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Morte chimica dal cielo, Carpeoro: il Rosacroce Lucio Dalla
«Che cos’è che passa lì nel cielo? Un aereo o una meteora? C’è qualcosa che vien giù: è una neve metafisica, la morte chimica». Allarme: anche Lucio Dalla arruolato tra i cosiddetti complottisti, pronti a definire “scie chimiche” le misteriose strisce bianche rilasciate dagli aerei fino a velare il cielo? Il fenomeno è diventato sempre più vistoso negli ultimi anni, ma lo si è cominciato a notare solo dopo il Duemila. Secondo il giornalista investigativo Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, si tratta di un’operazione di irrorazione dei cieli pianificata da Bush nel 2001 durante l’incontro con Berlusconi al tragico G8 di Genova. Il piano sarebbe stato ratificato l’anno seguente, per divenire operativo dal 2003. Quando scrisse quella canzone, “Starter”, uscita come prezioso inedito nel 2018 (con il contributo di Tullio Ferro e Marco Alemanno), secondo “Repubblica” il cantautore bolognese stava lavorando con Francesco De Gregori, insieme a cui era impegnato nel tour “Work in progress”, del 2010. Il brano è ora disponibile nel ricco cofanetto “Duvudubà”: 70 tracce, con booklet fotografico. Ma attenzione: come decifrare quella “morte chimica” che “vien giù dal cielo”, sotto forma di “neve metafisica”, dopo il passaggio di “un aereo o una meteora”?La soluzione si troverebbe nell’Adriatico, di fronte al Gargano: per la precisione alle isole Tremiti, dove Lucio Dalla si trovava quando scrisse quegli enigmatici versi. Indovinello: «Cosa si vede dal cielo delle Tremiti?». L’autore del quiz è l’esoterista Gianfranco Carpeoro, autore del saggio in più volumi “Summa Symbolica”. Massone, già a capo della più antica obbedienza italiana del Rito Scozzese, l’avvocato milanese di origine cosentina (Pecoraro, all’anagrafe) anima la diretta settimanale web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un filo diretto con gli affezionati ascoltatori, ai quali lanciare anche sfide avvicenti, come quella che investe il Lucio Dalla meno conosciuto e decisamente insospettabile: «Era un iniziato», rivela Carpeoro, che conosceva personalmente l’autore di “Piazza grande” e “4 marzo 1943”. Di più: «Lucio Dalla era un Rosacroce: uno degli ultimi». Della misteriosa, leggendaria fratellanza iniziatica ribattezzata nel ‘600 con il nome Rosa+Croce, avrebbero fatto parte personaggi come Giorgione, Caravaggio e Leonardo nonché Giordano Bruno, quando il gruppo era denominato “Giordaniti”, e prima ancora il sommo Dante (Fidelis in Amore), per risalire fino a Gioacchino da Fiore, autore dell’Aquila Gigliata. A questa “leggenda realmente accaduta”, Carpeoro ha dedicato una trilogia di romanzi: “Il volo del pellicano” “Labirinti” e “Il Re Cristiano”.Proprio al sovrano dei Goti, Alarico, vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo, l’autore attribuisce un’affiliazione iniziatica: la stessa che forse, secoli prima, legava Scipione l’Africano al mitico Annibale, il cui nome fenicio significa “mandato da Dio”, come tutti gli altri nomi derivati dalla medesima radice, declinata nell’italiano Giovanni e nel russo Ivan. Labirinti, appunto – nei quali però Carpeoro invita a non perdersi, tenendo d’occhio il filo d’Arianna (l’amore per la conoscenza) che volendo, assicura, può portare fino a Lucio Dalla, seguendo le tracce elusive di quella che il mondo esoterico chiama Tradizione Unica Primordiale: schegge di un sapere antico, archetipico, tramandato per via iniziatica e affidato all’eloquenza silenziosa dei simboli, vero e proprio alfabeto parallelo e senza tempo, con cui scrivere le tappe fondamentali della meta-storia dell’umanità, quella del pensiero. Lucio Dalla esoterico? Assolutamente sì, conferma Carpeoro, ma alla maniera dei Rosacroce: specialità, metterti la verità sotto il naso, senza però che nessuno se ne accorga, a prima vista. Le scie chimiche nei cieli delle Tremiti? Forse. Ma anche la strage di Ustica, del 1980: «A quel tragico evento Lucio Dalla dedicò una canzone: sfido chiunque a scoprire quale sia».Nello stesso anno saltò per aria la stazione di Bologna, città vicinissima alla località (San Benedetto Val di Sambro) dove nel ‘74 era esploso un ordigno a bordo del treno Italicus, partito da Roma e diretto a Monaco di Baviera. «Pensava proprio alla tragedia dell’Italicus, Lucio Dalla, quando compose la canzone “Balla balla ballerino”», uscita nel 1980 in un’Italia scossa dalla carneficina di Bologna. Avverte Carpeoro: quella canzone, che sembra solo un inno all’umanità irriducibile che sa resistere alla violenza, è intrisa di contenuti esoterici e contiene indizi, cifrati e minuziosi, sulla cupa attualità di quegli anni. «Per esempio: il citato ballerino non è un danzatore qualsiasi, ma un individuo ben preciso». La mente corre al più noto ballerino degli anni di piombo, l’anarchico Pietro Valpreda, ingiustamente incarcerato per la strage milanese di piazza Fontana. Messaggi sottotraccia, tra i versi più o meno innocui di una canzone? «E’ la modalità comunicativa dei veri inziati», sostiene Carpeoro: «Prevede che l’ascoltatore non abbia “la pappa fatta”, ma si faccia domande e impari a usare il cervello». Beninteso: non perde valore la percezione più immediata e accessibile della lirica, quella a cui il pubblico infatti si affeziona subito.E’ il medesimo meccanismo dell’allegoria dantesca, nella quale coesistono le due verità, quella evidente e quella nascosta. Idem per la “doppia denotazione” adottata da un altro immenso poeta, Eugenio Montale: ti racconto una storia che ne illumina un’altra, senza che la seconda oscuri la bellezza della prima. Nel caso di Dalla, l’intento sarebbe classicamente “rosacrociano”: inserisco inidizi strani e anomali (il treno Palermo-Francoforte) in modo che qualcosa si faccia strada in chi ascolta, avvinto dalla gradevolezza pop della canzone, scritta e cantata per farsi ricordare nel modo più facile e orecchiabile. Ma in attesa che Carpeoro e la sua “scolaresca” chiariscano i retroscena più intimi del famoso “ballerino”, invitato a danzare “anche per i violenti”, che sono “morti da sempre, anche se possono respirare”, l’ex sovrano gran maestro del Rito Scozzese italiano aggiunge, per inciso, che lo stesso Lucio Dalla caricò di significati intensamente iniziatici uno dei suoi capolavori, “Com’è profondo il mare”, brano straordinariamente poetico (e profetico) almeno quanto “L’ultima luna”, che – sempre secondo Carpeoro – è ispirato direttamente al filosofo ed esoterista francese Édouard Schuré: come il suo saggio “I grandi iniziati”, che Dalla amava moltissimo, “L’ultima luna” ripropone la storia dell’umanità suddivisa per epoche evolutive, sulla scorta dell’intuizione di Giambattista Vico.L’ultima luna, canta Lucio Dalla, la vide solo un bimbo appena nato: aveva occhi tondi e neri e fondi, e non piangeva. Con grandi ali, aggiunge, prese la luna tra le mani. “E volò via: era l’uomo di domani”. Visione: il neonato è alato come l’uomo-Dio raffigurato in mille modi da Leonardo, a cominciare dall’immortale icona dedicata a Vitruvio, codificatore latino dell’architettura sacra. Ma quello su cui Carpeoro invita a indagare è lo stesso Lucio Dalla che ha fatto innamorare milioni di italiani sulle note di “Caruso”, de “L’anno che verrà”. E’ il Dalla coltissimo, spiazzante e geniale, in soldalizio col poeta Roberto Roversi, da cui i giacimenti lirici di “Anidride solforosa” e poi di “Automobili”, con la magistrale evocazione post-futurista e straordinariamente epica dell’eroe italiano Tazio Nuvolari, che “ha cinquanta chili d’ossa, le mani come artigli, un talismano contro i mali”. Pensava in grande, Lucio Dalla, anche quando “scendeva” tra le semplificazioni della cosiddetta musica leggera. Stesso stile di quelli che Carpeoro descrive come gli ultimi, grandi esponenti della fratellanza rosacrociana: il musicista venezuelano Aldemaro Romero e il regista moldavo Emil Loteanu, l’autore de “I lautari”, nomadi dell’Est come i tanti gitani che affollano i testi di Dalla, coi loro “denti di ferro e gli occhi neri, puntati nel cielo per capirne i misteri”.E’ il caso dello struggente Sonni Boi, piccolo cavaliere con la “mappa delle stelle” disegnata sul braccio: lo zingaro avvistato nel “Parco della Luna” con la sua donna Fortuna, “a metà strada tra Ferrara e la luna”. Rosacroce, Lucio Dalla? Ebbene sì, ammette Carpeoro: solo che, spiega, era una specie di superstite. A Yalta, di fronte alla desolante spartizione del mondo decisa dalle superpotenze, la confraternita preferì ritirarsi dalla scena intuendo che l’umanità non sarebbe “guarita” dall’odio che aveva scatenato la Seconda Guerra Mondiale. Motivo ulteriore di sconforto: la rinuncia a impegnarsi per uno Stato palestinese, accanto a quello progettato per gli ebrei reduci dalla Shoah. «I Rosacroce erano a Yalta – dice Carpeoro – nell’entourage dei massoni Rooseevelt e Churchill». Speravano di incidere, nel senso dell’evoluzione dell’umanità: rottamare il vecchio schema del potere, concepito come forma di dominio. Utopia? Naturalmente: proprio di utopia parla il capolavoro di Tommaso Moro, consonante con “La città del sole” di Campanella e “Christianopolis” di Johannes Valentin Andreae: «Letteratura politica, alla quale i Rosacroce – veri padri del socialismo – fecero ricorso tra ‘500 e ‘600, dopo la diffusione di un formidabile strumento come la stampa moderna creata da Gutenberg».Missione: comunicare e parlare anche al grande pubblico, pur restando in incognito come soggetto collettivo di matrice iniziatica. Strategia: produrre capolavori artistici, entro i quali concentrare messaggi cifrati, a cominciare dalla musica. Esempi storici clamorosi: dal Bach del “Canone inverso”, che svela la potenza armonica della complementarità, al rivoluzionario Mozart del “Flauto magico”. Fino al secondo ‘900, con artisti pop del calibro di James Brown e Freddy Mercury dei Queen. Anche il nostro Lucio Dalla, assicura Carpeoro, faceva parte di quel cenacolo clandestino di “cospiratori bianchi”, impegnati ad aiutare l’umanità a tirar fuori il meglio di sé. Purtroppo, aggiunge, dopo Yalta i Rosa+Croce entrarono in una fase di acquiescenza. Stabilirono che alla morte del loro ultimo Ormùs, il geniale pittore Salvador Dalì, la catena iniziatica si sarebbe interrotta: nessun maestro avrebbe più potuto “iniziare” altri adepti. Lo sapeva quindi anche Lucio Dalla, morto improvvisamente a Montreux, in Svizzera, il 1° marzo 2012, sicuro di aver abbondantemente infiammato, per tutta la vita, i sentimenti degli italiani. E altrettanto certo, probabilmente – per dirla con Carpeoro – di aver fatto anche il suo “dovere” di Rosacroce: parlare al cuore, per svegliare il cervello e tentare di rendere l’umanità più consapevole, dunque più libera.«Che cos’è che passa lì nel cielo? Un aereo o una meteora? C’è qualcosa che vien giù: è una neve metafisica, la morte chimica». Allarme: anche Lucio Dalla arruolato tra i cosiddetti complottisti, pronti a definire “scie chimiche” le misteriose strisce bianche rilasciate dagli aerei fino a velare il cielo? Il fenomeno è diventato sempre più vistoso negli ultimi anni, ma lo si è cominciato a notare solo dopo il Duemila. Secondo il giornalista investigativo Gianni Lannes, autore del blog “Su la testa”, si tratta di un’operazione di irrorazione dei cieli pianificata da Bush nel 2001 durante l’incontro con Berlusconi al tragico G8 di Genova. Il piano sarebbe stato ratificato l’anno seguente, per divenire operativo dal 2003. Quando scrisse quella canzone, “Starter”, uscita come prezioso inedito nel 2018 (con il contributo di Tullio Ferro e Marco Alemanno), secondo “Repubblica” il cantautore bolognese stava lavorando con Francesco De Gregori, insieme a cui era impegnato nel tour “Work in progress”, del 2010. Il brano è ora disponibile nel ricco cofanetto “Duvudubà”: 70 tracce, con booklet fotografico. Ma attenzione: come decifrare quella “morte chimica” che “vien giù dal cielo”, sotto forma di “neve metafisica”, dopo il passaggio di “un aereo o una meteora”?
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Apocalisse maltempo: qualcuno sta bombardando l’Italia?
Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza di spiegazioni ufficiali definitive ed esaurienti. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.Un silenzio tombale è calato sulle rivoluzionarie scoperte del fisico Nikola Tesla, all’epoca emarginato dalla comunità scientifica, mentre l’ingegnere bresciano Rolando Pelizza ha raccontato a due docenti universitari, Francesco Alessandrini e Roberta Rio, che il geniale Ettore Majorana (ufficialmente scomparso nel 1938 ma in reatà nascosto in Calabria fino al 2005) progettò una “macchina” capace di mutare il clima all’istante. «Dello sviluppo di questa “macchina”, costruita in 50 esemplari su istruzioni dello stesso Majorana – dice ancora Pelizza – fu incaricato direttamente il governo italiano tramite Giulio Andreotti, che poi passò il dossier alla Cia». Un altro italiano, l’imolese Pier Luigi Ighina – assai meno celebre di Majorana, ma notissimo agli appassionati – riprodusse anche per le telecamere di “Report”, su Rai Tre, il suo straordinario esperimento, condotto con mezzi artigianali: Ighina era in grado di far piovere, creando nuvole nel cielo sereno (o a scelta, di far spuntare il sole tra i nuvoloni) semplicemente azionado, da terra, le pale di una sorta di ventilatore gigante, cosparse di alluminio. Il trucco? Cambiare la consistenza elettromagnetica della bassa atmosfera, immettendo vortici di onde.«La manipolazione climatica è realtà», sostiene il sito “Dionidream”, citando estati torride e mezze stagioni scosse da nubifragi e alluvioni di inaudita violenza, come quelli che hanno messo in ginocchio varie aree della Pensiola, a cominciare dal Veneto, dove le trombe d’aria hanno divelto decine di migliaia di alberi, devastando storiche foreste alpine. Fuori dall’Italia, il fenomeno della manipolazione climatica non è esattamente una novità: «Festa in cielo, vietata la pioggia», titolò il Tgcom24 di Mediaset il 23 marzo 2009, parlando di «aerei in cielo per disperdere le nubi» in occasione del settantesimo anniversario della “repubblica popolare” fondata da Mao. «Per impedire che la pioggia rovini i grandiosi festeggiamenti in programma, si ricorrerà a una tecnica senza precedenti», raccontò il telegiornale: «L’aviazione impiegherà 18 apparecchi che disperderanno nell’atmosfera prodotti chimici per impedire che dal cielo sopra Pechino cada la pioggia». Nello stesso anno, a novembre, sempre la Cina s’imbiancò fuori stagione, come raccontò “La Repubblica”: «Una nevicata precoce ha coperto con un’abbondante coltre bianca Pechino. Il tutto ha però ha avuto un aiutino dell’Ufficio Modificazione del Tempo della capitale cinese».I tecnici, riferì tranquillamente l’agenzia “Xinhua”, «hanno riversato in cielo con degli aerei 186 dosi di ioduro d’argento, per approfittare delle nuvole e del brusco calo della temperatura». Questo, scrisse “Repubblica”, «ha generato la nevicata», il cui scopo era «alleviare la persistente siccità». Ammise Zhang Qiang, responsabile dell’ufficio meteorologico: «Non ci facciamo sfuggire occasione per provocare precipitazioni, da quando Pechino registra una persistente condizione di siccità». Due anni dopo, nel 2011, l’allora presidente iraniano Mahmud Ahmedinejad accusò l’Occidente di aver provocato una gravissima siccità per mettere in crisi l’economia agricola del paese. «Secondo rapporti sul clima, accuratamente verificati, le potenze occidentali forzano le nuvole fino a far piovere», dichiarò Ahmedinejad, come confermato dal “Giornale”. «I nostri nemici distruggono le nuvole prima che arrivino sul nostro paese». Ancora la Cina, già nel 2011, è tornata protagonista sul tema, annunciando un investimento da 120 milioni di euro per riuscire, entro il 2015, a far aumentare del 10% le precipitazioni nelle zone più aride.«Un primo esperimento in tal senso era stato già condotto nel febbraio 2009, quando diverse regioni erano state irrorate da una pioggerellina leggera, generata da agenti chimici sparati nell’atmosfera con 2.392 razzi e 409 cannoni, in grado di creare nuvole cariche di pioggia», scrove il sito “Greenews”. «Le nuvole ‘adatte’ alle precipitazioni vengono ‘seminate’ con ioduro d’argento, un agente chimico che favorisce l’aggregazione delle molecole d’acqua per creare grandi gocce abbastanza pesanti da cadere al suolo». La tecnologia in realtà non è nuova, aggiunge “Greenews”: i primi esperimenti risalgono alla Guerra Fredda. «Durante la guerra del Vietnam, gli Stati Uniti lanciarono l’Operazione Popeye per cercare di intensificare i monsoni sul Sentiero di Ho Chi Minh, la rete di strade che andavano dal Vietnam del Nord al Vietnam del Sud passando per Laos e Cambogia, usate dai Vietcong e dai loro sostenitori. Nel 1978, però, gli esperimenti per far piovere artificialmente negli Usa furono interrotti, in seguito a una grave inondazione causata dal bombardamento chimico delle nubi». Dal Sud-Est Asiatico al Medio Oriente: «Israele “stimola” le nuvole dal 1961 e riesce così a rendere fertili e rigogliose terre di per sé aride».«Nel mondo ci sono diversi esperimenti in corso di questo tipo, ma siamo lontani dal poter dire di essere in grado di controllare la pioggia», disse nel 2012 a “Greenews” uno specialista come Sandro Fuzzi, climatologo del Cnr di Bologna, al quale allora sembrava remoto il rischio di gravi effetti collaterali, dato che gli interventi si svolgevano «su scala ridotta, al massimo di qualche decina di chilometri», mentre i fenomeni più distruttivi, come le alluvioni, «riguardano fronti di centinaia e anche migliaia di chilometri». L’ultima frontiera, aggiunge ancora “Greenews”, consiste nel bombardare le nuvole dal basso con dei laser: esperimento condotto nel 2010 in laboratorio e poi «replicato a Berlino da un gruppo di ricercatori dell’università di Ginevra e pubblicato sulla rivista “Nature Photonics”». Con un laser di grande potenza, una specie di “cannone energetico”, i ricercatori hanno colpito ed “eccitato” le molecole di gas presenti nell’aria. «Il risultato è stata la formazione di nuclei di condensazione attorno ai quali si sono create piccole gocce di acqua». Secondo il blog “Shivio news”, già nel 2012 erano oltre 20 i paesi impegnati nella sperimentazione di nuove tecniche per provocare precipitazioni.In vetta classifica primeggiano i soliti cinesi: Pechino, letteralmente, «impiega nel “rainmaking” oltre 37.000 addetti, fra tecnici e ricercatori», mentre «una trentina di aerei, 4.000 rampe per razzi e 7.000 cannoni vengono usati per sparare in cielo nuclei di sostanze intorno alle quali stimolare processi di condensazione di gocce d’acqua o cristalli di ghiaccio». Negli Stati Uniti, gli aerei «gettano nelle nuvole ghiaccio secco e ioduro d’argento». In Sudafrica si usa invece il cloruro di potassio: «I sali vengono diffusi da aerei che volano sotto le nubi in formazione, e servono ad aumentare il numero e la misura delle gocce». Anche il Messico, aggiunge “Shivio”, sta sperimentando la tecnica sudafricana, che «sembra che sia in grado di aumentare di un terzo il volume delle precipitazioni». Qualcuno poi ricorderà la primissima performance, in assoluto, della geoingegneria più spettacolare: il 9 maggio del lontano 2007, in occasione della fastosa celebrazione dell’anniversario della vittoria dell’Urss nella Seconda Guerra Mondiale, il Tg1 riprese lo spettacolo del sole riapparso “miracolosamente” tra le nubi nerissime del cielo di Mosca, grazie a una portentosa miscela a base di azoto, iodio e argento diffusa dagli aerei.Dall’uso civile a quello militare, il passo è breve: «Almeno quattro paesi – Stati Uniti, Russia, Cina e Israele – dispongono delle tecnologie e dell’organizzazione necessaria a modificare regolarmente il meteo e gli eventi geologici per varie operazioni militari ufficiali e segrete, legate a obiettivi secondari, tra cui il controllo demografico, energetico e la gestione delle risorse agricole». Lo disse già nel 2012 l’esperto aerospaziale Matt Andersson, allora in forza alla compagnia hi-tech Booz Allen Hamilton di Chicago. In un’intervista al “Guardian”, Hamilton ha ammesso: il nuovo tipo di guerra non convenzionale «comprende la capacità tecnologica di indurre, spingere o dirigere eventi ciclonici, terremoti e inondazioni, includendo anche l’impiego di agenti virali per mezzo di aerosol polimerizzati e particelle radioattive, trasportate attraverso il sistema climatico globale». Lo stesso Hamilton ha citato una think-tank della galassia neocon, il Bpc (Bipartisan Policy Center, con sede a Washington) e il suo rapporto nel quale chiede agli Usa e agli alleati di accelerare la sperimentazione su larga scala del cambiamento climatico.Secondo il “Guardian”, il gruppo è finanziato da «grandi compagnie petrolifere, farmaceutiche e biotecnologiche», e rappresenta «gli interessi corporativi del mondo militare e scientifico statunitense». Il newsmagazine “Sputnik News”, citando il canadese Chossudovsky, osserva: la geoingegneria ha omai prodotto «sofisticate armi elettromagnetiche». E anche se la cosa non è ammessa ufficialmente, men che meno a livello scientifico, le capacità di manipolare il clima (anche per scopi militari) sono in stato avanzatissimo. La storia di questa disciplina risale addirittura al 1940, quando il matematico americano John Von Newman, al Pentagono, iniziò la sua ricerca per la modifica del clima. Obiettivo: alterare i modelli meteorologici. Una tecnologia sviluppata negli anni ‘90 secondo il programma di ricerca della cosiddetta “alta frequenza aurorale attiva” (Haarp, High Frequency Active Auroral Research Program), come appendice di una iniziativa strategica di difesa, le “Guerre stellari”. Il programma Haarp, installato in Alaska e poi bloccato, sarebbe stato parte di una strategia tuttora attiva: le brusche modifiche del clima possono «estendersi, avviando inondazioni, uragani, siccità e terremoti».Ammissioni ufficiali? Impensabili. Meglio lasciare che certe voci circolino in modo incontrollato (bufale comprese), per poi liquidare il tutto sotto la voce “teoria del complotto”. «E’ naturale che su un tema come il cambiamento climatico la Cia collaborerebbe con gli scienziati per meglio comprendere il fenomeno e le sue implicazioni sulla sicurezza nazionale», ha detto un portavoce dell’intelligence Usa, dopo la diffusione della notizia, da parte del sito legato al periodico statunitense “Mother Jones”, secondo cui proprio la Cia starebbe aiutando con ingenti finanziamenti la Nas, National Academy of Sciences, impegnata in uno studio sull’applicazione della geoingegneria per manipolare il clima. Su “Meteoweb”, Filomena Fotia spiega che “Mother Jones” descrive lo studio come un’inchiesta riguardante «un numero limitato di tecniche di geoingegneria, inclusi esempi di tecniche di gestione delle radiazioni solari (Srm, Solar Radiation Management e rimozione dell’anidride carbonica (Cdr, Carbon Dioxide Removal). Geoingegneria “buona”, per proteggerci dall’attività solare divenuta pericolosa per la Terra?«La manipolazione meteorologica – aggiunge Fotia – è stata riportata in auge da molti commentatori statunitensi in occasione dei devastanti tornado in Oklahoma, o di altri eventi estremi come l’uragano Sandy, che sarebbero stati “generati dal governo” usando la base dell’Haarp in Alaska». Ma, appunto: il tema si presta a speculazioni incontrollate, vista la mancanza di riscontri esaurienti da parte delle autorità, sempre estremamente laconiche, come quelle interpellate nel 2014 da Alessandro Scarpa, allora consigliere comunale di Venezia. “Grandinata anomala e scie chimiche, il maltempo si tinge di mistero”, titolò il 24 settembre il “Gazzettino”, storico quotidiano veneziano, dopo «una grandinata fuori dal normale», sotto un cielo «carico di nubi come mai si era visto». E lassù, «quelle scie bianche nel cielo terso il giorno dopo». Sono bastati questi due fenomeni, scriveva il “Gazzettino” quattro anni fa, a ridestare un quesito: e se questo maltempo eccezionale non fosse il risultato delle bizze atmosferiche, ma di qualcosa di “chimico”?In redazione arrivò una lettera allarmatissima: grondaie intasate da “noci” di ghiaccio persistenti ed enormi: «Come mai questo ghiaccio non si è sciolto? Sembrerebbe di formazione chimica, da laboratorio, e non naturale». Per Alessandro Scarpa, vale la pena di esaminarli, certi fenomeni, «se non altro per capire di cosa si tratta» Ad esempio, «le strane scie chimiche che si vedono nei nostri cieli». Molte le segnalazioni pervenuite al Consiglio comunale, «da parte di cittadini veneziani, preoccupati, che chiedono spiegazioni». Scarpa si è rivolto inutilmente all’Enav, l’ente nazionale di assistenza al volo, che gestisce il controllo del traffico degli aerei civili. Nessun lume neppure dal ministero dell’ambiente di Roma: risposte evasive o bocche cucite. «È quindi opportuno – sottolinea Scarpa – preoccuparsi seriamente per noi e per i nostri figli». E aggiunge, rivolto ai giornalisti disattenti: «Questa mattina, quando il cielo era limpidissimo, si sono viste una quindicina di linee nel cielo veneziano». Quattro anni dopo, la situazione è gravemente peggiorata: non c’è più una giornata serena senza che il cielo non sia “sporcato” dalle scie, di ora in ora, mentre l’Italia sta diventando il bersaglio di violentissime tempeste di tipo tropicale, come quella che ora ha messo in ginocchio il Nord-Est.Lo scorso anno, a gennaio, il colonnello Mario Giuliacci – affabile volto televisivo – sul suo sito ha tentato di sgombrare il campo da ogni illazione, presentando testualmente un comunicato ufficiale dell’aeronautica militare. La spiegazione dei militari è ineccepibile, riguardo alla vistosa presenza di molte delle scie: «Le nuove generazioni di motori che equipaggiano i moderni aeroplani a reazione, per avere un miglior rendimento termodinamico dato dalla differenza di temperatura tra la camera di combustione e l’ambiente esterno, impiegano miscele di acqua e carburante la cui combustione genera le enormi quantità di vapore acqueo che sono all’origine delle scie». Secondo i militari, dunque, sono aumentate in modo esponenziale le scie di condensazione, in gergo “contrails”, destinate poi a scomparire nell’atmosfera. «Per le caratteristiche termodinamiche dei motori, per le quote di volo e per la localizzazione – aggiunge l’aeronautica – la quasi totalità delle scie che si osservano in cielo sono prodotte dai jet di linea degli operatori commerciali. La loro durata è variabile da pochi istanti a minuti e talvolta a ore, in dipendenza dell’umidità, delle temperature e in genere delle condizioni termodinamiche dell’aria circostante».Poi la chiosa: «Per quanto ci compete, l’Aeronautica Militare non possiede aeromobili che generano o emettono scie differenti da quelle prodotte a causa della condensazione di vapore acqueo». Il che – alla lettera – non significa escludere la presenza di altre scie, di ben diversa natura, emesse da velivoli estranei all’aeronautica militare italiana: le famigerate “chemtrails”, appunto. Tra le pagine del blog “Su la testa”, il giornalista investigativo Gianni Lannes (vittima di minacce e attentati per le sue indagini scomode, specie quelle sulla mafia dei rifiuti) sostiene che si è ormai clamorosamente violata la “Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente”, a fini militari o ad ogni altro scopo ostile, nota anche come Convenzione Enmod: «E’ il trattato internazionale che proibisce l’uso delle tecniche di modifica dell’ambiente». Firmata il 18 maggio 1977 a Ginevra, è entrata in vigore il 5 ottobre 1978, approvata anche dall’Onu. Gli Stati firmatari sono 48, inclusi gli Usa, di cui 16 non hanno ancora ratificato il trattato. In totale, i paesi che vi hanno aderito sono 76. «L’Italia ha firmato la Convenzione a Ginevra il 18 maggio 1977 e l’ha ratificata con la legge numero 962 del 29 novembre 1980, grazie al presidente della Repubblica Sandro Pertini e all’approvazione quasi all’unanimità del Parlamento».Secondo Lannes, questa verità viene regolarmente “oscurata” perché illegale, oltre che aberrante. Ma l’Italia, sostiene Lannes, ha concesso i propri cieli durante l’infelice G8 di Genova del 2001, quando Berlusconi firmò un trattato segreto, con Bush, che trasformava il nostro paese in un’area-test per l’irrorazione dell’atmosfera. Dal 2003, l’operazione è scattata. E nessuno ne parla: è top secret. Si chiama “Clear Skies Initiative”. Lannes attinge direttamente a fonti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato: le pagine istituzionali americane ammettono apertamente che il 19 luglio 2011, a Genova, Bush e Berlusconi impegnarono i loro paesi in un programma di ricerca sul cambiamento climatico e sullo sviluppo di “tecnologie a bassa emissione”. Operazione poi approvata il 22 gennaio 2002 dal ministero italiano dell’ambiente e dal Dipartimento di Stato Usa. Dunque, scrive Lannes nel blog “Su la testa”, cambiamenti climatici indotti e “collaborazione” (si fa per dire) tra Stati Uniti e Italia, con quest’ultima a fare da cavia. «Dalla documentazione delle autorità nordamericane emerge che in questa vasta operazione gestita in prima battuta dal Pentagono, dalla Nasa e dalla Nato, sono coinvolte addirittura le industrie e le multinazionali più inquinanti al mondo: Exxon Mobil, Bp Amoco, Shell, Eni, Solvay, Fiat, Enel».Tutti insieme appassionatamente, secondo il giornalista, compreso il settore scientifico: università italo-americane, Enea, Cnr, Ingv, Arpa e così via. «Insomma, controllori e controllati. L’Enac addirittura ha partecipato ad un test “chemtrails” in Italia insieme a Ibm, ministero della difesa, stato maggiore dell’aeronautica e ovviamente Nato». Mancano, sempre, le conferme ufficiali. In compenso si scatenato i “debunker” come Paolo Attivissimo: “Scie chimiche, aria fritta con contorno di bufala e grana”. Dopo il disastro aereo del volo Germanwings del 2015, schiantatosi sulle Alpi francesi, anche il “Giornale” si sbizzarrisce: “Airbus, dalle scie chimiche alle ’strane scritte’: complottisti scatenati”. Nel frattempo Enrico Gianini, ex addetto aeroportuale di Malpensa, racconta a “Border Nights”: una volta a terra, gli aerei delle compagnie low-cost perdono liquido inquinato da metalli pesanti, e non lasciano più caricare i bagagli nelle stive di coda, come se fossero ingombre di serbatoi clandestini. «Se mi denunciano, chiederò al tribunale di “smontare” uno di quegli aerei: così scopriranno finalmente cosa trasporta». Ma la notizia resta negli scantinati del web, mentre il finimondo rade al suolo il Veneto e la Cina stipendia i suoi “rainmaker”.Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza (in Italia, non all’estero) di spiegazioni ufficiali, definitive ed esaurienti, sulla manipolazione del clima. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.
