nome di Ishmael”, per il quale Francesco Cossiga si complimentò con l’autore, Giuseppe Genna, si mette in luce un dettaglio inquietante: il nesso tra i “sacrifici rituali di bambini” e l’omicidio politico. Oscura “firma” di sapore occulto, contro-iniziatico, a marcare il ricorso al terrorismo come “instrumentum regni”, in particolare contro l’Italia, dai tempi di Enrico Mattei.Quella dell’11 Settembre fu una strage immane: 3.000 morti nel crollo delle torri, più altre 12.000 vittime accertate nei giorni e mesi seguenti, a causa della nube d’amianto che avvolse i quartieri circostanti. E’ umanamente concepibile, un ipotetico auto-attentato di quelle proporzioni? Purtroppo sì, dicono i dietrologi: viceversa, il clan Bush non sarebbe mai riuscito a mobilitare l’opinione pubblica americana a supporto della “guerra infinita” scatenata in Afghanistan e in Iraq, che ha aperto le porte dell’attuale inferno quotidiano, estesosi in paesi come la Libia e la Siria. A Palazzo Chigi, dal 2001, si sono alternati Berlusconi e Prodi, quindi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte. Tutti governi che si sono mossi al di sotto della politica, all’ombra di tabù intoccabili: l’insindacabilità del Sacro Romano Impero franco-tedesco e l’altrettanto indicibile verità-ombra che sembra annidarsi dietro i sinistri eventi che aprirono il millennio, la follia di Genova e la mostruosa carneficina andata in scena a New York.Oggi l’Italia è alle prese con le consuete, deprimenti cronachette politiche, affidate all’estro di statisti del calibro di Matteo Renzi e Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti. Nelle retrovie della tifoseria svettano Giorgia Meloni e Alessandro Di Battista, mentre a Matteo Salvini viene imputato l’assurdo crimine di aver aperto una crisi politica insensata, tale da mandare a casa il glorioso, formidabile governo gialloverde. Eppure, anche se sembra impossibile, tutta l’Europa guarda all’Italia. L’Europa e non solo: se la Russia di Putin è stata tirata in ballo in modo tragicomico dall’improbabilissimo Russiagate, proprio il Belpaese è conteso da Usa e Cina, ad esempio per le implicazioni anche geo-strategiche dell’affare Huawei inerente la rete wireless 5G. Più in generale, l’Italia politica aveva comunque fatto notizia, a livello internazionale, un anno fa, varando l’unico governo europeo teoricamente all’opposizione di Bruxelles, dopo l’opaco terrorismo casalingo dell’Isis nel vecchio continente, e prima ancora della quasi-insurrezione francese dei Gilet Gialli.Tanta preoccupazione per gli sviluppi nazionali italiani suggerisce l’idea, solo in apparenza stravagante, che il nostro disastrato e meraviglioso paese sia in qualche mondo centrale, per il futuro del mondo, secondo una drastica linea di discrimine: la verità, una volta per tutte, oppure la menzogna, ancora e sempre. Quando l’Italia era diventata la quarta potenza industriale del pianeta, con Craxi a Palazzo Chigi, lo Stato era ancora sostanzialmente catto-consociativo, governato largamente dalla Dc ma co-gestito dal Pci. Forte della maggior presenza industriale pubblica del continente, il nostro era il paese più strano d’Europa: prospero e risparmiatore, politicamente stabile nonostante l’enorme instabilità dei singoli governi, lealmente atlantista ma non ostile all’Urss, apertamente filo-arabo senza però mai essere anti-israeliano. Il paese dei record, nonostante le sue piaghe storiche: divario Nord-Sud, elevata corruzione, mafia, dilagante evasione fiscale. Un paese pericoloso, per i concorrenti: resiliente, pieno di contraddizioni e di eccellenze, virtualmente indistruttibile. Dunque una nazione da piegare, da sottomettere, possibilmente con l’immancabile complicità dell’establishment nazionale.C’era quasi riuscito Mario Monti: iper-tassazione, Fiscal Compact, tagli al welfare, legge Fornero sulle pensioni e pareggio di bilancio in Costituzione. Tutte norme ammazza-Italia, scrupolosamente votate dal Pd di Pierluigi Bersani, che oggi – come se niente fosse accaduto, in questi anni – cinguetta soavemente, sostenendo che i mali italici si risolverebbero semplicemente debellando l’evasione, come se (a monte) non esistessero il macigno chiamato Unione Europea e il suo braccio armato, l’Eurozona, cui la Germania aderì su pressione della Francia solo a patto di ottenere in cambio lo scalpo industriale dell’Italia. In questi mesi turbolenti e mediocri, gli estimatori dei tanti Bersani d’Italia (i Saviano, i Fazio, gli Scalfari) non hanno trovano di meglio che dare del fascista a Salvini, tifando per il nemico di turno dell’Italia (Macron) nella speranza che riuscisse a disarcionare il puzzone, l’orco, l’usurpatore del potere regio. Nemmeno Salvini si è elevato, peraltro: agitando crocifissi nei comizi non è riuscito a sovrastare gli infimi avversari, l’ipocrita congrega finto-buonista che friggeva all’idea di aver perso le antiche poltrone, regalate (al barbarico leghista e all’indecente scolaresca dei grillini) da elettori semplicemente esasperati, traditi e abbandonati a se stessi, nauseati dalla sedicente sinistra.Campioni del mondo nell’arte della truffa, i 5 Stelle hanno evitato accuratamente di indicare la causa del problema-Italia. Salvini l’ha fatto, fermandosi però alle parole: questo è bastato, comunque, a trasformarlo in un bersaglio. Il capo della Lega è l’unico a non aver barato: Berlusconi aveva solo finto di voler avviare una grande riforma liberale, e Prodi – peggio