Archivio del Tag ‘declino’
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Gallino: elezioni europee per stracciare i trattati-capestro
Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».Per i neoliberisti, ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito-Pil. Ovvio: se il Pil italiano crescesse del 4% l’anno, cioè con un incremento di oltre 60 miliardi, il Fiscal Compact farebbe meno paura. Peccato però che – stando alle previsioni più ottimistiche – non si vada oltre l’1%. «Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto», scrive Gallino su “Micromega”, illustrando un possibile Piano-B. Per esempio: «Chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito-Pil la colossale spesa per interessi». L’idea sbagliata è che, «a forza di contrarre la spesa pubblica, si arrivi a ripagare il debito». Attenzione: «Grazie a tale idea perversa, lo Stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il paese in una spirale inarrestabile di deflazione».In altre parole, «l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna». Tema decisivo, «da sottoporre al più presto a una discussione pubblica». Luogo perfetto, per parlarne: il Parlamento Europeo, «a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno». La situazione è infatti palesemente insostenibile, e sarà ulteriormente aggravata dai nuovi trattati che la Ue si accinge a varare o che sono appena entrati in vigore. Trattati che «riguardano i salari pubblici e privati, i diritti del lavoro, le politiche sociali, lo stato della sanità pubblica, il sistema previdenziale, la sicurezza alimentare». Risultato: «La possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale». Le prossime elezioni europee? Fondamentali, per fermare almeno tre di questi trattati: oltre al Fiscal Compact, anche l’Unione bancaria e il Trattato Transatlanco.Sull’Unione bancaria, progettata per impedire che il costo di eventuali fallimenti ricada ancora sugli Stati, secondo Gallino la bozza approvata a dicembre è difettosa: da un lato affida troppo potere alla Bce, e dall’altro – con la scusa che non fa parte dell’Eurozona – esclude la Gran Bretagna, cioè «la maggior area finanzia del continente», con tre banche tra le prime 20 al mondo: Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland totalizzano un attivo di 7.000 miliardi di dollari. Inoltre, il Regno Unito è il paese in cui, nella primavera 2008 (prima ancora che negli Usa), si verificarono i maggiori disastri bancari. Il meccanismo dell’Unione bancaria «è complicatissimo e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire». Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: «Somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi». Il difetto peggiore? Secondo i teorici dell’Unione bancaria, la crisi apertasi nel 2008 è stata innescata da «difetti di regolazione del sistema bancario», piuttosto che da «un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito».Sulla strada dell’Unione bancaria, per ora, sorge l’ostacolo del Parlamento Europeo: al disegno della Troika si oppone il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz. «Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni». Periodo in cui «sulla testa degli europei» comincerà a incombere il Ttip, cioè il “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”, un piano che procede da circa un anno, in modo super-riservato. Lo stanno sviluppando 600 super-lobbysti, a nome delle maggiori multinazionali del pianeta, “dialogando” con Washington e Bruxelles. L’accordo, sintetizza Gallino, «offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa». Basti pensare che gli Usa «non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale, il diritto a contratti collettivi in tema di salari, la parità di retribuzione uomo-donna, il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica».Se il Ttip fosse approvato, conclude Gallino, «le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni». Le multinazionali «potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare Ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro», smantellando così l’attuale legislazione europea, «che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana». Per questo, il Ttip è accusato da numerose Ong di essere «un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire». Contro questa minaccia potrebbe alzare la voce il nuovo Parlamento Europeo, anche in base a come andranno le elezioni di maggio, in collaborazione con lo stesso Congresso Usa: il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha appena ha respinto la richiesta di Obama di adottare una “pista veloce” (fast track), rallentando così la discussione sul Ttip. Che resta sul piatto del nostro immediato futuro, insieme all’insostenibile Fiscal Compact e al progetto di di Unione bancaria. Domanda: la strada del nostro declino civile è già segnata o sarà possibile invertire la rotta?Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».
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Fatto fuori anche Gratteri, così Renzi si rottama da solo
Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà. Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a “Il Fatto Quotidiano”, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti. Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione Trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche, Agricole Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori. Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.(Peter Gomez, “Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2014).Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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L’Italia senza Fiat, Marchionne umilia il made in Italy
Forse ricorderete certi giorni drammatici della crisi greca. Sembrava che non solo l’economia del paese, ma lo Stato greco come istituzione fosse sul punto del fallimento senza ritorno. Spaventava una temuta analogia con l’Italia. La risposta rassicurante è sempre stata: ma in Grecia non c’è la Fiat. Da più di un un secolo, generazione dopo generazione, ci siamo abituati a essere una grande potenza industriale, perché intorno alla Fiat era cresciuta un fitta distesa di imprese. Non parlo solo dell’immenso indotto (che poi, a sua volta, creava altri indotti in settori simili quanto a materiali e lavorazioni ma per prodotti diversi, lontani dall’automobile). Anche la nostra immagine nel mondo era fatta di Fiat. Non solo perché non ci sarebbe stata Pirelli, senza Fiat, e non sarebbe durata fino ai nostri giorni la Ferrari senza Fiat. Ma perché la presenza, la continuità, l’internazionalizzazione della Fiat era una specie di garanzia vasta e implicita per ogni nuovo imprenditore italiano che debuttava nel mondo.Suggerisco di non cadere nella trappola di immaginare – come consolazione e magari come vendetta – un’Italia che non ha mai avuto la Fiat. Possibilissimo. Forse ci sarebbero più verde, più treni, e meno autostrade. Ma il paese non apparirebbe, come appare ora, improvvisamente e brutalmente mutilato. E forse, fino a questo momento, sarebbe apparso più piccolo e meno importante. Si conoscono esodi, anche drammatici, di grandi gruppi imprenditoriali da un paese all’altro. Credo che il caso Fiat sia il primo che avviene non per cambio di proprietà, ma sotto la guida degli stessi azionisti che hanno deciso di vivere, pagare tasse, incassare dividendi, crescere e curare i loro affari altrove. È bene non dimenticare che la partenza Fiat avviene dopo avere abbandonato l’associazione degli altri imprenditori italiani, la Confindustria, dicendo al mondo che l’altra imprenditoria di questo paese non è all’altezza.Avviene dopo avere umiliato gli operai in parte cacciandoli, in parte dividendoli, ma lasciandoli quasi tutti in cassa integrazione, facendo sapere che costano troppo e che con loro uno bravo come Marchionne non intende trattare. Nel caso che qualcuno avesse in animo di investire in Italia, avrà