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Mafia, Wall Street e traditori: così è stata svenduta l’Italia
Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza aglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di Tangentopoli gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal ministro degli interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: «Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi». Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle «menti più fini dei mafiosi» (da “reti-invisibili.net”). Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia («la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo Stato e piegarlo ai propri voleri»), Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: «Non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti a un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste» (“La Repubblica” , 27 maggio 1992).I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: «Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm» (“La Repubblica”, 28 maggio 1992). Anche il pubblico ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: «Su un piatto della bilancia c’è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti» (“La Repubblica”, 10 giugno 1992). Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo (“La Repubblica”, 23 giugno 1992).Che gli assassini di Capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. Il ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: «Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana» (“La Repubblica”, 23 giugno 1992). Lo stesso presidente del Consiglio, Amato, durante una visita a Monaco, disse: «Falcone è stato ucciso a Palermo, ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove». Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale “La Repubblica”, il 25 giugno 1992: «Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato».L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: «Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove» (“La Repubblica”, 27 maggio 1992). Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: «Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona» (“La Repubblica”, 11 agosto 1992). Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: «Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio “piano di rinascita democratica” di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale».«Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche» (“L’Unità”, 12 agosto 1992). Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo».Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani. La stampa martellava su Mani Pulite, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli enti statali in società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli “hedge funds” per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il Sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul “Financial Times”, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà: «Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l’Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico» (da “Solidarietà”, febbraio 1996).Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo aveva permesso a Soros di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros indagarono le procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.Spiegano il presidente e il segretario generale del Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà, durante l’esposto contro Soros: «È stata annotata nel 1991 l’esistenza di un contatto molto stretto e particolare del signor Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria Goldman Sachs & co. come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il signor Soros conta sulla strettissima collaborazione del signor Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della Albertini e co. Sim di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del Quantum Fund di Soros».«L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht Britannia della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di Stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa “Eir” (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione» (dall’esposto della magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995).I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la «necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo», pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico-finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: «I mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell’unificazione monetaria» (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, Rivista N. 4, gennaio-aprile 1996).Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché «se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato (“Solidarietà”, ottobre 1993). Il 6 novembre 1993, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare «le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute».Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una Spa. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva «risanare il bilancio pubblico», ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche, e al ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il titolo, che durante l’Opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla Jp Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. Anche per le altre privatizzazioni – Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia – si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del presidente del Consiglio.Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione lavori pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell’ottobre del 2006, il ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: «Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom» (“La Repubblica”, 5 settembre 1999). Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (bond) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating “Standard & Poor’s” si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale Spa (società della famiglia Tanzi), Citigroup Inc. (società finanziaria americana), Buconero Llc (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche Spa (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton Spa (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat Spa). La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. Agli italiani venne dato il contentino di Mani Pulite, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.(Antonella Randazzo, “Come è stata svenduta l’Italia”, da “Disinformazione.it del 12 marzo 2007. La Randazzo ha scritto libri come “Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa”, edito da Kaos nel 2006, “La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell’era dell’egemonia Usa” edito nel 2007 da Zambon e “Dittature. La storia occulta”, pubblicata da “Il Nuovo Mondo”, nel 2007).Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza anglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.
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Alfredino? Gettato nel pozzo di Vermicino dai suoi assassini
La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità.E’ la notte del 13 giugno ‘81, milioni di telespettatori spengono il video alle prime ore del mattino, profondamente amareggiati e delusi. Addolorato è anche il presidente della Repubblica, Pertini, che era corso sul posto nel pomeriggio quando si credeva che il bambino di sei anni potesse essere salvato. Il pm Giancarlo Armati, dopo la dichiarazione di morte presunta, ordina che siano immessi nel cunicolo gas refrigeranti. Il magistrato dovrà, poi, passare l’inchiesta al giudice istruttore. Si scava per alcuni giorni, poi viene prelevata una grossa sfera di terreno congelato con all’interno il corpo di Alfredino. La palla di terra e ghiaccio è trasportata all’Istituto di medicina legale dell’università. Il corpo, pur rimanendo congelato, viene isolato dalla terra; si fotografano le varie fasi e alcuni fotogrammi testimoniano l’esatta posizione di Alfredino dentro il pozzo. Il bambino si trovava nel cunicolo come fosse seduto, con le gambe ritirate a angolo retto in avanti. Il braccio sinistro, piegato anch’esso ad angolo retto, era dietro la schiena, l’altro era libero e la mano sovrastava verticalmente la testa.I medici legali scoprono che sotto la maglietta a righe colorate, a partire dalla pancia, c’è una lunga fettuccia di quelle usate per trasportare gli zaini, divisa in due segmenti uniti con un anello metallico molto largo. In sostanza un’imbracatura robusta e ben sistemata che passa anche sotto il braccio rimasto incastrato. Su questo reperto, i medici legali scattano molte foto: in una di esse si vede distintamente un grosso nodo. Per l’imbracatura viene usato anche un manichino, mentre due foto mettono in evidenza una ferita che il bambino aveva sulla testa. Ed è proprio dalla macabra sequenza di queste 62 foto, allineate in un album, che sono nati i primi sospetti sulla vicenda di Vermicino. Il primo interrogativo che si è posto il pm Giancarlo Armati nell’esaminare quei documenti fotografici riguarda il perché i due soccorritori, Licheri e Donato Caruso, non hanno agganciato la corda rossa di soccorso a quell’anello. La risposta più semplice a questo interrogativo l’ha fornita Caruso, sceso dopo Licheri: «Non ho visto quell’imbracatura, forse stava nella parte del corpo incastrata o era coperta e sporca dal fango».Se la risposta fosse quella giusta è evidente che Alfredino è finito nel pozzo con quell’imbracatura – o meglio, qualcuno lo ha calato nel cunicolo e poi lo ha fatto precipitare in modo che il suo corpo non fosse mai trovato. Il bambino invece rimase incastrato per due giorni a circa 36 metri di profondità poi sprofondò a 60 metri. Tutto semplice? Non è così. La soluzione del giallo ancora presenta un punto da chiarire. Angelo Licheri, il primo che raggiunse Alfredino, affermò che quell’imbracatura gli era stata data da uno speleologo prima di scendere nel pozzo di soccorso scavato a due metri dal cunicolo, e che era stato lui ad avvolgere con quella fettuccia il corpo del bambino. Proprio questa testimonianza potrebbe aver portato, finora, gli inquirenti fuori strada. Al processo, in tribunale la versione data da Licheri è stata smentita da alcuni protagonisti delle operazioni di soccorso; il pm Armati ha ravvisato molte contraddizioni su quanto è stato affermato dal coraggioso tipografo. L’ingegner Elveno Pastorelli, in modo perentorio, ha detto in tribunale che Licheri non aveva quell’attrezzatura quando scese con quella specie di ascensore fino a 30 metri. «Non lo avrei mai permesso», ha detto l’ex comandante dei vigili del fuoco, «era un’attrezzatura inadatta».Le sequenze televisive gli danno ragione, si vede Licheri che entra nel bidone-ascensore con le braccia alzate e senza alcuna fettuccia. Ha soltanto una benda legata ad un braccio: l’aveva preparata il professor Fava, il sanitario del San Giovanni che seguì le vicende del bambino e lo aiutò a resistere con latte e bevande mentre era nel cunicolo. La benda, di quelle usate in ospedale, da una parte era fissata al braccio di Licheri, dall’altra aveva un cappio che doveva essere introdotto nel braccio del bambino. Licheri ha eseguito questa operazione, però la benda scivolò. Infatti è stata trovata dai medici legali su una spalla di Alfredino e appare in due foto. Ma l’ingegner Pastorelli afferma un’altra verità, dopo aver visto le foto dell’Istituto di medicina legale. Era impossibile a Licheri o a qualsiasi altra persona realizzare quell’imbracatura all’ interno del cunicolo. Il pozzo è largo soltanto 28 centimetri, il soccorritore doveva stringere le spalle e unire le braccia protese in avanti, per potersi calare. Poteva soltanto far uso di piccoli movimenti delle sole mani e, in quelle condizioni, è pazzesco pensare che si possa fare una imbracatura.Più drammatico è stato il confronto tra il vigile del fuoco Mario Gonini e Licheri. Gonini, che si trovava a 30 metri nella piccola galleria scavata tra il cunicolo e il pozzo di soccorso, aiutò Licheri a calarsi: gli legò i piedi, fece scendere lentamente davanti a lui la corda rossa di soccorso e un piccolo tubo che portava ossigeno per respirare. Il vigile del fuoco ha sostenuto che Licheri non aveva alcuna fettuccia e, quando quest’ultimo insisteva nella sua versione, Gonini ha urlato: «Non fare il bambino, dì la verità!». Che Licheri non avesse l’imbracatura quando scese nel cunicolo lo ha sostenuto anche lo speleologo Bernabei, che era insieme a Gonini. Bernabei e Gonini erano le uniche due persone che si trovavano, sdraiate, nella piccola galleria di raccordo, lunga 2 metri. C’è inoltre un altro elemento che mette in discussione la testimonianza di Licheri. Lo ha fornito lui stesso quando raggiunse Alfredino nel cunicolo. «Lo hai preso?», gli chiese il vigile Gonini. «Mi scivola… mi scivola», rispose Licheri. E’ evidente che il soccorritore non stava operando su quella imbracatura, forte e massiccia, che il bambino aveva sul corpo, ma tentava di agganciare la mano con la benda.Anche le manette con le quali l’altro soccorritore, Caruso, tentò di agganciare quella mano, scivolarono e il tentativo fu inutile. Licheri, inoltre, quando risalì non disse a nessuno che aveva imbracato il piccolo e che bastava agganciare la corda rossa all’ anello metallico. In questo quadro assume una rilevante importanza il comportamento di Alfredino nei due giorni che visse nel cunicolo. Non parlò mai, durante i colloqui con il vigile Nando, di come era finito in quel pozzo. L’ esame delle cose dette dal bambino comporta una sola spiegazione: Alfredino non si era reso conto in quale posto si trovava. «Quando venite a salvarmi?», chiese a Nando. Il vigile rispose: «Abbiamo delle difficoltà, ma verrò presto a prenderti». Alfredino, con voce risentita: «Ma quale difficoltà! Sfondate la porta e entrate nella stanza buia». Non fece mai il nome di nessuna persona da lui conosciuta, ad eccezione di due volte, quando invocò e parlò con la mamma. Un atteggiamento che lascia adito a numerose considerazioni – una, soprattutto: che il piccolo sia stato calato nel pozzo dopo essere stato addormentato.(Franco Scottoni, “Alfredino du gettato in quel pozzo”, da “La Repubblica” dell’8 febbraio 1987. L’articolo si conclude con la menzione del pm Armati contro Elio Ubertini, il titolare della ditta che eseguì lo sbancamento del terreno. Due operai testimoniarono che l’imboccatura del pozzo nel quale rimase intrappolato il bambino era stata da loro chiusa con una grossa lastra di ferro, quest’ ultima coperta con grosse pietre e con due palanche di legno. «Un altro elemento che prova che il bambino non era in grado di aprire l’imboccatura del pozzo». L’articolo è ripreso dal blog dello scrittore Giuseppe Genna, autore del romanzo “Dies Irae” ispirato alla tragedia di Vermicino. Lo stesso Genna riporta anche un secondo articolo di “Repubblica”, datato 6 novembre 1987, nel quale il quotidiano scrive: «I misteri della tragedia di Alfredino Rampi, il bambino deceduto il 13 giugno ’81 nel cunicolo del pozzo di Vermicino, resteranno insoluti». Il pm si è arreso, chiedendo l’archiviazione del caso: Armati si è trovato nella impossibilità di accertare se la fine di Alfredino sia stata causata da disgrazia o da altre ragioni «più sconvolgenti», come lascerebbe pensare «la discordanza delle prove testimoniali e materiali».Ubertini, che aveva sbancato il terreno, fu accusato di omicidio per aver lasciato incustodita l’apertura del pozzo. L’imputato fu assolto con formula piena, ma durante il dibattimento emersero nuovi fatti. Il capo dei soccorritori, Mino Pastorelli, insieme a due vigili del fuoco sostenne che la cinghia trovata attorno al corpo di Alfredino «non poteva essere stata messa dal soccorritore Licheri, ma da qualcuno che aveva voluto calare il bambino nel pozzo». Inoltre fu presentata una perizia che stabiliva l’impossibilità che Alfredino fosse precipitato per disgrazia, in quel maledetto pozzo, a causa dalla limitata circonferenza del cunicolo. «Queste e altre circostanze – scrive sempre “Repubblica” – non hanno trovato dei riscontri probatori tali da chiarire con certezza il giallo». Così il pm Armati non ha potuto far altro che richiedere l’archiviazione, come normalmente avviene in casi così controversi. «L’ipotesi che dietro la morte di Alfredino ci sia stata volontà non è una fantasmagoria da conspiracy theory», sottolinea Giuseppe Genna nel suo blog. «Ci fu un processo e quel processo manifestò irresolubili ambiguità, legate all’esame del povero corpicino». Tutto ciò, aggiunge lo scrittore, è poco noto agli italiani «poiché l’impatto della diretta televisiva, che mostrava a milioni di spettatori un caso tragicamente fortuito, impresse un’immagine inscalfibile nell’immaginario nazionale»).La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità.
