Archivio del Tag ‘Dipartimento di Stato’
-
Oliver Stone: prego che questa America non attacchi Mosca
«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».Dagli Usa, Oliver Stone riversa su Facebook la sua angoscia: l’ormai decadente “New York Times” degenera nell’impostazione del “Washington Post” «con la sua ristagnante visione da Guerra Fredda di un mondo degli anni ’50 dove ai russsi viene data la colpa di tutto – la sconfitta di Hillary, la maggior parte delle aggressioni e dei disordini nel mondo, la volontà di destabilizzare l’Europa». In più, il “Times” «ha aggiunto la questione delle “fake news” per riaffermare il suo discutibile ruolo di voce dominante dell’establishment di Washington», cavalcando la polemica sull’ipotetico hackeraggio da parte della Russia nelle elezioni presidenziali vinte da Trump. Nel post, tradotto da “Come Don Chisciotte”, il regista cita la Cia e l’Fbi, la Nsa e il direttore della National Intelligence, James Clapper, un uomo che «come si sa, mentì al Congresso a riguardo dell’affare Snowden». Tutti in coro: Obama e la Dnc, Hillary Clinton e il Parlamento: colpa di Putin. E a fianco di questi «patrioti», aggiunge Stone, spicca in particolare il senatore John McCain, «psicotico, amante della guerra», che definisce Putin come «un delinquente, un bullo e un assassino», finendo sulla prima pagina del “Times”.«Non ricordo che i presidenti Eisenhower, Nixon o Reagan, nei periodi più neri degli anni 50/80, si siano mai riferiti ad un presidente russo in questo modo», scrive Stone. «Le invettive venivano rivolte al regime sovietico ma non erano mai Khrushchev o Brezhnev il bersaglio della loro bile. La mia ipotesi è che questa sia una nuova forma di diplomazia da parte dell’America. Se un giovane nero viene ucciso nelle nostre città od i partecipanti ad un banchetto di nozze in Pakistan vengono sterminati dai nostri droni Obama viene additato come assassino, bullo, delinquente?». I grandi giornali che ora crocifiggono Putin sono gli stessi che hanno taciuto sulle scandalose irregolarità emerse sulla Clinton, grazie all’ex ambasciatore Craig Murray, ora portavoce di Wikileaks. «Se su questo si fosse indagato correttamente si sarebbe benissimo potuti arrivare a scoprire che per Hillary Clinton questo era il “Nixon moment”». Sembra di essere tornati negli anni ‘50, «quando si supponeva che i russi fossero nelle nostre scuole, al Congresso, al Dipartimento di Stato – in sintonia con molti supporter di Eisenower/Nixon – per impadronirsi del nostro paese senza incontrare una seria opposizione». Salvo poi «sostenere la nostra necessità di andare in Vietnam per difendere la nostra libertà contro i comunisti, a 10.000 chilometri di distanza».E dopo che il Terrore Rosso finalmente se ne fu andato una volta per tutte nel 1991, continua Stone, vediamo che non è mai finita: «Il Terrore è diventato Saddam Hussein in Iraq con i suoi missili di distruzione di massa, il “fungo atomico”. E’ diventato il Demone, reale tanto quanto ogni Processo alle Streghe di Salem. E’ stato Gheddafi in Libia e poi è stato Assad in Siria. In altre parole, come in una profezia orwelliana, non è mai finita. E vi posso garantire che non si riderà mai loro in faccia – a meno che noi cittadini, ancora capaci di un pensiero autonomo nelle faccende esistenziali, diciamo “basta” a questo agire demoniaco: “Ne abbiamo abbastanza, fuori dai piedi”». Inutile sperare nel riveglio dei media. «Mio Dio, il fantasma di Izzy Stone è tornato dagli anni ’50! D’altronde lo è anche Tom Clancy dagli anni ’80. Falsi thriller verranno scritti sull’hackeraggio dei russi nelle elezioni americane. Si faranno soldi e serial Tv. Non avevo mai letto simile spazzatura isterica sul “New York Times” (chiamiamola per quello che è, “fake news”) in cui gli editoriali sono diventati diatribe oltraggiose sui presunti crimini da parte della Russia, la maggior parte dei quali presumibilmente scritti da Serge Schmemann, uno di quegli ideologi che ancora la notte guarda se ci sono russi sotto il suo letto; erano chiamati ai vecchi tempi “russi bianchi” e, come i cubani di destra a Miami, non sono capaci di accantonare il passato».Questo tipo di pensiero, agiunge Stone, ha chiaramente influenzato il Pentagono e molte delle affermazioni di generali Usa, e ha pervaso i report di quello che che il regista chiama “Msm”, sistema del mainstream media. «Quando un gruppo di pensiero controlla la nostra comunicazione nazionale, diventa veramente pericoloso. In questo spirito, io sto linkando numerosi saggi cruciali della nuova annata, sottolineando la vergogna che è diventato il Msm». Oliver Stone non ama Trump e vede che è bersaglio numero uno, insieme a Putin, del sistema mainstream. E teme che lo resterà «fino a quando non salterà sul binario anti-Cremlino grazie a qualche tipo di falsa informazione o incomprensione cucinate dalla Cia». A quel punto, «col suo modo impulsivo di fare, inizierà a combattere con i russi, e non passerà molto tempo prima che venga dichiarato lo stato di guerra contro la Russia». Basterebbe leggere Robert Parry, secondo cui i neocon hanno fabbricato il nuovo “nemico” a partire dal 1980, con lo spettro del terrorismo “islamico” attribuito all’Iran. «Come questo abbia portato al nostro disordine attuale è una brillante analisi che è sconosciuta al pubblico americano». A parte gli dèi dell’Olimpo, per trovare appigli, Oliver Stone non ha che il Dalai Lama: «Ognuno di noi, anche attraverso le nostre preghiere, può contribuire al miglioramento di questo mondo». Troppi missili, in giro: non ci resta che pregare?«Non avrei mai pensato che mi sarei trovato a pregare per il livello ragionevolezza di un Donald Trump. Ricordate “L’Iliade”? Secondo Omero gli dèi si libravano sopra le battaglie di ogni giorno e ne decidevano il risultato. Chi sarebbe morto e chi sarebbe vissuto. Gli dèi sono ancora in ascolto?». Così il regista Oliver Stone, letteralmente terrorizzato dall’escalation militare in corso contro la Russia, «un paese che crede che in questo momento gli Stati Uniti, con il più grande schieramento della Nato ai suoi confini dalla Seconda Guerra Mondiale di Hitler, siano abbastanza folli da preparare un attacco preventivo». Nessuno ne parla, sui grandi media, ma è così: pur già con le valigie in mano, Obama ha dato il via libera alla colossale operazione “Atlantic Resolve”, con oltre 5.000 mezzi corazzati in azione per 9 mesi sul confine russo-lituano. Silenzio assoluto anche in Italia: se Mentana denuncia Grillo per l’accusa di alimentare “fake news”, Giulietto Chiesa li rimbecca, su “Megachip”: «Questa dovrebbe essere una notizia di apertura anche per il telegiornale di Mentana. E anche per il blog di Grillo. Tacciono invece entrambi».
-
Berlino: altro sangue, sull’altare di un potere nel panico
Ankara, Zurigo, Berlino. Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio; è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale. A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in un centro islamico. Ad Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo. E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’Is e da Al-Qaeda, certo, come no: attraverso il “Site” di Rita Katz. E’ un indizio abbastanza preciso. Anche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio, prima di dover traslocare. A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi della strategia della tensione, l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto dentro di voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle.Lo è, infatti; solo pensate che è quel nemico musulmano che vi hanno imposto di accettare a centinaia di migliaia, masse troppo subitanee che manca il tempo di integrare, giovani maschi per lo più, per cui le fanciulle europee sono una provocazione sessuale; quanti di loro sono criminali e pregiudicati? Jihadisti? Ma se provate a fare questa domanda siete razzisti, egoisti, privi di carità. La centrale che vi obbliga ad accoglierli tutti è la stessa che vuol farvi paura – e giustamente – per questa invasione inassimilabile. Contraddizione? Ma questo è uno dei suoi strumenti più preziosi nella strategia della tensione, vi lacera fra due pulsioni opposte, due discrasie cognitive, fra senso di colpa e urto irrazionale di rabbia, voglia di uccidere. E’ un successo. Perché la strategia della tensione in Europa, in queste ore? Mentre Aleppo è liberata? Mentre Obama fa le valige? Putin, limpido, ha spiegato: «L’assassinio (dell’ambasciatore) è una provocazione mirante a impedire il miglioramento delle relazioni russo-turche, minare il processo di pace in Siria promosso da Russia, Turchia, Iran ed altri paesi interessati a risolvere il conflitto in Siria».Per noi europei, la strategia della tensione ha uno scopo quasi tradizionale: farci travolgere dal terrore che è dovunque, odiare i musulmani mentre ci obbligano ad accoglierli; significa che ci sentiamo insicuri – e perciò chiediamo un governo forte, autoritario, con una polizia che censuri i siti – non solo gli islamici, anche i nostri: ne va della nostra vita! Leggi speciali d’emergenza, legge marziale. O stringiamoci tutti sotto l’ombrello della Nato, che ci difende dai jihadisti… L’oligarchia di Bruxelles travolta dalle critiche e contestazioni, dal crescere del “populismo”, l’Unione Europea che vede incagliato il suo progetto sovrannazionale, può trovarvi il suo tornaconto: imporre ordine e disciplina, recuperare “autorità”. E’ presto per dirlo. Aspettiamo i media di domani, cosa dicono, quali ricette invocano, quale capo o “fratello” per l’emergenza, capace di calmare i nostri terrori: sono le parole d’ordine a cui ci faranno obbedire. Quale il prossimo “Je suis Charly”?(Maurizio Blondet, estratto da “State calmi, è strategia della tensione”, post pubblicato sul sito di Blondet il 19 dicembre 2016).Ankara, Zurigo, Berlino. Il più grosso è ovviamente a Berlino, 9 morti una cinquantina di feriti – modus operandi simile all’attentato di Nizza del 14 luglio; è la prima volta che un vero attentato “alla francese” colpisce la Germania. La Francia ha ed ha avuto le mani in pasta in Siria, fa i giochi sporchi da anni; Berlino è rimasta neutrale. A Zurigo, uno sconosciuto ha sparato in un centro islamico. Ad Ankara, ucciso da un poliziotto l’ambasciatore russo. E’ troppo presto per dire qualcosa di più preciso. L’assassinio di Ankara è stato rivendicato, più precisamente esaltato, dall’Is e da Al-Qaeda, certo, come no: attraverso il “Site” di Rita Katz. E’ un indizio abbastanza preciso. Anche Obama, anche al Dipartimento di Stato, e alla Cia, hanno ottime ragioni per esaltare l’omicidio, prima di dover traslocare. A che scopo?, mi chiede qualcuno. Che domanda: uno degli scopi della strategia della tensione, l’ondata sincrona di attentati l’ha già ottenuto dentro di voi: vulnerabili, esposti ad un’aggressione che può colpirvi in ogni momento, perché il nemico, musulmano, è folle.