il suo peso la lettera di raccomandazione dell’ad di ciò che è stata la Fiat agli imprenditori del mondo. Ci dicono che alcune fabbriche della ex Fiat rimangono in Italia, e appena l’Italia sarà uscita dalla crisi riprenderanno a produrre. Anzi, all’Italia è stato assegnato il settore lusso, che è più remunerativo. Se vende. Ma perché allora portare la Cinquecento torinese nell’America in piena ripresa, e far produrre a Torino Cherokee e Suv di stazza americana, come se stralunati cittadini italiani appena usciti (se, quando ne usciranno) dalla peggiore crisi dopo la guerra, avessero subito il desiderio di caricarsi il costo di macchine americane?Però se il settore, come è prevedibile, langue, sarà inevitabile dire: visto? Abbiamo fatto di tutto, ma gli italiani costano troppo e non vendono. Anno fiscale dopo anno fiscale (che si computa a Londra) le filiali italiane richiederanno, da un management saggio, ridimensionamenti adeguati. Pensosi economisti diranno che è inevitabile e anzi dovuto in base alle leggi del mercato. E sindacalisti prudenti dichiareranno di volta in volta che, ancora una volta, nei limiti del possibile, sono stati salvati (indicare il numero sempre più piccolo) posti di lavoro. Nei limiti del possibile. Si vede a occhio che quel “possibile” si sta restringendo da un pezzo. Niente investimenti, niente progetti, niente nuovo management, al posto di quello in partenza. In un prossimo, prevedibile e non lieto futuro, la “vittoria” dei sindacati sarà di avere salvato due stabilimenti su tre, poi uno su due.Alla fine si leverà un coro di sinceri apprezzamenti per i successi della Chrysler, una fabbrica americana di auto e motori dislocata a Detroit (Stati Uniti) con filiali nel mondo, tra cui l’Italia, con una proprietà coraggiosa (ha saputo sradicarsi dalla provincia costosa, che era una palla al piede) e perciò apprezzata dai mercati. Avete notato? Questo testo, che intendeva far notare la ferita grave di un’Italia senza Fiat, (un paese amputato della sua massima industria che, di colpo, perde paurosamente valore) è diventato un elogio di questa proprietà. Dopo tutto, potranno dirvi che, quando lo hanno deciso, annunciato e festeggiato non si è presentato neppure uno straccio di sottosegretario per sapere dove andava, e perché e con chi, l’azienda simbolo del paese, allo stesso tempo garantita e garanzia dell’Italia. Dopo vicende del genere non ci sono mai ritorni. La tenaglia americana ti accetta, ma non molla. E poi quell’infelice nuovo nome, Fca, si legge male e suonerebbe imbarazzante in Italia. Non preoccupatevi. Qui, in terra di colonia, non dovranno mai pronunciarlo. A loro basta che si dimentichi che qui, ai tempi di Gianni Agnelli, c’era la Fiat.Forse ricorderete certi giorni drammatici della crisi greca. Sembrava che non solo l’economia del paese, ma lo Stato greco come istituzione fosse sul punto del fallimento senza ritorno. Spaventava una temuta analogia con l’Italia. La risposta rassicurante è sempre stata: ma in Grecia non c’è la Fiat. Da più di un un secolo, generazione dopo generazione, ci siamo abituati a essere una grande potenza industriale, perché intorno alla Fiat era cresciuta un fitta distesa di imprese. Non parlo solo dell’immenso indotto (che poi, a sua volta, creava altri indotti in settori simili quanto a materiali e lavorazioni ma per prodotti diversi, lontani dall’automobile). Anche la nostra immagine nel mondo era fatta di Fiat. Non solo perché non ci sarebbe stata Pirelli, senza Fiat, e non sarebbe durata fino ai nostri giorni la Ferrari senza Fiat. Ma perché la presenza, la continuità, l’internazionalizzazione della Fiat era una specie di garanzia vasta e implicita per ogni nuovo imprenditore italiano che debuttava nel mondo.
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Polveriera Europa, replay: la Grande Guerra del 2014
I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.La diseguaglianza sociale ed economica nel paese è peggiorata, con la Merkel. Ma anche prima del piccolo incidente sportivo, la cancelliera non sembrava disposta a fare grandi passi (come spesso accade nella miglior tradizione autoritaria ereditata da Guglielmo di Prussia e Germania) e aveva già indicato un “erede al trono”, per assicurare stabilità e continuità anche nel periodo post-Merkel. In altre parole, le politiche economiche neoliberali probabilmente continueranno ad essere applicate in Germania e in Europa per ancora un po’ di tempo. Il 2014 ripropone la situazione del 1914: una possibile Germania imperialista del XXI secolo; il declino della monarchia spagnola e una repubblica italiana fatiscente. Con la sua “volontà d’acciaio”, nel suo terzo mandato la cancelliera sembra determinata a proseguire le politiche draconiane di austerity (distruggendo ulteriormente la crescita economica e favorendo la disoccupazione). Questa scelta implica più fatica e meno guadagni per i milioni di persone che riceveranno questo trattamento, come ad esempio gli spagnoli.A differenza di Berlino e della sua calma apparente, la capitale spagnola si trova ad assistere a continue proteste. Nel frattempo, un vecchio re (a sua volta zoppo per una brutta caduta e costretto ad usare le stampelle per camminare) sta affrontando una “crisi della fiducia in se stesso”. Il re di Spagna Juan Carlos, la cui popolarità un tempo era il simbolo del ritorno alla democrazia dopo il regime franchista, sta assistendo ad una crescente ondata di proteste popolari. Il crescente dissenso della popolazione è fomentato da interminabili scandali dovuti ad episodi di corruzione. La figlia è attualmente coinvolta in uno scandalo per truffa e riciclaggio di denaro. Nel calderone, anche una costante crisi economica. La Spagna riuscì a rimanere neutrale allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.Nel 2014, il paese è ancora in prima linea nella lotta contro l’austerity in Europa. Il futuro della monarchia resta incerto. In tutto il Mediterraneo, il 2013 si è concluso con le strade invase da proteste, come ad esempio in Italia (una repubblica decrepita, se mai è stata una repubblica) con la “protesta dei forconi”. Come la Spagna, l’Italia è contaminata da una profonda corruzione, instabilità sociale, sistematica instabilità istituzionale (a causa delle associazioni criminali), che ostacolano il processo democratico. Ne consegue una diffusione di movimenti demagogici o clownesco-populistici e la crescente xenofobia. Il movimento anti-politico, da quelle parti, sta sfruttando l’ondata di rabbia contro Roma e Bruxelles (il quartier generale dell’Unione Europea).I Balcani, storica polveriera d’Europa, sono nuovamente pronti ad esplodere. Non ci saranno omicidi in programma forse per il prossimo anno nei Balcani, ma sicuramente troverete sul menù un radicale cambiamento politico. Gli scioperi di massa e i movimenti di protesta che sono scoppiati in Grecia nel 2008 si sono estesi agli stati del Sud dei Balcani. Le proteste di massa contro l’aumento del costo della vita, che ha raggiunto livelli usurari (sull’onda della privatizzazione di massa), e contro il costo dell’energia imposto ai consumatori locali, stavano per rovesciare il governo in Bulgaria. Nella vicina Romania, la corruzione dilagante e la lotta epica tra il movimento civile sociale e un’azienda mineraria canadese, sono quasi riusciti a scuotere le fondamenta del governo rumeno. Nonostante quest’elenco di situazioni esplosive, Bruxelles rifiuta ostinatamente di allentare le restrizioni connesse alla libertà di movimento imposta ai cittadini di questi due stati. Il loro ingresso nella “zona Schengen” è stato nuovamente rimandato a data da definirsi. Sicuramente una politica di contenimento di questo tipo sarà pericolosa nel 2014.Oltre ai confini meridionali d’Europa, troviamo ancora forti instabilità nel 2014, che ricordano misteriosamente le tensioni del 1914, quando stava per iniziare la guerra. La promessa di una benigna “primavera araba” si è