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Prove tecniche di rivoluzione, contro il racket del potere Ue
Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.Finisce nella bufera, in Italia, il presidente della Repubblica, accusato di non aver saputo resistere – in nome della dignità nazionale – alle midiciali pressioni del grande potere apolide che ha in mano l’Europa. E’ un potere senza patria, industriale e finanziario, neo-aristocratico e segretamente supermassonico. Un potere globalista e ricchissimo, infinitamente più forte – per il momento – delle piccole, residue sovranità nazionali ridotte a elemosinare decimali di deficit e briciole di flessibilità. Un sistema che, per primo, Paolo Barnard ha definito neo-feudale: svuotata la democrazia, piegata o “comprata” l’ex sinistra sindacale dei diritti, i signori del neoliberismo (peggiorato ulteriormente, in Europa, dalla versione ordoliberista teutonica, stolidamente ottocentesca e ottusamente mercantile, sleale e imbrogliona) hanno compiuto una restaurazione storica e drammaticamente spettacolare. Il potere, semplicemente, è tornato nelle mani di un’élite pre-democratica e pre-moderna, di tipo medievale. Gli ordini non si discutono: se il vero potere decreta che uno Stato non può più ricorrere al deficit, la discussione è finita. Pena, lo scatenarsi dei “mercati”. Una logica intimidatoria e brutalmente esplicita, di stampo mafioso. Una sorta di racket, al quale gli Stati ex-sovrani devono sottoporsi, senza che i cittadini-elettori siano mai stati interpellati. Fin qui, il copione di ieri. Quello che oggi sta letteralmente franando.Nelle parole che Sergio Mattarella ha rivolto alla nazione immediatamente dopo il “gran rifiuto” opposto alla nomina di Savona, risuona la visione macro-economica del sistema che il neoliberismo – vera e propria teologia dogmatica – ci ha fatto credere l’unica possibile. Per questo, Mattarella la presenta come ovvia: nel suo pensiero c’è posto per un solo modo di risolvere le crisi, e cioè tagliando il deficit pubblico. Una sola fede, una sola religione: quella che il neoliberismo ha imposto a mano armata, con formidabile efficacia, colonizzando l’immaginario universale – scuole, media, governi, editoria, università. Lo Stato deve dimagrire: non ci sono alternative, diceva Margaret Thatcher nel 1980. Peccato che la cura dimagrante imposta dal vero potere e inaugurata da Mario Monti abbia depresso l’economia al punto da far esplodere quel debito che si pretendeva di abbattere. Sono state colpite famiglie e aziende: meno lavoro, risparmi erosi, meno entrate fiscali. Risultato scontato: si è allargata la forbice tra debito e Pil. Come uscirne? Nell’unico modo possibile: facendo esattamente l’opposto. Investimenti a deficit, quindi più lavoro e più Pil, più entrate fiscali e, alla fine, riduzione proporzionale del debito. E’ semplice, in teoria. Ma sembra impossibile.I peggiori politici che un paese come l’Italia abbia mai avuto – gli eroi della Seconda Repubblica – hanno potuto sgranare impunemente il rosario dei falsi dogmi del neoliberismo. L’hanno fatto sempre, a reti unificate, mai contraddetti né interrogati dalla stampa. Un quarto di secolo si è giocato interamente solo all’interno di una soltanto delle narrazioni possibili, quella del neoliberismo, ulteriormente limitato dai vincoli dell’ordoliberismo europeo. Nessuno s’è mai chiesto come abbia fatto, il Giappone, a vivere benissimo con un debito pubblico al 200% del Pil, senza l’ombra di attacchi speculativi – impossibili, con moneta sovrana e una banca centrale che fa il suo mestiere di prestatore di ultima istanza. Nessuno in fondo si è mai chiesto niente di fondamentale, nell’Italia ipnotizzata per vent’anni dal finto duello tra Prodi e Berlusconi, entrambi al servizio (Prodi più di Berlusconi) del sommo potere neoliberista e privatizzatore. Ora, improvvisamente, il Re si scopre nudo: arriva a bloccare la nomina di un ministro, solo perché sgradita ai boss della finanza che occupano militarmente i palazzi europei. Gli italiani, a loro volta, scoprono che il loro voto è stato perfettamente inutile, e ormai diffidano delle istituzioni: temono che siano state colonizzate da poteri stranieri. C’è gente che queste cose le ha dette e scritte per vent’anni. La novità è che ora sono entrate clamorosamente a far parte dell’agenda politica, grazie a due movimenti eterodossi: uno ex-secessionista, l’altro creato dal nulla sul web.Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.
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Scie chimiche in tribunale, ma resta il silenzio sul fenomeno
Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nessuno sa o vuole spiegare come mai i cieli non sono più azzurri, ma a strisce bianche. Eppure la colpa è dei “complottisti”, non dei governi che tacciono sul fenomeno. Non fa eccezione la reporter Silvia Bencivelli, letteralmente bombardata da «un crescendo di insulti e minacce sui social (spesso a sfondo sessuale)», dopo un articolo scritto per “La Stampa” nel 2013, dal titolo: “Scie chimiche, la leggenda di una bufala”. Un assedio intimidatorio che, scrive ora su “Repubblica”, «mi ha costretto a vivere nella paura» da quando un “branco” di ostinati “cospirazionisti” l’ha presa di mira. Ora è stato condannato quello che Silvia Bencivelli definisce “il capobranco”: si tratta di Rosario Marcianò, del blog “Tanker Enemy”: otto mesi, per diffamazione a mezzo web. «La sentenza è di quelle storiche, capaci di creare un precedente», scrive Giorgia Marino sulla “Stampa”, che saluta «forse anche un cambio di rotta, in tempi in cui odio digitale ed esacerbata violenza verbale impediscono troppo spesso un pacato e civile dialogo online». Tutto nasce nel 2013, quando Bencivelli scrive un articolo che la stessa Marino definisce “di giornalismo scientifico”. «Dopo appena mezz’ora dalla pubblicazione online, sulla casella di posta elettronica della giornalista arriva una email di Marcianò: “Non ti vergogni?”. Da quel momento – scrive Giorgia Marino – comincia un vero e proprio mail-bombing da parte dei seguaci di Marcianò, a cui segue una valanga di messaggi aggressivi su Facebook, incitati dallo stesso guru delle scie chimiche».«Una bufera a cui non ero minimamente preparata», sostiene Silvia Bencivelli: «Io mi occupo di neutrini e balene, mai avrei pensato di poter suscitare un tale odio con un mio scritto». Si occupa di neutrini e balene, ma ha affrontato anche il tema delle scie chimiche. Come? Definendo il fenomeno “la leggenda di una bufala”. Sicurezza tolemaica, esibita già a partire dal sottotitolo: “Come una storia inventata da due truffatori americani nel 1997, per colpa dell’irrazionalità e dell’antiscienza, è diventata un articolo di fede”. Dunque quelle scie bianche sono rilasciate “dall’irrazionalità e dall’antiscienza”, non dagli aerei? Nell’articolo, la Bencivelli rievoca la storia di due statunitensi, Richard Finke e Larry Wayne Harris, che per reclamizzare la Lwh Consulting, società di consulenza contro gli attacchi terroristici, nel 1997 «cominciarono a spammare email in cui annunciavano l’imminenza di un attacco», con il batterio della peste bubbonica nebulizzato in atmosfera. A seguire, un “mailing” aggressivo sulla presunta irrorazione con sostanze tossiche mescolate al carburante degli aerei: «Le linee che riempiono i nostri cieli non sono scie di condensazione: vengono disperse e possono durare ore, rilasciando lentamente il flagello». La bufala cominciò così a volare, scrive Bencivelli, approdando sui media americani grazie al giornalista William Thomas, che ha lanciato “Skyder Alert”, il primo social network per appassionati di “chemtrails”: scaricato su smartphone, permette di inviare direttamente ai propri politici di riferimento le foto del cielo solcato da strisce bianche.«Sì, perché le principali prove dell’esistenza del fenomeno sono, al momento, fotografie del cielo», aggiunge Silvia Bencivelli nel suo articolo del 2013, citando “leggende” come quella degli “elicotteri neri” e “arei invisibili” che rilascerebbero veleni. Ma, a parte le dicerie sui vettori-fantasma, che dire delle scie che infestano lettaralmente il cielo da una quindicina d’anni? «Nella loro versione tradizionale», scrive la giornalista, «le scie chimiche vere e proprie sarebbero bianche e si riconoscerebbero dalle normali scie di condensazione degli aerei perché più spesse, più durature e genericamente insolite e sospette». Sarebbero? Certo: si usa il condizionale, di fronte alle scie bianche, come se chiunque non le potesse vedere. «Sarebbero anche recenti, cose degli ultimi vent’anni», aggiunge Bencivelli, «a dispetto di documenti fotografici risalenti alla guerra civile spagnola e alla seconda guerra mondiale che mostrano il cielo striato dalle tracce dei bombardieri». Qui bisogna ricorrere a Orwell: a meno di non metter mano a Photoshop, infatti – tra le foto scattate, a miliardi, sul pianeta Terra – è praticamente impossibile vedere (in tempo di pace) cieli striati di bianco, prima del Duemila. Oggi, viceversa, come chiunque può constatare – chiunque, ma non il giornalismo “scientifico” – non esiste più alcun orizzonte interamente blu, se non in giorni di forte vento: l’atmosfera è letteralmente coperta dalla griglia candida stesa in cielo ogni giorno dai “pittori” alati.Come da copione, in questi casi il mainstream si rivolge al Cicap, il think-tank fondato alla fine degli anni ‘80 su impulso di Piero Angela. L’iniziale Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, proprio nel 2013 ha cambiato pelle: il suo “controllo” si è concentrato sulle Affermazioni sulle Pseudoscienze. L’uomo Cicap immancabilmente citato da Silvia Bencivelli nel suo celebre articolo sulla “Stampa” è Simone Angioni, chimico dell’università di Pavia. Lo schema è ripetitivo: Angioni si limita a parlare delle innocue scie di condensazione, quelle che “seguono” l’aereo per pochi chilometri, dissolvendosi rapidamente. Un giornalista, “scientifico” o no, a questo punto dovrebbe fare domande. Per esempio: le scie sono aumentate? Da quando sono comparse le scie “persistenti”? Sono provocate dal carburante degli aerei o da mutate condizioni atmosferiche? C’è da preoccuparsi o possiamo stare tranquilli? In altre parole: cosa sono, tutte quelle scie che ormai velano il sole e che vent’anni da non c’erano? Ma niente: non se ne parla proprio, laddove si svela “la leggenda di una bufala”. Il chimico Angioni preferisce un altro tema: la descrizione delle dicerie comuni, a cura del “complottismo”, sulla composizione delle scie. «Per qualcuno, di recente – aggiunge il tecnico del Cicap – c’è anche il sospetto di un complotto internazionale per indurre modifiche climatiche con microparticelle metalliche o cose simili, che nasce dalla confusione con esperimenti veri, e pubblici, di modifica di microcondizioni climatiche».Esperimenti veri, e pubblici, di modifica di microcondizioni climatiche? Questa sì che è una notizia, ma a quanto pare è fuori dalla portata dal nostro giornalismo “scientifico”. Il report “owning the weather” diffuso dal generale Fabio Mini, già a capo della missione Nato in Kosovo, è rimasto per lo più confinato nel recinto “cospirazionista” del web, così come le tesi sulla geoingegneria esposte a Erice dallo scienziato americano Edward Teller, il primo a parlare di “aerosol” nei cieli. «Ma in sostanza, niente di dimostrato e niente, alla fine, di veramente spaventoso», si legge nell’articolo della Bencivelli sulle scie, rassicurante solo per i ciechi. «Solo una bufala che vola», insiste, nonostante le innumerevoli interrogazioni parlamentari sul tema e il riprovevole spazio concesso alle ipotetiche “chentrails” da trasmissioni come “Voyager” e da emittenti come “Radio Deejay”. Ma attenzione: «Non è un vero business», precisa il chimico Angioni, improvvisandosi esperto di comunicazione: «Piuttosto serve ad avere l’attenzione dei media e del pubblico, fino alla prima serata in tv», quando finalmente si parlerà di cose più serie. «Nonostante tutto, la bufala delle scie chimiche continua a viaggiare indisturbata». Perché? Secondo Angioni, per una ragione umanissima: «La convinzione di essere i salvatori del mondo è appagante, soprattutto se si può diventare eroi restando comodamente seduti alla propria scrivania».Al contrario, «rivedere le proprie convinzioni significa tornare alla dura realtà», sostiene il chimico del Cicap. «Così molti preferiscono rimanere nel mondo delle cospirazioni globali». Il mondo dei complotti: «Quello in cui le bufale volano, per esempio», chiosa Silvia Bencivelli, il cui caso – le minacce, ora sanzionate dalla magistratura – torna ad alimentare la campagna di stampa contro il web. Silenzio assoluto, invece, sulle fake news che i grandi media continuano a fabbricare: solo “Pandora Tv” ha raccontato la storia di Hassan Djab, 11 anni, trasformato – in cambio di un po’ di cibo – in “comparsa” per il video girato dagli Elmetti Bianchi per simulare le conseguenze del presunto attacco chimico a Douma, servito da pretesto per il bombardamento missilistico ordinato da Trump. Giornali e televisioni? Hanno parlato dei “gas di Assad”, poi hanno voltato pagina. «I Caschi Bianchi tentano di corrompere anche il mondo dello spettacolo», denuncia Roger Waters in un concerto a Barcellona, dopo che qualcuno aveva cercato di ingaggiare l’ex Pink Floyd per la “crociata” contro la Siria. E’ vero, sui social media circola molto odio, protetto dall’anonimato dei nickname. Le menzogne veicolate dalla grande stampa, invece, fanno volare i missili. Le scie chimiche? Sembrano una piccola palestra di deformazione della realtà. Non viene in mente, al Cicap, che per dissipare le più fervide fantasie “complottistiche” basterebbe un pizzico di verità? Chi si azzarderebbe ancora a romanzare ipotesi fantasiose, se finalmente un governo si decidesse a spiegare cosa sono, quelle scie bianche che tutti (tranne il giornalismo “scientifico”) vedono invadere il cielo, da una ventina d’anni?Tu chiamalo, se vuoi, giornalismo. Nessuno sa o vuole spiegare come mai i cieli non sono più azzurri, ma a strisce bianche. Eppure la colpa è dei “complottisti”, non dei governi che tacciono sul fenomeno. Non fa eccezione la reporter Silvia Bencivelli, letteralmente bombardata da «un crescendo di insulti e minacce sui social (spesso a sfondo sessuale)», dopo un articolo scritto per “La Stampa” nel 2013, dal titolo: “Scie chimiche, la leggenda di una bufala”. Un assedio intimidatorio che, scrive ora su “Repubblica”, «mi ha costretto a vivere nella paura» da quando un “branco” di ostinati “cospirazionisti” l’ha presa di mira. Ora è stato condannato (in primo grado) quello che la Bencivelli definisce “il capobranco”: si tratta di Rosario Marcianò, del blog “Tanker Enemy”: otto mesi, per diffamazione a mezzo web. «La sentenza è di quelle storiche, capaci di creare un precedente», si compiace Giorgia Marino sulla “Stampa”, che saluta «forse anche un cambio di rotta, in tempi in cui odio digitale ed esacerbata violenza verbale impediscono troppo spesso un pacato e civile dialogo online». Tutto nasce nel 2013, quando Bencivelli scrive un articolo che la stessa Marino definisce “di giornalismo scientifico”. «Dopo appena mezz’ora dalla pubblicazione online, sulla casella di posta elettronica della giornalista arriva una email di Marcianò: “Non ti vergogni?”. Da quel momento – scrive Giorgia Marino – comincia un vero e proprio mail-bombing da parte dei seguaci di Marcianò, a cui segue una valanga di messaggi aggressivi su Facebook, incitati dallo stesso guru delle scie chimiche».