-
Golpe Usa: stanno cercando di rubare la vittoria a Trump
L’arte della menzogna sembra ormai la vera specialità di Barack Obama. E ora è ufficiale: sta tentando di rovesciare Donald Trump, cancellando il verdetto delle urne. Pressioni inaudite sui “grandi elettori”, riuniti il 19 dicembre a Washington per confermare l’elezione del presidente, rischiano di trasformare «una formalità, una tranquilla giornata di democrazia» in una sorta di colpo di Stato, avverte Marcello Foa, citando uno dei più autorevoli commentatori americani, Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Craig Roberts denuncia apertamente il tentativo di golpe attraverso la Cia, che nei giorni scorsi ha fabbricato il caso delle presunte infiltrazioni di hacker russi nelle elezioni statunitensi, come documenta Michael Snyder, che denuncia l’assedio a cui lo staff di Obama e Hillary sta sottoponendo i parlamentari chiamati a ratificare il risultato elettorale. Un clima inaudito, dice Foa, confermato anche dal “Washington Post”: «I grandi elettori di ogni Stato, che dovrebbero semplicemente ribadire il risultato delle urne, stanno ricevendo incredibili pressioni al fine di indurli a non votare per Trump», definito un nemico dell’America al soldo dei russi.«Sono letteralmente bombardati di email e di telefonate in cui si evidenzia la pericolosità di Trump e in cui vengono evidenziati i rischi dell’America», scrive Foa sul “Giornale”, «mentre la Cia, l’Fbi e ovviamente Obama continuano a denunciare le interferenze russe nell’elezione nel tentativo, vano, di dimostrare che l’elezione non era regolare». Tentativo vano, insiste Foa, perché fino ad oggi non è stata presentata alcuna prova. Il significato della manovra, senza precedenti, è fin troppo chiaro: «Le élite globaliste che hanno governato l’America e indirettamente il mondo occidentale, stanno per uscire dalla stanza dei bottoni, visto che il magnate non ha piazzato i loro uomini nei dicasteri chiave», sottolinea Foa. «Quell’élite sta tentando di tutto per impedire che Trump entri davvero alla Casa Bianca e ribalti la politica estera e di sicurezza perseguita finora, a cominciare dai rapporti con la Russia e dalla lotta all’Isis, e corregga quella sulla globalizzazione incentivando la riscoperta di un “patriottismo imprenditoriale” sugli investimenti e sui posti di lavoro».Attenzione: quel che sta avvenendo in queste ore «è gravissimo ed è assolutamente incompatibile con i principi democratici», aggiunge Foa. «Speriamo che i “grandi elettori” non si lascino suggestionare», perché «se davvero Trump venisse rovesciato prima ancora di entrare in carica, gli Stati Uniti perderebbero qualunque legittimità di fronte al proprio popolo e al mondo». Alle élite importa poco? «A noi sì, tantissimo». Impressionante il succedersi degli eventi, nella ricostruzione che lo stesso Michael Snyder fornisce su “The Economic Collapse”, in un post ripreso da “Megachip”: «Donald Trump potrebbe ritrovarsi legalmente derubato della sua elezione il 19 dicembre, quando il collegio elettorale esprimerà il proprio voto, oppure il 6 gennaio, quando il Congresso si riunirà in seduta plenaria per contare questi voti». In questo momento, scrive Snyder, «gli apparati di potere sono nel panico completo e sembrano essersi accordati sul fatto che “l’interferenza russa nelle elezioni” sarà il pretesto che si propongono di utilizzare per cercare di sottrarre la presidenza a Trump».Obiettivo dei “golpisti”: «Convincere i membri del collegio elettorale, che dovrebbero essere vincolati al voto per Trump, affinché diano invece la loro preferenza a qualcun altro». E se questo non dovesse funzionare, «si sono già poste le basi affinché i voti del collegio elettorale possano essere potenzialmente invalidati quando il Congresso si riunirà in seduta plenaria per contare questi voti, il 6 gennaio». Un gruppo di 10 grandi elettori, scrive Snyder, ha già inviato una lettera al direttore della National Intelligence, James Clapper, chiedendo di «essere informati sui tentativi russi per interferire nelle elezioni di novembre». Questo gruppo è capeggiato dalla figlia di Nancy Pelosi, Christine. Inoltre, l’entourage della Clinton sta pubblicamente sostenendo la necessità che i membri del collegio elettorale vengano sottoposti ad un “briefing di intelligence” sulle interferenze russe, prima del loro voto. E il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha affermato che «Donald Trump ha chiesto alla Russia di hackerare i suoi oppositori», e ha quindi «beneficiato della malevola attività cibernetica dei russi». Come se non bastasse, il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha annunciato che è favorevole ad una indagine «sull’interferenza elettorale russa», che sarebbe apprezzata dai senatori Chuck Shumer, Jack Reed, John McCain e Lindsey Graham, a detta degli interessati.Stesso improvviso attimismo alla Camera: il deputato David Cicilline ha esortato i “grandi elettori” a prendere in considerazione, prima di esprimere il loro voto, «l’entità delle interferenze straniere nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, che potrebbero averne influenzato il risultato finale». E il collega Jim Himes ha definito Donald Trump «un pericolo per la repubblica». La rivista “Time”, aggiunge Snyder, sta apertamente facendo pressioni sui membri del collegio elettorale affinché votino per qualcun altro. E l’ex direttore generale della Cia «ha baldanzosamente dichiarato che i tentativi russi di alterare il risultato delle elezioni presidenziali di novembre sono stati “l’equivalente politico dell’11 Settembre”». Non è tutto: Bob Baer, ex agente della Cia, ha parlato di recente alla “Cnn” dove ha pubblicamente chiesto nuove elezioni se, a causa delle interferenze russe, fosse provata l’illegittimità della prima votazione. Un altro “ex operativo” della Cia e già candidato presidenziale, Evan McMullin, ha affermato che Trump «non è un americano leale», perché i suoi orientamenti non sono abbastanza anti-russi.Nella contesa si schiera anche l’“Huffington Post”, che «sta spacciando una decisione della Corte federale, risalente al 1995, come un precedente che potrebbe essere usato per sottrarre la presidenza a Donald Trump ed offrirla ad Hillary Clinton, se un tribunale scoprisse che le interferenze russe hanno alterato il risultato elettorale». Il responsabile per le comunicazioni di Hillary Clinton, Jennifer Palmieri, ha dichiarato che «uno Stato straniero» ha cercato di penetrare nel suo account Gmail qualche giorno prima delle elezioni. Lo stesso Obama, infine, ha ordinato all’intelligence di raccogliere tutte le prove possibili sulle interferenze elettorali russe e di consegnare a lui le suddette prove prima del termine del suo mandato. «La maggior parte dei sostenitori di Trump non si rende conto di quanto tutto questo sia serio», aggiunge Snyder. «Il potere in carica odia Trump nel modo più assoluto e vuole trovare un modo per impedire il suo insediamento». In altre parole: «Vogliono una giustificazione per poter negare la presidenza a Donald Trump e per questo stanno trasformando questa “interferenza russa sulle elezioni” in un problema, il più grosso possibile». Il che è anche ridicolo, come ha puntualizzato Paul Joseph Watson, che dice: «Noi per primi abbiamo interferito con elezioni straniere per molti, molti anni».«Non è affatto divertente – continua Watson, rivolto ai “golpisti” – che tutti voi democratici, che vi lamentate delle influenze straniere, non abbiate avuto obiezioni di sorta sul fatto che l’Arabia Saudita finanziasse la campagna elettorale della Clinton. Non avevate problemi a prendere tutti quei soldi da George Soros, vero? Non avevate problemi con il Dipartimento di Stato di Obama che rovesciava il governo dell’Ucraina. Non avevate problemi con l’interferenza di Obama nel referendum del Regno Unito sulla permanenza nell’Ue». Una cosa è certa: l’establishment battuto a novembre farà davvero di tutto per scippare la vittoria di Trump. Se fosse possibile convincere 37 “grandi elettori” repubblicani a votare per qualcun altro, piuttosto che per Trump, questo rimanderebbe la questione alla Camera dei Rappresentanti, «e non è chiaro che cosa farebbe questo ramo del Parlamento in un simile scenario», scrive Snyder. «Se Trump non fosse fermato a livello di collegio elettorale, c’è però la possibilità che possa venir sabotato quando il Congresso si riunirà in sessione plenaria, il 6 gennaio, per la conta dei voti elettorali». Di fronte a obiezioni scritte sui voti di singoli Stati, il Parlamento sarà chiamato a pronunciarsi in mondo vincolante. Annullando le elezioni? «Non so se questo succederà», dice Snyder. Ma, «se Donald Trump fosse derubato del risultato elettorale, la cosa getterebbe probabilmente l’intera nazione nel caos». Scenario possibile? Assolutamente sì: «Penso che, a questo punto, le élites preferirebbero rischiare il tutto e per tutto, pur di tenere Donald Trump fuori dalla Casa Bianca».L’arte della menzogna sembra ormai la vera specialità di Barack Obama. E ora è ufficiale: sta tentando di rovesciare Donald Trump, cancellando il verdetto delle urne. Pressioni inaudite sui “grandi elettori”, riuniti il 19 dicembre a Washington per confermare l’elezione del presidente, rischiano di trasformare «una formalità, una tranquilla giornata di democrazia» in una sorta di colpo di Stato, avverte Marcello Foa, citando uno dei più autorevoli commentatori americani, Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Craig Roberts denuncia apertamente il tentativo di golpe attraverso la Cia, che nei giorni scorsi ha fabbricato il caso delle presunte infiltrazioni di hacker russi nelle elezioni statunitensi, come documenta Michael Snyder, che denuncia l’assedio a cui lo staff di Obama e Hillary sta sottoponendo i parlamentari chiamati a ratificare il risultato elettorale. Un clima inaudito, dice Foa, confermato anche dal “Washington Post”: «I grandi elettori di ogni Stato, che dovrebbero semplicemente ribadire il risultato delle urne, stanno ricevendo incredibili pressioni al fine di indurli a non votare per Trump», definito un nemico dell’America al soldo dei russi.
-
Pieczenik, il boia di Moro, gola profonda sull’11 Settembre
Basta attentati “false flag”, basta manipolazioni come l’11 Settembre. A dirlo è nientemeno che Steve Pieczenik, uno che se ne intende: «Pieczenik è un esponente dello “Stato profondo”, l’uomo che al tempo del rapimento Moro fu mandato in Italia dal Dipartimento di Stato per assicurarsi che Moro non tornasse a casa», scrive Maurizio Blondet. «A modo suo un servitore dello Stato, e di quegli apparati nazionali che i neocon hanno sbattuto fuori l’11 Settembre, prendendo a forza il comando della politica estera Usa nella “lotta al terrorismo islamico”, per il bene di Israele». E quindi, se oggi proclama “Mai più 11 Settembre”, «sta avvertendo: sappiamo che siete stati voi, possiamo riaprire l’inchiesta». In un video, nel quale si rallegra della vittoria di Trump, che attribuisce alla mobilitazione dei «16 servizi di intelligence», Pieczenik elenca “ciò che il popolo americano non vuole più”: «Non più false flag, non più 11 Settembre, non più Sandy Hook, sparatorie di Orlando o altri imbrogli, propaganda e stronzate! Quel che vogliamo oggi è la verità». Ciò significa che l’enorme rimescolamento di poteri causato dallo tsunami-Trump potrebbe scoperchiare tante verità sepolte?Sandy Hook è il massacro in una scuola elementare nel Connecticut, il 14 dicembre 2012, dove un folle ha ucciso 27 persone, bambini e insegnanti. A Orlando, la strage nella discoteca gay “Pulse”, giugno 2016, fu attribuita a un musulmano. Due casi denunciati sui blog come “false flag”, operazioni di auto-terrorismo. «Oggi Pieczenik, allusivamente, conferma: sappiamo che siete stati voi». Ma chi sono i “voi”? «Li vediamo affrettarsi ad infiltrare anche l’amministrazione Trump», scrive Blondet. C’è chi si precipita, infatti, a scrivere «articoli adulatori sul generale Michael Flynn», il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, «che tutti danno come suggeritore di Trump per il Medio Oriente e la pacificazione con Mosca». Quando era capo della Dia, l’intelligence militare, cioè fino al 2014, Flynn «ha raccontato come ha sabotato – insieme al capo degli stati maggiori di allora, ammiraglio Dempsey – il piano di Obama di armare i jihadisti in Siria per abbattere Assad». Flynn e Dempsey non eseguirono gli ordini di Obama, «collaborando sotto sotto coi russi». E adesso, improvvisamente, il potente mainstream – fino a ieri schierato con Obama e Hillary – presenta il generale Flynn come un eroe nazionale.Lo stesso Flynn ha appena scritto un libro, “Field of Fight”, che ha come sottotitolo “come possiamo vincere la guerra contro l’Islam radicale e i suoi alleati”, dove racconta gli “insabbiamenti e falsificazioni” di Obama a favore dell’Isis e di Al-Qaeda. Attenzione: il libro l’ha scritto con Michael Ledeen, vecchia conoscenza – purtroppo – della politica italiana, come Pieczenik. Temibile neocon, esponente dell’ultra-destra americana vicina alla lobby israeliana, Ledeen «è ricomparso in Italia a fianco di Marco Carrai, l’“intimo amico” di Renzi». Per Blondet, Carrai è «un evidente agente israeliano, a cui Renzi ha affidato l’incarico di suo consulente al Dis (l’organismo di coordinamento dei servizi segreti), il che equivale a consegnare la nostra intelligence al Mossad». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori) indica proprio Ledeen come il grande manovratore occulto della “sovragestione” della politica italiana, dal caso Moro alla P2: «Sponsorizzò prima Craxi e poi Di Pietro, ora Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio».Oggi Ledeen sembra di nuovo in piena corsa, tra i neocon che sgomitano per condizionare la politica di Trump, attraverso la collaborazione con Michael Flynn. «Apparentemente, il generale Flynn non potrebbe aver niente da spartire con Ledeen, di cui non ignora certo le parti che ha giocato l’11 Settembre», scrive Blondet. «Il punto di contatto sembra essere nella volontà – ferocemente ebraica – di far sì che il presidente stracci il trattato sul nucleare con l’Iran». Da almeno dieci anni, aggiunge Blondet, gli israeliani «tentano di indurre Washington a bombardare per loro l’Iran, specie le sue centrali atomiche». Trump li asseconderà? Altre ombre si addensano su Rudolph Giuliani: la sua presenza nello staff presidenziale «sembra assicurare che non sarà aperta un’inchiesta sull’11 Settembre e i suoi veri mandanti». Giuliani, a quel tempo sindaco di New York, «fu pesantemente partecipe al piano della distruzione delle Twin Towers», sostiene Blondet. Per contro, nel team c’è anche Steve Bannon, il direttore di “Breitbart.com” (18 milioni di lettori: un’audience che il “New York Times” può solo sognarsi). Bannon è «un antisistema proclamato e quindi bollato ad altissima voce dai media come “antisemita”, oltre che anti-islamico e anti-gay». Bannon, quindi, «può rassicurare sul coraggio di Trump di non piegarsi alla nota lobby», confermando «la pulsione “rivoluzionaria” che l’ha portato alla vittoria elettorale».Squarci di verità, tra i retroscena “imperiali” degli ultimi 15 anni? Sul “Fatto Quotidiano”, Giulietto Chiesa mette le mani avanti: «Una delle fonti che io considero più attendibili, Paul Craig Roberts, sul suo blog ha commentato con molta prudenza queste fonti, limitandosi a dire che, in caso fossero reali le intenzioni di Trump di riaprire l’inchiesta sull’11 Settembre, difficilmente resterebbe vivo fino al momento del suo insediamento». Non ci sono solo Bannon e il generale Flynn, nella cerchia di Trump, ma anche John Bolton, «superfalco neocon ed ex rappresentante all’Onu», e Mike Pompeo, che sarà alla testa della Cia («uno che ha comunicato al mondo, via Twitter, la sua impazienza di cancellare il negoziato con l’Iran»). Tutto questo, scrive Chiesa, «fa pensare che l’11 Settembre resterà nei cassetti delle rivelazioni future ancora per qualche tempo». Il che, però, «non significa che tutto sia immobile». Impossibile sottovalutare le esternazioni di Steve Pieczenik: «Parole che non possono essere ignorate per molte ragioni». Pieczenik è stato «un fedele e abile servitore dello Stato Imperiale per molti anni e su scenari assolutamente decisivi per la politica statunitense: è stato al servizio di diversi presidenti, come agente dei servizi segreti, come diplomatico, come influencer di alto profilo».Basterebbe ricordare che Pieczenik «venne inviato da Washington in Italia per “assistere” l’allora ministro degl’interni Francesco Cossiga, poi divenuto presidente della Repubblica, nel non facile compito di gestire il rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro». In qualche intervista, anni fa, Pieczenik «non fece mistero del suo compito di allora: liquidare definitivamente Aldo Moro». Non solo: «Alcune allusioni che egli stesso fece filtrare condussero molti, tra cui il sottoscritto, a ritenere che fosse proprio lui uno dei manovratori delle Brigate Rosse, dei servizi italiani “deviati”, e dei depistaggi che impedirono agli inquirenti italiani di giungere al carcere segreto dove Moro era rinchiuso prima che fosse ucciso». Adesso è in pensione, fuori servizio, ma fino a un certo punto: «In piena campagna elettorale americana se ne uscì parlando come se fosse parte del “contro-colpo di Stato” dell’Fbi contro (perdonate la reiterazione) il “colpo di Stato” della Clinton». È indubbio che Pieczenik ha accesso a fonti di prima mano. «E se oggi dice – e promette – “non più false flag”, “non più 11 Settembre”, “non più finte uccisioni di Osama bin Laden” si ha ragione di ritenere che nei meandri della lotta politica feroce che dilania l’establishment americano, questa questione si sta muovendo».Certo, resta da capire perché parla ora: lo fa «con il contagocce, ma parla, allude». Succede a molti di questi alti esecutori, di parlare quando vanno in pensione, di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. «Magari si rendono conto, in prossimità della fine, delle mostruosità che hanno contribuito a compiere», scrive Chiesa. «Oppure vogliono vendicarsi per i torti subiti da chi stava sopra di loro e li ha usati, magari senza neppure premiarli per il lavoro svolto». O ancora, semplicemente, «vogliono rendersi utili e rimediare, per quanto possibile, in ritardo, alle loro malefatte: in cerca, almeno, del Purgatorio». In ogni caso, «ben vengano le rivelazioni, anche postume». Se non altro, tutto questo «potrebbe venire utile anche a coloro che, qui da noi, si sono messi, in tutti questi anni, al servizio della menzogna e hanno cercato, in tutti i modi, di attaccare, ridicolizzare, emarginare, insultare coloro che la verità la videro, o la intuirono, o comunque la cercarono». Sembrano dunque aprirsi spiragli che lasciano intravedere meglio l’interno della “casa americana”, che appare «molto diversa da come ce l’hanno dipinta». Così, «quando si spalancherà la porta, saranno in molti a doversi nascondere», primi fra tutti i media mainstream, solerti custodi di verità rimaste sotto chiave: se fossero state denunciate per tempo – Watergate insegna – molti orrori non sarebbero neppure andati in scena, il Deep State non sarebbe arrivato a tanto.Basta attentati “false flag”, basta manipolazioni come l’11 Settembre. A dirlo è nientemeno che Steve Pieczenik, uno che se ne intende: «Pieczenik è un esponente dello “Stato profondo”, l’uomo che al tempo del rapimento Moro fu mandato in Italia dal Dipartimento di Stato per assicurarsi che Moro non tornasse a casa», scrive Maurizio Blondet. «A modo suo un servitore dello Stato, e di quegli apparati nazionali che i neocon hanno sbattuto fuori l’11 Settembre, prendendo a forza il comando della politica estera Usa nella “lotta al terrorismo islamico”, per il bene di Israele». E quindi, se oggi proclama “Mai più 11 Settembre”, «sta avvertendo: sappiamo che siete stati voi, possiamo riaprire l’inchiesta». In un video, nel quale si rallegra della vittoria di Trump, che attribuisce alla mobilitazione dei «16 servizi di intelligence», Pieczenik elenca “ciò che il popolo americano non vuole più”: «Non più false flag, non più 11 Settembre, non più Sandy Hook, sparatorie di Orlando o altri imbrogli, propaganda e stronzate! Quel che vogliamo oggi è la verità». Ciò significa che l’enorme rimescolamento di poteri causato dallo tsunami-Trump potrebbe scoperchiare tante verità sepolte?
-
Proteste al soldo dell’1%, per deporre Trump (o ucciderlo)
Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Milioni di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.Per Craig Roberts, la colossale manipolazione in corso per tentare di “scippare” a Trump la vittoria è pericolosa, perché mina la tenuta democratica degli Stati Uniti – paese su cui pesano ombre gigantesche, dal coinvolgimento di settori dell’intelligence negli omicidi eccellenti della storia (i Kennedy, Martin Luther King) alle “inspiegabili” falle nella sicurezza in occasione di tutti i grandi attentati, dall’11 Settembre in poi. Tradotto: Donald Trump – chiunque sia davvero, politicamente – non può non sapere di essere in serio pericolo: potrebbe essere travolto dalle proteste o ricattato dagli organizzatori della “rivolta”, affinché accetti di “prendere a bordo” gli uomini-chiave di Hillary. E’ per loro, in ogni caso, che i manifestanti anti-Trump lavorano: alla guida della rivolta ci sono «teppisti prezzolati, pagati dall’oligarchia», proprio come «Washington e il German Marshall Fund pagarono gli studenti di Kiev per contestare il governo ucraino democraticamente eletto al fine di preparare il colpo di Stato». L’organizzazione “Change.org”, secondo Craig Roberts «sta distruggendo la reputazione di tutti i progressisti facendo circolare una petizione per chiedere all’Electoral College di annullare le elezioni».Tutto già visto nel 2014 a Kiev, dove «la paga era abbastanza buona da attirare persone che non erano nemmeno ucraine ma erano pagate per protestare come se lo fossero». Ci risiamo? Per la “Cnn”, moltissimi americani rifiutano di accettare la vittoria di Trump, e così hanno riempito le strade in non meno di 25 città statunitensi, dall’oggi al domani. «Spero che nessuno creda veramente che proteste simultanee in 25 città siano un evento spontaneo», sottolinea Craig Roberts nel suo blog, in un post ripreso da “Megachip”. «Gli stessi slogan e gli stessi simboli, la notte stessa dopo le elezioni? Quali interessi stanno servendo? E, come sempre si chiedevano gli antichi romani, “cui prodest”? C’è solo una risposta: l’oligarchia e solo l’oligarchia ne trae beneficio». La lettura di Roberts: «Trump è una minaccia per l’oligarchia, perché intende fermare la svendita all’estero dei posti di lavoro americani. Questa svendita, santificata come “libero mercato” dagli economisti-spazzatura neoliberisti, è una delle ragioni principali del peggioramento nel XXI secolo della distribuzione del reddito negli Usa».In altre parole, «i soldi che erano pagati come salario e stipendi per la classe media a impiegati dell’industria manifatturiera americana e ai diplomati, sono stati dirottati nelle tasche dell’Uno Percento. Quando le corporation americane spostano la loro produzione di merci e servizi venduti agli americani, nei paesi asiatici come la Cina e l’India, il loro costo in stipendi crolla. I soldi prima pagati come reddito per la classe media diventano invece bonus per gli executive, dividendi e profitti sui capitali per gli azionisti». Risultato: «La scala per la mobilità verso l’alto che ha fatto dell’America la terra delle opportunità è stata smantellata per il solo obiettivo di rendere multimiliardaria una manciata di persone». Inotre, Trump è «una minaccia per l’oligarchia», anche perché «vuole relazioni pacifiche con la Russia». Tutto si spiega: «Per rimpiazzare la tanto profittevole “minaccia sovietica”, l’oligarchia e i loro agenti neocon hanno lavorato incessantemente per creare la “minaccia russa” demonizzando la Russia». Craig Roberts sa di cosa parla: era al governo con Reagan, di cui è stato viceministro del Tesoro. «Abituato a molti decenni di profitti in eccesso dalla profittevole Guerra Fredda, il complesso militare-securitario si arrabbiò quando il presidente Reagan mise fine alla Guerra Fredda. Prima che queste idrovore di contribuenti americani riuscissero a prolungare la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica collassò come risultato del colpo di Stato della destra contro il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov».Al che, continua Craig Roberts, «il complesso militare-securitario e i suoi agenti neocon e sionisti cucinarono allora la “guerra al terrore” per continuare a far fluire i soldi all’Uno Percento. Ma per quanto duramente lavorassero i media “presstitute” per creare la paura del “pericolo musulmano”, persino gli americani indifferenti sapevano che i musulmani non possiedono migliaia di missili intercontinentali con testate termonucleari capaci di distruggere gli interi Stati Uniti in pochi minuti». Non ce l’avevano, i musulmani, «l’Armata Rossa capace di invadere l’Europa in un paio di giorni». Di fatto, i musulmani non avevano neppure bisogno di armate: «I rifugiati dalle guerre scatenate da Washington stanno invadendo l’Europa». Caduta l’Urss, comunque, «la scusa per il trilione di dollari annuale per il complesso militare-industriale non c’era più. Così l’oligarchia creò il “nuovo Hitler” in Russia. Hillary fu il principale agente dell’oligarchia per surriscaldare la nuova Guerra Fredda. Hillary è lo strumento, arricchito dall’oligarchia, il cui lavoro da presidente sarebbe stato quello di proteggere e aumentare il budget da un trilione di dollari al complesso militare-securitario. Con Hillary alla Casa Bianca, il saccheggio dei contribuenti americani, in nome dell’opulenza dell’Uno Percento, sarebbe andato avanti senza ostacoli. Ma se Trump mette fine alla “minaccia russa”, la rendita dell’oligarchia si prende un bel colpo».Inoltre, le proteste contro Trump sono sospette anche per un altro motivo: «Al contrario di Hillary, Obama e George W. Bush, Donald Trump non ha fatto a pezzi e disperso milioni di persone in sette nazioni, mandando milioni di rifugiati delle guerre dell’oligarchia a invadere l’Europa». Trump ha fatto fortuna «senza vendere l’influenza del governo degli Usa ad agenti stranieri, come invece hanno fatto Bill e Hillary». E allora, perché stanno protestando i contestatori? «Sono stati ingaggiati per protestare. Così come i contestatori di Maidan a Kiev erano ingaggiati per protestare dalle Ong finanziate dagli Usa e dalla Germania». In Ucraina, gli Usa riuscirono a infiltrare i loro agenti nel nuovo governo ucraino, così come ha confermato Victoria Nuland, una neocon piazzata al Dipartimento di Stato da Hillary Clinton col proposito di creare un conflitto con la Russia. Dunque, conclude Paul Craig Roberts, l’esplosione della protesta anti-Trump dimostra che l’oligarchia lo teme davvero, anche se «alcuni pensano che Trump sia uno stratagemma dell’oligarchia». Non ha senso: visto l’investimento su Hillary, per gli oligarchi era preferibile «vincere con la propria piattaforma», anziché «installare un presidente con una piattaforma opposta e poi cercare di rivoltarselo», anche perché «un’altra svendita aumenterebbe la rabbia del popolo».La dura verità, però, è che «Trump ha vinto la presidenza, ma l’oligarchia è ancora al potere», e questo «rende difficile ogni riforma». Aggiunge Craig Roberts: Marx comprese dall’esperienza storica un drammatico insegnamento che poi Lenin e Stalin impararono da lui. E cioè: «Il cambiamento non può avere successo se la classe dirigente scalzata è lasciata intatta dopo una rivoluzione contro di essa». Lo dimostra il Sud America: «Ogni rivoluzione degli indigeni ha lasciato senza fastidi la classe dirigente, e ogni rivoluzione è stata sconfitta dalla collusione tra la classe dirigente e Washington», che «ha cospirato con le élite tradizionali per rimuovere i presidenti eletti», come accaduto in Honduras «moltissime volte». Di recente, Washington «ha aiutato le élite a rimuovere le presidentesse dell’Argentina e del Brasile». I presidenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia «sono a mezz’aria e probabilmente non sopravvivranno». In più, l’oligarchia «è determinata a mettere le mani su Julian Assange», il fondatore di Wikileaks. «A tal fine Washington intende abbattere il governo dell’Ecuador che, a scorno di Washington, ha dato a Julian Assange asilo politico». Ancora più cruento lo scontro in Venezuela, dove – secondo Craig Roberts – il presidente socialista Hugo Chavez è stato addirittura assassinato. Il suo errore? Aver graziato i golpisti che avevano cospirato contro di lui.«Secondo Marx, Lenin e Stalin, questo è il classico errore per un rivoluzionario: contare sulla buona volontà da parte della classe dirigente scalzata è il modo più sicuro per lasciar sconfiggere la rivoluzione». Secondo Craig Roberts, l’America Latina si è dimostrata incapace di capire questa lezione: le rivoluzioni non possono essere concilianti. Donald Trump? «E’ un uomo d’affari. L’oligarchia gli può permettere l’aura del successo in cambio di nessun cambiamento reale». Intendiamoci: «Trump non è perfetto. Potrebbe fallire da solo. Ma noi lo sosterremo sui suoi due punti del suo programma più importanti: ridurre le tensioni tra le due maggiori potenze nucleari e bloccare la politica di Washington che permette al globalismo di distruggere le prospettive economiche degli americani», insiste Craig Roberts. «La combinazione di un’economia svuotata dal globalismo ed immigrazione è un incubo. Che Trump lo abbia capito è una ragione per sostenerlo». E per temere per la sua incolumità: «Una volta che il presidente Trump sarà delegittimato, sarà facile per l’oligarchia assassinarlo, a meno che l’oligarchia possa nominare e controllare il suo governo». Per ora, comunque, «Trump è il primo candidato per un assassinio».Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Decine di migliaia di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.
