Archivio del Tag ‘disciplina’
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Jobs Act, misero imbroglio fallito: peggior legge di sempre
Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.Operazione costosissima: 8.000 euro l’anno per tre anni vuol dire 24.000 euro di decontribuzione a contratto. Si chiama furto di denaro pubblico. Solo che, prima, gli ispettorati Inps vigilavano e controllavano. Ora hanno smesso di farlo. Praticamente abbiamo regalato 10 miliardi agli evasori. Ecco perché sono cresciuti i contratti senza articolo 18. L’unica condizione era che il lavoratore da assumere non avesse già avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi sei mesi precedenti, perché altrimenti tutti sarebbero ricorsi a licenziamenti, immediatamente seguiti dalle assunzioni con l’incentivo. La decontribuzione veniva invece concessa se il lavoratore avesse prima lavorato con contratto precario, perché queste trasformazioni sarebbero state utilizzate dalla propaganda e diventate il fiore all’occhiello del governo Renzi come grande protagonista della lotta al precariato. E i contratti infatti ora diminuiscono. Nel corso del 2015 si sono registrati 1,4 milioni di nuovi rapporti a tempo indeterminato incentivati, ma con quasi 500.000 trasformazioni di contratti a termine e quasi 100.00 di contratti di apprendistato, oltre alle trasformazioni di centinaia di migliaia di “co.co.pro.”, figura giuridica abrogata dal gennaio di quest’anno.Ma c’è dell’altro. Nel 2016, la decontribuzione è stata ridotta per i contratti di quest’ultimo anno da 8.060 a 3.250 e la sua durata decurtata da 36 a 24 mesi. Allora l’imbroglio è stato svelato. L’Inps, infatti, nei primi quattro mesi del 2016 ha accertato una diminuzione del 78% dei contratti a tempo indeterminato, sostituiti da contratti precari e a termine e addirittura voucher, forma di mercificazione inaudita del lavoro umano. Possiamo parlare di bluff, e anche di reato. Le diverse centinaia di migliaia di trasformazioni dei contratti precari nascondevano una circostanza: erano quasi sempre irregolari. Mancava una causale precisa o l’insegnamento, come nell’apprendistato o il progetto, con la conseguenza che, per legge, quei rapporti dovevano essere considerati già tutti a tempo indeterminato fin dal loro inizio. E dunque l’Inps non poteva concedere la decontribuzione legata alla apparente trasformazione nei nuovi contratti a tutele crescenti. La stessa legge 190/2014 vietava di concedere la decontribuzione ai lavoratori che già fossero in realtà a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti.Il Jobs Act ha aperto anche la strada ai licenziamenti. E’ diventato un’arma di intimidazione individuale e collettiva. In una fabbrica, i lavoratori dopo aver timbrato l’ingresso volevano indossare i vestiti da lavoro necessari alle condizioni di sicurezza per quella fabbrica e poi cominciare. Il padrone invece pretendeva che la vestizione fosse fatta fuori orario. I lavoratori hanno protestato e il padrone ha licenziato subito il primo di loro che si era rifiutato. Gli altri sono stati così intimiditi. Il licenziato al massimo potrà avere 4 mensilità, e che resti a casa. Queste sono le propagandate tutele crescenti. L’articolo 18 era dunque l’ostacolo da rimuovere, l’architrave da spezzare. Una straordinaria norma anti-ricatto, che consentiva il godimento di altri diritti. Era un diritto-architrave, appunto. Oggi abbiamo lavoratori sotto il regime Fornero e altri con il contratto a tutele crescenti. Un balzo enorme indietro, un peggioramento enorme della disciplina del lavoro.Certamente i lavoratori hanno subìto un insulto, ma si possono riprendere tutele e diritti. Con i referendum della Cgil. Che, se passassero, cancellerebbero le tutele crescenti e abolirebbero i voucher, reintroducendo i limiti di responsabilità nella catena degli appalti. Dobbiamo sfruttrare questa occasione e farne un uso positivo per eliminare l’inferno che si è creato in Italia: via articolo 18, contratti a termine senza causale, licenziamenti e voucher. Peggio di così… Il sistema dei nuovi ammortizzatori? Sono un netto peggioramento. Abolita l’indennità di mobilità, abolite molte causali della cassa integrazione e ridotte le altre. Ora c’è il modello americano, della fabbrica a fisarmonica: licenzio e assumo, lavoratori come stracci. La tanto decantata Naspi è esattamente il contrario di ciò che deve essere la sicurezza sociale, basata com’è sul presupposto assicurativo. Perché penalizza chi ha lavorato poco. La Naspi è ridicola. Questo chiude il cerchio: abbiamo la sottrazione di tutele nel posto di lavoro, non c’è cassa integrazione e mobilità, la Naspi penalizza. Vogliono i lavoratori come cagnolini fedeli ai datori di lavoro.(Piergiovanni Alleva, dichiarazioni rilasciate a Vindice Lecis per l’intervista “Ecco perché il colossale e costoso flop del Jobs Act”, pubblicata su “Fuoripagina” il 21 novembre 2016. Il professor Alleva è uno dei più importanti giuslavoristi italiani: ha insegnato diritto del lavoro nelle università di Bologna e Ancona).Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.