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I generali: Mussolini deve sparire e morire come Matteotti
«Posdomani Mussolini andrà dal Re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti: Mussolini va “spedito” senza lasciar traccia, in modo che il Re non dovrà mai sapere nulla dell’accaduto». Così parlò il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore, nelle primissime ore del mattino del fatidico 25 luglio del 1943, giornata che poi si concluderà con la sconfitta del Duce alla riunione d’emergenza del Gran Consiglio del Fascismo. In realtà, riferisce Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, il voltafaccia dei gerarchi fascisti era stato pianificato dallo stesso Mussolini, con l’appoggio di settori massonici. Obiettivo: uscire (fuori tempo massimo) dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’abbraccio mortale di Hitler. Galeazzo Ciano avrebbe guidato la futura Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe soppiantato la monarchia e voltato le spalle all’altro grande sponsor del fascismo, il Vaticano, con il quale il Duce aveva stipulato i Patti Lateranensi, in cambio del consenso cattolico al regime. Mussolini, scrive Carpeoro, fu tradito dal massone Filippo Naldi, che informò Vittorio Emanuele III e la diplomazia pontificia, la quale a sua volta si affrettò a riferire ai nazisti. E in quelle ore concitate, scrive Lara Pavanetto, erano già in corso prove di golpe da parte dei vertici militari.L’esortazione a far sparire Mussolini, ricevuta dal generale Ambrosio, era rivolta al generale Angelo Cerica, comandante dell’arma dei carabinieri. Anziché riservare al Duce “la stessa fine di Matteotti”, però, il generale Cerica vuotò il sacco – sempre il 25 luglio – con il colonnello Tito Torella di Romagnano, “aiutante di campo” di Vittorio Emanuele III. Il sovrano «apprense così il piano dei suoi generali di rapire e assassinare Mussolini, e si infuriò», racconta Lara Pavanetto sul suo blog. Chi erano i capi militari che avevano ordito il piano? Tra i cospiratori figura il generale Giuseppe Castellano, primo aiutante di Ambrosio: era il più giovane generale dell’esercito, quello che avrebbe poi firmato l’armistizio di Cassibile, il 3 settembre del ‘43, sancendo la resa dell’Italia agli Alleati. Ma il cervello della congiura, sostiene Pavanetto, era il generale Giacomo Carboni, che dopo l’8 settembre sarà accusato della mancata difesa di Roma dai tedeschi. Nato a Reggio Emilia, da padre mazziniano e madre di origine anglo-americana, tra il 1936 e il 1937 svolse una serie di operazioni speciali in Etiopia che lo avvicinarono al Sim, Servizio informazioni militare. «Lo si ricorda soprattutto per aver diretto il Sim nel periodo della cosiddetta “non belligeranza”, fino alla drammatica estate del 1943». Il generale Carboni «fu il regista che aprì e chiuse l’esperienza bellica italiana al fianco dei tedeschi».Su posizioni antitedesche, nei mesi precedenti la dichiarazione di guerra, Giacomo Carboni «mantenne, per conto di Galeazzo Ciano e Pietro Badoglio, relazioni con gli addetti militari di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, e redasse rapporti pessimistici sulle capacità militari italiana e germanica». Come scrive Solange Manfredi nel suo saggio “Psyops”, «Carboni era assai vicino a Giuseppe Cambareri, spia-mago-esoterista al servizio degli Alleati». Proprio a Carboni, «Cambareri offrì la sua casa e la sua organizzazione come sede del quartier generale impegnato nella difesa di Roma dopo l’armistizio del 1943». Aggiunge Pavanetto: «Carboni era un conoscitore attento della realtà americana e, in dichiarazioni e scritti, si vanterà più volte di essere stato il primo, tra gli esponenti della fronda militare, a proporre al generale Ambrosio l’adozione di misure energiche contro il Duce». E infatti «ebbe un ruolo essenziale negli avvenimenti che seguirono la caduta di Mussolini». Il 18 agosto 1943 «fu nominato da Badoglio commissario del Sim, carica che mantenne sino alla capitolazione delle forze armate italiane».Sempre Carboni entrò a far parte del Consiglio della Corona, presieduto dal sovrano, cui erano deputate le decisioni politiche più importanti. Vi fece parte assieme a Badoglio, il generale Ambrosio e il capo di stato maggiore dell’esercito, Mario Roatta. Ambrosio affidò a Carboni il comando del corpo d’armata “motocorazzato” per la difesa di Roma dai nazisti. Il 7 settembre 1943, Carboni ricevette due ufficiali americani, Maxwell Taylor e William Gardiner, che gli comunicarono ufficialmente che l’indomani, alle 18.30, doveva essere resa nota l’avvenuta sottoscrizione dell’armistizio. Nel frattempo, si dovevano concordare i particolari dell’Operazione Giant 2 per la difesa della capitale. «Carboni sostenne che lo schieramento italiano non avrebbe potuto resistere più di sei ore alle truppe tedesche». Per decidere su come agire al meglio, lo stesso Carboni e i due ufficiali americani incontrarono Badoglio, e sempre Carboni riuscì a convincere il maresciallo della sua posizione. Badoglio richiese dunque l’annullamento dell’operazione-Roma al generale Eisenhower, che però, irritato dal tira e molla italiano, dalle onde di “Radio Algeri” rese nota la stipula dell’armistizio. Al Consiglio della Corona non restò che ordinare a Badoglio di ufficializzare la capitolazione, ai microfoni dell’“Eiar”.Il 9 settembre, a battaglia in corso e all’insaputa del suo superiore Ambrosio, il generale Roatta ordinò a Carboni di spostare su Tivoli parte del corpo d’armata “motocorazzato” posto a difesa di Roma, le divisioni Ariete e Piave, e di disporre una linea del fronte che escludesse la difesa della capitale. Roatta informò inoltre Carboni che a Tivoli avrebbe ricevuto ulteriori ordini dallo stato maggiore, che si sarebbe provvisoriamente insediato a Carsoli. «Più tardi pervenne a Carboni il formale ordine scritto con il quale lo si nominava anche comandante di tutte le truppe dislocate in Roma». Ma nel frattempo Vittorio Emanuele III e la sua famiglia, il maresciallo Badoglio, i capi di stato maggiore Ambrosio e Roatta e i ministri militari erano già in fuga, alla volta di Brindisi. Carboni raggiunse Tivoli per organizzare le truppe. Non riuscendo a rintracciare Roatta proseguì sino ad Arsoli, dove apprese che la colonna dei sovrani (con Badoglio) era ormai lontana. «Rimase alcune ore ospite del produttore Carlo Ponti, sino a quando il suo aiutante di campo non gli comunicò che l’ordine di Roatta delle ore 5.15 era stato confermato e, pertanto, provvide a riportarsi a Tivoli, dove insediò il suo comando. Nel frattempo, a Roma, in virtù del grado gerarchicamente più elevato, il maresciallo Enrico Caviglia stava procedendo a contattare i tedeschi per la cessazione del fuoco».Nel primo pomeriggio del 9 settembre, Carboni dette ordine alla divisione Granatieri di Sardegna, che stava fronteggiando la 2ª divisione paracadutisti tedesca al Ponte della Magliana, di resistere a oltranza. E chiese alle divisioni Ariete e Piave di predisporsi a sud (per prendere alle spalle la “paracadutisti”) e anche verso nord, tagliando la strada alla 3ª divisione Panzergrenadier che stava sopraggiungendo dalla via Cassia. Mentre ciò avveniva, però, il colonnello Giuseppe di Montezemolo e il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, a Frascati, incontravano il comandante tedesco Albert Kesselring, preparando la resa delle truppe di Carboni. Prima di sera, sempre il 9 settembre, fu ordinato ai Granatieri di Sardegna di lasciare il conteso ponte della Magliana, lasciando affluire verso nord le truppe naziste. La mattina del 10, rientrano nella capitale ormai assediata, Carboni scoprì – dai manifesti fatti affiggere dal maresciallo Caviglia – che ormai Roma era in mani tedesche.«Dopo la resa – annota Lara Pavanetto – Carboni fece distruggere buona parte degli archivi del Sim, custoditi nelle due sedi di Forte Braschi e Palazzo Pulcinelli, occultandone una parte superstite nelle catacombe di San Callisto». Nonostante la capitolazione, lo storico Ruggero Zangrandi ritiene il generale Carboni il vero vincitore della “battaglia di Roma”, avendo tenuto impegnate le efficienti divisioni paracadutisti e Panzergrenadier, impenendo loro di ricongiungersi al resto dell’armata germanica nei pressi di Salerno, in modo da permettere agli anglo-americani di effettuare lo sbarco sulla Piana del Sele il 9 settembre. Il generale Carboni, la mente del tentato golpe contro Mussolini, agì sicuramente nell’interesse degli aglo-americani. «Nel giugno 1944 fu spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura per la mancata difesa di Roma, ma eluse il provvedimento e si rese latitante grazie alle protezioni dei servizi di intelligence degli Alleati, in particolare l’Oss americano». Più tardi fu processato in contumacia, e il 19 febbraio 1949 fu assolto da ogni accusa per aver adottato «determinazioni indirizzate all’intendimento di arrestare fuori dalle porte della capitale l’invasione ad opera delle forze germaniche».Nel secondo dopoguerra, ricorda Pavanetto, lo stesso Carboni si avvicinò ai partiti della sinistra e fornì loro numerosi elementi di lettura sulla intelligence italiana, dal Sim al Sifar. Nel 1951, un precedente ordine di congedo assoluto emesso nei suoi confronti venne annullato e fu deciso il suo trasferimento nella riserva. Il 25 luglio del ‘43 non era riuscito ad attuare il golpe per eliminare Mussolini, data l’opposizione dei carabinieri? Il destino del Duce, però, era comunque segnato. Uscito sconfitto in piena notte dalla riunione del Gran Consiglio, il capo del fascismo chiese al segretario del partito, Carlo Scorza, di accompagnarlo in auto alla sua residenza romana di Villa Torlonia. Poche ore prima, tramite il generale Cerica dei caraninieri, il Re aveva appreso del tentato golpe militare. Al comandante dell’Arma, il sovrano rispose che avrebbe preso in mano la situazione, ricevendo Mussolini l’indomani, nel pomeriggio del 26 luglio, per chiedergli di dimettersi, cedendo il posto a Badoglio. Tre giorni prima, il 22 luglio, il Re aveva saputo – tramite il genero, Filippo d’Assia – del fallimento dell’incontro di Feltre e della decisione di Hitler: era pronta per l’Italia l’operazione Alarico, pensata nel caso che l’Italia rompesse, unilateralmente, l’alleanza con il Reich.L’operazione prevedeva l’istituzione del controllo militare diretto tedesco sulla penisola, dopo la fuga di notizie sulle ultimissime intenzioni di Mussolini: «Aggregare attorno all’Italia le potenze dell’Asse per imporre con forza alla Germania la pace separata con la Russia». Scrive Pavanetto: «Una parte dei vertici militari tedeschi erano favorevoli, non Hitler». Mussolini aveva messo al corrente il sovrano sulla linea che intendeva seguire, e Vittorio Emanuele III gli aveva inizialmente espresso il suo appoggio. Ma poi, dopo l’ambasciata di Filippo d’Assia, tutto cambiava: non ci sarebbe stato più spazio per nessuna mediazione, la penisola sarebbe stata invasa dai nazisti. Appena dopo i febbrili contatti con l’ambasciata del Giappone, anche Mussolini – dopo il Re – seppe della decisione di Hitler. Lo stesso Vittorio Emanuele III gli riferì del complotto dei generali: anche per questo, forse, l’ex Duce accettò di buon grado la protezione dei carabinieri, senza sapere però che il Re sarebbe poi scappato a Brindisi, con Badoglio, a gambe levate. «Quello che accadde poi lo sappiamo – o meglio, ancora oggi sappiamo solo alcune cose, di sicuro mezze verità», conclude Lara Pavanetto. «Certo la caduta di Mussolini non fu provocata dall’ordine del giorno Grandi, come scritto nei libri di storia e come raccontato nelle fiction televisive».«Posdomani Mussolini andrà dal Re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti: Mussolini va “spedito” senza lasciar traccia, in modo che il Re non dovrà mai sapere nulla dell’accaduto». Così parlò il generale Vittorio Ambrosio, capo di stato maggiore, nelle primissime ore del mattino del fatidico 25 luglio del 1943, giornata che poi si concluderà con la sconfitta del Duce alla riunione d’emergenza del Gran Consiglio del Fascismo. In realtà, riferisce Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, il voltafaccia dei gerarchi fascisti era stato pianificato dallo stesso Mussolini, con l’appoggio di settori massonici. Obiettivo: uscire (fuori tempo massimo) dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’abbraccio mortale di Hitler. Galeazzo Ciano avrebbe guidato la futura Repubblica Sociale Italiana, che avrebbe soppiantato la monarchia e voltato le spalle all’altro grande sponsor del fascismo, il Vaticano, con il quale il Duce aveva stipulato i Patti Lateranensi, in cambio del consenso cattolico al regime. Mussolini, scrive Carpeoro, fu tradito dal massone Filippo Naldi, che informò Vittorio Emanuele III e la diplomazia pontificia, la quale a sua volta si affrettò a riferire ai nazisti. E in quelle ore concitate, scrive Lara Pavanetto, erano già in corso prove di golpe da parte dei vertici militari.