-
Gli Usa truccano gli F-18 da aerei russi, false flag in arrivo?
Vuoi vedere che “si travestono da russi” per combinare qualche disastro, utile a incolpare Mosca? Il precedente, spaventoso, è quello dell’attacco con gas leatali a Ghouta, periferia di Damasco: un massacro, condotto da jihadisti armati dall’Occidente ma a lungo attribuito all’esercito siriano, nell’estate 2013. Corollario: il conto alla rovescia per il bombardamento Nato, fermato in extremis dalla fermezza di Putin che schierò la flotta del Mar Nero davanti alla Siria, mentre il Papa organizzò una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare l’escalation. Ora ci risiamo? C’è chi lo sospetta. Un giornalista canadese, Christian Borys, ha postato su Facebook alcune foto decisamente strane: caccia americani F-18 “truccati” da Sukhoi-27 russi. Stessa, identica livrea bianco-azzurra. «Addestramento standard», precisa il reporter, «però interessante». Eccome. Specie dopo il recente bombardamento americano che ha colpito “per errore” le postazioni dell’esercito siriano, provocando un’ottantina di morti tra i soldati di Damasco e facendo precipitare la situazione in zona pericolo: il Cremlino ha annunciato che d’ora il poi la Russia abbatterà qualsiasi velivolo minacci le truppe siriane impegnate contro l’Isis.A volte, scrive Maurizio Blondet sul suo blog, l’Us Air Force dipinge i suoi aerei dei colori “nemici” per abituare i suoi piloti durante delle simulazioni. Ma il fatto è che si è diffusa (anche sulla Cnn) una conversazione del ministro degli esteri John Kerry, il primo ottobre, captata nei locali della delegazione olandese all’Onu, a margine della assemblea plenaria. Kerry parla con non meglio identificati esponenti della “resistenza” siriana, e dice loro, esasperato: ho perso ogni argomento per poter utilizzare la forza militare americana contro Assad. Parla, evidentemente, di una discussione che si è tenuta nella cerchia presidenziale, dove sostiene di essere stato messo in minoranza: «Io ho sostenuto l’uso della forza. Sono quello che ha annunciato che stavamo per attaccare Assad», riferisce ai suoi interlocutori siriani, probabilmente pensando al “conto alla rovescia” innescatosi dopo l’attacco “false flag” del 2013 con le armi chimiche. «Abbiamo un Congresso che non autorizzerebbe», continua Kerry. E spiega che in Siria “loro”, i russi, «sono stati invitati, noi no». Sicchè, «la sola ragione che ci è rimasta per volare sulla Siria è che stiamo dando la caccia all’Isis. Se andassimo a dar la caccia ad Assad, dovremmo liquidarne tutta la difesa aerea, e non abbiamo la giustificazione legale per far questo».Ma quel che la Cnn ha taciuto, rileva Blondet, è che l’intercettazione continua. Al minuto 11.18, l’interprete traduce dall’arabo all’inglese le frasi di uno dei ribelli, che si ritiene essere Raed Saleh, il rappresentante dei cosiddetti Elmetti Bianchi – quelli che “documentano” il “martirio di Aleppo” a fianco dei jihadisti sul terreno. «La Russia bombarda i civili siriani, i mercati e anche noi, la protezione civile», dice Kerry. Poi domanda: «Avete dei video degli aerei che attaccano? Possiamo avere i video che i nostri agenti hanno chiesto?». Precisa un collaboratore di Kerry: «Dei video autentici degli aerei stessi, ecco quel che ci occorre». Video di aerei russi, o che sembrino russi? Sembrano le premesse per un drammatico remake dell’attacco con il Sarin, che – come chiarì l’indagine di Carla del Ponte, la magistrata svizzera incaricata dall’Onu – fu dovuto a ordigni «forniti dai servizi segreti turchi a una delle tante bande di “ribelli” al soldo dell’Occidente e delle petromonarchie». Lo riconobbe persino la Bbc, ricorda Blondet. Ma adesso Kerry chiede ai “suoi” jihadisti siriani video di aerei russi che commettono atrocità.«Che gli occidentali siano alla disperata ricerca di un pretesto per aiutare i loro terroristi, che stanno cedendo sotto l’offensiva russo-siriana e iraniana, ce l’ha mostrato un altro episodio», racconta Blondet. Il 28 settembre, la missione di Parigi all’Onu ha lanciato l’allarme: due ospedali ad Aleppo Est sono stati bombardati. Un Tweet e una foto di edifici distrutti. «La palese menzogna è stata immediatamente ripresa da Kerry, in dichiarazione congiunta con il collega ministro francese Jean Marc Ayrault». Colpa dei russi, ovviamente. Solo che «nessuno dei gruppi d’opposizione (non erano stati istruiti prima) ha confermato la tragica notizia», nemmeno il notorio Osservatorio Siriano sui Diritti Umani, gestito dal Regno Unito da un solo “investigatore”, un oppositore di Assad, si basa su contatti telefonici. «Sicchè nella conferenza stampa seguente, il portavoce del Dipartimento di Stato, tempestato da un giornalista non asservito, non ha confermato, anzi ha ammesso che può essersi trattato di “un onesto errore” da parte di Kerry».Dunque non erano russi, gli aerei su Aleppo? E non c’è nemmeno una prova che quegli ospedali siano stati davvero colpiti? Conclusione di Blondet: «Forse, dipingere i caccia Usa coi colori dei bombardieri russi è “standard exercise”. Ma se avviene un bombardamento da parte di aerei azzurrini nelle prossime ore, su un bersaglio di civili indifesi, bambini e donne, vi abbiamo documentato i preparativi di un “false flag”». Peraltro, sarebbe solo una delle tante operazioni “false flag” di cui la storia dell’interventismo americano è piena. «E magari, avvertire in anticipo contribuisce a sventarla». Non c’è pericolo, comunque, che queste notizie si affaccino al telegiornale: «Qualcuno avverta la Botteri: ci sono intercettazioni più scottanti dei discorsi grassocci di Trump sulle donne». Che ne dice, l’inviata Rai negli Usa, «di mandare il servizio di Kerry che parla coi “siriani” e vuole dei video “veri” di aerei russi che bombardano civili?».Vuoi vedere che “si travestono da russi” per combinare qualche disastro, utile a incolpare Mosca? Il precedente, spaventoso, è quello dell’attacco con gas leatali a Ghouta, periferia di Damasco: un massacro, condotto da jihadisti armati dall’Occidente ma a lungo attribuito all’esercito siriano, nell’estate 2013. Corollario: il conto alla rovescia per il bombardamento Nato, fermato in extremis dalla fermezza di Putin che schierò la flotta del Mar Nero davanti alla Siria, mentre il Papa organizzò una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare l’escalation. Ora ci risiamo? C’è chi lo sospetta. Un giornalista canadese, Christian Borys, ha postato su Twitter alcune foto decisamente strane: caccia americani F-18 “truccati” da Sukhoi-27 russi. Stessa, identica livrea bianco-azzurra. «Addestramento standard», precisa il reporter, «però interessante». Eccome. Specie dopo il recente bombardamento americano che ha colpito “per errore” le postazioni dell’esercito siriano, provocando un’ottantina di morti tra i soldati di Damasco e facendo precipitare la situazione in zona pericolo: il Cremlino ha annunciato che d’ora il poi la Russia abbatterà qualsiasi velivolo minacci le truppe siriane impegnate contro l’Isis.