ancora – aveva venduto agli italiani le meravigliose sorti e progressive di Eurolandia, cioè la condanna al rigore eterno. Salvini almeno evita di raccontare bugie, ma non è sufficiente. E la verità – tutta la verità – richiede una statura speciale, perché non può che passare per gli infami snodi irrisolti che stanno alla base dell’infausto esordio del terzo millennio: a partire dalla madre di tutte le menzogne, la versione ufficiale sull’11 Settembre. In parte, gli economisti progressisti reclutati dalla Lega – Bagnai, Rinaldi – hanno sdoganato intere parti della verità più imbarazzante, come il divorzio Tesoro-Bankitalia che trasformò di colpo il virtuoso debito pubblico italiano in tragedia nazionale. Ma è come se all’Italia, oggi, si chiedesse altro: la capacità di rialzare la testa, con un atto di coraggio che smonti l’unica vera arma – la paura – su cui si basano le oscure forze che hanno progettato l’11 Settembre e le sue guerre, l’Isis e la cosiddetta crisi, ben orchestrata dall’attuale regime finanziario e antisociale che si nasconde dietro il profilo istituzionale dell’Unione Europea.(Giorgio Cattaneo, “Terrore, ricatti e menzogne: purché l’Italia non rialzi la testa”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 agosto 2019).Qualunque cosa accada o non accada all’Italia, ombelico fragile e vittima predestinata dell’ordoliberismo post-democratico europeo, non si può prescindere dal ricordare la grande menzogna che ammorba il pianeta dall’11 settembre 2001, il maxi-attentato alle Torri Gemelle di Manhattan. L’impensabile era già in marcia da molti anni, certo: il Memorandum Powell per la riscossa storica delle oligarchie, la “crisi della democrazia” promossa dalla Trilaterale, la liquidazione di Allende e Sankara, Olof Palme e Aldo Moro, l’ipocrita “terza via” battuta da Blair e Clinton per rottamare la sinistra classica e lanciare la post-sinistra mercantilista dei Prodi, degli Schroeder, dei Renzi. Ma fu il fatidico 2001 a metter fine nel modo più brutale al breve sogno del globalismo mite vagheggiato da Gorbaciov dieci anni prima, che aveva dato al pianeta una meravigliosa e breve illusione: poter finalmente vivere un disgelo universale, con la fine della guerra fredda, cominciando a rimettere insieme i cocci di un mondo devastato dall’ingiustizia. Oggi sono i vigili del fuoco di New York a invocare la riapertura del caso 11 Settembre, sostenendo che le Twin Towers sarebbero state minate con esplosivi.
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
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Magaldi al “fratello” Tria: con Draghi, finirete come Renzi
Non crediate di prendere in giro gli italiani: avete visto quanto ci ha messo, il prode Renzi, a passare dal 40% allo zero assoluto? Messaggio che Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché massone progressista (Grande Oriente Democratico) rivolge proprio a quelle figure di garanzia, inserite nel governo gialloverde con una missione precisa: rompere, dopo tanti anni, la penosa consuetudine della sottomissione a Bruxelles. Qualcuno sta venendo meno agli impegni? Il primo indiziato è il professor Giovanni Tria, titolare del ministero dell’economia in virtù di «quell’incredibile attentato alla Costituzione che fu il “niet” proposto da Mattarella rispetto all’incarico a Paolo Savona». Ebbene, da oggi Magaldi lo chiama “il fratello Tria”, rivelando pubblicamente la sua identità massonica, per di più dichiaratamente “progressista”. Il problema? Molte chiacchiere, sin qui, ma pochi fatti. Peggio: insieme al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, «già massone neo-aristocratico “di rito montiano”, poi apertosi all’impegno progressista», proprio Tria – alle prese con il delicatissimo bilancio 2019 – ha appena ricevuto il più scomodo degli endorsement, quello di Mario Draghi: essere “promossi” da Draghi, scandisce Magaldi, è un “premio” che nessun governante sinceramente democratico può permettersi, in quest’Europa impoverita dall’élite neoliberista e messa alla frusta proprio dalla Bce.Se c’è uno che davvero non può permettersi di dare “pagelle” a nessuno, questi è proprio il “fratello” Mario Draghi, dichiara Magaldi in web-streaming su YouTube con Marco Moiso, già coordinatore del Movimento Roosevelt: la Bce ha finora fatto esattamente il contrario di quello che sarebbe servito, per risollevare l’economia europea. Le è stato complice il Fondo Monetario guidato dalla “sorella” Christine Lagarde, «libera muratrice anch’essa contro-iniziata e neo-aristocratica». Non stupisce che oggi si parli di un clamoroso scambio di poltrone, da scongiurare in ogni modo: la Lagarde alla Bce, e Draghi “promosso” al Fmi. E perché mai? «Quale premio andrebbe dato a una banca centrale che ha lasciato che tutti i buoi uscissero dalla stalla, durante la crisi del 2011, consentendo allo spread di innalzarsi per poter poi commissariare i governi?». La banca centrale europea, aggiunge Magaldi, si è limitata a intervenire a cose fatte, «facendo il minimo indispensabile». E cioè: «Ha elargito denari al sistema bancario per propiziare l’acquisto dei titoli di Stato in modo da tener basso lo spread, ma al sistema produttivo reale non è arrivato nemmeno un euro: una situazione davvero verminosa». Ecco perché c’è da preoccuparsi – e molto – se il presidente della Bce oggi si spertica in elogi per il nostro ministro dell’economia, proprio mentre Tria sta approntando la legge di