trasformata in un incubo terribile. In Egitto, Tunisia, Libia, Yemen e, più recentemente, in Libano, si stanno sviluppando conflitti somiglianti a guerre civili. Nel caso della Siria, non è una somiglianza ma una tragica realtà. Questa instabilità regionale rischia di contagiare la Turchia (gli Stati Uniti chiudono le alleanze nella regione). A quei tempi la Turchia era senza dubbio il fulcro dell’Impero Ottomano che governava sulla maggior parte del Medio Oriente. Circa un secolo fa entrò sfortunatamente, già distrutta, nella “grande guerra”. Questo accelerò la sua rovina e condusse al genocidio armeno del 1915. Per quanto tempo ancora Ankara potrà stare a guardare, prima di essere risucchiata nel più ampio conflitto dei suoi vicini? Il 2014 probabilmente sarà determinante.Internamente la Turchia è afflitta da forti dissensi e scossa da continue proteste dal giugno scorso. Il dissenso popolare nei confronti dell’autoritarismo del primo ministro Ergodan non si è placato. La continua lotta tra il movimento laico (kemalista) e quello neo-islamico (e all’interno del partito Akp stesso, “Adalet ve Kalkinma Partisi”, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) rischia di distruggere lo stato turco nel 2014, con le modalità già sperimentate un secolo fa dall’Impero Ottomano. Il potere del governo ha inoltre subito un ulteriore indebolimento negli ultimi tempi a causa degli scandali per corruzione che hanno interessato i suoi vertici. La conseguente epurazione dei corpi di polizia e di pubblica sicurezza ha inasprito la situazione. La tregua con i ribelli curdi nelle zone orientali del paese rimane instabile. In ultimo, il tentativo della Turchia, ormai vecchio di decenni, di diventare un membro dell’Unione Europea, è essenzialmente congelato a causa della repressione contro attivisti e giornalisti locali. Quindi, come nel 2014, il paese è un calderone che galleggia nel mare di instabilità che caratterizza la regione.Passando all’Asia, troviamo crescenti movimenti di protesta in Thailandia, Cambogia e Bangladesh, o rivolte in corso contro le trincerate e corrotte oligarchie locali. Fino ad ora questi sollevamenti sono stati brutalmente repressi con l’ausilio delle forze militari. Chissà se gli eventi attuali saranno la scintilla di un’esplosione simile a quella del 1914. Probabilmente no. Tuttavia questi paesi emergenti sembrano essere nel mezzo di quella che io chiamo “situazione pre-rivoluzionaria”. Quello che vedremo accadere da queste parti nel 2014 somiglia moltissimo allo scenario della rivoluzione messicana (1910-1920), un decennio di dure lotte per liberarsi di quel regime corrotto conosciuto come “Porfiriato”. Se aggiungiamo a quanto detto il rischio di uno scontro militare tra i “grandi poteri” locali, siano essi in crescita o in crisi, così come accadeva nel 1914 (lo dimostra l’attuale ostentazione militare sulle contese Diaoyu e Tiaoyutai nel lontano oriente), si ha realmente l’impressione che la storia si ripeta ancora una volta.(Michael Werbowski, “La polveriera storica, il 2014 come il 1914 in Europa e nel mondo?”, da “Global Research” del 10 gennaio 2014, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.
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La Germania sta spolpando le nostre migliori aziende
«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».«Aziende della base industriale del Mittelstand tedesco ottengono accesso al sapere tecnologico di aziende italiane in difficoltà, mentre in alcuni casi spostano i loro quartieri generali oltr’alpe», scrive il quotidiano finanziario il 27 gennaio, sottolineando l’importanza del “sapere tecnologico italiano”. «Le aziende tedesche stanno afferrando opportunità d’espansione mentre la recessione sospinge verso il basso il prezzo degli affari nel sud Europa in difficoltà». Per Barnard, è esattamente «la Spirale della Deflazione Economica Imposta, per comprarci con due soldi» grazie alle restrizioni promosse dal sistema Ue-Bce. Marcel Fratzscher, direttore dell’istituto economico tedesco Diw, ammette che il terreno di caccia del business tedesco è soprattutto l’area in crisi, dove i tedeschi possono “aiutare” le piccole e medie aziende italiane, che «spesso faticano a ottenere credito». Ovvio: «A noi la Germania ha proibito di avere una “banca pubblica” come la tedesca Kfw», protesta Barnard. Una banca che, «barando sui deficit di Stato tedeschi, ha versato miliardi in crediti alle aziende tedesche».«Le acquisizioni – continua il “Financial Times – sono spesso descritte come accordi strategici, ma degli insider ci dicono che il linguaggio nasconde una serie di acquisizioni aggressive». Di fatto, è la “conquista” di aziende italiane, contro la volontà dei proprietari italiani costretti a vendere. «In alcuni casi gli accordi sono strutturati in modo che il marketing e il management sono esportati dall’Italia, spogliando l’azienda acquistata fino alle sue strutture produttive». Carlos Mack, di Lehel Invest Bayern, dice al “Financial Times” che la logica dietro al trasferimento delle sedi delle aziende italiane «è di avere sia i beni di valore che il marketing e il management in Germania, perché così si ha accesso più facile al credito bancario da banche non italiane». Sempre Mack dice che le aziende tedesche «non sono interessate al mercato italiano, ma solo al prodotto italiano». Ovvero, «sono interessate a vendere il prodotto italiano altrove». Per Barnard, è «la conferma che noi abbiamo le più straordinarie piccole medie imprese del mondo, e ora ci portano via i gioielli della nostra produzione».«A differenza delle aziende italiane – continua il “Financial Times” – le tedesche hanno poche difficoltà a trovare crediti». Una ricerca ha evidenziato che «le banche italiane lavorano bene con le succursali tedesche in Italia, facendogli credito, per proteggersi dai loro investimenti nelle aziende italiane in difficoltà». Ma come, non erano in difficoltà le nostre banche? «Perché prestano ai tedeschi e non a noi?». E’ un “trucco”, innescato dalla Deflazione Economica Imposta dall’euro: «Le nostre aziende affogano, quindi le banche italiane strangolano le aziende italiane perché sono in difficoltà, e arrivano i tedeschi a papparsi i nostri marchi di prestigio a 2 soldi, e le banche italiane ci fanno affari». Norbert Pudzich, direttore della Camera di Commercio Italo-Tedesca a Milano, dice che anche prima della recessione le aziende italiane avevano difficoltà a trovare crediti, perché ad esse manca lo stretto rapporto con le banche “di casa”, che invece le aziende tedesche del Mittelstand hanno. Infatti, osserva Barnard, la stessa Kfw «ha versato miliardi di euro di spesa pubblica sottobanco alle aziende tedesche, barando, mentre costringevano noi a rantolare senza un centesimo dal governo».«Tutto questo – conclude Barnard – io lo denunciai 4 anni fa, e mi davano del pazzo. Questa è la distruzione pianificata di una civiltà, quella italiana, delle nostre famiglie, dei nostri ragazzi. Questo è un crimine contro l’umanità, perché lo stesso accade in altri paesi europei. Questo è nazismo economico». I tedeschi? «Non cambieranno mai», sono «sterminatori nell’anima», andrebbero «commissariati dall’Onu per sempre». Barnard l’ha ripetuto in decine di conferenze, mostrando una slide dell’“Economist”: ora, con la nostra economia retrocessa a condizioni da terzo mondo «proprio a causa dell’Eurozona voluta da Germania e Francia», la Germania e altre potenze vengono a rastrellare aziende italiane pagandole quattro soldi. Tutto previsto: era un piano preciso. Se cessi di immettere denaro nel sistema, proibendo allo Stato di spendere, vince chi bara – in questo caso la Germania, in cu lo Stato finanzia (di nascosto) le aziende, creando un enorme vantaggio competitivo, completamente sleale. La politica italiana? Non pervenuta. E’ per questo che i “predatori” hanno campo libero. E il paese precipita.«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».