-
Hitlery Clinton, dalla guerra fredda all’ecatombe atomica
La Guerra Fredda iniziò durante l’amministrazione Truman e durò durante le amministrazioni Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford e Carter. Terminò col secondo mandato di Reagan, quando lui e Gorbachev trovarono un accordo sul fatto che il conflitto era pericoloso, costoso e inutile. La Guerra Fredda però non cessò per molto tempo – la tregua durò solo dal secondo mandato di Reagan al mandato di George H. W. Bush [padre]. Negli anni ’90 il presidente Clinton riavviò la Guerra Fredda infrangendo la promessa che l’America aveva fatto di non espandere la Nato nell’Europa dell’est. George W. Bush [figlio] riattizzò la nuova Guerra Fredda ritirando gli Stati Uniti dal Trattato Abm (anti missili balistici), e Obama proseguì su quella via con una retorica irresponsabile, posizionando i missili statunitensi a ridosso del confine russo e appoggiando il rovesciamento del governo ucraino. La Guerra Fredda fu una creazione di Washington. È stato il lavoro dei fratelli Dulles. Allen era a capo della Cia, John Foster era Segretario di Stato, posizioni che essi detennero per lungo tempo.I fratelli Dulles avevano degli interessi personali nella Guerra Fredda. Usarono la Guerra Fredda per difendere gli interessi dei clienti del loro studio legale e per aumentare il potere e il bilancio legato alle loro posizioni all’interno del governo. È decisamente interessante essere gli incaricati della politica estera e delle attività segrete durante periodi pericolosi. Ogni volta che un governo democratico riformista appariva in America Latina, i fratelli Dulles lo vedevano come una minaccia alle partecipazioni azionarie che i clienti del loro studio legale avevano in quel dato paese. Queste partecipazioni, talvolta acquisite tramite tangenti versate a governi non democratici, dirottavano le ricchezze e le risorse dei diversi paesi verso mani americane, e l’obiettivo dei fratelli Dulles era proprio di continuare a fare in modo che fosse così. Il governo riformista veniva a quel punto definito marxista o comunista, e la Cia e il Dipartimento di Stato collaboravano per rovesciarlo e riportare al potere qualche dittatore compiacente a Washington. La Guerra Fredda era insensata, eccetto che per gli interessi dei Dulles e del complesso militare.Il governo sovietico, al contrario del governo americano di oggi, non aveva aspirazioni all’egemonia globale. Stalin aveva dichiarato la dottrina del “socialismo in un solo paese” e si era liberato dei trotskysti, che volevano una rivoluzione a livello mondiale. Il comunismo in Cina e nell’Europa dell’est non erano prodotti dal comunismo internazionale sovietico. Mao era il padrone di se stesso, e l’Unione Sovietica mantenne l’Europa dell’est, che l’Armata Rossa aveva liberato dai nazisti, come zona cuscinetto contro un Occidente ostile. A quei tempi il termine “red scare” [“paura rossa”] era usata un po’ come la “paura del terrorismo musulmano” oggi – per spingere l’opinione pubblica ad allinearsi a un certo programma che non capisce, e senza che ci sia un dibattito. Considerate la costosa guerra in Vietnam, per esempio. Ho Chi Minh era un anticolonialista che guidava un movimento nazionalista. Non era un agente del comunismo internazionale, ma John Foster Dulles lo rese tale e disse che Ho Chi Minh doveva essere fermato o ci sarebbe stato un “effetto domino” che avrebbe portato alla caduta di tutto il sud-est asiatico verso il comunismo. Il Vietnam vinse la guerra e non lanciò affatto l’aggressione al sud-est asiatico che Dulles aveva previsto.Ho Chi Minh aveva implorato sostegno dal governo Usa contro il potere coloniale francese che dominava l’Indocina. Di fronte ad un rifiuto, Ho Chi Minh si rivolse alla Russia. Se Washington avesse semplicemente fatto presente al governo francese che il tempo del colonialismo era finito e la Francia doveva andarsene dall’Indocina, si sarebbe evitato il disastro della guerra in Vietnam. Ma gli spauracchi delle minacce inventate servivano ai gruppi d’interesse ieri come oggi, e Washington, come molti altri, fu succube dei propri mostri immaginari. La Nato non serviva perché non c’era nessun pericolo di un’invasione dell’Armata Rossa verso l’Europa occidentale. Il governo sovietico aveva già abbastanza problemi ad occuparsi dell’Europa dell’est e delle sue popolazioni ribelli. L’Unione Sovietica si trovò alle prese con una sollevazione nella Germania dell’Est nel 1953, poi in Polonia e Ungheria nel 1956, e poi da parte dello stesso partito comunista in Cecoslovacchia nel 1968. L’Unione Sovietica aveva sofferto un’enorme perdita demografica nella Seconda Guerra Mondiale e aveva bisogno di tutta la forza lavoro che le restava per la ricostruzione post-bellica. Era ben oltre le capacità sovietiche occupare l’Europa occidentale dopo avere occupato quella orientale.I partiti comunisti in Francia e in Italia erano forti nel periodo post-bellico, e Stalin poteva sperare che un governo comunista in Francia o in Italia spezzasse l’impero europeo stabilito da Washington. Questa speranza fu cancellata dalla Operazione Gladio. La Guerra Fredda ci fu perché serviva agli interessi dei fratelli Dulles e al potere e ai profitti del complesso militare. Non c’erano altre ragioni per la Guerra Fredda. La nuova Guerra Fredda è ancora più insensata della precedente. La Russia stava cooperando con l’Occidente, l’economia russa è integrata con quella occidentale come fornitore di materie prime. La politica economica neoliberale che Washington è riuscita a far implementare al governo russo era orientata a mantenere l’economia russa nel ruolo di fornitore di materie prime verso l’Occidente. La Russia non aveva espresso alcuna ambizione di ampliamento territoriale e aveva investito molto poco in spese militari. La nuova Guerra Fredda è il prodotto di una manciata di fanatici neoconservatori che credono che la storia abbia scelto gli Stati Uniti come potere egemone sul mondo intero. Alcuni di questi neocon sono figli di ex-trotskysti che hanno la stessa idea romantica di rivoluzione mondiale, solo che questa volta sarebbe una rivoluzione “democratico-capitalista” e non comunista.La nuova Guerra Fredda è ben più pericolosa della precedente, perché le rispettive dottrine di guerra delle potenze nucleari sono cambiate. La funzione delle armi nucleari non è più quella di rappresaglia. La certezza di una distruzione reciproca era la garanzia che quelle armi non sarebbero state usate. Nella nuova dottriva di guerra, le armi nucleari sono state elevate a strumento di attacco preventivo. Washington ha fatto questo passo per prima, costringendo la Russia e la Cina a seguirla. La nuova Guerra Fredda è ancora più pericolosa per un altro motivo. Durante la prima Guerra Fredda, i presidenti americani si concentravano sulla riduzione delle tensioni tra le potenze nucleari. Ma oggi Clinton, George W. Bush e Obama hanno fatto aumentare drammaticamente le tensioni. William Perry, segretario alla Difesa nell’amministrazione Clinton, ha parlato recentemente di pericoli di guerre nucleari lanciate per errore a causa di difetti nei circuiti dei computer.Per fortuna, quando situazioni di questo genere si sono verificate in passato, l’assenza di tensioni nelle relazioni tra potenze nucleari ha fatto in modo che le autorità delle due parti riconoscessero i falsi allarmi. Oggi però, con le continue accuse di imminenti invasioni russe, la demonizzazione di Putin come “nuovo Hitler”, e l’incremento delle forze militari Usa e Nato attorno ai confini russi, i falsi allarmi rischiano di essere creduti. La Nato ha cessato il suo scopo quando è crollata l’Unione Sovietica. Però ormai troppe carriere, troppi soldi a bilancio e troppi profitti sugli armamenti dipendenvano dalla Nato. I neoconservatori allora presero la Nato come un pretesto politico e un ausilio militare per le proprie ambizioni egemoniche. Lo scopo della Nato oggi è di coinvolgere tutta l’Europa nei crimini di guerra statunitensi. Dato che sono tutti colpevoli, i governi europei non possono più rivoltarsi contro Washington e accusare gli americani di crimini di guerra.Le altre voci in campo sono troppo deboli per avere delle conseguenze. Nonostante i suoi tanti crimini contro l’umanità, l’Occidente è ancora nella posizione di “luce del mondo”, difensore della verità, della giustizia, dei diritti umani, della democrazia e delle libertà individuali. Questa reputazione resiste nonostante la distruzione della Dichiarazione dei Diritti Usa e la repressione dello stato di polizia. L’Occidente non rappresenta affatto i valori che il mondo è stato forzato (col lavaggio del cervello) a credere che siano associati all’Occidente. Per dirne una, non c’era alcun motivo di attaccare con le armi atomiche i civili nelle città giapponesi, nel 1945. Il Giappone stava cercando di arrendersi e stava solo resistendo alla richiesta Usa di una resa incondizionata al fine di salvare il proprio imperatore dall’esecuzione per crimini di guerra, sui quali egli non aveva controllo. Come i sovrani britannici oggi, l’imperatore del Giappone non aveva potere politico ed era solo simbolo di unità nazionale. I condottieri giapponesi avevano paura che l’unità giapponese si sarebbe dissolta se l’imperatore, simbolo di quell’unità, fosse stato deposto.Certo, gli americani erano troppo ignoranti per capire la situazione, e così il piccolo Truman, che per tutta la vita era stato canzonato come una nullità, si glorificò del proprio potere e fece sganciare le bombe. Le bombe atomiche gettate sul Giappone erano potenti. Ma le bombe all’idrogeno che sono venute dopo sono ancora più potenti. L’uso di tali armi potrebbe distruggere la vita sulla Terra. Donald Trump ha detto ha detto l’unica cosa su cui sperare in tutta la campagna presidenziale. Ha messo in discussione la Nato e il conflitto orchestrato con la Russia. Non sappiamo se possiamo credergli e se un suo eventuale governo seguirebbe questa direzione. Ma sappiamo che “Hitlery” [neologismo che unisce il nome di Hillary Clinton a Hitler, NdT] è una guerrafondaia, un agente dei neoconservatori, del complesso militare, della lobby israeliana, delle banche “troppo grandi per fallire”, di Wall Street, e di qualsiasi interesse estero che dà mega-milioni di dollari di donazioni alla fondazione Clinton o un quarto di milione di dollari per un suo discorso.“Hitlery” ha dichiarato che il presidente russo è la più grande minaccia – il “nuovo Hitler”. Si potrebbe essere più chiari di così? Un voto a “Hitlery” è un voto per la guerra. Nonostante questo sia più che ovvio, i media statunitensi, a reti unificate, stanno facendo tutto ciò che è in loro potere per abbattere Trump e far eleggere “Hitlery”. Tutto ciò cosa ci dice sull’intelligenza del “Unipower”, “l’unica superpotenza del mondo”, il “popolo indispensabile”, la “nazione eccezionale”? Ci dice che sono scemi come la m**da. Gli americani, creature della “Matrix” creata dai loro propagandisti, vedono minacce immaginarie e non vedono quelle reali. Ciò che i russi e i cinesi vedono è un popolo troppo indottrinato e ignorante per essere di alcun aiuto nella pace. Vedono la guerra che arriva e si stanno preparando.(Paul Craig Roberts, “Ripensare la guerra fredda”, dal blog di Craig Roberts dell’11 agosto 2016, tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Economista e autorevole editorialista statunitense, Roberts è stato sottosegretario al Tesoro di Ronald Reagan).La Guerra Fredda iniziò durante l’amministrazione Truman e durò durante le amministrazioni Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford e Carter. Terminò col secondo mandato di Reagan, quando lui e Gorbachev trovarono un accordo sul fatto che il conflitto era pericoloso, costoso e inutile. La Guerra Fredda però non cessò per molto tempo – la tregua durò solo dal secondo mandato di Reagan al mandato di George H. W. Bush [padre]. Negli anni ’90 il presidente Clinton riavviò la Guerra Fredda infrangendo la promessa che l’America aveva fatto di non espandere la Nato nell’Europa dell’est. George W. Bush [figlio] riattizzò la nuova Guerra Fredda ritirando gli Stati Uniti dal Trattato Abm (anti missili balistici), e Obama proseguì su quella via con una retorica irresponsabile, posizionando i missili statunitensi a ridosso del confine russo e appoggiando il rovesciamento del governo ucraino. La Guerra Fredda fu una creazione di Washington. È stato il lavoro dei fratelli Dulles. Allen era a capo della Cia, John Foster era Segretario di Stato, posizioni che essi detennero per lungo tempo.