bilancio, intenzionato a mantenere la spesa pubblica (ancora una volta) ben al di sotto del minimo vitale, in ossequio ai signori di Bruxelles, Berlino e Francoforte.Magaldi, con Tria, non va per il sottile: caro ministro, il tempo della pazienza è scaduto. Ora dimostri di mantenere gli impegni presi, o il consenso al governo “gialloverde”, oggi ancora robusto, potrebbe scemare alla velocità della luce. «Abbiamo sostenuto l’esecutivo e lo sosterremo ancora – premette Magaldi – anche difendendo Salvini dalla demonizzazione di cui è vittima. Ma, a parte il legittimo scatto di dignità sul problema immigrazione (che poi richiederà anche una “pars construens”, per aiutare comunque quell’umanità che è migrante perché è sofferente), dal loro governo gli italiani si aspettano ben di più». Ovvero: fatti concreti per rianimare l’economia, come promesso, allentando la tassazione e introducendo misure espansive – che non potranno che dispiacere, ai signori della Disunione Europea. Dunque, stando così se cose, se invece Draghi fa i complimenti al governo italiano significa che c’è qualcosa che non va. Lo osserva il “rooseveltiano” Egidio Rangone, neo-responsabile del dipartimento economia (settore supervisionato da Nino Galloni, vicepresidente del movimento). Le perplessità di Rangone sono le stesse di Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario agli affari europei: come si permette, il signor Draghi, di dare i voti all’Italia, quando nessun governo democraticamente legittimato può osare aprir bocca sull’operato della Bce?Giustamente, dice Magaldi, ci si domanda come mai la Bce possa continuare a essere «una specie di santuario su cui la politica non deve mai mettere le mani, secondo il paradigma neoliberista che governa questa Europa (speriamo ancora per poco)». La banca centrale europea, infatti, «non è controllata da nessuno: nessuno ne deve parlare, bisogna solo “ammaestrarsi” ai suoi giudizi». Non sorprende – e invece dovrebbe – il fatto che Draghi dia i voti ai ministri. Tanto peggio, se i voti sono buoni. E peggio ancora se a essere “promosso” è Giovanni Tria. Avverte Magaldi: «E’ giunto il momento di sciogliere alcune questioni riguardanti l’ambiguità, l’ambivalenza dell’operato del ministro Tria, che finora ho voluto interpretare in modo benevolo». Il punto è questo: «Inquieta non poco la lode che Mario Draghi fa al “fratello” massone Tria, visto che Tria era entrato in questo governo per rassicurare sul cambiamento annuncuiato». Doveva garantire, Tria, che la linea del governo sarebbe stata critica, rispetto all’attuale gestione Ue, nonostante il più che irrituale siluramento di Savona, da parte di Mattarella.Se il delicatissimo dicastero economico, anziché all’ex ministro di Ciampi, alla fine è stato dato «al massone sedicente progressista Tria», è proprio perché il professore, «nell’interpretazione benevola che ne abbiamo voluto dare sin qui», avrebbe dovuto magari «giocare di rassicurazione in rassicurazione», per poi però effettivamente «essere parte integrante di un lavoro di rinnovamento, nei rapporti tra la gestione dell’economia italiana e gli stralunati, strumentali e pidocchiosi atteggiamenti delle sedicenti istituzioni europee rispetto alla gestione del bilancio». Il “fratello” Tria, aggiunge Magadi, si era solennemente impegnato a guidare l’economia italiana con lungimiranza, «e quindi in modo opposto rispetto a quella che è stata la bussola nei governi almeno da Mario Monti in poi – ma potremmo parlare di un venticinquennio intero di paradigma dell’austerity, naturalmente con vicende diverse, che fino al 2011 avevano reso meno percepibile quello che si andava comunque costruendo, anche in termini di crisi italiana – già ben presente, sia pure in modo strisciante». C’è di che preoccuparsi, dunque, se oggi Draghi dice “bravo” a Moavero Milanesi, «massone accredidatosi come “convertito” a una visione massonica progressista e a una visione politica di rinnovamento democratico, e proprio per questo inserito nell’attuale governo».A maggior ragione, preoccupa il fatto che Draghi “promuova” Tria, cervello economico di un governo che ha promesso Flat Tax, reddito di cittadinanza e riforma della legge Fornero sulle pensioni, ma finora si è limitato alle chiacchiere, confidando – in modo imprudente – su sondaggi che danno la Lega sopra il 30% dei suffragi. Attenzione, sottolinea Magaldi: «Questo consenso è basato su un investimento per il futuro, proprio come il consenso di cui aveva goduto a suo tempo Matteo Renzi: dunque non ci si inebri, del consenso. E’ una sorta di cambiale, che richiede risultati precisi: ma di fatti, per ora, se ne sono visti pochi». Un avvertimento esplicito: «Il popolo potrebbe bocciare rapidamente il governo gialloverde, così come ha bocciato severamente centrodestra e centrosinistra, che per anni hanno giocato a prendere per i fondelli gli interessi degli italiani, simulando un’alternanza che non esisteva – perché c’era un consociativismo permanente, per cui la rotta economica in tutti i temi politici nevralgici era decisa altrove e solo eseguita, in modo pedissequo e bovino, da coloro che hanno occupato le istituzioni soprattutto per fare i propri affari». Ebbene: se Lega e M5S continuano soltanto a chiacchierare, l’esecutivo Conte non può illudersi di andare lontano.Magaldi avvisa: il Movimento Roosevelt (in pieno rilancio) non starà alla finestra: produrrà idee e critiche, anche attraverso iniziative editoriali ormai in