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Electrolux, ricatto asimmetrico: addio operai italiani
Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.Decisiva, scrive Lerner su “Repubblica” in un post ripreso da “Megachip”, è «la nuova centralità finanziaria del rapporto creditore/debitore», centralità che «prosciuga le risorse pubbliche necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro». Così, «la lotta di classe diviene asimmetrica». E il lavoro, «reso precario, tende a precipitare sempre più spesso nella povertà». Se la casamadre di Stoccolma l’avrà vinta sugli operai italiani, «migliaia di aziende in difficoltà» seguiranno l’esempio del battistrada svedese, «generando un’imponente decurtazione di reddito a danno di lavoratori che già percepiscono salari al di sotto della media europea». È vero che il costo del lavoro pesa in misura eccessiva sui bilanci delle nostre imprese, «ma la scorciatoia escogitata – tagliare i salari, altrimenti chiudiamo gli stabilimenti – sortirebbe effetti sociali ed economici dirompenti».Nessuna indicazione utile dal Pd di Renzi: in questa drammatica circostanza, continua Lerner, «aiuta poco il Jobs Act che si voleva sfoderare in campagna elettorale, perché nulla dice sul bivio cui siamo giunti: cosa deve rispondere, il governo, a una multinazionale che per restare nel nostro paese pretende la sospensione del contratto nazionale e dei patti integrativi vigenti?». La richiesta brutale dell’Electrolux suscita reazioni opposte se la si guarda benevolmente dalla city di Londra, come il finanziere renziano Davide Serra che definisce «razionale» lo scambio fra decurtazioni salariali e salvaguardia occupazionale; o viceversa se la si guarda dal Friuli condannato a perdere 1.100 posti di lavoro, come tocca all’altrettanto renziana Debora Serracchiani, schierata con i “suoi” operai di Pordenone. Forse, Renzi «non si rende conto che il dilemma degli operai polacchi d’Italia, sbattuto in faccia alla politica, non è di quelli aggirabili con dei ghirigori verbali. Al contrario, è la priorità delle priorità».Le statistiche sulla ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono “labouring poor”: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso, la cui busta paga però non li sottrae all’indigenza. Condizione che verrebbe generalizzata da eventuali accordi consensuali di taglio dei salari, che finirebbero per «suggellare una gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente, già in atto da anni in tutto l’Occidente». Se l’Italia dovesse quindi subire il ricatto della multinazionale svedese, le conseguenze sarebbero gravissime. «La lotta di classe asimmetrica produce solo declassati e secerne rancore», conclude Lerner. «Sottoscrivere oggi un taglio dei salari significa mettere a repentaglio una già fragile democrazia».Nella «lotta di classe asimmetrica» scatenata dalla multinazionale svedese Electrolux, i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma, osserva Gad Lerner, ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani. E inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro, azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Libera concorrenza senza regole e su un orizzonte mondiale. Stesso obiettivo, ovunque: svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. E quindi si tagliano gli stipendi, anche «se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà». Prendere o lasciare. «Parliamoci chiaro: se il ricatto occupazionale dovesse funzionare all’Electrolux, costringendo i sindacati ad accettare per cause di forza maggiore un taglio generalizzato dei salari, dal giorno dopo le ripercussioni si manifesterebbero su tutto il sistema manifatturiero italiano.
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Crescita finita per sempre, il denaro non è la soluzione
«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.Paul Krugman se lo spiega così: le trasformazioni strutturali del sistema producono stabilmente disoccupazione. Il che significa che, per “convincere” le imprese ad assumere, bisognerà fornirle di denaro a costo zero, senza neppure obbligarle a restituirlo tutto. Secondo Summers e Krugman, ormai le imprese si aspettano che il valore di ciò che producono sia inferiore al costo di produzione: dovrebbero lavorare in perdita, sostenute dalla finanza pubblica? «Potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese – obietta Bonaiuti in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi, nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare».Per Bonaiuti, «qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro», dal momento che «la possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell’attività capitalistica». Per cui, «dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell’attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti)».Krugman è esplicito: ora sappiamo che l’espansione del 2003-2007 «era sostenuta da una bolla speculativa», e «lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni ‘90», legata alla bolla della new-economy. Persino la crescita degli ultimi anni dell’amministrazione Reagan «fu guidata da un’ampia bolla nel mercato immobiliare privato». Conclusione chiara: «Senza speculazione finanziaria non c’è più crescita». E lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controprocenti, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese. Uno scenario «estremante serio e foriero di conseguenze», osserva Bonaiuti, secondo cui la tradizionale ricetta keynesiana – sostenere la domanda con maggiore spesa pubblica – potrebbe non funzionare più, se (a monte) il sistema si è davvero inceppato.Per Krugman «si potrebbe ricostruire l’intero sistema monetario, eliminare la carta moneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi». E quindi: esporre i cittadini (costretti a transazioni solo digitali) al rischio del prelievo forzoso sui propri conti correnti. Se queste sono le idee del “liberale” Krugman, «per far fronte all’incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere», per Bonaiuti «non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo». Una volta imbracciata questa logica, è evidente che «tutto si giustifica», e quindi «anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull’altare di qualche punto percentuale di Pil». La prospettiva è chiara: «Tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista», nell’epoca dei “rendimenti decrescenti”. «Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo».La spirale, secondo Bonaiuti, è irrimediabile: tornare al passato è ormai semplicemente impossibile. «Per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente». E tutto «per tenere in movimento – da una bolla speculativa all’altra – la macchina economica globale». Il rilancio è un miraggio, perché ormai il contesto è completamente mutato rispetto all’età della crescita: «Dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi? Dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato? Come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?».Le economie capitalistiche avanzate «sono entrate già da quarant’anni in una fase di rendimenti decrescenti», dice Bonaiuti. E questo «non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali». Siamo di fronte a un fenomeno di ben più vasta portata: si sta riducendo la produttività dell’energia, dell’estrazione mineraria, dell’innovazione, delle rese agricole, dell’efficienza dell’attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), e si riduce la produttività di un’economia non più industriale ma fondata sui servizi. «Si tratta di un fenomeno evolutivo, e dunque incrementale». I “rendimenti decrescenti”, inoltre, «non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell’attività economica», quanto piuttosto «un generale aumento del malessere sociale», e questo «a causa dell’aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della mega-macchina tecno-economica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici».Ecco perché «occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di Pil, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica)». Se i sostenitori dello status quo – sia neoliberisti che keynesiani – ormai ammettono la “fine della crescita”, «non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica)». Occupazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente. «Il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile – conclude Bonaiuti – richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall’ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita».«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.