-
L’auto-golpe del boia Erdogan, ladrone e super-terrorista
“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.Lo sibila tra i denti anche lo stesso Gulen che, ovviamente, rintanato negli Usa sotto tutela e controllo di Washington, non c’entra niente. Anche perché quando mai lui, islamista integralista quanto Erdogan, avrebbe potuto/voluto lanciare contro il sultanato una forza militare che, a dispetto delle epurazioni islamizzanti subite negli anni, mantiene una robusta base secolare e nazionalista. Anche perché per una roba del genere i suoi sorveglianti americani non gli avrebbero mai allentato le briglia. Ci possono essere dissapori, tra il maniaco criminale di Ankara e quelli di Washington. Che so, sui curdi, sulla gestione del califfo, su pace o guerra con Mosca o Iran, ma mettere in discussione un pilastro Nato piantato in mezzo a Medioriente e Asia, ai confini della Russia che delenda est, una forza militare che è la seconda dell’Occidente dopo gli Usa, un regime che tiene appesa al gancio del collasso da migrazioni l’Unione Europea, ecchè, vogliamo metterlo in discussione?E allora tutti, da Obama al “Manifesto”, lungo l’intero arco atlantico da destra a sinistra, a inneggiare alla preservazione delle istituzioni, dei diritti civili e del governo democraticamente (sic!) eletto, con qualcuno dal sottofondo che flauteggia l’auspicio che Erdogan si ravveda e non ne combini più delle sue. Non se ne preoccupa più di tanto Tommaso De Francesco, del quotidiano cripto-Nato, ma con etichetta comunista, il quale non fa che inanellare scemenze e insipienze da quando attribuì a Milosevic despotismo e pulizie etniche e in questo caso, con una Turchia chiaramente spaccata a metà tra affascinati dalla Sharìa e resistenti umani, individua un “Erdogan ferito”, ma anche un “popolo turco”, tutto intero, sdraiatosi davanti ai carri armati come a Tien An Men, in difesa del suo presidente, “democraticamente eletto”. Già gli erano svaporati dalle malferme sinapsi i milioni che negli anni si sono ritrovati nelle piazze, da Dyiarbakir a Istanbul, per farsi sparare addosso dagli sgherri del democraticamente eletto.Divertente poi la linea a balzelloni del giornaletto restituito a malavita (lo ha annunciato l’altro giorno) e alla sua cooperativa più che da lettori fedeli, dai paginoni dei compagni di Eni, Enrel, Telecom, Enav, Coop. Come quando con il suo responsabile esteri sentenzia un Erdogan fragile e indebolito dall’emergere di un elemento di contrasto capace di tenerlo sulla corda per ben tre ore di golpe, nientemeno, mentre l’altro redattore si piega alla realtà di un presidente tornato in grande spolvero e ora in grado spazzare via ogni residuo di opposizione. Ma che riunioni di redazione fanno? Torniamo al “golpe”, auto. Quello sul cui fallimento il “Manifesto” e tanta stampa (un po’ meno lo scaltro “Il Fatto”) si azzarda a ricostruire la «centralità del Parlamento e del ruolo fondamentale dei partiti politici nel gioco democratico» (sic!): esattamente, ed è naturale, i termini in cui hanno salutato il salvataggio della democrazia da parte del più turpe energumeno nazista dell’area gli zii della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Pentagono e, scendendo molto in basso per li rami, pure Matteo Renzi e – qui ci scappelliamo – l’eurodama Mogherini.Ebbene qualcuno si ricorda dei colpi di Stato effettuati dai militari turchi ogni qualvolta sospettavano che l’eredità nazionale e laica di Ataturk fosse posta a repentaglio da destra o sinistra? E qualcuno gli ha messo a confronto quiell’aborto di colpetto di Stato della notte tra il 15 e il 16 luglio 2016? Hanno occupato la tv di Stato, ma non le tv private, tutte infeudate a Erdogan, non la Cnn turca (braccio mediatico Nato e Usa) dalla quale è difatti ripartito il controgolpe, cioè il colpo di Stato vero, con la trasmissione da smartphone dell’appello di Erdogan al pogrom antimilitare. Non hanno fatto nessuna delle cose che potevano assicurare il successo di una liberazione militare del popolo turco dalla Vergine di Norimberga in cui progressivamente lo ha rinchiuso il suo Torquemada. Non hanno spento i ripetitori delle telecomunicazioni, i cellulari, internet, non hanno ordinato il coprifuoco e proclamato la legge marziale, non hanno occupato i ministeri, appena qualche tank sui ponti sul Bosforo, di grande visibilità e dove sarebbero potuti arrivare in poco tempo e in tanti a “difendere la democrazia”.Non hanno occupato alcuna via di comunicazione strategica nel paese e tra il paese e i vicini, non hanno occupato le prefetture, presidiato i nodi ferroviari, bloccato gli aeroporti (solo per finta quello di Istanbul dove Erdogan è potuto subito arrivare dal suo luogo di vacanze, a Marmaris, che nessuno si è sognato di bombardare o occupare). Nel tempo delle immagini e dei leaderismi che ne scaturiscono non hanno saputo produrre un nome e una figura carismatica di riferimento, non hanno usato i social network. Dilettantismo di quattro sprovveduti, per quanto bene intenzionati, che non hanno neanche ricordato che i colpi di Stato si fanno a notte fonda, prima dell’alba, quando non si corre l’inconveniente di gente sveglia e per strada. E così le Cnn e le tv associate al disegno del despota hanno potuto riprendere strade e piazze con qualche centinaio di persone, emerse da discoteche e trattorie e poi moltiplicati dagli accorsi agli appelli di Erdogan liberamente trasmessi, simulando una rivolta di massa contro i carri.Poi è finito tutto. Salvo per i 300 morti, per ora, i 6000 arrestati, per ora, i 3000 magistrati dimessi e poi incarcerati, la campagna di linciaggi lanciata contro i soldati “traviati”, piazza pulita di tutti i critici e irriverenti, l’immaginabilissima ulteriore stretta sui diritti politici, civili, operai, la continuità del doppio forno antisiriano (alleanza con Isis, finto guerra all’Isis), lo sprofondare del paese in un abisso di regressione politica e culturale. Una Turchia degna dell’ingresso nell’Ue,vero modello avanzato di quanto si ha in mente a Bruxelles, Washington e tra coloro che brandiscono Nato e Ttip, tanto per assicurarci sulla «centralità del Parlamento turco e dei partiti come attori fondamentali del gioco democratico», come titola il foglio cripto-Nato su un pezzo davvero turco di tale Mariano Giustino. Cosa può essere successo?Che gli attentati finalizzati, come in Francia, come ovunque, ad accelerare la marcia verso lo Stato con gli stivali chiodati e a passo dell’oca non erano riusciti a far ingranare la quarta. Che nell’esercito, per quanto epurato, sopravvivevano fermenti laici, nazionalisti, in disaccordo con le catastrofiche imprese esterne e interne di un regime che andava isolandosi da tutti. Che si è lasciato che i portatori di questi fermenti, nei gradi medio-alti, congiurassero, che magari con agenti provocatori li si incoraggiasse, che addirittura gli si facesse balenare un appoggio euro-atlantico, che poi li si inducesse a commettere le ingenuità, gli errori clamorosi che si sono visti, nell’illusione, loro, che si sarebbero tirati dietro popolo e armate.Tutti a sottolineare il silenzio delle cancellerie occidentali, Obama, Merkel, Juncker, May, Hollande e Renzi (per quel che conta), nelle tre ore del golpe, interpretato e biasimato come un barcamenarsi in attesa di sapere chi avrebbe vinto. Balle! Sapevano benissimo chi avrebbe vinto, ma, davanti all’immagine del golem turco insediatasi ormai nella percezione della gente pensante in tutta la sua orripilante identità di padrino del terrorismo jihadista, massacratore del suo e di altri popoli, corrotto ladrone e capo di un clan di malfattori senza scrupoli, conveniva mostrare qualche disponibilità a chi aveva proclamato nel suo comunicato il «ritorno alla democrazia e al rispetto dei dirtti umani e la pace e amicizia con tutti i popoli vicini». Ovviamente anatema per la Nato e per un’Europa che si muove, per ora con mocassini e tacchi a spillo, nella stessa direzione.Pensate se avesse vinto il colpo di Stato. Via i Fratelli Musulmani, quelli tanto cari al “Manifesto”, ormai nettamene minoritari nella regione (Tunisia, Qatar e Turchia). Cioè via la forza sociale, militare e culturale ideata e nutrita dai colonialismi vecchi e nuovi a garanzia dei propri modelli di sviluppo e di sfruttamento, del proprio ordine mondiale. Al suo posto una realtà imprevedibile e incalcolabile, con rigurgiti nazionalisti e statalisti suscettibili di guardare oltre il soffocante perimetro delle alleanze e dipendenze occidentali, sicuramente laica e, dunque, ostica ai processi di decerebramento religioso che servono a neutralizzare nostalgie di autodeterminazione popolare e nazionale. Quelle che hanno animato alla rivolta alcune decine di milioni di egiziani, dopo aver assaporato la medicina dei Fratelli Musulmani e dei loro surrogati terroristici, sotto un presidente eletto “democraticamente” dal 17% della popolazione in un voto boicottato dalla maggioranza, che aveva imposto la sharìa, sparato sui manifestanti, incarcerato gli oppositori, bruciato le chiese cristiane, trasferito tagliagole in Siria e i cui seguaci ora assassinano civili, funzionari e poliziotti in una guerra terroristica che tutti preferiscono nascondere sotto le presunte infamie di Abdelfatah Al Sisi.Avessero vinto in Turchia i militari, ontologicamente fascisti secondo un’aporia di sinistra, a dispetto di dimostrazioni storiche contrarie, ci saremmo giocati «la centralità del Parlamento turco e dei partiti nel loro ruolo di attori fondamentali del gioco democratico», come temeva il “Manifesto” e tutto il cucuzzaro destro-sinistro dell’atlantismo? Chi lo sa. Di sicuro c’è che, come Al Sisi è meglio di Morsi per gli egiziani, gli arabi, il Medioriente, il movimento delle cellule cerebrali dell’essere umano, difficilmente qualcuno di quelli che si sono agitati l’altra notte a Istanbul avrebbe potuto essere peggio di Erdogan, il padrino degli squartatori del popolo iracheno, libico e siriano. Certo che la Nato, John Negroponte, l’Mi6, la Cia, Oxford Analytica e il “manifesto”, a questo qualcuno non avrebbero esitato un attimo a spedigli un Giulio Regeni, poveretto.(Fulvio Grimaldi, “Turchia, fanno tutto da soli e sono capaci di tutto”, da “Mondocane” del 17 luglio 2016).“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.