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I Protocolli dei Savi di Sion: mistero indicibile, profezie vere
L’archetipo della lettura complottista: i “Protocolli dei Savi di Sion”. Un libro maledetto su cui molto è stato scritto e molto resta ancora da scrivere. Pubblicati per la prima volta nel 1905, i “Protocolli” furono accolti dall’opinione pubblica internazionale in modo ambivalente. Da un lato si fa notare che tutte le profezie in essi contenute si sono puntualmente avverate; e ciò dimostrerebbe la veridicità della congiura ebraica e massonica. Dall’altro si punta il dito sul fatto che quella congiura è in realtà il frutto della fantasia di Maurice Joly, che nel 1864 pubblicò un pamphlet, di cui i “Protocolli” sono un plagio evidente; e ciò dimostrerebbe la non-autenticità dell’opera. A mio avviso un’analisi serena e obiettiva del libro dovrebbe incentrarsi su questa inspiegabile contraddizione: come può un documento palesemente falso affermare fatti veri e verificabili? Poiché dei “Protocolli dei Savi di Sion” si fece immediatamente un uso politico, questo interrogativo fu messo da parte e i termini del discorso furono spostati dal problema non-autenticità/veridicità verso una strada sdrucciolevole: quello della verità trascendente. In Germania, dove la congiura ebraico-massonica fu ritenuta reale, i “Protocolli” furono usati dai nazionalsocialisti come una “licenza per un genocidio”, per usare le parole dell’israelita inglese Norman Cohn.In Russia, dove gli ebrei costituivano il 90% del governo bolscevico, bastava il solo possesso del libro per condannare il possessore alla fucilazione immediata, senza processo. Tra i due estremi si collocano i paesi cosiddetti democratici. In Inghilterra e negli Stati Uniti fin dal lontano 1920 la stampa sionista si batté per propagandare la tesi del complotto antisemita, usando l’argomento della non autenticità. In Svizzera si tenne un processo che dimostrò una verità processuale: ossia che ciò che non è autentico non può essere definito vero in aula di tribunale e quindi è una calunnia. Anche la sentenza fu però oggetto di speculazioni politiche, perché la verità processuale contraddiceva la verità dei fatti storici. A questo punto la parola dovrebbe passare proprio agli storici, ma pure costoro si sono lasciati manipolare dalla politica: poiché la storia si fa sui documenti e quelli in questione non sono autentici, gli storici hanno battuto la via a senso unico di indagare chi e perché compose i falsi “Protocolli”. Ancora una volta restava inevasa la questione della veridicità: come facevano questi malvagi calunniatori e falsari a predire con sbalorditiva esattezza tutti gli avvenimenti più importanti del Ventesimo secolo? Possedevano forse una sfera di cristallo?Ammettiamo per un attimo che qualcuno, conosciuto da tutti come un bugiardo, vi dica che possedete due braccia e due gambe: egli non ha forse detto, almeno per una volta, la verità? O la verità ha forse cessato di essere tale in bocca a un bugiardo (o presunto tale)? Crederete dunque di avere sei braccia come il dio Shiva solo perché tutti vogliono convincervi che colui che vi ha detto il contrario è un bugiardo? Ho posto queste domande retoriche per spiegare al lettore la molla che mi ha spinto a compiere ricerche più approfondite: quanto segue è il risultato dei miei studi. Per quanto è dato sapere, i Protocolli furono pubblicati per la prima volta in Russia da Sergey Nilus nel 1905 in appendice al libro “Il piccolo nel grande”. In realtà singole parti dei “Protocolli” iniziarono a circolare in forma privata già a partire dal 1897: l’anno del Primo Congresso Sionista a Basilea. In un primo momento Nilus affermò che i “Protocolli” erano il verbale delle riunioni segrete del congresso. Quando gli fu fatto notare che il congresso si tenne a porte aperte e che non tutti gli ebrei vi avevano partecipato, egli cadde nel tranello e cambiò versione. Nilus, insomma, mentiva e ciò bastò agli storici per parlare di un complotto politico. A nessuno venne in mente un’altra ipotesi: che Nilus, semplicemente, non conoscesse l’origine di quei documenti e che li avesse considerati autentici in virtù della loro veridicità.I due termini, come ho dimostrato, non hanno lo stesso significato; ma procediamo oltre. I primi protocolli furono pubblicati in forma non integrale su un giornale russo a partire dal 1903. Essi si basavano, come detto, su documenti che iniziarono a circolare privatamente dal 1897 e che provenivano dalla Francia. A Parigi operava in quel momento una sezione della polizia segreta zarista, la Okhrana, diretta dal noto antisemita Pyotr Ivanovich Rachkovsky. Una delle spie zariste a Parigi era Matvei Vasilyevich Golovinski, amico del figlio di Joly, che copiò (con minime differenze) interi passi del “Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu” confezionando così i “Protocolli dei Savi di Sion”. Secondo gli storici il capo dell’Okhrana Rachkovsky e il ministro degli esteri, conte De Witte, si sarebbero serviti dei falsi documenti per contrastare la diffusione di idee liberali, anarchiche, socialiste e nichiliste. I “Protocolli”, quindi, avrebbero proposto un’interpretazione artificiosa delle dinamiche storiche: avrebbero semplificato i fatti fino a distorcerli, facendo leva su pregiudizi anti-semiti e anti-massonici che erano largamente diffusi nella società europea.Storici e giornalisti si sono fermati qui, paghi di aver dimostrato la tesi del complotto antisemita. Io invece non mi ritengo soddisfatto, dal momento che nessuno parla mai di Maurice Joly, il vero ispiratore – suo malgrado – dei “Protocolli”. Questo silenzio è quantomeno sospetto. I “Dialoghi all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu” non contengono alcuna accusa contro gli ebrei. Si tratta invece di un pamphlet satirico contro Napoleone III. L’opera mette a raffronto due modi di agire in politica: quello del diritto, identificato con Montesquieu, e quello del potere e cioè il tradimento, l’inganno, la corruzione e la violenza. Erano questi i sistemi raccomandati da Machiavelli al principe ideale, che per Maurice Joly era proprio Napoleone. L’autore dei “Dialoghi” era un socialista utopico e un massone affiliato alla loggia La Clémente Amitié: non sorprende perciò la sua avversione per i circoli cattolici e nazionalisti che sostenevano l’imperatore. Completiamo questa sommaria biografia ricordando che il principale finanziatore del giornale di Joly, Le Palais, era Crémiuex. Di trent’anni più vecchio, questo scaltro uomo politico israelita fu per lui un vero e proprio mentore.Adolphe Isaac Crémieux fu il fondatore dell’Alleanza Israelitica Universale, una organizzazione politica e culturale che sintetizza i principi massonici della Rivoluzione Francese con l’ebraismo. Cremiuex fu inizialmente un seguace dell’imperatore. La sua ambizione si spingeva fino a sognare di diventare primo ministro ed era sostenuta dai generosi finanziamenti del barone De Rothschild. Quando però Napoleone III si orientò sui servizi di un altro banchiere ebreo, questo importante uomo politico divenne un oppositore e tale rimase fino alla caduta della monarchia. Infatti nel 1871 troviamo proprio lui al fianco del barone De Rothschild a trattare la pace con il cancelliere Bismarck dopo la guerra franco-prussiana, che era costata il trono all’imperatore. Crémieux fu anche gran maestro del Rito Scozzese e membro dell’Ordine di Memphis e Mizraim, due Riti del Grand Orient de France: la massoneria più anticlericale d’Europa. A testimonianza del suo odio per i gentili citerò un aneddoto. In occasione dell’omicidio rituale di padre Tommaso a Damasco, un episodio che nel 1848 fece inorridire i salotti della borghesia europea, Crémieux usò tutta la sua influenza per ottenere la liberazione dell’assassino (ebreo) del missionario.Ora la faccenda appare molto diversa da come ci è stata raccontata: sebbene i “Protocolli dei Savi di Sion” siano un falso, la loro fonte principale, che è il “Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu”, fu realmente composta in ambito ebraico, socialista e massonico. Proprio per questo il filo conduttore dei “Protocolli” è tipicamente massonico: il sovvertimento della società cristiana per affermare un nuovo ordine sociale – ordo ab chao è il motto dei massoni. Inoltre lo stesso mondo ebraico a cui alludono i “Protocolli” ha le sembianze di un ordine segreto gerarchicamente organizzato, con a capo un gruppo di iniziati: i Savi di Sion. Infine i “Protocolli”, ricopiando i “Dialoghi”, rilanciano l’archetipo della congiura segreta contro l’umanità, che era proprio delle leggende nere che circolavano sui gesuiti negli ambienti anticlericali. Forse non è azzardo ipotizzare che Golovinski, inventando la congiura giudeo-massonica, tentasse di dare un nome agli interessi che Joly serviva, sfiorando la verità senza riuscire a catturarla in tutte le sue infinite sfaccettature.E’ importante comprendere che tutti i protagonisti di questa vicenda sono individui opachi e difficilmente etichettabili, come spesso si incontrano nel mondo dello spionaggio. Per esempio Rachkovsky, il famigerato antisemita a capo dell’Okhrana, era stato in precedenza un agitatore studentesco e aveva persino diretto un giornale ebraico: “L’Ebreo russo”. Non meno sorprendente è sapere che egli favorì la carriera, in seno alla polizia segreta zarista, di un terrorista ebreo di nome Abraham Hackelman. Che dire poi del suo agente Golovinski, che passò al servizio dei bolscevichi dopo la Rivoluzione del 1917? Forse è meglio usare cautela prima di attribuire intenzioni politiche a soggetti che sono mossi dall’avidità, dalla sete di potere e dall’amore per intrigo piuttosto che dalle ideologie. Per queste ragioni non mi sento di affermare con certezza che i “Protocolli dei Savi di Sion” siano stati creati con l’unico scopo di fomentare l’antisemitismo: chi può dirlo con certezza?Curiosamente Rachkovsky e il conte De Witte risposero alle accuse di essere gli istigatori dei “Protocolli”, attribuendone la paternità al grande illuminato Gérard Encausse detto Papus, il fondatore dell’Ordine Martinista. Infatti costui, già prima della pubblicazione dei “Protocolli”, aveva scritto di una congiura segreta che costringeva i governi delle nazioni a fare le guerre e a dettava i termini dei trattati di pace per il profitto del “sindacato della finanza” e cioè dell’oligarchia finanziaria internazionale. La congiura, a suo dire, mirava a favorire la fortuna di pochi uomini: i promotori della congiura. Perché mai Papus lanciò un’accusa tanto ardita? Perché egli aveva conosciuto lo zar Nicola II e si era guadagnato la sua fiducia. Per conservarla e per sfruttarla a vantaggio degli interessi che serviva, Papus inviò alla corte di San Pietroburgo il suo maestro Nizier Anthelme Philippe, alias Maître Philippe da Lione. Quest’ultimo usò i poteri taumaturgici di cui si diceva investito per proteggere la famiglia imperiale e iniziò lo zar al martinismo. Secondo gli storici dell’esoterismo, Maître Philippe mise in piedi le logge martiniste in Russia, nelle quali attirò ricchi aristocratici e potenti burocrati.A capo della massoneria martinista russa si pose Nicola II in persona. Le accuse di Rachkovsky e del conte De Witte (un cugino della Blavatsky) contro Papus si devono quindi contestualizzare in una faida interna alla corte di San Pietroburgo, che si concluse con l’allontanamento di Maître Philippe e l’ingresso in scena del mistico Rasputin. Se le rivelazioni di Papus arrivarono all’orecchio dello zar, la sua reazione potrebbe aver spinto l’Okhrana ad agire, utilizzando il testo di Joly per fini che a questo punto non sono affatto chiari. Accenno appena al fatto che nel 1905 (o poco prima) la polizia segreta zarista aveva stretto un’alleanza inconfessabile con la Grand Lodge de France per portare avanti un progetto politico che resta tuttora avvolto nel mistero. Questa, però, è una storia che ci porterebbe molto lontano: meglio fermarsi qui, per il momento. Con questo articolo credo di aver svelato l’identità di coloro che si nascondono dietro l’espressione “Savi di Sion”: gli alti dignitari della massoneria del Rito di Memphis e Mizraim e dell’Alleanza Israelitica Universale, patrocinate dal denaro dei Rothschild. L’esistenza di questo centro di potere occulto rimase celato dietro l’ipotesi di una generica congiura dell’intera razza ebraica: in altre parole i “Protocolli dei Savi di Sion” fabbricarono una copertura perfetta per i veri congiurati.Se ciò sia stato intenzionale o meno non posso affermarlo con certezza. Quando però l’industriale israelita Walter Rathenau rivelò alla stampa l’esistenza di un complotto di «trecento persone che si conoscono tra loro» e si sono autonominate padrone dell’Europa, il vaso di Pandora fu finalmente scoperchiato. Rathenau divenne nel 1922 ministro degli esteri della Repubblica di Weimar e a quel punto si trovò nella posizione di rivelare importanti retroscena della congiura – quella vera, intendo – ai governi europei. Bisognava richiudere il vaso di Pandora prima che fosse troppo tardi: quattro mesi dopo la sua nomina, Rathenau fu ucciso da terroristi di estrema destra. Così nessuno più si domandò chi fossero i membri del “Comitato dei Trecento”: il mondo pianse invece l’ennesima vittima dell’antisemitismo agitato dal libro maledetto, i “Protocolli dei Savi di Sion”. Riassumendo: 1) i “Protocolli” non sono documenti autentici, ma il loro contenuto è in gran parte vero e verificabile; infatti 2) la fonte principale a cui attingono i “Protocolli” è un pamphlet scritto in ambito massonico ed ebraico; e infine 3) l’idea di una generica congiura ebraica e massonica (o viceversa di un complotto antisemita) ha finora occultato l’esistenza di una reale congiura, che da oltre un secolo viene condotta dal casato dei Rothschild e dai suoi agenti.(Enrico Montermini, “I Protocolli dei Savi di Sion: un segreto indicibile!, dal blog di Montermini del 6 novembre 2017).L’archetipo della lettura complottista: i “Protocolli dei Savi di Sion”. Un libro maledetto su cui molto è stato scritto e molto resta ancora da scrivere. Pubblicati per la prima volta nel 1905, i “Protocolli” furono accolti dall’opinione pubblica internazionale in modo ambivalente. Da un lato si fa notare che tutte le profezie in essi contenute si sono puntualmente avverate; e ciò dimostrerebbe la veridicità della congiura ebraica e massonica. Dall’altro si punta il dito sul fatto che quella congiura è in realtà il frutto della fantasia di Maurice Joly, che nel 1864 pubblicò un pamphlet, di cui i “Protocolli” sono un plagio evidente; e ciò dimostrerebbe la non-autenticità dell’opera. A mio avviso un’analisi serena e obiettiva del libro dovrebbe incentrarsi su questa inspiegabile contraddizione: come può un documento palesemente falso affermare fatti veri e verificabili? Poiché dei “Protocolli dei Savi di Sion” si fece immediatamente un uso politico, questo interrogativo fu messo da parte e i termini del discorso furono spostati dal problema non-autenticità/veridicità verso una strada sdrucciolevole: quello della verità trascendente. In Germania, dove la congiura ebraico-massonica fu ritenuta reale, i “Protocolli” furono usati dai nazionalsocialisti come una “licenza per un genocidio”, per usare le parole dell’israelita inglese Norman Cohn.
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Militari e Cia, Fbi e Israele: la verità sulla fine di Kennedy
Cari lettori, alcuni di voi stanno insistendo perché io continui a occuparmi della storia della sparatoria di Las Vegas, mentre altri mi chiedono come agire per sostenere il rilascio dei documenti relativi all’assassinio del presidente Kennedy. Apprezzo il fatto che voi siate interessati e insoddisfatti delle dichiarazioni ufficiali. La mia risposta è che già sappiamo molto di più di quanto sia scritto nei file, grazie ad esaurienti ricerche, quali il libro di James W. Douglass “Jfk and the Unspeakable” (Simon&Schuster, 2008). La mia risposta è anche che, indipendentemente da cosa sappiamo o quali siano i fatti, la versione ufficiale non verrà mai cambiata. Per esempio, sappiamo come fatto inconfutabile che Israele attaccò la Uss Liberty, infliggendo enormi perdite fra il personale della Us Navy, mentre il governo degli Stati Uniti continua a sostenere che si sia trattato solo di un errore, nonostante le dichiarazioni inequivocabili a sostegno del contrario da parte della Moorer Commission, diretta da Tom Moorer, ex comandante delle Operazioni Navali e capo degli Stati Maggiori Riuniti statunitensi.La mia risposta è anche che sarebbe meglio spendere tempo tentando di prevenire sul nascere le cospirazioni, come quella dell’infinita sequenza di bugie e accuse contro la Russia, che stanno trasformando un paese amico in un nemico e stanno rinnovando il rischio di un Armageddon nucleare. Infatti, la più grande teoria cospiratoria in corso è quella – che viene dal complesso militare e di sicurezza, dal Comitato Democratico Nazionale, e dalla “presstituzione” mediatica – secondo la quale la Russia, in combutta con Donald Trump, abbia manomesso le elezioni presidenziali statunitensi. Il governo russo sa che questa è una bugia, e nel momento in cui vede una bugia, ripetuta infinitamente da ormai un anno senza nemmeno uno straccio di prova a sostegno, il governo russo concluderà ovviamente che Washington sta preparando alla guerra il popolo americano. Mi è impossibile immaginare una politica più incosciente e sconsiderata di quella di distruggere la fiducia della Russia verso le intenzioni di Washington. Come ha detto Putin, la più grande lezione che gli ha insegnato la vita è che «se una battaglia è inevitabile, colpisci per primo».Se davvero volete sapere chi abbia ucciso il presidente Kennedy e perché, leggete “Jfk and the Unspeakable”. Sì, ci sono anche altri libri, con ricerche accurate, che potete leggere. Douglass conclude che Kennedy fu ucciso perché optò per la pace. Stava per iniziare a lavorare con Chruščëv per far finire la Guerra Fredda. Rifiutò la copertura della Cia per l’invasione della Baia Dei Porci. Respinse l’operazione Northwoods predisposta dagli Stati Maggiori: un piano per condurre attacchi sotto falsa bandiera contro gli americani per accusare Castro e giustificare un cambio di regime. Rifiutò di confermare il generale Lyman Lemnitzer al comando degli Stati Maggiori Riuniti. Disse al comandante generale della Marina statunitense David Shoup che era sua intenzione ritirare le truppe dal Vietnam. Disse che dopo la sua rielezione avrebbe «rotto la Cia in 1000 pezzi». Tutto questo era una minaccia per il complesso militare e della sicurezza, e fu questo che convinse esponenti di quei due apparati che egli era troppo morbido verso il comunismo e ciò rappresentava un rischio per la sicurezza nazionale.Il filmato del corteo, girato da Zapruder, mostra che il proiettile che uccise Kennedy lo colpì di fronte, facendo esplodere il retro della sua testa. Si vede la moglie di Kennedy, Jackie, alzarsi dal sedile della limousine per recuperare un pezzo della testa finito sul cofano. Altri filmati di turisti mostrano che pochi attimi prima dello sparo gli agenti del Secret Service vennero rimossi dalle vicinanze della limousine presidenziale per lasciare aperta la traiettoria dello sparo che doveva avere come bersaglio il presidente Kennedy. Esiste un filmato dove si vede un agente del Secret Service che protesta per l’ordine ricevuto. Ai dottori venne ordinato di falsificare le “prove” mediche, in modo che si potesse sostenere che Kennedy fu colpito da dietro. Addetti del corpo medico della Navy che assistevano i medici nel corso dell’autopsia testimoniarono che, con loro costernazione, ricevettero degli ordini dall’ammiraglio Calvin Galloway di ignorare qualunque ferita d’entrata nella parte anteriore del corpo. Uno di costoro disse, nel corso di una testimonianza: «All’improvviso capii che il mio paese non era molto meglio di un paese del terzo mondo. Da quel momento in poi non ho più avuto fiducia, né rispetto, per il governo».Il dottor Charles Crenshaw, uno dei dottori che furono costretti a mentire, successivamente ruppe il suo silenzio con un libro. Ne ricevette una violenta campagna mediatica di discredito. Il tenente comandante William Pitzer, direttore del reparto audiovisivo del Bethesda Naval Hospital, filmò l’autopsia. Il filmato mostra chiaramente il foro d’entrata sulla faccia. Pitzer venne trovato morto sul pavimento dello studio di produzione del National Naval Medical Center. Fu classificato come suicidio, dovuto a un colpo di proiettile. Come al solito. J. Edgar Hoover e l’Fbi sapevano che Oswald — che Douglass ritiene fosse a libro paga sia della Cia che dell’Fbi — fu mandato a Cuba su ordine della Cia per predisporre in anticipo un suo ruolo come capro espiatorio. Ovviamente a sua insaputa. Tuttavia, Hoover, assieme a Lyndon B. Johnson, Earl Warren e i membri della Warren Commission era consapevole dell’impossibilità di comunicare al popolo americano che il loro presidente era stato assassinato dai militari e dalle agenzie di sicurezza statunitensi.In una fase rischiosa della Guerra Fredda, sarebbe stato chiaramente sconsiderato distruggere la fiducia degli americani nel loro stesso governo. Finian Cunningham ha composto il riassunto di gran parte delle prove accumulate. Tutti gli esperti da tempo sono giunti alla conclusione che le affermazioni della Warren Commission furono una copertura. Io non sono un esperto. Non ho speso 30 anni o più, come Douglass, investigando, intervistando testimoni, esaminando le risultanze di morti non chiarite di altri testimoni, e ricostruendo i fatti con le voluminose informazioni disponibili. Se volete sapere cosa è successo, posate il vostro smartphone, spegnete il vostro schermo, e leggete il libro di Douglass o un altro libro analogo.(Paul Craig Roberts, “L’omicidio Kennedy”, dal blog di Craig Roberts del 28 ottobre 2017, ripreso da “Megachip” con traduzione a cura di Leonardo Mazzocchi e Giulietto Chiesa).Cari lettori, alcuni di voi stanno insistendo perché io continui a occuparmi della storia della sparatoria di Las Vegas, mentre altri mi chiedono come agire per sostenere il rilascio dei documenti relativi all’assassinio del presidente Kennedy. Apprezzo il fatto che voi siate interessati e insoddisfatti delle dichiarazioni ufficiali. La mia risposta è che già sappiamo molto di più di quanto sia scritto nei file, grazie ad esaurienti ricerche, quali il libro di James W. Douglass “Jfk and the Unspeakable” (Simon&Schuster, 2008). La mia risposta è anche che, indipendentemente da cosa sappiamo o quali siano i fatti, la versione ufficiale non verrà mai cambiata. Per esempio, sappiamo come fatto inconfutabile che Israele attaccò la Uss Liberty, infliggendo enormi perdite fra il personale della Us Navy, mentre il governo degli Stati Uniti continua a sostenere che si sia trattato solo di un errore, nonostante le dichiarazioni inequivocabili a sostegno del contrario da parte della Moorer Commission, diretta da Tom Moorer, ex comandante delle Operazioni Navali e capo degli Stati Maggiori Riuniti statunitensi.