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Noi, i Buoni: da Berlinguer a Renzi, tra santità e salvezza
Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.La cosa era sconcertante, continua Giannuli ripensando allo “strappo” di Occhetto, perché il Pci era il partito con la più radicata ed esibita identità ideologica, unico con scuole di partito, diffusissime riviste ideologiche e frequentissime liturgie celebrative del comunismo sovietico: almeno sino al 1981 era regolarmente celebrata la ricorrenza rivoluzionaria del 7 novembre. Com’era possibile che tutto questo si dissolvesse come un gelato a ferragosto? «Ben presto si capì che, con la sua tradizionale disciplina, il popolo comunista avrebbe ratificato a larga maggioranza la svolta. Questo era possibile solo ad una condizione: che sotto la “pelle” comunista ci fosse un’altra identità, quella sì, davvero radicata». Anche se ci fu la scissione di Rifondazione Comunista (e quella, silenziosa, di centinaia di migliaia di iscritti che non rinnovarono la tessera senza però aderire a nessun’altra formazione politica), nel complesso la maggioranza degli iscritti seguì disciplinatamente il gruppo dirigente. In nome di cosa? «Mi posi il problema di capire a quale “noi” si stava rivolgendo Occhetto – continua Giannuli – quando esortò tutti gli iscritti a non temere la svolta perché “sarebbero rimasti gli stessi di sempre”».Certo, il Pci aveva assorbito settori delle più diverse culture politiche (socialisti riformisti e massimalisti, cattolici, liberali, azionisti, persino anarchici o sinistra fascista) amalgamando tutto in una base ideologica genericamente “socialista”, ma non si trattava di quello: a essere determinante «non era l’irrompere di culture politiche altre che, per anni, avevano covato sotto la cenere comunista», perché, se così fosse stato, «avremmo assistito ad una esplosione, una diaspora». Invece, «si trattava di un flusso ordinatissimo: le sezioni cambiavano la targa all’ingresso con la massima naturalezza, gli iscritti si adattavano rapidamente al nuovo linguaggio e ai nuovi simboli», e la routine – le feste, il tesseramento – riprendeva come se nulla fosse. Il cambio di nome era solo «un astutissimo espediente tattico per superare la conventio ad excludendum e andare finalmente al governo», pensò qualcuno. «Ma la maggioranza capì perfettamente che non si trattava solo di questo e fu ben lieta di togliersi di dosso quel nome troppo pesante da portare». Quello che reggeva tutto, sottolinea Giannuli, «era quel “noi” che cercavo di identificare».Cos’era, in realtà, quell’ostentata allusione a un’identità collettiva? «Ben presto capii che era il frutto del racconto che il partito aveva fatto della sua storia: il “popolo comunista” era l’unica vera sinistra possibile, la parte migliore del paese, quella immune da scandali e corruzione e caricata di una “missione storica”, quella di “salvare l’Italia”», scrive oggi Giannuli. «L’identità comunista era stata funzionale a questo disegno ma, almeno dal 1956 (se non dal 1944) non corrispondeva ad un particolare indirizzo ideologico». Lo dimostra il fatto che, a un certo punto, scomparve dallo statuto il riferimento al marxismo: «Insomma, non era affatto indispensabile essere comunisti per aderire al Pci». D’altra parte, prosegue il politologo, «la leggenda del “comunismo italiano” diverso da tutti gli altri (in parte vera ma in parte no) venne ripetuta all’infinito, sino a cancellare tanto la radice comunista quanto anche solo quella socialista, lasciando solo il senso di appartenenza ad un soggetto che si sentiva chiamato a “salvare l’Italia” perché diverso e migliore di tutti gli altri italiani (la “diversità comunista” di Berlinguer, ricordate?), anche se la perdita della cultura di origine faceva sì che non si sapesse più da cosa si dovesse salvare il paese e come». Voilà: «La nuova identità era nuda ideologicamente, nutrita solo da una autocelebrazione ormai priva di senso. Era la “chiesa”, che è santa anche quando ha perso memoria delle sue origini e del messaggio evangelico da cui era sorta».Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, il politologo Aldo Giannuli, allora esponente dell’estrema sinistra, esternò le sue perplessità «a un amico militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea». L’amico, ricorda Giannuli, proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”. E ricordò una battuta di “Cuore”, l’allora supplemento satirico dell’“Unità”, nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”. «Dunque – dice oggi Giannuli – c’era un “noi” che prescindeva dall’identità comunista e che le era sottostante», un “noi” che «poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a se stesso». Il Pci era in pieno mutamento ideologico, dalla connotazione “comunista” sempre meno certa; «Ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci». Eppure, proprio da lì si può leggere la parabola che porta fino al Pd renziano, sostenuta in modo fideistico dai discepoli del “noi”, la strana chiesa.