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La fine dei libri: se Internet travolge la lettura lenta
Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.Una è che leggiamo meno libri, per due grandi fattori legati entrambi a Internet. Il primo è che la Rete ha accelerato la nostra disabitudine alla lettura lunga, alla concentrazione su una lettura e un’occupazione sola, al regalare un tempo quieto a occupazioni come queste. È una considerazione ormai condivisa e assodata: la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga. Il secondo fattore è che gli spazi e i tempi un tempo dedicati alla lettura di libri stanno venendo occupati in gran parte da altro, e subiscono la competizione di videogiochi, social network, video online, e mille altre opportunità a portata di mano sempre e ovunque. Quelli che leggevano libri sui tram o nelle sale d’aspetto o sui treni oggi stanno sui loro smartphone, e non a leggere ebooks. Ormai stanno sui loro smartphone anche prima di addormentarsi, molti. Tutto quel tempo, non è più a disposizione delle lentezze dei libri: è preso.La seconda questione centrale nella crisi dell’oggetto libro è che è diventato marginale come mezzo di costruzione e diffusione della cultura contemporanea, che invece sempre più trova luoghi di dibattito, espressione, sintesi, su Internet e in formati più brevi. Che non sono necessariamente più superficiali, anzi spesso sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea (vediamo anche di dire che il libro ha spesso costretto, “per scrivere un libro”, a stirare in lunghezze ridondanti buone riflessioni da cinquanta pagine, se non dieci): ma qui starei alla larga dai litigi inutili su cosa sia meglio e cosa sia peggio e se il mondo peggiori o migliori con il declino dei libri. Limitiamoci a registrarlo e capire cosa succede.Il “pubblicare un libro” come sintesi e sanzione di uno studio, una riflessione, un’idea, un tema da condividere o una storia da raccontare, è una pratica che non ha più il rilievo di un tempo. Da una parte perché quelli che leggono quella sanzione, e poi ne discutono e la fanno diventare un pezzo del dibattito e della cultura, diminuiscono ogni giorno. Dall’altra perché il mezzo è superato anche su questo. Mi capita qualche volta che qualcuno – editori o amici – mi suggerisca di scrivere un libro, per “dare un senso” e “concretizzare” le molte cose che scrivo online, e mostrarle a “un numero maggiore di lettori”, “perché restino”. Una volta rispondevo che sono pigro e non sono tanto capace di applicarmi su un lavoro di impegno e tempo così esteso e assiduo. Adesso spiego loro che le loro ragioni non valgono più e sono invertite: se c’è un posto dove quello che scrivo “resta” e “raggiunge più lettori”, è Internet.I libri spariscono dalla vendita e dall’attenzione – e dall’esistenza – dopo pochi mesi, o pochi anni al massimo (salvo rare eccezioni): ne escono a centinaia ogni mese, e se non vi passano sotto il radar subito, non esisteranno mai più. Vi ricordate il successo – molto pompato – che ebbe quel libretto “Indignatevi”? Cos’era, due anni fa? Oggi è quasi impossibile che un giovane che non ne abbia ricevuto notizie allora ci si imbatta di nuovo. Mentre grazie ai social network e ai link e a Google, cose pubblicate online anche dieci anni fa continuano a trovare nuove attenzioni e tornare a essere lette. Questo post, con buona approssimazione, sarà letto da circa diecimila persone: è un numero che sarebbe considerato un buon successo per un saggio di qualunque autore di non grandissima fama come me (il mio libro “Un grande paese” ha venduto poco di più), e che rende economicamente sempre meno. E questo post, sarà ancora ricircolato tra un anno, tra due, tre (se non altro per rinfacciarmi di quanto poco ci avessi preso di fronte al grande boom dei libri del 2017).Poi, ripeto, restano gli appassionati “romantici” dei libri: lo siamo un po’ tutti, e c’è il piacere e c’è la bellezza, eccetera (e Internet offre loro nuovi spazi di sopravvivenza, anche se sempre più riserve indiane). E ci sono libri bellissimi, se uno li legge. Come per il teatro, la cui importanza e meraviglia nessuno mette in discussione, ed è bello che esista ancora. Ma non “esiste” più, il teatro: è una nicchia laterale della cultura contemporanea che non interagisce più con la sua crescita e le sue evoluzioni. I libri non sono ancora arrivati a quel punto lì, e magari non ci arriveranno. Ma entrerei nell’ordine di idee che sia plausibile (Ps: ho ritrovato questo, in America se n’erano già accorti tre anni fa).(Luca Sofri, “La fine dei libri”, da “Wittengstein” dell’8 gennaio 2013).Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.