cantiere, senza rinunciare all’idea di contribuire a creare un “partito che serve all’Italia”, «o per aiutare il governo attuale, che sembra zoppicare, balbettare e cincischiare molto ma produrre poco, o per sostituirsi ad esso nel portare avanti un testimone politico importante». Per Magaldi – non da oggi – il ruolo del nostro paese è decisivo: «Ormai lo si è capito, e l’avevamo detto tanti anni fa: dall’Italia può venire il cambiamento. Se non viene dall’Italia non verrà da nessun’altra parte. Quindi c’è una ragione storica. E francamente c’è ancora troppa moderazione e troppa subalternità, narrativa e ideologica, rispetto a ciò che dicono da Bruxelles e da Francoforte». Quanto a Draghi, già allievo post-keynesiano del grande Federico Caffè ma poi convertitosi al peggiore neoliberismo (privatizzazioni selvagge e svendita dell’Italia), Magaldi ha fornito un inquietante profilo nel volume “Massoni”, uscito per Chiarelettere nel 2014. Il presidente della Bce milita in ben 5 superlogge sovranazionali del massimo potere neo-aristocratico: si tratta delle Ur-Lodge reazionarie “Three Eyes”, “Edmund Burke”, “Pan-Europa”, “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”e “Der Ring”.Queste strutture-ombra, rivela Magaldi, sono a capo dell’architettura che ha ridisegnato il mondo in modo autoritario, a partire dall’Ue, attraverso una globalizzazione a senso unico, che ha spolpato le classi medie piegando gli Stati alla “teologia” del rigore, demonizzando il deficit – cioè la leva strategica su cui si erano fondati i decenni del benessere diffuso. A Giovanni Tria dovrebbe guardare con estrema diffidenza un super-tecnocrate e supermassone reazionario come Draghi, direttore del Tesoro all’epoca del Britannia, poi promosso a Bankitalia, quindi stratega della Goldman Sachs nell’operazione-Grecia e infine “imperatore” della Bce. Che c’azzecca, Draghi, col governo gialloverde? «Questo personaggio – dice Magaldi – è davvero meritevole di rispetto e stima per la qualità della sua contro-iniziazione», espressione che nel linguaggio massonico significa: tradimento dell’impegno a lavorare per il bene della società. «Mario Draghi è davvero un brillante esempio di contro-iniziazione, sul piano massonico, e di declinazione perfetta della post-democrazia sul piano politico “profano”. E ora, con queste sue pagelle, lui che non vuole essere giudicato da nessuno, si permette di spiegare quello che deve o non deve fare il governo sovrano dell’Italia».Non staremo certo con le mani in mano, ribadisce Magaldi: «Quindi si prepari, Tria, perché sarà messo sotto esame, com’è giusto che sia, dall’opinione pubblica, inclusi i movimenti come il nostro». Non solo: «Tria sarà messo sotto osservazione dai “confratelli” progressisti cui aveva giurato di voler offrire un contributo importante per un rinnovamento democratico dell’Italia. E saranno valutati severamente, come sempre, anche personaggi come Draghi che – davvero – non perdono né il pelo né il vizio». Aggiunge Magaldi: «Tanto per non essere ambigui: come presidente del Movimento Roosevelt sto dando un avvertimento chiaro, al governo gialloverde. Abbiamo sostenuto l’alleanza e siamo vicini ad alcuni di loro – non a quelli che si gingillano in ipocrite massonofobie: il Consiglio dei ministri è pieno zeppo di massoni, tutti sedicenti progressisti. Ma qualcuno, a questo punto – ipotizza Magaldi – potrebbe rivelarsi “l’amico del Giaguaro”», una quinta colonna del potere neoliberista che ha colonizzato le istituzioni europee. Beninteso: «Nel governo non ci sono solo persone che stanno operando in senso ambivalente o sterile, ci sono anche presenze che si confermano positive. Ma il problema – conclude Magaldi – è che il dicastero dell’economia è affidato al “fratello” Tria, al quale è richiesto di gettare via ogni ambivalenza e di procedere in modo tale da non ricevere la lode di Mario Draghi: e la lode di Draghi è un sigillo che nessun serio governante che abbia a cuore il benessere dell’Italia può permettersi di ricevere».Non crediate di prendere in giro gli italiani: avete visto quanto ci ha messo, il prode Renzi, a passare dal 40% allo zero assoluto? Messaggio che Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché massone progressista (Grande Oriente Democratico) rivolge proprio a quelle figure di garanzia che sono state inserite nel governo gialloverde con una missione precisa: rompere, dopo tanti anni, la penosa consuetudine della sottomissione a Bruxelles. Qualcuno sta venendo meno agli impegni? Il primo indiziato è il professor Giovanni Tria, titolare del ministero dell’economia in virtù di «quell’incredibile attentato alla Costituzione che fu il “niet” proposto da Mattarella rispetto all’incarico a Paolo Savona». Ebbene, da oggi Magaldi lo chiama “il fratello Tria”, rivelando pubblicamente la sua identità massonica, per di più dichiaratamente “progressista”. Il problema? Molte chiacchiere, sin qui, ma pochi fatti. Peggio: insieme al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, «già massone neo-aristocratico “di rito montiano”, poi apertosi all’impegno progressista», proprio Tria – alle prese con il delicatissimo bilancio 2019 – ha appena ricevuto il più scomodo degli endorsement, quello di Mario Draghi: essere “promossi” da Draghi, scandisce Magaldi, è un “premio” che nessun governante sinceramente democratico può permettersi, in quest’Europa impoverita dall’élite neoliberista e messa alla frusta proprio dalla Bce.