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Tempo Fantasma, tre secoli inventati (anche Carlo Magno)
Non saremmo nel 2017, ma nel 1721. Di mezzo ci sarebbero tre secoli “mai esistiti, completamente inventati”. «Se fosse vero, non sarebbe semplicemente una cospirazione, ma la madre di tutte le cospirazioni: un vero e proprio complotto temporale: ben 297 anni di storia, quelli tra il 614 e il 911, non sarebbero mai avvenuti e quindi deliberatamente inventati o volutamente datati in maniera erronea», scrive il blog “Il Navigatore Curioso” a proposito della teoria del Tempo Fantasma, in base alla quale, ricorda Wikipedia, in quei quasi trecento anni «gli eventi accaduti in Europa e nelle regioni limitrofe in realtà sono accaduti in un altro lasso temporale oppure non sono affatto accaduti». E’ una teoria conosciuta come “Ipotesi del Tempo Fantasma”, formulata da tre studiosi in tempi diversi: l’ingegnere tedesco Hans-Ulrich Niemitz, ex direttore del Centro di Storia della Tecnologia di Berlino (1946-2010), lo storico tedesco Heribert Illig (nato nel 1947), e il matematico e fisico russo Anatolij Timofeevič Fomenko, professore all’università statale di Mosca (nato nel 1954). L’ipotesi: è stato un “errore voluto”, nel 1582, al momento di sostituire il vecchio calendario giuliano con il nuovo calendario gregoriano, dal nome del Papa Gregorio XIII.Questa tesi suggerisce una cospirazione ad opera dell’imperatore del Sacro Romano Impero Ottone III, di Papa Silvestro II e forse anche dell’imperatore bizantino Costantino VII per costruire artificiosamente il sistema di datazione “Anno Domini”, «in modo che essi potessero trovarsi a cavallo dell’anno 1000: per fare ciò avrebbero riscritto la storia aggiungendo interi secoli e inventando di sana pianta la figura di Carlo Magno», scrive il “Navigatore Curioso”. Nel suo articolo “The Phantom Time Hypothesis”, del 2014, il dottor Hans-Ulrich Niemitz espone la sua tesi fondamentale: centinaia di anni fa, il nostro calendario è stato manipolato aggiungendovi 297 anni che non si sono mai verificati. La teoria del Tempo Fantasma suggerisce che il medioevo (614-911 d.C.) non sia mai avvenuto, ma che questo periodo sarebbe stato aggiunto al calendario molto tempo fa, per caso, o per errata interpretazione dei documenti, o per falsificazione deliberata da cospiratori del tempo. «Ciò significa che tutti gli eventi attribuiti a questi tre secoli appartengono ad altri periodi, o che si siano verificati nello stesso momento, o che sono stati inventati di sana pianta». Ma che prove ci sono a sostegno di queste affermazioni?Sembrerebbe che gli storici siano afflitti da una quantità significativa di documenti falsificati in età medievale: questo è stato, infatti, il tema di un convegno archeologico tenutosi a Monaco nel 1986, ricorda il “Navigatore Curioso”. Nel suo intervento, Horst Fuhrmann, presidente di Monumenta Germaniae Historica, ha spiegato come alcuni documenti siano stati falsificati durante il medioevo, creando eventi datati centinaia di anni prima, entrando poi nella cronologia storica ufficiale. «Questo implicava che chiunque abbia prodotto le falsificazioni, aveva voluto molto abilmente anticipare il futuro, oppure introdurre qualche discrepanza nelle date». Tanto è bastato per suscitare la curiosità di Heribert Illig, diventato uno dei principali sostenitori della teoria. «Illig si è chiesto perchè qualcuno avrebbe dovuto falsificare documenti centinaia di anni prima che potessero diventare utili. Così, lui, insieme al suo gruppo, ha esaminato altri falsi dei secoli precedenti».La ricerca, continua il blog, li ha portati a indagare sull’origine del calendario gregoriano, introdotto da papa Gregorio XIII nel 1582 e che ancora oggi utilizziamo. Il calendario gregoriano fu progettato per sostituire il calendario giuliano (45 a.C.), per correggere una differenza di dieci giorni causata dal fatto che l’anno Giuliano è 10,8 minuti più lungo. Ma, secondo i calcoli matematici di Illig, l’accumulo dei dieci giorni si sarebbe realizzato solo dopo 1.257 anni, e non dopo “appena” 16 secoli. «Sulla base di questi calcoli, il ricercatore suggerisce che il calendario sia stato riavviato, introducendo 297 anni di storia mai avvenuti, o riformulati cronologicamente. La conclusione più sconcertante di Illig è che la dinastia carolingia non sia mai esistita e che Carlo Magno sia un personaggio di fantasia!». Per sostenere ulteriormente la sua ipotesi, Illig «sottolinea la scarsità di prove archeologiche attendibili», databili al periodo tra il 614 e il 911 dopo Cristo, nonché «l’eccessiva dipendenza degli storici medievali dalle fonti scritte e la presenza di architettura romanica nell’Europa occidentale del X secolo». Tuttavia, la comunità scientifica ha proposto diversi metodi di datazione che sembrerebbero contraddire l’ipotesi di Illig. Innanzitutto, le osservazioni astronomiche antiche concordano nelle datazioni, come gli avvistamenti della cometa di Halley.Inoltre, per quanto riguarda la riforma gregoriana, «l’intento non era quello di portare il calendario in linea con quello giuliano, come era stato concepito nel 45 a.C., ma come era nel 325 d.C., anno del Concilio di Nicea, nel quale era stato stabilito il criterio per la data della domenica di Pasqua, fissando l’equinozio di primavera al 20 marzo del calendario giuliano». Nel 1582, l’equinozio di primavera cadeva il 10 marzo del calendario giuliano, ma la Pasqua era ancora calcolata sull’equinozio nominale del 20 marzo. «C’era, dunque, una discrepanza tra le osservazioni astronomiche e la data nominale del calendario giuliano». Così, i “tre secoli mancanti” di Illig corrispondono ai 369 anni tra l’istituzione del calendario giuliano, nel 45 avanti Cristo, e la fissazione della Pasqua nel Concilio di Nicea del 325 dopo Cristo. Ma, nonostante la difesa della cronologia ufficiale da parte della comunità scientifica, un altro ricercatore ha proposto una teoria simile in maniera indipendente. E’ il russo Anatolij Timofeevič Fomenko, matematico e fisico. Uno scienziato autorevole: si occupa di topologia ed è membro dell’Accademia Russa delle Scienze, nonché autore di 180 pubblicazioni scientifiche, 26 monografie e libri di testo.Fomenko, aggiunge il “Navigatore Curioso”, è noto per essere autore della teoria conosciuta come Nuova Cronologia, secondo la quale tutti gli avvenimenti storici della storia del mondo sarebbero avvenuti in tempi diversi da quelli comunemente riconosciuti. La teoria di Anatolij Fomenko vuole che la cronologia tradizionale consista in realtà di quattro copie della “vera” cronologia (ciò che è veramente accaduto) che si sovrappongono, spostate indietro nel tempo di intervalli significativi (da 300 a 2000 anni), con alcune revisioni. «Tutti gli eventi e i personaggi convenzionalmente datati prima dell’XI secolo sono o fittizi, o più comunemente rappresentanti “immagini riflesse fantasma” di eventi e personaggi medievali, trasportati da errori intenzionali o errate datazioni accidentali di documenti storici». La nuova cronologia è radicalmente più corta della cronologia convenzionale, perché «tutta la storia dell’Antico Egitto, quella della Grecia antica e la storia romana vengono comprese nel medioevo, e l’Alto Medioevo viene eliminato». Secondo Fomenko, la storia dell’umanità «risale solo fino all’anno 800», visto che – a suo dire – non avremmo quasi informazioni sugli eventi fra l’800 ed il 1000, e la maggior parte degli eventi storici che conosciamo «sarebbero avvenuti tra il 1000 ed il 1500».Dunque, i nostri antenati erano tutti dei gran bugiardi? Oppure l’Ipotesi del Tempo Fantasma è solo il parto di menti pseudoscientifiche particolarmente fervide? È possibile che la figura di Carlo Magno, ricca di aneddoti leggendari, sia simile a quella che ci ha tramandato la figura di Re Artù? Esistono migliaia di falsi riconosciuti prodotti nel medioevo: testamenti, testi di storia, cronache. Come riconoscere i documenti veritieri da quelli fittizi? Inoltre, continua il “Navigatore Curioso”, l’alfabetizzazione non era molto diffusa: e dato che i più non sapevano leggere né scrivere, come potevano verificare i fatti registrati nei documenti ufficiali? Non esistevano organi di informazione real-time: dunque, di quali eventi storici la popolazione medievale era realmente al corrente? In realtà, come rivela la “Bbc”, le confutazioni sull’Ipotesi del Tempo Fantasma non sono approfondite, si limitano a «commenti sprezzanti e indignati». È difficile trovare testi accessibili che dimostrino, in dettagliom perché quella teoria sarebbe inverosimile. Ad ogni modo, conclude il blog, staremo a vedere: gli studiosi accetteranno di ri-verificare l’intera cronologia che abbiamo studiato sui banchi di scuola, oppure continueranno a difenderla strenuamente “a prescindere”? «L’unica riflessione che sembra suggerire questa teoria è che anche la cultura, se ci fosse ancora bisogno di conferme, può diventare uno strumento di controllo e di potere».Non saremmo nel 2017, ma nel 1721. Di mezzo ci sarebbero tre secoli “mai esistiti, completamente inventati”. «Se fosse vero, non sarebbe semplicemente una cospirazione, ma la madre di tutte le cospirazioni: un vero e proprio complotto temporale: ben 297 anni di storia, quelli tra il 614 e il 911, non sarebbero mai avvenuti e quindi deliberatamente inventati o volutamente datati in maniera erronea», scrive il blog “Il Navigatore Curioso” a proposito della teoria del Tempo Fantasma, in base alla quale, ricorda Wikipedia, in quei quasi trecento anni «gli eventi accaduti in Europa e nelle regioni limitrofe in realtà sono accaduti in un altro lasso temporale oppure non sono affatto accaduti». E’ una teoria conosciuta come “Ipotesi del Tempo Fantasma”, formulata da tre studiosi in tempi diversi: l’ingegnere tedesco Hans-Ulrich Niemitz, ex direttore del Centro di Storia della Tecnologia di Berlino (1946-2010), lo storico tedesco Heribert Illig (nato nel 1947), e il matematico e fisico russo Anatolij Timofeevič Fomenko, professore all’università statale di Mosca (nato nel 1954). L’ipotesi: è stato un “errore voluto”, nel 1582, al momento di sostituire il vecchio calendario giuliano con il nuovo calendario gregoriano, dal nome del Papa Gregorio XIII.