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Energia, iniziata la grande corsa ai forzieri dell’Artico
Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.L’economia della Russia è fortemente dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, e il governo conta molto su queste vendite per il reddito nazionale. Fino a poco tempo fa, per soddisfare le loro esigenze energetiche, i russi potevano attingere dai giacimenti nella Siberia occidentale, ma ora, considerato il declino di molti di questi depositi, fanno molto affidamento alle riserve artiche per mantenere gli attuali livelli di produzione. «Il nostro compito principale è di rendere l’Artico la prima risorsa per la Russia del 21° secolo», dichiarò nel 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev. I russi hanno esplorato le varie opzioni di trivellazione in diverse aree offshore dell’Artico. Nel Mare Pechora, a nord della Siberia nordoccidentale, il gigante dell’energia russo Gazprom ha installato la sua piattaforma Prirazlomnaya — proprio quella che gli attivisti di Greenpeace hanno preso d’assalto. Più a est, nel Mar Kara, il gruppo statale Rosneft sta collaborando con la Exxon Mobil per lo sviluppo di giacimenti molto promettenti.Rosneft si è anche associata alla Statoil norvegese e all’Eni Italiana per esplorare il potenziale di sfruttamento nel Mar di Barents. Ma è molto difficile che sia solo la Russia a tentare di aprire i forzieri dell’Artico. La Norvegia, come la Russia, trae gran parte delle sue entrate proprio dalle esportazioni di gas e petrolio, e punta molto sullo sfruttamento delle riserve del Mar di Barents per compensare la forte contrazione produttiva rilevata nei suoi giacimenti nei Mari del Nord e della Norvegia. Ci sono anche altre zone dell’Artico nel mirino di altri paesi: la Cairn Energy di Edimburgo ha appena aperto dei pozzi di esplorazione nelle acque a largo della Groenlandia, ad esempio, mentre la Royal Dutch Shell sta tentando l’esplorazione di campi a largo dell’Alaska.Nonostante tutte le sue promesse, l’Artico non cederà facilmente le sue ricchezze. In inverno, il ghiaccio copre costantemente le superfici marine e tempeste violente e frequenti sono un continuo pericolo. Il riscaldamento globale potrebbe, in qualche modo, contribuire a ridurre il ghiaccio nei periodi estivi e autunnali, permettendo così trivellazioni più prolungate, ma allo stesso tempo potrebbe causare condizioni meteorologiche inusuali e incontrollate ed altri pericoli correlati. Altro rischio che si aggiunge: molte delle linee di confine nella regione artica, sono ancora da demarcare e alcuni paesi artici hanno già minacciato di ricorrere alla forza militare nel caso in cui le compagnie energetiche occupino aree che considerate di loro sovranità.Le ardue sfide che l’Artico pone al suo sfruttamento hanno già intimorito la Shell, che ha speso 4,5 miliardi di $ per l’esplorazione offshore in Alaska, ma che ancora non è riuscita a trivellare un solo pozzo. Alcune di queste sfide sono perfettamente legali – comunità indigene e ambientalisti, nel timore di contaminazioni delle loro acque e danni alla natura, hanno già diffidato le compagnie dal trivellare. Inoltre, l’Artico in sé ha già dato prova di essere un avversario formidabile. Nell’estate del 2012, durante il primo tentativo della Royal Dutch Shell di sondare i depositi artici, le operazioni di trivellazione furono interrotte da venti battenti e placche di ghiaccio galleggianti. Diversi mesi dopo, quando una delle teste dei pozzi franò al suolo durante una violenta tempesta, la Shell annunciò che avrebbe sospeso le operazioni offshore in Alaska e che, prima di procedere ulteriormente, avrebbe rafforzato le proprie capacità operative nella zona.Le disavventure della Shell hanno anche consolidato il timore che trivellare nell’Artico ponga alla regione una minaccia considerevole. Nell’evento di una importante fuoriuscita petrolifera, il danno conseguente sarebbe molto più grave e distruttivo di quello causato nel Golfo del Messico dalla Deepwater Horizon nell’aprile 2010, sia per la mancanza di adeguate capacità di risposte operative, sia per la probabilità che il ghiaccio impedisca seriamente le operazione di bonifica. Mentre sempre più compagnie si spingeranno nell’Artico accelerando le loro attività esplorative, aumenteranno di conseguenza le probabilità di incidenti e fuoriuscite. Il fatto che la Shell – una delle compagnie petrolifere tecnologicamente più avanzate – si sia finora dimostrata incapace di superare questi rischi, accresce la preoccupazione che in quelle acque pericolose si trovino presto ad operare altre compagnie meno preparate ed efficienti.Cresce anche il rischio di conflitti sulla proprietà di territori contesi. Cinque paesi artici hanno già rivendicato diritti esclusivi di trivellazione su aree di confine rivendicate anche da altri paesi, mentre resta ancora controverso il controllo sulla regione polare in generale. In un’area «con un potenziale energetico che rappresenta un quarto delle riserve mondiali inesplorate di gas e petrolio», ha detto recentemente il ministro della difesa statunitense Chuck Hagel, «è prevedibile che l’ondata di interesse nell’esplorazione energetica nell’area possa aumentare le tensioni su altri argomenti controversi». Fino ad oggi nessuna di queste dispute ha provocato una risposta di tipo militare, e gli Stati artici si sono impegnati ad astenersi dal farlo in futuro. Tuttavia, quasi tutti i paesi artici hanno anche affermato il loro diritto di difesa dei propri territori offshore con la forza, e hanno anche preso le necessarie misure per rafforzarsi in questo senso. La Russia, ad esempio, ha recentemente annunciato dei programmi definiti “di infrastruttura militare di punta” nell’Artico.Niente, comunque, potrebbe scoraggiare altri paesi interessati. Considerando l’altissima richiesta mondiale di petrolio e l’incapacità dei pozzi esistenti di soddisfarla, le maggiori compagnie energetiche tenteranno ogni possibile strada per aumentare la produzione. E’ quindi essenziale che siano posti subito dei limiti chiari e rigorosi alle operazioni di trivellazione nell’Artico, in modo da ridurre le tensioni esistenti nell’area. Sono stati fatti dei progressi nell’ambito del Consiglio Artico, un foro di consultazione delle nazioni artiche. Ma resta ancora molto da risolvere. Un modo per stabilire formalmente delle regole precise potrebbe essere l’adozione di un Trattato Artico, sulla falsariga del Trattato Antartico del 1959. Come avvenne per quest’ultimo, un accordo siglato dai paesi artici stabilirebbe dei precisi confini marittimi e dei limiti alle attività militari. Potrebbe anche imporre delle regole ambientali e garantire un passaggio sicuro alle imbarcazioni civili che navigano sui mari artici. E infine, diciamolo: nessun gas e nessun petrolio potrà mai giustificare la distruzione della natura locale o una corsa agli armamenti nell’Artico.(Michael T. Klare, “E’ iniziata la corsa ai forzieri dell’Artico”, dal “New York Times” dell’8 dicembre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Mentre molte riserve di gas e di petrolio in diverse aree del mondo stanno vivendo il loro rapido declino, si ritiene che l’Artico possegga enormi giacimenti ancora inesplorati. Secondo la “United States Geological Survey” (Indagine geologica degli Stati Uniti), circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas ancora non sfruttate si trovano al di sopra del Circolo Polare Artico. Ansiosi di affondare le mani in quella fortuna, la Russia e i paesi artici confinanti – Canada, Norvegia, Stati Uniti, Islanda e Danimarca (quest’ultima in virtù della sua autorità sulla Groenlandia) – hanno spronato le compagnie energetiche a trivellare nell’area. Specialmente per la Russia – che recentemente ha preso il controllo di una nave di Greenpeace e ha denunciato trenta attivisti per assalto ad una sua piattaforma petrolifera – è molto forte la tentazione di sfruttare l’Oceano Artico.