-
Ciao Usa, meglio la Cina: ecco il Brexit. L’Ue? E’ già finita
«Nessuno sembra capire le conseguenze della decisione britannica di lasciare l’Unione Europea: la separazione dei britannici dalla Ue non si farà affatto lentamente, perché l’Unione crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per l’uscita della Gran Bretagna». Così la vede il giornalista Thierry Meyssan, analista internazionale. Tesi: al netto del chiasso dei “populismi” alla Farage, il voto inglese è stato voluto da chi comanda a Londra, che ha ormai capito che il tempo del dominio Usa – di cui Bruxelles è una succursale – è ormai al tramonto. Meglio allora sbaraccare, tenendosi le mani libere per essere i primi, in Europa, a chiudere un accordo strategico col nuovo vincitore, la Cina. La posta in gioco non ha nulla a che fare con le polemiche sull’immigrazione: «Il divario tra la realtà e il discorso politico-mediatico illustra la malattia di cui soffrono le élites occidentali: la loro incompetenza». Ancora nel 1989, il Pcus non “vedeva” il crollo del Muro di Berlino. Poi vennero la fine del Comecon e del Patto di Varsavia, il collasso dell’Urss. «In un futuro assai prossimo assisteremo in modo identico alla dissoluzione dell’Unione Europea e della Nato e – se non staranno abbastanza attenti – allo smantellamento degli Stati Uniti».A differenza delle spacconate di Nigel Farage, l’Ukip non è all’origine del referendum che ha appena vinto, scrive Meyssan su “Megachip”. «Questa decisione è stata imposta a David Cameron da membri del partito conservatore: per loro, la politica di Londra deve essere un adattamento pragmatico al mondo che cambia. Questa “nazione di bottegai”, come la definiva Napoleone, osserva che gli Stati Uniti non sono più né la più grande economia del mondo, né la prima potenza militare. Non hanno dunque più motivo di essere i loro partner privilegiati». Proprio come Margaret Thatcher non ha esitato a distruggere l’industria britannica per trasformare il suo paese in un centro finanziario globale, continua Meyssan, allo stesso modo «questi conservatori non hanno esitato ad aprire la via all’indipendenza della Scozia e dell’Irlanda del Nord, e quindi alla perdita del petrolio del Mare del Nord, per fare della City il primo centro finanziario “off shore” dello yuan».La campagna per il Brexit è stata ampiamente sostenuta dalla Gentry e da Buckingham Palace, che hanno mobilitato la stampa popolare per fare appello a ritornare all’indipendenza. E, contrariamente a quanto spiega la stampa europea, la separazione dei britannici da Bruxelles avverrà alla velocità della luce, cioè prima che possa crollare la stessa Unione Europea. Meyssan insiste con il paragone con l’Urss, che si afflosciò in un amen, una volta iniziato il movimento centrifugo. «Gli Stati membri della Ue che si aggrappano ai rami e continuano a salvare quel che resta dell’Unione non riusciranno ad adattarsi alla nuova situazione, con il rischio di sperimentare le convulsioni dolorose dei primi anni della nuova Russia: caduta vertiginosa del livello di vita e della speranza di vita». E ancora: «Tutti credono, a torto, che il Brexit apra una breccia in cui gli euroscettici andranno a introdursi». Ma il Brexit è solo «una risposta al declino degli Stati Uniti».Il Pentagono, che prepara il vertice Nato a Varsavia, «non ha capito che non era più in grado di imporre ai suoi alleati di sviluppare il loro bilancio della difesa e di sostenere le sue avventure militari». Il dominio di Washington nel mondo è terminato? «Quel che abbiamo è un cambiamento d’epoca».La caduta del blocco sovietico, continua Meyssan, è stata dapprima la morte di una visione del mondo: i sovietici e i loro alleati volevano costruire una società solidale in cui si mettessero quante più cose possibili in comune. Ma hanno avuto «una burocrazia titanica e dei dirigenti necrotizzati». Il Muro di Berlino? «Non è stato abbattuto da anti-comunisti, ma da una coalizione di giovani comunisti e di Chiese luterane. Intendevano rifondare l’ideale comunista liberato dalla tutela sovietica, dalla polizia politica e dalla burocrazia. Sono stati traditi dalle loro élites che, dopo aver servito gli interessi dei sovietici si sono precipitate con tanto ardore a servire quelli degli statunitensi». Oggi, gli elettori del Brexit più impegnati cercano in primo luogo di riguadagnare la loro sovranità nazionale e di far pagare ai leader dell’Europa occidentale l’arroganza di cui hanno dato ampia prova con l’imposizione del Trattato di Lisbona dopo il rifiuto popolare della Costituzione europea (2004- 07). Potrebbero anche essere delusi da ciò che seguirà, sostiene Meyssan. «Il Brexit segna la fine della dominazione ideologica degli Stati Uniti, quella della democrazia al ribasso delle “quattro libertà”», indicate da Roosevelt nel 1941: libertà di parola e di espressione, libertà di religione, libertà dal bisogno, libertà dalla paura di un’aggressione straniera. «Se gli inglesi risaliranno alle loro tradizioni, gli europei continentali ritroveranno gli interrogativi delle rivoluzioni francese e russa sulla legittimità del potere, e rovesceranno le loro istituzioni a rischio di veder risorgere il conflitto franco-tedesco».Qualcosa di tellurico sta già avvenendo in Francia, dove i sindacati rifiutano il disegno di legge sul lavoro redatto dal governo Valls sulla base di un rapporto dell’Unione Europea, a sua volta ispirato dalle istruzioni del Dipartimento di Stato Usa. «Se la mobilitazione della Cgt ha permesso ai francesi di scoprire il ruolo dell’Ue in questo caso, non hanno ancora colto in cosa consista l’articolazione Ue-Usa. Hanno capito che invertendo le norme e mettendo i contratti aziendali al di sopra dei contratti di settore, il governo rimetteva in realtà in questione la preminenza della legge sul contratto, ma ignorano la strategia di Joseph Korbel e dei suoi due figli, la sua figlia naturale democratica Madeleine Albright e la sua figlia adottiva repubblicana Condoleezza Rice. Il professor Korbel affermava che, per dominare il mondo, era sufficiente che Washington imponesse una riscrittura delle relazioni internazionali secondo termini giuridici anglosassoni. In effetti, nel porre il contratto al di sopra della legge, il diritto anglosassone privilegia nel lungo periodo i ricchi e i potenti in rapporto ai poveri e ai miserabili».È probabile che i francesi, gli olandesi, i danesi e altri ancora cercheranno di rompere con l’Unione europea, continua Meyssan. «Dovranno per tutto ciò affrontare la loro classe dirigente. Se la durata di questa lotta è imprevedibile, il risultato non lascia più dubbi». Quanto alla Gran Bretagna, potrebbe essere Boris Johnson a gestire la transizione, che sarà rapidissima: «Il Regno Unito non aspetterà la sua uscita definitiva dalla Ue per gestire la propria politica. A cominciare dal dissociarsi dalle sanzioni prese contro la Russia e la Siria». A differenza di quel che scrive la stampa europea, la City di Londra non è direttamente influenzata dal Brexit: «Dato il suo status speciale di Stato indipendente sotto l’autorità della Corona, non ha mai fatto parte dell’Unione Europea». E così «potrà utilizzare la sovranità di Londra per sviluppare il mercato dello yuan». Già ad aprile, annota Meyssan, la City ha ottenuto i privilegi necessari firmando un accordo con la Banca centrale della Cina. «Inoltre, dovrebbe sviluppare le sue attività di paradiso fiscale per gli europei».Se il Brexit disorganizzerà temporaneamente l’economia britannica in attesa di nuove regole, è probabile che il Regno Unito – o almeno l’Inghilterra – si riorganizzerà rapidamente ottenendo il massimo profitto. «La domanda è se chi ha concepito questo terremoto avrà la saggezza di far arrivare dei benefici al proprio popolo: il Brexit è un ritorno alla sovranità nazionale, non garantisce la sovranità popolare», conclude Meyssan. «Il panorama internazionale può evolvere in modi molto diversi a seconda delle reazioni che seguiranno. Anche se questo dovesse andare male per alcune persone, è sempre meglio attenersi alla realtà come fanno i britannici, anziché persistere a stare in un sogno fino a quando questo non va in pezzi».«Nessuno sembra capire le conseguenze della decisione britannica di lasciare l’Unione Europea: la separazione dei britannici dalla Ue non si farà affatto lentamente, perché l’Unione crollerà più velocemente rispetto al tempo necessario alle trattative burocratiche per l’uscita della Gran Bretagna». Così la vede il giornalista Thierry Meyssan, analista internazionale. Tesi: al netto del chiasso dei “populismi” alla Farage, il voto inglese è stato voluto da chi comanda a Londra, che ha ormai capito che il tempo del dominio Usa – di cui Bruxelles è una succursale – è ormai al tramonto. Meglio allora sbaraccare, tenendosi le mani libere per essere i primi, in Europa, a chiudere un accordo strategico col nuovo vincitore, la Cina. La posta in gioco non ha nulla a che fare con le polemiche sull’immigrazione: «Il divario tra la realtà e il discorso politico-mediatico illustra la malattia di cui soffrono le élites occidentali: la loro incompetenza». Ancora nel 1989, il Pcus non “vedeva” il crollo del Muro di Berlino. Poi vennero la fine del Comecon e del Patto di Varsavia, il collasso dell’Urss. «In un futuro assai prossimo assisteremo in modo identico alla dissoluzione dell’Unione Europea e della Nato e – se non staranno abbastanza attenti – allo smantellamento degli Stati Uniti».
-
Dopo Kissinger, ecco Hillary: è la dea della prossima guerra
In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».Tracciando un abile collegamento tra l’11 Settembre e “l’aggressione russa”, che presumibilmente sta cambiando la faccia dell’Europa, qui c’è tutto, incluse due delle cinque principali minacce all’esistenza degli Usa secondo il Pentagono: la prima (la Russia) e l’ultima (il terrorismo); le altre sono la Cina, la Corea del Nord e l’Iran (si noti che Hillary ha sempre accusato Teheran di “terrorismo”). “Continueremo a cercare missioni” dovrebbe essere decrittografato come “altre guerre” e implica, senza – mai – ammetterlo che la Libia e la Siria sono stati notevoli disastri nella politica estera degli Usa. In effetti, Hillary si spinge persino oltre, affermando di non aver finito con il Medio Oriente e di essere pronta a continuare la sua “missione” di imporre la democrazia con qualsiasi mezzo necessario, dai droni alla R2P (“responsibility to protect” [responsabilità di proteggere])… grazioso eufemismo per imperialismo umanitario. È inutile che i cittadini europei manifestino choc e timore reverenziale; in fin dei conti, hanno a che fare con un falco della guerra che è arrivato ad ammettere, ufficialmente, per la prima volta durante la sua campagna presidenziale, di essere realmente un falco della guerra. Per quanto riguarda la “nazione indispensabile” (copyright del mentore di Hillary, Madeleine Albright), sarà come al solito un affare… come la ricerca di guerre senza fine. Quindi, basta con l’immagine, coltivata con cura dai pr, di una gentile, innocua, vecchia nonnina: qui abbiamo piuttosto Hillary che apre l’argine al Kissinger che ha dentro di sé.Il consolato americano di Bengasi era essenzialmente la copertura di una linea clandestina usata dalla Cia per contrabbandare armi ai “ribelli moderati” che si battevano contro Damasco. Seymour Hersh è stato tra coloro che lo hanno rivelato: «L’amministrazione di Obama non ha mai ammesso pubblicamente il proprio ruolo nella creazione di quella che la Cia chiama la “linea dei ratti“, un canale clandestino che portava dritto in Siria. La “linea dei ratti”, autorizzata agli inizi del 2012, era usata per convogliare armi e munizioni all’opposizione partendo dalla Libia e passando per la Turchia fino ad attraversare il confine con la Siria. Molti dei siriani che alla fine ricevevano le armi erano jihadisti, alcuni dei quali collegati ad al-Qaeda». Ora, immaginate il segretario di Stato Hillary Clinton che agevola la spedizione di missili antiaerei terra/aria Sa-7 e di granate a propulsione missilistica a dei jihadisti collegati ad al-Qaeda. È decisamente qualcosa che non si può volere nel proprio curriculum, soprattutto nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Hillary sta già combattendo una battaglia per la credibilità per quanto riguarda il suo server sotterraneo di e-mail. Celate nella sua crociata personale per la privatizzazione di dati dal Dipartimento di Stato degli Usa, ci potrebbero essere almeno tre gravissime infrazioni: distruzione, alterazione, o falsificazione di documenti; convertire a proprio uso proprietà di un Dipartmento degli Usa; raccogliere, trasmettere o perdere dati relativi alla difesa. L’intera nazione attende di sapere se il procuratore generale degli Usa, Loretta Lynch, che risponde al suo capo, il presidente Obama, deciderà di perseguire l’ex segretario di Stato a causa di tali infrazioni. Come se la suspense non bastasse, l’ex capo della Cia, Robert Gates, fonte credibile e in buona fede, ha messo in discussione, pubblicamente, il “buon senso” di Hillary e la sua mancanza di investigazione e approfondimento dei dati nel disastro della Libia, praticamente dichiarando che Hillary è una mina vagante.Gates ha rivelato quello che nell’ambiente governativo è un segreto di Pulcinella: che Hillary era completamente concentrata su un cambiamento di regime in Libia: «Il presidente mi ha detto che si è trattato di una delle decisioni più difficili che si sia mai trovato a prendere, una specie di 51 a 49, e sono certo che non avrebbe preso quella decisione se il segretario di Stato Clinton non l’avesse sostenuta». Gates più tardi ha ricordato la domanda di Obama: «Posso portare a termine le due guerre in cui sono già coinvolto prima che voi ne andiate a cercare una terza?». Gates ha aggiunto che il colonnello Gheddafi «non rappresentava affatto una minaccia per noi. Rappresentava una minaccia per il suo popolo, tutto qui». Nemmeno essere il principale architetto di una Libia “liberata”, che si è trasformata in un covo di terrorismo aperto a tutti è una descrizione del proprio operato che si possa volere nel proprio Cv nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.Le affermazioni di Gates riguardano fatti in qualche modo già trapelati nel marzo 2011: il famoso incontro notturno a Parigi tra Hillary e il “ribelle” libico Mahmoud Jibril. Uomo decisamente ammaliante, istruito negli Usa, Jibril aveva messo nel sacco Hillary dicendo «tutte le cose giuste sul fatto di sostenere la democrazia e l’inclusività e di creare istituzioni libiche, alimentando una certa speranza sul fatto che saremmo stati in grado di farcela», stando a Philip H. Gordon, uno degli aiutosegretari della Clinton. «Ci hanno detto quello che volevamo sentire. E si tende a voler credere». Ed ecco il punto conclusivo: si tratta di quello che un’amministrazione degli Usa “vuole credere”. Hillary ne era stata immediatamente convinta, senza minimamente far seguire la retorica a una stima, così come deve essere fatta secondo l’Abc dei servizi segreti americani.Questa versione, in quanto catalizzatore decisivo del cambiamento di regime in Libia, è più pertinente del fantasioso racconto francese sul fatto che il piccolo Napoleone Nicolas Sarkozy abbia preso il comando incitato da un patetico filosofo con l’immancabile camicia bianca aperta sul suo microscopico plesso solare. Così la Libia è diventata la guerra di Hillary, proprio come quella dell’Iraq nel 2003 era stata la guerra del regime neo-conservatore di Cheney. Obama, come presidente, incitato dal suo segretario di Stato, si è addentrato in Libia senza un piano B, senza un piano di azioni da intraprendere successivamente, senza nessuna meta strategica di politica estera a lunga scadenza. Eppure nessuno in Europa si dovrebbe aspettare che la dea della guerra spieghi le proprie mete strategiche… che siano portate avanti con l’uso di droni, sovversione, sanzioni, bombardamenti con fini liberatori o R2P. Che siano in Libia, o facciano parte di tutte queste “missioni” una volta che lei diventerà presidente.(Pepe Escobar, “Hillary Clinton, della della guerra”, da “Occhi della guerra” del 2 maggio 2016).In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”: «Resterò nella Nato. Resterò nella Nato, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la Nato era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La Nato è accorsa in nostra difesa dopo l’11 Settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la Nato è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre».