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Finta rivoluzione, voluta dal potere che ha sdoganato Silvio
«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.Carpeoro non crede alle promesse “sovraniste” del futuro governo “gialloverde”, rispetto al quale Mattarella ha già calato pesantissime ipoteche: guai a uscire dai binari (deprimenti) di Bruxelles, ha avvertito il capo dello Stato, autorevole rappresentante italiano del club eurocratico. Il “contratto” tra Salvini e Di Maio prevede, almeno sulla carta, i punti principali del programma elettorale della Lega e quello dei 5 Stelle: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero (cioè dei tagli alle pensioni). «Onestamente: per attuare queste scelte servono davvero tanti soldi, troppi, e non di capisce dove li possano trovare, Salvini e Di Maio». Risultato: «Probabilmente non riusciranno a combinare niente di sostanziale, magari annunceranno misure importanti ma poi scopriranno di non poterle applicare davvero». Nel frattempo, però, l’Italia avrà un governo pienamente operativo, in grado per esempio di varare il Def, il documento di programmazione economica e finanziaria. «Sarà un governo per prendere tempo», insiste Carpeoro: un esecutivo che nasce per consentire al paese di andare comunque avanti, e soprattutto per permettere al Pd di riprendersi dalla déblacle elettorale, tornando ad essere il garante affidabile dell’austerity europea da infliggere all’Italia.Carpeoro interpreta come un evento non casuale (e addirittura sinistro) la sconcertante sincronicità che lega il “perdono” del Cavaliere all’ok dato a Salvini per l’alleanza tattica con Di Maio, ennesimo indizio della “giustizia a orologeria” che, per Carpeoro, resta una delle grandi piaghe politiche del nostro paese. Un passaggio che dimostra, una volta di più, il potere reale della “sovragestione”, ben al di sopra della “volontà degli elettori”: costretto a mettere in pista Di Maio e Salvini, turandosi il naso, l’establishment comunque sistemerà nei posti giusti i suoi “frenatori” (cominciando dal Quirinale, che demonizza la sovranità chiamandola “sovranismo”), preparandosi a veder fallire le riforme più rivoluzionarie in arrivo, dal taglio delle tasse al reddito garantito. Finale già scritto: seguirà la classica restaurazione di potere «affidata come sempre ad ex comunisti ed ex democristiani», cioè le correnti consociative e iper-eurocratiche incarnate dal Pd, l’erede dell’Ulivo fondato da Romano Prodi, l’uomo dei poteri forti che ha azzoppato l’Italia amputando l’Iri, vero motore del sistema industriale del made in Italy. Riusciranno Di Maio e Salvini a sfuggire a un deludente destino che sembra già scritto? Difficile, sostiene Carpeoro, visto che è proprio il super-potere (grazie a Berlusconi) a dare il via a questa rivoluzione solo apparente.«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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Terzo parricidio all’italiana, con Moro finì l’era di Bisanzio
Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.Ma davvero pensate che il disegno di Moro fosse finalizzato a portare all’opposizione la Dc e al governo il Pci nel nome di una formula politica, l’alternanza? Suvvia, è una fiaba masochista, la stessa che fece erigere a Maglie il monumento a Moro con in mano “l’Unità”. Moro pensava che l’unico modo per garantire ancora altri anni di Dc al potere fosse quello di proseguire l’integrazione avviata nei primi anni ’60 coi socialisti, estendendo il condominio ai comunisti, che al potere avrebbero perso il crisma della diversità. In lui la ragion di partito prevaleva sulla ragion di Stato, conservare al potere la Dc era priorità assoluta, come mostrò nel processo Lockeed. Poi la prospettiva dichiarata era quella, ma intanto garantiva alla Dc di continuare a governare, inglobando un’opposizione cresciuta oltre il 30%. Per far questo, qualcun altro (De Mita) pensò poi di varare la formula dell’arco costituzionale in modo da usare l’antifascismo come collante e alibi. La conventio ad excludendum dei missini era un rito d’esclusione che serviva in realtà a un’inclusione, del Pci nell’area del governo.In terzo luogo, chi avversava quel progetto? A livello internazionale gli americani e i sovietici, per ragioni complementari, riconducibili a Yalta. A livello nazionale, i comunisti duri e puri e l’ultrasinistra vedevano in Moro il Corruttore del comunismo in un governo catto-borghese, filo-atlantico, filo-capitalistico. E lo avversavano i socialisti di Craxi che restavano soffocati dall’abbraccio tra Dc e Pci; e le destre, missini in testa. Via libera invece dal capitalismo nostrano e dalle sue mosche cocchiere repubblicane (l’alleanza dei produttori). Se si chiede “cui profuit”, a chi giovò, l’assassinio di Moro, si deve dire: a tutti loro. Ma Craxi cercò di salvarlo. E la destra avrebbe capitalizzato il dissenso di chi non ci stava col compromesso storico, passando da piccolo partito marginale a grande forza di opposizione. Il consociativismo era un’occasione di crescita per la destra nazionale.A destra Moro non piaceva non solo per l’apertura a sinistra, ma per la sua politica estera, soprattutto su due questioni: la sua reazione debole alla Libia di Gheddafi che espropriò e cacciò gli italiani e il trattato sulla zona B a Trieste che segnava ancora una certa sudditanza a Tito, un tradimento e una cessione di sovranità. In quarto e ultimo luogo, cosa ha lasciato Moro in eredità politica? Poco o nulla del suo stile e della sua teoria che divenne prassi con l’altra sfinge Dc, Andreotti, salvo sterzare verso altre strategie (il Caf) liquidando il compromesso storico. Sul piano civile, col delitto Moro finì l’onda rivoluzionaria e panpolitica del ’68, s’impose il Riflusso, il Privato, l’Oblio, l’edonismo, la tv… Dopo Moro tramontò la politica come primato e militanza, tramontò il Partito, si appiattirono le ideologie, si perse l’afflato popolare. Poi ci sono le leggende morotee, gli occultismi e gli spiritismi intorno alla sua prigionia e alle sue (non) belle lettere; la storia delle tangenti e il ruolo del suo segretario Freato; le dicerie – come quella che Moro avrebbe chiesto ad Almirante di candidare nel Msi Miceli, già capo del Sid, accusato del tentato golpe – e perfino i gossip (come la presunta love story, lui sobrio e compassato, con una cantante pugliese).Lasciamo da parte pure le congetture sulla sua morte, le romanzate, pirotecniche e fumose dietrologie sul suo assassinio, che reca sicura la firma comunista delle Brigate Rosse, anche se sono verosimili le reti di complicità istituzionali e internazionali e le ombre che si allungarono sulle trattative. Infine un’impressione personale. Quand’ero ragazzo vedevo Moro, mio conterraneo, come un vetusto leader al potere dall’antichità; lento, affaticato, emaciato, dalla voce flebile, la parola paludata e la frezza bianca che ormai aveva la maggioranza assoluta della sua chioma. E invece quando morì Moro aveva solo 61 anni. Gli anni del potere, un tempo, si contavano in ere geologiche. Si dirà che un tempo era così, si diventava vecchi molto prima. Ma è pure vero che il potere conservava una sua solennità che intrecciava gerarchia e gerontocrazia, anche nei leader meno carismatici come lui. Di Moro non restarono grandi opere, grandi tracce. Solo il fumo di un lessico e lo stile felpato e cattolico di un potere e del suo logorio. Finì con Moro l’era di Bisanzio.(Marcello Veneziani, “La verità politica sul caso Moro”, da “Il Tempo” del 15 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.