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Bukovskij: l’Ue coniata con l’Urss, aspettatevi Kgb e Gulag
Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.Precedentemente, i partiti di sinistra e l’Unione Sovietica si erano molto opposti all’integrazione europea, perché la percepivano come un mezzo per bloccare i loro obiettivi socialisti. Dal 1985 in poi hanno completamente cambiato idea. I sovietici giunsero a un accordo con i partiti di sinistra e alla conclusione che, se avessero lavorato insieme, avrebbero potuto dirottare l’intero progetto europeo e ribaltarlo. Invece che in un mercato aperto, lo avrebbero trasformato in uno Stato federale. Secondo i documenti [segreti sovietici], il 1985-86 è il punto di svolta. Ho pubblicato la maggior parte di questi documenti. Potete trovarli anche su Internet. Ma le conversazioni che hanno avuto aprono veramente gli occhi. Per la prima volta si capisce che c’è una cospirazione – abbastanza comprensibile per loro, perché cercavano di salvarsi politicamente la pelle. A Est, i sovietici avevano bisogno di un cambiamento di relazioni con l’Europa, perché stavano entrando in una crisi strutturale protratta e profonda; a Occidente, i partiti di sinistra temevano di essere spazzati via e di perdere la loro influenza e il loro prestigio. Quindi era una cospirazione, apertamente fatta, concordata e elaborata da loro.Nel gennaio del 1989, per esempio, una delegazione della Commissione Trilaterale è venuta in visita a Gorbaciov. Ha incluso [l’ex primo ministro giapponese Yasuhiro] Nakasone, [l’ex presidente francese Valéry] Giscard d’Estaing, [il banchiere americano David] Rockefeller e [l’ex segretario di Stato americano Henry] Kissinger. Hanno avuto una bella conversazione dove hanno cercato di spiegare a Gorbaciov che la Russia sovietica doveva integrarsi nelle istituzioni finanziarie del mondo, come il Gatt, il Fmi e la Banca Mondiale. Nel mezzo della conversazione, Giscard d’Estaing prende improvvisamente la parola: «Signor presidente, non posso dirvi esattamente quando accadrà, probabilmente entro 15 anni, ma l’Europa diventerà uno Stato federale e dovete prepararvi a questo. Dovete lavorare con noi, e coi leader europei, e dovete essere preparati, su come reagireste, come permettereste agli altri paesi dell’Europa dell’Est di interagirvi o farne parte».Questo era il gennaio 1989, in un momento in cui il trattato di Maastricht [1992] non era nemmeno stato redatto. Come diavolo faceva Giscard d’Estaing a sapere cosa sarebbe avvenuto in 15 anni? E – sorpresa, sorpresa – come è diventato l’autore della Costituzione Europea [nel 2002-03]? Un’ottima domanda. Odora di cospirazione, vero? Fortunatamente per noi, la parte sovietica di questa cospirazione era crollata in precedenza e non raggiunse il punto in cui Mosca poteva influenzare il corso degli eventi. Ma l’idea originaria era quella di avere quella che chiamavano una convergenza, per cui l’Unione Sovietica si sarebbe addolcita diventando più socialdemocratica, mentre l’Europa occidentale sarebbe diventata socialdemocratica e socialista. Allora ci sarebbe stata la convergenza. Le strutture si sarebbero divute adattare tra loro. Ecco perché le strutture dell’Unione Europea sono state originariamente costruite allo scopo di adattarsi alla struttura sovietica. Ecco perché sono così simili nel funzionamento e nella struttura.Non è un caso che il Parlamento Europeo, ad esempio, mi ricordi il Soviet Supremo. Sembra il Soviet Supremo perché è stato progettato come il Soviet Supremo. Allo stesso modo, quando si guarda alla Commissione Europea, sembra il Politburo. Voglio dire, è esattamente il Politburo, salvo il fatto che la Commissione adesso ha 25 membri e il Politburo ha soltanto 13 o 15 membri. A parte questo, sono esattamente gli stessi, non devono rendere conto a nessuno, non sono eletti direttamente da nessuno. Quando si guarda a tutta questa bizzarra attività dell’Unione Europea con le sue 80.000 pagine di regolamenti, sembra il Gosplan. Noi eravamo abituati ad avere un’organizzazione che pianificava tutto nell’economia, fino all’ultimo dado e bullone, in anticipo per cinque anni. Esattamente la stessa cosa sta avvenendo nell’Ue. Quando si guarda al tipo di corruzione dell’Ue, è esattamente il tipo di corruzione sovietico, che procede dall’alto verso il basso piuttosto che dal basso verso l’alto.Se si passano in rassegna tutte le strutture e le caratteristiche di questo emergente mostro europeo, si noterà che assomiglia sempre di più all’Unione Sovietica. Naturalmente, è una versione più mite dell’Unione Sovietica. Per favore, non fraintendetemi. Non sto dicendo che ha i Gulag. Non ha nessun Kgb – non ancora – ma sto osservando molto attentamente ad esempio strutture come Europol. Ciò mi preoccupa molto, perché questa organizzazione probabilmente avrà poteri più grandi di quelli del Kgb. Avranno l’immunità diplomatica. Potete immaginare un Kgb con immunità diplomatica? Dovranno sorvegliarci su 32 tipi di reati – due dei quali sono particolarmente preoccupanti, uno è chiamato razzismo, l’altro è chiamato xenofobia. Nessun tribunale penale sulla terra definisce qualcosa del genere come un crimine [questo non è del tutto vero, perché il Belgio già procede in questo modo]. Quindi è un nuovo crimine, e siamo già stati avvertiti. Qualcuno nel governo britannico ci ha detto che coloro che si oppongono all’immigrazione incontrollata dal Terzo Mondo saranno considerati razzisti e quelli che si oppongono all’integrazione europea saranno considerati xenofobi. Penso che Patricia Hewitt lo abbia detto in pubblico.Di conseguenza, siamo stati avvertiti. Nel frattempo introducono sempre più ideologia. L’Unione Sovietica era uno Stato governato dall’ideologia. L’ideologia odierna dell’Unione Europea è socialdemocratica, statalistica, e una gran parte di essa è il politically correct. Osservo con molta attenzione come il politicamente corretto si diffonda e diventi un’ideologia oppressiva, per non parlare del fatto che vietano di fumare quasi ovunque. Guardate questa persecuzione delle persone come il pastore svedese che è stato perseguitato per diversi mesi perché ha detto che la Bibbia non approva l’omosessualità. La Francia ha approvato la stessa legge contro l’incitamento all’odio sui gay. La Gran Bretagna sta introducendo leggi contro l’incitamento all’odio nelle relazioni razziali e ora anche nelle questioni religiose, e così via. Quello che si osserva, preso in prospettiva, è l’introduzione sistematica di ideologia, che potrebbe essere successivamente fatta rispettare con misure oppressive. A quanto pare questo è l’intero scopo dell’Europol. Altrimenti perché ne abbiamo bisogno? L’Europol mi sembra molto sospetta. Osservo con molta attenzione chi viene perseguito per cosa e cosa sta succedendo, perché è un campo in cui sono un esperto. So come nascono i Gulag.Sembra che viviamo in un periodo di rapido, sistematico e molto consistente smantellamento della democrazia. Guarda questo disegno di legge per la riforma legislativa e normativa. Rende i ministri dei legislatori che possono introdurre nuove leggi senza preoccuparsi di dirlo al Parlamento né a nessun altro. La mia reazione immediata è: perché ci serve? La Gran Bretagna è sopravvissuta a due guerre mondiali, alla guerra con Napoleone, all’Armada spagnola, per non parlare della Guerra Fredda, quando ci veniva detto che in qualsiasi momento potevamo avere una guerra mondiale nucleare, senza necessità di introdurre questa legislazione, senza bisogno di sospendere le nostre libertà civili e introdurre poteri emergenziali. Perché ne abbiamo bisogno adesso? Questo può trasformare il vostro paese in una dittatura in pochissimo tempo. La situazione di oggi è veramente triste. I principali partiti politici sono stati completamente catturati dal nuovo progetto comunitario. Nessuno di loro vi si oppone veramente. Sono diventati molto corrotti. Chi difenderà le nostre libertà?Sembra che stiamo andando verso una specie di collasso, una sorta di crisi. L’esito più probabile è che ci sarà un collasso economico, in Europa, che a tempo debito dovrà accadere con questa crescita delle spese e delle tasse. L’incapacità di creare un ambiente competitivo, l’eccessiva regolamentazione dell’economia, la burocratizzazione, porterà al crollo economico. In particolare l’introduzione dell’euro è stata un’idea folle. La valuta non dovrebbe essere una questione politica. Non ne ho dubbi. Ci sarà un crollo dell’Unione Europea, quasi simile al modo in cui è collassata l’Unione Sovietica. Ma non dimenticate che quando queste cose crollano lasciano una tale devastazione che ci vuole una generazione per recuperare. Basta pensare che cosa accadrà se si tratterà di una crisi economica. Le recriminazioni tra le nazioni saranno enormi. Si potrebbe arrivare alla guerra.Guardate l’enorme numero di immigrati provenienti dai paesi del Terzo Mondo che ora vivono in Europa. Questa immigrazione è stata promossa dall’Unione Europea. Cosa succederà se c’è un crollo economico? Probabilmente avremo tanti conflitti etnici che la mente ne rimane sconvolta, come è avvenuto con la fine dell’Unione Sovietica. In nessun altro paese vi erano tensioni etniche come nell’Unione Sovietica, tranne probabilmente in Jugoslavia. Quindi è esattamente ciò che accadrà anche qui. Dobbiamo essere preparati a questo. Questo enorme edificio di burocrazia crollerà sulle nostre teste. Ecco perché, e sono molto sincero, quanto prima chiuderemo con l’Ue, meglio è. Quanto prima crolla, meno danni avrà fatto a noi e ad altri paesi. Ma dobbiamo essere rapidi, perché gli eurocrati stanno muovendosi molto velocemente. Sarà difficile sconfiggerli. Oggi è ancora semplice. Se oggi un milione di persone marcia a Bruxelles, questi personaggi scapperanno alle Bahamas.Se domani metà della popolazione britannica rifiuterà di pagare le proprie tasse, non accadrà nulla e nessuno andrà in prigione. Oggi puoi ancora farlo. Ma non so quale sarà la situazione domani, con un Europol completamente sviluppata, con personale preso da ex-funzionari della Stasi o della Securitate. Potrebbe succedere di tutto. Stiamo perdendo tempo. Dobbiamo sconfiggerli. Dobbiamo sederci e pensare, elaborare una strategia per ottenere il massimo effetto possibile nel modo più breve possibile. Altrimenti sarà troppo tardi. Quindi cosa dovrei dire? La mia conclusione non è ottimista. Finora, malgrado il fatto che in quasi tutti i paesi abbiamo delle forze anti-Ue, ciò non è sufficiente. Stiamo perdendo e stiamo sprecando tempo.(Vladimir Bukovskij, testo del discorso pronunciato a Bruxelles nel 2006 e ancora drammaticamente attuale, ripreso da “Voci dall’Estero”. Già dissidente politico in Urss, lo scrittore riparò in Gran Bretagna dopo la prigionia nei Gulag. Tra le sue opere “Una nuova malattia mentale in Urss, l’opposizione”, Etas Kompass, “Guida psichiatrica per dissidenti”, L’erba voglio, “Il vento va e poi ritorna”, Feltrinelli, “Urss, dall’utopia al disastro”, Spirali, e “Gli archivi segreti di Mosca”, Spirali).Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.
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Usa, élite criminale depravata: è in ogni film di Kubrick
L’Armageddon si sta avvicinando e vale la pena citare Lincon che affermava che «la fine degli Stati Uniti non potrà che avvenire mediante suicidio». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, «né i neocon né Trump nascono dal nulla. Abbiamo a che fare con un paese di pazzi che adora le armi e massacra per puro divertimento. Bisonti, russi e cinesi sono avvertiti. In America, il genocidio indiano fu uno sport, come la caccia di schiavi che Dickens descrisse inorridito nelle sue cronache americane». Tutti conoscono il “dottor Stranamore” e magari hanno visto film come “Eyes Wide Shut”, di Stanley Kubrick, regista su cui Bonnal ha scritto un libro, facendo notare che «una costante, generalmente trascurata, presente in tutta la sua opera: una critica radicale, sarcastica e costante delle élites». Nel film “Il bacio dell’assassino”, siamo di fronte a un personaggio, il proprietario, che ha pulsioni sessuali incontrollate e tendenze omicidie: verrà ucciso. In “Spartacus”, abbiamo a che fare con la depravazione dell’élite romana. «Attori britannici contro attori americani, come rivelava umoristicamente Michel Ciment. Lo scrittore comunista Howard Fast aveva pensato, per questo soggetto, alle élites statunitensi maccartiste del suo tempo».In “Lolita”, continua Bonnal in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, siamo di fronte a un asso del travestimento chiamato Quilty: come “quilt”, il materasso, che potrebbe designare anche la colpevolezza, secondo un gioco di parole dello stesso Nabokov. Ebbene, Quilty violenta madre e figlia prima di subire la concorrenza dal docente europeo yéyé che sposa la madre e violenta la figlia. Nel film “Il dottor Stranamore”, prosegue Bonnal, abbiamo una sintesi della cultura statunitense basata sull’omicidio di massa e sull’ossessione sessuale. «Von Neumann inspira il dottor Stranamore, Curtis Le May il generale Turgidson (turgido) sul quale il suo amico Raico ci ha detto tutto. L’assassino di massa è rappresentato da un certo Jack Ripper, d’ispirazione londinese per così dire – si sa che era un intoccabile chirurgo in là con gli anni. Il film di Kubrick pone sullo stesso piano la liberazione sessuale (anni di play-boy) e l’adorazione nucleare. Le Barbie che oggi spopolano sui canali statunitensi gioiscono annunciando le esplosioni». Poi ecco “2001, Odissea nello spazio”, «una storia di cospirazione», dove «i responsabili della Nasa celano informazioni ai loro rivali russi e nascondono la scoperta del monolite grazie alle voci su una presunta epidemia (un attacco batteriologico? Chimico?)».Alla fine si scopre che il computer aveva la possibilità di distruggere l’equipaggio: «Ne sapeva più dell’equipaggio stesso». Ridley Scott se ne ricorda in “Alien”, dove «l’equipaggio è sacrificabile, come il popolo di oggi sotto la guida di Wall Street e di Bruxelles. Ed è pure ibernato». Sorvolando sui film successivi di Kubrick, Bonnal arriva a “Eyes Wide Shut”, «che ben rappresenta le inclinazioni degli anni di Clinton: ossessione sessuale (per Clinton come per Trump e le sue modelle), speculazione finanziaria, corrispondenza con gli Illuminati (scoperta da Texe Marrs), culto per le società segrete e soprattutto gusto per i sacrifici umani». Per il film, annota Bonnal, il regista si è ispirato a “Doppio sogno” di Schnitzler: «L’impero austroungarico, al tramonto, diede inizio alla Prima Guerra Mondiale – e ci ha lasciato Hitler in regalo». Osserva Bonnal: «In Kubrick le élites inglesi (“Barry Lyndon”, “Arancia meccanica” dove si serve dei teppisti per controllare le masse) o francesi (“Orizzonti di gloria”) non valgono di più. Ci sono, per citare Clint Eastwood, quelli che scavano e quelli che hanno la pistola. Adesso c’è chi ha i soldi e chi lavora. Chi lavora rischia di morire presto per permettere all’élite ecologista statunitense, che trova questa terra troppo popolata, di respirare».E cos’è “Donald”? Avic ne ha fatto un attore, Philippe Grasset, un uomo di reality. «Donald è presente anche nel thriller comico “Zoolander” (un top model che ha subito il lavaggio del cervello deve assassinare il presidente malese) e in “Celebrity” di Woody Allen», il quale «ha precisato che Trump era un eccellente uomo di spettacolo». Questo, chiosa Bonnal, dovrebbe rassicurarci «se crediamo, come Thierry Meyssan, che Donald non sia cambiato e che minacci la guerra solo per rassicurare i media neocon, in America e a Parigi». Tornando invece a Kubrick, «si dice abbia filmato le false immagini dell’allunaggio (lui avrebbe certamente fatto di meglio), che ha dovuto lasciare l’America, e che forse sarebbe stato assassinato, 666 giorni prima il primo gennaio 2001». Bonnal non chiude il suo libro con quest’argomento perché «la stupidità arriva presto alla conclusione, diceva Flaubert», ma insiste su un punto: «Da Lincoln e la sua folle guerra da un milione di morti (la schiavitù fu abolita ovunque e senza massacri), le élites statunitensi hanno perso il senno». Per Bonnal queste oligarchie «amano il detonatore, l’innesco, l’acceleratore, hanno il grilletto facile». Dopo, diceva il colonnello Kurz in “Apocalypse now”, «passano entusiasti agli aiuti umanitari».L’Armageddon si sta avvicinando e vale la pena citare Lincon che affermava che «la fine degli Stati Uniti non potrà che avvenire mediante suicidio». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, «né i neocon né Trump nascono dal nulla. Abbiamo a che fare con un paese di pazzi che adora le armi e massacra per puro divertimento. Bisonti, russi e cinesi sono avvertiti. In America, il genocidio indiano fu uno sport, come la caccia di schiavi che Dickens descrisse inorridito nelle sue cronache americane». Tutti conoscono il “dottor Stranamore” e magari hanno visto film come “Eyes Wide Shut”, di Stanley Kubrick, regista su cui Bonnal ha scritto un libro, facendo notare che «una costante, generalmente trascurata, presente in tutta la sua opera: una critica radicale, sarcastica e costante delle élites». Nel film “Il bacio dell’assassino”, siamo di fronte a un personaggio, il proprietario, che ha pulsioni sessuali incontrollate e tendenze omicidie: verrà ucciso. In “Spartacus”, abbiamo a che fare con la depravazione dell’élite romana. «Attori britannici contro attori americani, come rivelava umoristicamente Michel Ciment. Lo scrittore comunista Howard Fast aveva pensato, per questo soggetto, alle élites statunitensi maccartiste del suo tempo».