-
11 Settembre: l’uomo che condannò Moro accusa Israele
Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.La video-intervista, di 47 minuti, è stata diffusa, probabilmente non a caso, nel pieno della campagna americana per incolpare la monarchia saudita del mega-attentato dell’11 Settembre, con la minaccia di pubblicare le 28 pagine del rapporto della Commissione Senatoriale sul 9/11, secretate da Bush jr. proprio perché mostrerebbero il coinvolgimento dei sauditi ai più alti livelli. Steve Pieczenik corregge: sì, c’è stata la cooperazione di “agenti sauditi”, ma il mandante principale è Israele, insiste nell’intervista. Egli si dichiara disposto a testimoniare sotto giuramento davanti a un tribunale federale e rivelare lì le sue fonti, fra cui (dice) “un generale”. L’importanza del testimone non può essere sottovalutata. Il dottor Pieczenik (è psichiatra) fu in Italia nel marzo del 1978 e per tutti i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro da parte delle Br; speditovi dall’allora segretario di Stato Cyrus Vance, si inserì nel Comitato di Crisi allestito da Cossiga, allora ministro dell’interno (a fianco del criminologo Franco Ferracuti, l’esperto in difesa e sicurezza Stefano Silvestri, una grafologa e il magistrato Renato Squillante) ufficialmente per dare la sua esperta assistenza al salvataggio del politico italiano e negoziare con le Brigate Rosse. In realtà, come ha rivelato in un libro nel 2008, per assicurarsi che Moro non ne uscisse vivo: gli Usa avevano deciso che Moro doveva essere “sacrificato” per garantire “la stabilità dell’Italia” (nella Nato).Intervistato da “France 5” e poi da Gianni Minoli a “Mixer” nel novembre 2013, Steve Pieczenik ha confermato tutto: per esempio raccontando che silurò l’iniziativa di Paolo VI di raccogliere una grossa somma (pare di dieci miliardi di lire), per pagare un riscatto. «Stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate Rosse e il processo di destabilizzazione dell’Italia». Chiese Minoli: «Sostanzialmente, lei fin dal primo giorno ha pensato e ha detto a Cossiga: Moro deve morire». «Evidente», rispose il consulente: «Cossiga se ne rese conto solo nelle ultime settimane. Aldo Moro era il fulcro da sacrificare attorno al quale ruotava la salvezza dell’Italia». Sic. Per questo la Procura di Roma, nel 2014, ha accusato l’americano di concorso in omicidio. E Gero Grassi, vicepresidente dei deputati Pd che voleva una nuova commissione d’indagine sul caso, disse: «Steve Pieczenik stava al ministero dell’interno per manipolare le Brigate rosse e arrivare all’omicidio di Aldo Moro».Non è stata la sua unica impresa. Nel Dipartimento di Stato, ai tempi di Reagan, il dottore è stato incaricato di architettare il “cambio di regime” a Panama, ossia il rovesciamento di Noriega (che lo accusò apertamente di essere “un assassino” che aveva ucciso vari suoi collaboratori). Ufficialmente capo-negoziatore in una quantità di prese di ostaggi e dirottamenti (ad opera di Farc colombiane, Abu Nidal, Idi Amin, Olp) ha contribuito a creare la Delta Force, il gruppo di teste di cuoio di intervento rapido in situazioni di crisi. Ha dato le dimissioni quando fallì il tentativo di liberare gli ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran; decisione del presidente Carter, ma probabilmente scacco suo, del dottor Pieczenik. S’è rifatto però una carriera di successo ideando trame di thriller per Tom Clancy. Nel 2011 è tornato sotto i riflettori per denunciare che la “cattura di Bin Laden” messa a segno ad Abbottabad in Pakistan e passata come un grande successo del presidente Obama, era stata tutta una messinscena (ne abbiamo avuto tutti il sospetto): il vero Bin Laden, secondo lui, è morto fin dal 2001, di sindrome di Marfan.Non può esser casuale il fatto che adesso, a 72 anni e a 15 dal mega-attentato, il vecchio agente del Dipartimento di Stato con le mani in pasta in tante storie oscure di destabilizzazione e sovversione, esca ad accusare Israele mentre tutta la grancassa politico-mediatica sta additando gli spregevoli sauditi. Una campagna a cui partecipa stranamente anche Seymour Hersh, il grande giornalista investigativo con “gole profonde” nel settore militare, che ha condotto inchieste scomode per lo “stato profondo” americano. Pochi giorni fa, intervistato da “Alternet”, Hersh ha raccontato: nel 2011 «i sauditi hanno pagato i pakistani perché non ci dicessero [che Bin Laden si trovava ad Abbottabad, sotto la loro protezione] perché non volevano che noi (americani) interrogassimo Bin Laden perché ci avrebbe parlato – è la mia ipotesi – del loro coinvolgimento [nell’11 Settembre]». Ma quale Bin Laden nascondevano i pakistani nel 2011, se Pieczenik dice (confermando versioni solide del tempo) che è morto nel 2001, pochi mesi dopo l’attentato alle Towers e al Pentagono?Può esserci una lotta di informazione e contro-informazione all’interno stesso dello “Stato profondo” americano? Certo è che i media americani sono scatenati in esibizioni di spregio verso i monarchi wahabiti: “Royal Scum”, feccia regale, titolava il “New York Daily News” qualche giorno fa. Tanto insolito “coraggio” deve essere autorizzato. Naturalmente la “rivelazione” delle 28 pagine colpisce anche il presidente Bush jr., e la sua amministrazione, perché è evidente che, se hanno coperto la parte avuta dai sauditi, sono colpevoli. Lo scandalo anti-saudita va accuratamente controllato, perché è facile che debordi e i suoi liquami schizzino a colpire proprio gli israeliani o con doppio passaporto che erano al Pentagono ai tempi di Bush jr., e additati dall’agente Pieczenik: Paul Wolfowitz, rabbi Dov Zakhiem (e il terzo, ebreo anche lui, era Douglas Feith) più Michael Chertoff, capo dell’Homeland Security e grande insabbiatore-depistatore delle indagini.Questo scontro interno è senza dubbio in relazione con l’ascesa del candidato imprevedibile, Donald Trump, nella lizza presidenziale. Dopo il suo discorso sul suo programma in politica estera – liquidato con rabbia dal “New York Times” perché propone fra l’altro un accordo con Putin e la fine dell’interventismo – «gli americani sentono di avere, per la prima volta dopo molto tempo, una alternativa sobria e basata sull’interesse nazionale alle disastrose politiche dei neocon», ha detto Jim Jatras, l’ex consigliere repubblicano del Senato. Con grande dispetto dell’establishment, Trump non raccoglie voti solo tra i rozzi arretrati operai bianchi di basso reddito che odiano gli immigrati messicani e lo sentono volgare come loro. Negli exit poll delle primarie in Pennsylvania, Maryland, Delaware, Connecticut e Rhode Island – dove ha trionfato – s’è visto che hanno scelto lui la metà degli elettori repubblicani con alto titolo di studio e con reddito di 100 mila dollari annui: il suo discorso di politica estera ha convinto proprio la classe media benestante. Questo per l’elettorato repubblicano. Quanto a quello democratico: «Continuo a incontrare gente che non sa decidere se votare Bernie Sanders oppure Donald Trump», ha confessato al “Baltimore Sun” Robert Reich, ex ministro del lavoro sotto Bill Clinton e uomo molto di sinistra (nella misura statunitense). L’elettorato di “sinistra”, quello che ha favorito Sanders il “socialista”, sta pensando di votare Trump, non Hillary. Forse è proprio la grande liberazione da Israel….(Maurizio Blondet, “11 Settembre, l’uomo di Washington accusa Israele”, dal blog di Blondet del 29 aprile 2016).Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.
-
Soros e i Putin-Papers, quando il pesce puzza dalla testa
«Quando ho aperto le news, questa mattina, mi è venuto da sorridere: Putin fra coloro che nascondono i propri soldi nei paradisi fiscali. E ti pareva – ho pensato – ora ci manca solo che scoprano che è un pedofilo, e il ritratto del grande babau sarà finalmente completato». Così Massimo Mazzucco liquida immediatamente la super-sparata giornalistica destinata a screditare il leader russo. Ed è in buona compagnia: la stessa Wikileaks, scrive la “Stampa”, accusa gli Stati Uniti e il miliardario americano d’origine ungherese George Soros di essere dietro i “Panama Papers”, e in particolare dietro all’attacco sferrato contro il presidente russo. Lo twitta l’organizzazione di Julian Assange, secondo cui tutto sarebbe passato attraverso l’Occrp (Organized Crime and Corruption Project), finanziato da Usaid, l’agenzia Usa per lo sviluppo. La struttura che fa capo a Soros, si legge sul sito di Wikileaks, oltre che da Usaid è appoggiata dalle Open Society Foundations, nonché da organizzazioni giornalistiche come l’International Consortium of Investigative Journalists, da “Scoop” e dal Cpi, Center for Public Integrity.«La notizia dei Panama Papers, infatti, non avrebbe nulla di sconvolgente, se non fosse per il risalto esagerato che si è voluto dare alla figura del leader russo all’interno di questo presunto nuovo scandalo», scrive Mazzucco su “Luogo Comune”. «Ma quando vedi che tutte le testate occidentali – dal New York Times alla Bbc, dall’Espresso alla Cnn – mettono l’accento su Vladimir Putin, allora ti viene da sorridere: è chiaro che si tratta di una operazione di discredito progettata a tavolino». La cosa più “divertente”? «Tutte queste testate si danno un gran da fare per riempire la prima pagina con le foto dei vari personaggi coinvolti nello scandalo – da Cameron a Montezemolo, da Messi a Jackie Chan – ma il primo in alto a sinistra è quasi sempre lui: Vladimir Putin». Un’altra cosa che salta all’occhio, in una rosa così forbita di grossi personaggi mondiali, è «la totale assenza di un qualunque nome americano di rilievo». È come se il Dipartimento di Stato avesse chiesto alla Cia: avete qualcosa da poter utilizzare contro Putin? Sì, certo. Un bel mazzo di grossi nomi, che nascondono i loro soldi a Panama. Basta aggiungerci quello di Putin e far circolare lo “scoop” sui soliti canali, avendo però cura si “sbianchettare” gli americani.«La predominanza totale della figura di Putin da un lato, e la totale assenza di grossi nomi americani dall’altro, porta automaticamente a sospettare che questa sia la classica operazione telecomandata da Washington, per portare avanti la campagna di discredito contro il leader russo», conclude Mazzucco. «La tragedia è che ora, pur di stare al gioco, i giornalisti di mezzo mondo fanno finta di credere che se davvero un uomo come Putin volesse nascondere i soldi dalle tasse, sarebbe costretto a mettersi nelle mani di una qualunque holding di offshore panamense (pronta a ricattarlo in qualunque momento)». Non è credibile, secondo l’analista italiano, che il capo del Cremlino abbia dovuto far ricorso a simili sistemi di elusione fiscale: «Queste cose le fanno gli industriali e i personaggi pubblici di mezzo mondo, non le fanno gli ex-capi del Kgb».«Quando ho aperto le news, questa mattina, mi è venuto da sorridere: Putin fra coloro che nascondono i propri soldi nei paradisi fiscali. E ti pareva – ho pensato – ora ci manca solo che scoprano che è un pedofilo, e il ritratto del grande babau sarà finalmente completato». Così Massimo Mazzucco liquida immediatamente la super-sparata giornalistica destinata a screditare il leader russo. Ed è in buona compagnia: la stessa Wikileaks, scrive la “Stampa”, accusa gli Stati Uniti e il miliardario americano d’origine ungherese George Soros di essere dietro i “Panama Papers”, e in particolare dietro all’attacco sferrato contro il presidente russo. Lo twitta l’organizzazione di Julian Assange, secondo cui tutto sarebbe passato attraverso l’Occrp (Organized Crime and Corruption Project), finanziato da Usaid, l’agenzia Usa per lo sviluppo. La struttura che fa capo a Soros, si legge sul sito di Wikileaks, oltre che da Usaid è appoggiata dalle Open Society Foundations, nonché da organizzazioni giornalistiche come l’International Consortium of Investigative Journalists, da “Scoop” e dal Cpi, Center for Public Integrity.