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Prud’homme: la Torino-Lione è pura follia economica
Il progetto «faraonico» della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione è «una follia economica». A dirlo è Rémy Prud’homme, economista, professore emerito di Paris XII e docente al Mit – Massachussetts Institute of Technology – per anni docente all’Institut d’Urbanisme de Paris. La Torino-Lione, sostiene Prud’homme, è più costosa del Tunnel della Manica, ovvero dell’intera linea Parigi-Londra, i cui ricavi non coprono né gli investimenti effettuati né il mantenimento; la Torino-Lione non arriverebbe a coprire neanche il 10% dei costi. Le cause sono ormai note: preventivo destinato a salire, traffico stagnante prima e in declino poi. Ma ciò che preoccupa Prud’homme è che il progetto non potrà mai contare su investitori o banche, dovendosi poggiare esclusivamente su denaro pubblico anche se «ci viene detto che l’Unione Europea contribuirà per il 10-15% alla spesa, con soldi nostri. Curiosa istituzione drogata e schizofrenica: da un lato esige che Italia e Francia riducano il debito pubblico e la pressione fiscale, ma dall’altro le incoraggia ad affrontare pesanti, inutili spese».Chi beneficia delle sovvenzioni statali sono sempre gli stessi: le lobbies dei grandi appalti e i politici eletti nelle regioni interessate, Piemonte e Rhône-Alpes. Ben prima che si cominciasse a parlare seriamente di recessione (agosto 2012), in Francia la Corte di Conti fu molto critica nei riguardi della linea Torino-Lione, raccomandando di «non accantonare troppo in fretta l’alternativa di migliorare la linea esistente», che secondo Prud’homme era un modo per dire “Abbandonare il progetto!”. Ma la situazione è cambiata all’ombra dell’Arco di Trionfo, se anche la Sncf sostiene di malavoglia la realizzazione della nuova linea ad alta velocità, ben cosciente del fatto che le verrà attribuita la responsabilità dell’incremento del debito pubblico. Lo stesso ministero dell’economia è «fortemente contrario» a incrementare una spesa supplementare di queste proporzioni. Sarebbe meglio rileggere attentamente, almeno in Francia, quanto il 21 giugno scorso la commissione “Mobilité 21” ha deposto nelle mani del governo in tema di investimenti sui trasporti, abbandonare i sogni faraonici e tornare a metter mano alle reti locali.La dirompente esternazione di Prud’homme, precisa “Tg Valle Susa” in un post ripreso da “NoTav.info”, risale allo scorso 18 dicembre, pubblicata in forma di editoriale tra le colonne dell’autorevole quotidiano di economia e finanza “Les Echos”. Pietra dello scandalo, la maxi-opera inutile, messa a confronto con la gravità della crisi economica in corso anche in Francia, dove cresce la disoccupazione e il Pil continua a scendere. Già a metà maggio, i dati diffusi da Eurostat sull’economia dell’Eurozona decretavano senza mezzi termini l’entrata della Francia in recessione dal primo trimestre 2013, dopo quattro trimestri di progressiva erosione del Pil. Rilevazioni non rosse per nessuno (tiepida crescita solo per Germania, Belgio e Slovacchia) ma la Francia è diventata “il nuovo malato d’Europa”, con quasi un milione di giovani – secondo “Le Monde” – ormai rassegnati a non cercare neppure più un lavoro. Le strade si sono riempite di proteste: studenti, operai, agricoltori, autotrasportatori, postini, i “berretti rossi” bretoni e tanti altri. La crisi morde: e allora perché mai, dice Prud’homme, bisognerebbe gettare nella spazzatura tutti quei miliardi per l’inutile Torino-Lione?Il progetto «faraonico» della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione è «una follia economica». A dirlo è Rémy Prud’homme, economista, professore emerito di Paris XII e docente al Mit – Massachussetts Institute of Technology – per anni docente all’Institut d’Urbanisme de Paris. La Torino-Lione, sostiene Prud’homme, è più costosa del Tunnel della Manica, ovvero dell’intera linea Parigi-Londra, i cui ricavi non coprono né gli investimenti effettuati né il mantenimento; la Torino-Lione non arriverebbe a coprire neanche il 10% dei costi. Le cause sono ormai note: preventivo destinato a salire, traffico stagnante prima e in declino poi. Ma ciò che preoccupa Prud’homme è che il progetto non potrà mai contare su investitori o banche, dovendosi poggiare esclusivamente su denaro pubblico anche se «ci viene detto che l’Unione Europea contribuirà per il 10-15% alla spesa, con soldi nostri. Curiosa istituzione drogata e schizofrenica: da un lato esige che Italia e Francia riducano il debito pubblico e la pressione fiscale, ma dall’altro le incoraggia ad affrontare pesanti, inutili spese».
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Della Luna: di Ue si muore, spiegatelo a Laura Boldrini
Il senso dell’Europa per Laura Boldrini? Un dogma ultraterreno, forse. Un super-potere intoccabile, sacro e inviolabile come la monarchia medievale. Ortodossia granitica, che per Marco Della Luna è sintomo di «totalitarismo ideologico». Scandalizzato, l’analista indipendente, di fronte all’intervista che la presidente della Camera – portata in Parlamento da Nichi Vendola – ha rilasciato a “Tgcom 24” a fine novembre. La Boldrini «si è espressa in termini emotivi, etici, generici, spaziando tra l’ovvio e il celebrativo, sempre però evitando di parlare in concreto delle cause tecniche accertabili dei problemi e delle soluzioni tecniche possibili». Il passaggio più sconcertante? Quello in cui Laura Boldrini affronta il tema della disaffezione verso l’infame regime europeo: gli euroscettici sono innanzitutto un male, un problema, forse addirittura un pericolo di stampo neonazista. Non una parola sulle contestazioni ormai universali riguardo alla palese insostenibilità sia dell’euro, sia di un governo non democratico (non eletto) come quello di Bruxelles.A irritare l’avvocato Della Luna, l’artificio «strumentale» in base al quale si identifica l’Unione Europea con l’Europa stessa, «per poter così dire che chi è contrario o critico verso l’apparato Ue è contrario all’Europa», cioè alla culla della storia e della civiltà occidentale. Doppia operazione illiberale: non solo si preferisce delegittimare l’avversario per evitare di discutervi, ma si insiste anche nel negare l’evidenza della catastrofe provocata dall’ordinamento Ue-euro. «Dogmatismo pericoloso», annota Della Luna, prima di inoltrarsi tra le sorprese del Boldrini-pensiero: «E’ grazie all’Europa che non abbiamo più le discariche (ma gli inceneritori), è grazie all’Europa che vi sono limiti al livello di inquinamento delle città, è grazie all’Europa che gli studenti universitari hanno l’Erasmus». Attenzione: a parlare così non è una passante distratta, disinformata e disastrosamente qualunquista, ma la presidente della Camera.«Begli argomenti a difesa dell’Unione Europea ha trovato questa protagonista della politica, tanto portata a giudicare tutto e tutti, appassionatamente e con grande sicurezza di sé, forte anche di un innegabile carisma verso moltissime persone, anche in posizioni di rilievo, che guardano a lei con speranza. Argomenti patetici, di una pochezza e di una puerilità inammissibili, adatti a persuadere chi? I bambini?». Della Luna è costernato: «Riflettiamo su quale dovrebbe essere il livello di competenza, di preparazione e di comunicazione al pubblico della terza carica dello Stato». Imbarazzante. Perché rivolgersi al pubblico in questo modo? I casi sono due: «O vive dentro un suo mondo dorato sconnesso dalle realtà, oppure pensa che l’opinione pubblica abbia un’età mentale e una capacità critica da quinta elementare».Il senso dell’Europa per Laura Boldrini? Un dogma ultraterreno, forse. Un super-potere intoccabile, sacro e inviolabile come la monarchia medievale. Ortodossia granitica, che per Marco Della Luna è sintomo di «totalitarismo ideologico». Scandalizzato, l’analista indipendente, di fronte all’intervista che la presidente della Camera – portata in Parlamento da Nichi Vendola – ha rilasciato a “Tgcom 24” a fine novembre. La Boldrini «si è espressa in termini emotivi, etici, generici, spaziando tra l’ovvio e il celebrativo, sempre però evitando di parlare in concreto delle cause tecniche accertabili dei problemi e delle soluzioni tecniche possibili». Il passaggio più sconcertante? Quello in cui Laura Boldrini affronta il tema della disaffezione verso l’infame regime europeo: gli euroscettici sono innanzitutto un male, un problema, forse addirittura un pericolo di stampo neonazista. Non una parola sulle contestazioni ormai universali riguardo alla palese insostenibilità sia dell’euro, sia di un governo non democratico (non eletto) come quello di Bruxelles.