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Winkler: l’Italia è scassata, senza difese contro il rigore Ue
L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua ecomomia mista, pibblico-privata.E’ scolpito nel marmo il risultato storico del riformismo: «Notevole sviluppo, sotto il profilo economico e sociale». Ma le parole possono cambiare verso, se vengono corrotte: ieri il riformismo era sinonino di progresso generale e benessere diffuso, mentre oggi – in mano all’Ue – suona come una campana a morto per società con sempre meno diritti. «Laddove una volta per riformismo si intendeva tutto ciò che gradualmente portava al miglioramento della condizione umana – scrive Winkler – oggi invece la parola, spesso usata in Europa, evoca subito cambiamenti sì, ma in peggio». E in particolare: «Tagli di bilancio, rigidità, sacrifici, col portato inevitabile di disoccupazione, impoverimento, bassi salari e precariato diffuso». Nella sostanza, un futuro senza sviluppo: «Diventa sempre più impervio coniugare welfare, sviluppo e benessere». Problema capitale: «Al centro del sistema politico non c’è più l’uomo ma il bilancio, il freddo dato contabile, che ha portato l’intero continente europeo ad “impiccarsi” alle politiche restrittive che non stanno dando i frutti sperati e che nel nostro paese hanno portato e porteranno nel tunnel di una grave crisi di cui non si vedrà l’uscita. E’ entrato in crisi l’intero sistema istituzionale ed economico».La crisi del sistema bancario ne è un fulgido esempio, osserva Winkler: «Falliscono banche e si stigmatizza l’attività della banca centrale, istituzione da sempre considerata garanzia di serietà e competenza per la tutela di tutti». Le sinistre, in Europa e ancor più in Italia, versano in grave crisi di identità. Se a questo si aggiunge l’effetto della globalizzazione sull’intero pianeta, «non vi è chi non veda che la situazione diviene esplosiva e può tendere al catastrofico». Allora, conclude Winkler, «diventa facile e fuorviante nascondersi dietro slogan ad effetto: il populismo, il sovranismo e altre pretestuosità del genere». Infatti «è lapalissiano dire che le persone non possono che sentirsi prima cittadini del proprio paese, poi cittadini europei e poi, forse, cittadini del mondo. E’ palese il disorientamento generale, specialmente tra i giovani». In virtù della crisi, non trovano più lavoro: quando c’è, è solo un impiego precario e sottopagato. Colpa dell’Europa, si dice, o magari «dello straniero che viene in cerca di fortuna e fugge da luoghi impossibili». Sempre incolpevoli, noi? Non si considera mai, dice Winkler, che vi è la netta carenza di una politica che tuteli il cittadino e attui misure adeguate. Netta carenza politica, appunto: è sparita la sinistra, quella che aveva attutito gli urti e cercato di tenere in equilibrio la società, evitando che gli ultimi fossero abbandonati a se stessi (fino a rifugiarsi, oggi, nell’esasperazione del “populismo”).Generalmente, nella storia recente, l’armonizzazione sociale non è stata svolta «dalle forze politiche di riferimento dell’oligarchia finanziaria o industriale», ma proprio «da quelle forze di sinistra riformista che volevano coniugare sviluppo ed equilibrio economico, meriti e bisogni, concorrenza e competenza, socialità e individualità, nella sostanza libertà e giustizia sociale». Prendiamone atto, insiste Winkler: «Il sistema politico-economico costruito dai nostri padri fondatori è in stato comatoso, allo stato attuale non regge più». Si è rotto qualcosa di importante: il motore sociale, che era coeso. «Il grande accordo tra industria, partiti, sindacati, sistema cooperativo e Chiesa ha garantito sviluppo economico e conseguente benessere», con politiche di spesa «a volte eccessive», che però «il sistema ha retto per molti anni». Mano pubblica nell’economia: lo Stato «assisteva la grande impresa con leggi ad hoc che producevano investimenti», e in più il governo «assisteva il sistema cooperativo con benefici fiscali tutt’ora esistenti». Piccole e medie imprese, dal canto loro, praticavano «massiccia evasione, per lo più tollerata». Inoltre, da Roma cadevano «contributi a pioggia per lo sviluppo del Mezzogiorno», con risvolti deteriori: «Si praticava un clientelismo sfrenato, con assunzioni nel pubblico oltre il consentito, sia nelle aziende a partecipazione pubblica che negli enti». Di fatto, comunque, «non vi era settore che non avesse qualche beneficio, il tutto in una sorta di consociativismo politico-economico diffuso e generale. Tutto si teneva».Poi nel ’92, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, «espressione esclusivamente giornalistica», sotto i colpi di Mani Pulite si estinguevano vecchi i partiti (salvo uno, il Pci, che cambiava nome diventando Pds) ma «non veniva meno quel sistema, né sul piano morale né sul piano dei precedenti assetti economici». Ovvero: «Il sistema di assistenza diffusa rimaneva intatto», divenendo aperto malcostume, che poi «si implementava in maniera esponenziale: ai ladri di partito si sostituivano i ladri e basta, che crescevano a dismisura». Per Winkler, l’unico cambiamento vero e sostanziale di quegli anni «è stata la dismissione dell’Iri con la privatizzazione di imprese a partecipazione pubblica di ottimo livello». Secondo l’analista, «non è stato un cambiamento di sistema politico-economico, ma solo una gattopardesca trasformazione, tanto che se si guardano i dati il debito pubblico dal ’92 ad oggi, esso è superiore a quello formatosi dal ’46 al ’92». Altro che Seconda Repubblica: solo un’evolzuione della Prima. «Con la successiva introduzione della moneta unica e l’applicazione di rigide politiche di bilancio imposte dall’Europa – aggiunge Winkler – la visione di quel sistema, mai estintosi, diviene chiara, trasparente, senza possibilità di equivoci: il re è nudo».Siamo alle forche caudine dell’Unione Europea: «L’Europa del bilancio, alle quale si è sovrapposta la globalizzazione, mette in grave crisi più di tutti il sistema Italia, che non ha avuto mai una vera e propria economia di mercato». Il welfare italiano, poi, «si reggeva non tanto sullo sviluppo prodotto, ma soprattutto sull’espansione del debito, senza limiti di sorta». L’economia? «Era ed è per lo più assistita». E quel poco di economia che non fruisce di assistenze, specialmente nei settori della piccola e media impresa, «è talmente gravata da oneri burocratici, sociali e fiscali che le è sempre più difficile rimanere sul mercato». Le piccole imprese sono numerose e concorrono in modo rilevante al Pil, ma «non possono fuggire all’estero come le grandi», e quindi «subiscono la concorrenza spesso sleale di piccole attività straniere operanti senza controlli negli stessi settori, con manodopera impiegata spesso in nero e in condizioni di sfruttamento e con più vantaggiose regole amministrative e fiscali». A questo, prosegue Winkler, va poi aggiunto un fenomeno tutto italiano: «Gli investimenti di un enorme flusso di denaro proveniente dai proventi delle organizzazioni criminali». Decine di miliardi di euro, «che costituiscono parte significativa del Pil nazionale».Alcuni, per nascondere alla gente i veri problemi, la “buttano in caciara” agitando lo spettro del razzismo, che in realtà contagia esigue minoranze. Il problema non è la presunta xenofobia, ma il tenore di vita: «Coloro che si vedono andare in pensione alla soglia dei 70 anni, che vedono aumentare i costi sanitari e che sono costretti a sostenere i figli che rischiano di essere precari a vita (mal pagati, se non sfruttati), mal digeriscono coloro i quali, ancora più disperati, si affacciano dall’estero ad un mercato del lavoro privo di ogni regola». Non è razzismo, ma disperazione: tristemente, è solo guera tra poveri. Una situazione che non piove dal cielo, ma ha precise responsabilità: «Le politiche di rigidità causano il sottosviluppo e soprattutto sono causa della cosa più odiosa dell’umanità: la lotta tra gli emarginati». E lo scontro tra i meno abbienti «prescinde totalmente dal colore della pelle». Così, «la forbice sociale si allarga sempre più, e ancor più la forbice generazionale». A conti fatti: escluse le quasi tremila medie imprese che fatturano da 50 milioni di euro a due miliardi, e a parte «il fiume di denaro illecito e poco altro», il resto dell’economia nazionale è per lo più assistito, «a meno che non si voglia considerare la grande impresa indenne da sostegni statali».Secondo Winkler, si è cercato di spacciare politicamente il precariato per flessibilità, «ma questa esiste solo dove c’è una dinamica di mercato, che nel nostro paese non è mai esistita». In Italia, «tutto è controllato con un complesso di procedure amministrative degne dei migliori paesi illiberali». Tradotto: «L’onesto imprenditore viene dissuaso dall’intraprendere nuove attività. Viene invece favorito, attraverso il mancato controllo, lo sfruttamento dei lavoratori, che nei casi di immigrati è a volte vera e propria schiavitù», In più, «viene tollerata ogni forma di illegalità nell’ambito commerciale e nei servizi privati». Troppa burocrazia, da snellire usando la scure. E troppe mega-cooperative, «che nei fatti sono grandi imprese che operano nei settori finanziari, bancari, assicurativi e della grande distribuzione», con assurdi vantaggi fiscali rispetto alle imprese che operano come società di capitale negli stessi settori. «Riportiamo il cooperativismo all’iniziale vocazione, quando lo scopo era favorire il lavoro degli associati e la loro sicurezza», scrive Winkler. E poi, occorre «separare le banche di raccolta da quelle di affari, affinché il risparmiatore sappia che si fa del suo denaro, se ci si gioca “a dadi” con i derivati o se lo si impiega per crediti a famiglie e attività produttive».E ancora: regolare il commercio semplificando le procedure e ristabilendo una leale concorrenza. Vigilanza e controlli devono stroncare «il caporalato, lo sfruttamento e la schiavitù (vedi in agricoltura)». E poi: «Equiparare le pensioni sociali al costo per lo Stato del migrante». La lista è lunga: rendere umani i tempi della giustizia, proteggere i giovani lavoratori limitando i contratti a termine, costringere la pubblica amministrazione a risarcire i danni causati dalle sue lentezze burosauriche. E’ pacifico: «Chi investe deve poter programmare le proprie attività». Giovani imprenditori: hanno diritto a un «sereno avviamento», con sgravi fiscali per i primi cinque anni. Tocca a noi, dice Winkler: il paese deve saper «prendere la strada delle vere riforme che possano rendere veramente dinamica e flessibile la nostra economia». Se invece «saprà solo attuare politiche restrittive imposte dall’Europa», allora addio Italia: «Non ci sarà speranza per il futuro, se non per una opulenta oligarchia senz’anima», quella che domina la scena da almeno 25 anni – da noi come a Bruxelles – dopo aver trasformato la parola “riforme” in un incubo per tutti.L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua economia mista, pubblico-privata.