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Allarme rosso, anzi giallo: la Cina abbandona il dollaro
«Con una scelta sovrana, la banca centrale cinese ha dichiarato senza mezzi termini che “accumulare riserve in valute estere non raccoglie più i favori della Cina”». Tutte le valute, naturalmente, «ma in modo particolare, e certamente preoccupante per gli Stati Uniti, a essere oggetto di questa decisione è il biglietto verde». Per Valerio Lo Monaco si tratta della notizia più importante, a livello macroeconomico e geopolitico, delle ultime settimane. «La stampa internazionale non le ha dato grande risalto, quella interna italiana non ne ha parlato proprio: tutta presa, come è da mesi e mesi, a commentare le quisquilie interne. Ivi inclusa la grottesca battaglia attorno ai 2 miliardi di euro per abolire la seconda rata dell’Imu nello stesso momento in cui l’Italia ne spende 1.600 all’anno e ne dovrà trovare ulteriori 50 nel corso del 2014 per rispettare il Fiscal Compact sottoscritto a suo tempo».Quella cinese, al contrario, è una vera bomba da 3,66 trilioni di dollari: a tanto ammontano le riserve cinesi in moneta statunitense, «operazione messa in piedi per tenere alto il livello del dollaro e allo stesso tempo basso quello dello yuan, onde rendere quest’ultimo estremamente competitivo per le esportazioni cinesi». Ma la musica sta cambiando. Con questa storica decisione, Pechino «imprime una nuova accelerazione alla strategia già in atto da tempo di dismissione delle riserve in valuta statunitense», scrive Lo Monaco su “La Voce del Ribelle”. La Cina smette di comprare dollari? «Gli Usa dovrebbero tremare». Se finora la politica economica cinese ha favorito il proprio export mettendo fuori gioco le nostre aziende, ora lo “smarcamento” dal dollaro significa che «lo yuan è pronto a invadere il mondo», sostituendo gradualmente il dollaro come valuta internazionale di scambio.«Dal punto di vista prettamente statunitense, la cosa è di portata enorme», insiste Lo Monaco, perché «per avere dei prestiti, gli Usa dipendono fortemente da chi ne acquista i titoli di Stato». Ma se questi iniziano a non essere più graditi, «il dollaro, di fatto, inizia a non valere più nulla». Già ora, tutto si regge quasi esclusivamente sulla “promessa” del valore del biglietto verde. Se il gigante asiatico lo “ripudia”, è facile immaginare i contraccolpi negli Usa ma anche in Europa. «Cresceranno probabilmente i tassi di interesse che gli Usa dovranno concedere per vendere i propri titoli», mentre lo yuan insidierà il dollaro come moneta di scambio per la materia più importante di tutte, il petrolio: secondo la Reuters, alla Borsa di Shangai si inizierà prestissimo a quotare i diritti di acquisto (futures) sul greggio in yuan.A cosa servirà più, dunque, il dollaro? E a cosa “serviranno” più gli Usa? Come si terranno in piedi? Dalle sconfitte internazionali delle politiche neocon di Iraq e Afghanistan alla crisi dei subprime agli schiaffi presi giorno per giorno dalla Russia sul caso Siria e Iran sino a questo ulteriore pugno in pieno volto proveniente da Shanghai: l’Impero sta per cadere in ginocchio, dice Lo Monaco. «Allora, molto chiaramente: la Cina è pronta per diventare il punto di riferimento per tutta l’Asia, in sostituzione degli Stati Uniti». E, complice anche la decadenza costante dell’euro, «a questo punto non si vede altra moneta mondiale, e altra potenza commerciale, in grado di contrastarla». In tempi non brevissimi, naturalmente.«Questa della dismissione di dollari è politica in atto ormai da anni, e la tappa relativa al commercio di petrolio in yuan necessita di passaggi successivi». Ma la direzione è ormai tracciata. Conseguenze: «Le merci acquistate dagli statunitensi, dopo la caduta del dollaro, costeranno molto di più. E il tenore di vita tenuto artificiosamente alto, o almeno a galla, dopo lo scoppio dell’ultima crisi, è destinato a crollare sensibilmente». Morale: «La falsa – e cieca – prosperità degli Stati Uniti appare arrivata al termine e a presentare i conti». Accettabile? No, ovviamente. «A una azione di questo calibro della Cina non potrà che esserci una reazione Usa». Ammonivano Bush e Cheney ancora prima del 2.000: «Il tenore di vita degli americani non è negoziabile». Almeno fino a quando gli Usa conserveranno l’attuale supremazia: quella delle portaerei.«Con una scelta sovrana, la banca centrale cinese ha dichiarato senza mezzi termini che “accumulare riserve in valute estere non raccoglie più i favori della Cina”». Tutte le valute, naturalmente, «ma in modo particolare, e certamente preoccupante per gli Stati Uniti, a essere oggetto di questa decisione è il biglietto verde». Per Valerio Lo Monaco si tratta della notizia più importante, a livello macroeconomico e geopolitico, delle ultime settimane. «La stampa internazionale non le ha dato grande risalto, quella interna italiana non ne ha parlato proprio: tutta presa, come è da mesi e mesi, a commentare le quisquilie interne. Ivi inclusa la grottesca battaglia attorno ai 2 miliardi di euro per abolire la seconda rata dell’Imu nello stesso momento in cui l’Italia ne spende 1.600 all’anno e ne dovrà trovare ulteriori 50 nel corso del 2014 per rispettare il Fiscal Compact sottoscritto a suo tempo».