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Ma Di Maio, aspirante paramassone, finirà peggio di Renzi
E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.Non vedo giovani molto promettenti, purtroppo, nelle prime file del M5S. Ho conosciuto persone più interessanti tra i parlamentari e i dirigenti. Ma i vari Di Maio, Di Battista e Fico non mi sembrano dei fulmini di guerra: modesti, sul piano culturale e sulla visione del progetto. Di Maio si agita molto, va spesso a Londra bussando a club massonici e paramassonici, ma è destinato a essere bruciato forse in modo ancora più squallido di quanto non sia accaduto a Matteo Renzi. Questo, naturalmente, se Di Maio rimane quello che è, cioè il narcisistico e inconsistente portavoce di un movimento che non ci ha ancora dato modo di comprendere qual è il suo progetto per il governo dell’Italia. Noi non vogliamo che i nostri rappresentati siano i vari Di Maio, Renzi, Alfano. Questi hanno già dato, e male: noi abbiamo una classe politica che non appassiona più nessuno, la gente che va a votare è sempre meno. C’è bisogno di una nuova formazione politica. Queste persone, al di là dei loro limiti personali, sono anche persone formate male, cresciute male in 25 anni dove s’è persa tutta la sapienza politica accumulata negli anni dal dopoguerra in avanti.C’è bisogno di recuperare l’idea di partiti veri, “pesanti”. C’è bisogno di recuperare il senso in cui il socialismo possa integrarsi col liberalismo. C’è bisogno di capire che ad una ideologia pervicace e occulta come quella neoliberista, che perverte i giochi istituzionali in Europa e nell’intera rete globale, va contrapposta un’altra ideologia, radicalmente democratica, che pretenda che tutti i meccanismi di democrazia siano sostanziali. Il Movimento Roosevelt combatte su questi fronti. Lasciamo agli altri di gingillarsi con le false primarie, con le false investiture di leader che non saranno mai eletti, con questo teatrino che rende gli uni condannati ad un eterno consociativismo (vedi Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Alfano: questi teatranti ormai maleodoranti della politica italiana) e gli altri, cioè il Movimento 5 Stelle, condannato all’opposizione per l’eternità. Peccato che i tempi del XXI Secolo sono rapidi: se uno resta sempre all’opposizione, rischia – più rapidamente che nel passato – di logorare il rapporto con la popolazione, che alla fine non lo vota più.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli nella diretta “Massoneria On Air” su “Colors Radio” il 25 settembre 2017, annunciando la nascita ufficiale del Pdp, Partito Democratico Progressista. «Auspichiamo – dice – che tutti i cittadini che sono stanchi tanto del centrodestra che del centrosinistra (ma anche del M5S in questa sua versione inconcludente) confluiscano copiosi nella nuova formazione» alla quale sta lavorando Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, impegnato a Roma il 4 novembre per un convengno sulla Costituzione «con proposte rivoluzionarie per migliorarla, non certo nel senso tentato da Renzi») e con l’assemblea costituente del Pdp. Il nuovo soggetto politico aprirà inoltre un cantiere di formazione politica, il Master Roosevelt in Scienze della Polis, e si prepara a celebrare a Milano, nel gennaio 2018, un convegno sull’eminente figura del socialdemocratico svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale all’Onu).E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.
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Foa: visto? Anche i tedeschi, nel loro piccolo, s’incazzano
Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.I tedeschi chiedono una vera alternativa moderata e pretendono che si affrontino i veri problemi della società. Quali? L’immigrazione, innanzitutto. In Germania si conferma una verità che i progressisti e la maggior parte dei media si ostinano ad ignorare. L’immigrazione è fonte di ricchezza e non genera problemi quando i flussi sono regolati, quando l’integrazione è reale e quando non si formano comunità chiuse. Se invece diventa impetuosa, sregolata, massiccia, viene rifiutata perché vissuta come destabilizzante e, per l’ordine pubblico, pericolosa. E la propaganda “buonista”, alimentata anche dalla Cdu, responsabile di aver spalancato le frontiere sull’onda emotiva della foto del piccolo Aylan, non basta a convincere gli elettori. Risultato: milioni votano per Alternative für Deutschland, che vola al 13%. Ma non è solo l’immigrazione ad aver favorito la destra nazionalista. La Germania ha una bilancia commerciale record ma l’export non trascina l’economia interna, dove la disoccupazione è bassa ma a fronte di troppi posti di lavoro a stipendi ridicoli, i cosiddetti minijobs da 450 euro, con cui vengono pagati oltre 7 milioni di persone; un paese dove le tasse restano alte, dove i länder dell’Est continuano a languire.In teoria, alla luce dei risultati economici, il paese dovrebbe vivere un boom memorabile ma non è così, anche per l’effetto paralizzante dell’euro – che, come spiega da tempo Alberto Bagnai, impedisce la rivalutazione e la svalutazione delle monete nazionali e di conseguenza il più naturale fenomeno di compensazione fra economie forti e deboli. La Germania è sempre più ricca ma la sua ricchezza non si trasferisce alla società nel suo insieme. L’Afd ha saputo intercettare un malumore che fino ad oggi premiava i partiti di sinistra. Non è un caso che l’Spd sia crollata e che la Linke e i Verdi siano rimasti stabili. Così come non è un caso che il Partito liberale sia tornato in Parlamento, superando lo sbarramento del 5% e di gran carriera: raggiunge il 10,5%. Molti elettori della destra moderata, che credono nell’imprenditoria privata, che vogliono pagare meno tasse, hanno convogliato sull’Fpd i consensi riservati 4 anni fa alla Cdu di Angela Merkel, a conferma del forte desiderio di una vera alternativa. Sì, anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Con l’odioso Schulz e con la smunta Merkel, che rimarrà cancelliere, ma che dovrà faticare non poco per varare una nuova coalizione. Non fatevi ingannare dai titoli di queste ore sulla vittoria della Merkel. E’ arrivata prima questo sì, ma perdendo quasi un quarto del proprio elettorato. Che scoppola!(Marcello Foa, “Anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Vero Schulz? Vero Merkel, che in realtà crolla?”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 14 settembre 2017).Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.