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False flag: usano terroristi per ucciderci sotto falsa bandiera
Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.Come diceva il maiale Napoleone nella “Fattoria degli animali” di Orwell: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E oggi i governanti sembrano dirci: «Tutte le libertà sono in vigore, ma alcune sono meno vigenti delle altre». Il prezzo da pagare può essere altissimo. Il preavviso passa attraverso i secoli e ci viene da uno dei padri costituenti degli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Il libro che avete in mano ricostruisce una serie impressionante di vicende diverse, attribuibili a differenti Stati e legate a circostanze storiche non sempre connesse direttamente fra di loro, ma accomunate da un metodo che sembra essere uno strumento essenziale della moderna “arte di governo”. Enrica Perucchietti entra in dettaglio sui misteri e le scoperte che rivelano da un’altra prospettiva decine di incidenti militari, attentati, azioni terroristiche: di fronte a tanti gialli politici per i quali i governi forniscono su due piedi spiegazioni piatte, sprovviste di profondità, riduttive, banali, riferite a killer solitari e a gruppi isolati che non godrebbero di indecenti connivenze dentro gli apparati dello Stato fra chi potrebbe bloccarli, l’autrice del saggio fa invece affiorare indizi, prove, collegamenti clamorosi, fino a raccontare le storie che la censura di tipo moderno aveva eclissato in mezzo alla sua immensa produzione di notizie inutili.Perciò viene citato regolarmente il saggista statunitense Webster Tarpley, che ha coniato un concetto efficacissimo per descrivere questo sistema, ossia «terrorismo sintetico», che altro non è che «il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i popoli guerre segrete, che sarebbe impossibile fare apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre lo stesso programma politico […] Il programma dell’oligarchia è di perpetuare l’oligarchia». In tante pagine il vostro sguardo potrà posarsi su un secolo intero di vicende storiche innescate o favorite dalle flase flag, fino a notare come queste diventino sempre più numerose. Episodi più lontani nel tempo, come l’affondamento del Lusitania, l’incendio del Reichstag, l’incidente del Tonchino, diventano – decennio dopo decennio – una prassi rodata e frequente, che si moltiplica nel corso degli ultimi 15 anni. E cosa ha inaugurato quest’ultimo periodo? Esattamente la più spettacolare e visionaria delle false flag, lo scenario apocalittico dell’11 settembre 2001. Quel che è venuto dopo – ossia la “guerra infinita”, la “guerra al terrorismo”, lo spionaggio totalitario coperto dal Patriot Act e altre leggi liberticide – una volta illuminato dalla luce terribile dell’11/9, si è avvalso di una sorta di “terapia di mantenimento” a base di attentati piccoli e grandi, perpetrati da gruppi di terroristi presso i quali sono sempre riconoscibili l’ombra e l’impronta dei servizi segreti.I servizi segreti sono il grande convitato di pietra, sempre più ingombrante eppure ancora sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e giornalistiche. Anche se gli apparati di intelligence sono formalmente subordinati al potere politico ed esecutivo, hanno risorse enormi in grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza che possono mettere in campo le eventuali commissioni parlamentari di controllo. Pertanto sono capaci di costruire reti di interessi che in tutta autonomia possono condizionare sia l’agenda politica sia l’agenda dei media. Settori interi di questi servizi giocano partite autosufficienti grazie a budget incontrollabili ed enormi, in grado di mettere in campo forze pervasive. All’interno di quello che certi politologi definiscono “lo Stato profondo” esistono settori ombra del governo, dotati di proprie catene di comando presso le forze armate, di budget non rendicontabili che uniscono risorse pubbliche e autofinanziamento in simbiosi con le attività criminali delle mafie, provvisti di idee proprie in merito al modo di intendere l’interesse nazionale, portati a costruire ogni tipo di rapporto con gruppi terroristici che poi manovrano con “leve lunghe” e irriconoscibili.Le attività sono organizzate e adempiute mascherando ogni responsabilità riconducibile ai governi, tanto che immense risorse sono spese per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte con il noto principio della «plausible deniability», ossia la smentita plausibile. Ove rimanesse ancora una notizia impossibile da smentire, la si potrà disinnescare grazie all’immenso arbitrio in mano ai dirigenti dei media più importanti, che hanno mille intrecci con il mondo dei servizi. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha a lungo lavorato per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, uno dei principali quotidiani tedeschi, ha scritto un saggio bestseller, “Gekaufte Journalisten” (giornalisti venduti), in cui rivela che per molti anni la Cia lo aveva pagato per manipolare le notizie, e che questa è la consuetudine ancora attuale nei media germanici. Tutto fa pensare che la consuetudine sia identica anche altrove. Di certo non leggerete su “La Repubblica” una recensione sul libro di Ulfkotte, mentre leggerete le geremiadi dei suoi editorialisti su dove andremo a finire con questi complottisti, signora mia…Come spiegarsi altrimenti il silenzio che circonda certe notizie, che vengono pur date per salvarsi la coscienza, ma non hanno un prosieguo, una campagna di inchieste, nessun impegno? Eppure perfino Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato: «L’agenzia Fbi pagava dei musulmani per compiere attentati». Secondo un’indagine su 27 processi e 215 interviste, l’agenzia di intelligence interna americana «ha creato dei terroristi sollecitando i loro obiettivi ad agire e compiere atti di terrorismo». Notare bene: “creato dei terroristi”. In che modo? «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto. «Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», ha detto Andrea Prasow, vice direttore di Hrw a Washington. «Ma se si osserva da vicino si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagate». La notizia, se non la vogliamo ignorare, è semplice e terribile: gran parte degli attentati terroristici sul suolo Usa sono indotti dalla stessa organizzazione che li dovrebbe combattere, cioè l’Fbi.Gli organi di informazione che hanno lasciato appesa al nulla questa notizia impressionante, sono gli stessi che per anni – ad ogni attentato avvenuto o sventato – avevano ripetuto i comunicati dell’Fbi senza chiedere spiegazioni. Queste veline diventavano titoli urlati in prima pagina, notizie di apertura dei telegiornali. Quando la verità emerge, spesso molti anni dopo, non gode certo degli stessi spazi, rimanendo confinata in qualche insignificante pagina interna, in taglio basso. Chi aveva voluto raggiungere un certo effetto con i titoli cubitali, lo aveva già ottenuto. Resta viceversa la prima impressione dell’allarme, quando l’annuncio strillato e falso si deposita nella coscienza di lettori e spettatori. Ed è per responsabilità di questa informazione – che si è curata solo di aizzare (quando gli è stato comandato), o di “sopire e troncare” (quando era comodo) – che ogni giorno ci è stato depredato un pezzo di libertà, di sovranità, e infine imposto lo spionaggio totalitario della Nsa, l’agenzia che perfino di ciascun lettore di questo libro, in nome della sicurezza, possiede tutte le tracce delle sue comunicazioni, tutte le e-mail, i suoi orientamenti, i segreti personali. Ed è naturalmente in grado di ricattare ogni politico-maggiordomo occidentale, esposto al tempismo di qualche scandalo che lo potrebbe colpire e affondare se dovesse ribellarsi ai padroni dei segreti.Enrica Perucchietti ricompone un vasto mosaico di “false flag” che nell’insieme disegnano un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio di massa indiscriminato oltre ad aver reintrodotto gli arresti extralegali assieme alla tortura. In questo quadro emerge chiaramente che il terrorismo sintetico è un’interminabile catena di azioni in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’intelligence, che li manipola per i propri fini. Quel che nel senso comune si chiama terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei media mainstream, i quali sono adibiti a organizzare a comando gli isterismi collettivi e a rinfrescare la paura, ricordando certe vittime innocenti e dimenticandone altre.Nel saggio si sottolinea ad esempio come ci sia una notevole compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, compresa l’Isis/Daesh. Enrica Perucchietti pone la domanda che nella maggior parte dei nostri media è tabù: «Spuntando dal nulla nel giro di pochi mesi, l’Isis si è assicurata un gran numero di risorse, armi, attrezzature multimediali high-tech e specialisti in propaganda. Da dove provengono i soldi e le tecniche di guerriglia?». L’Isis, cioè lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Siria), è uno stato-non-stato che nel costituire per definizione un’entità terrorista si prende il “diritto” di non attenersi ad alcuna legalità, come se fossero i corsari dei giorni nostri. Nell’epoca dei paradossi, gli Usa – con buone ragioni – definiscono l’Isis e altre organizzazioni della galassia jihadista come “organizzazioni terroriste”; ma quando sentiamo vecchi astri della politica imperiale statunitense come Zbigniew Brzezinski e John McCain definire i jihadisti come «i nostri asset», sembra quasi che definirli terroristi implichi proprio il diritto-dovere di essere terroristi. Catalogarli così somiglia quasi a una “lettera di corsa” da parte della superpotenza nordamericana, simile a quelle autorizzazioni con cui le potenze di un tempo abilitavano i corsari ad attaccare e razziare navi di altre potenze.Mentre i soldati “normali” sarebbero in una certa misura esposti al dovere di rispettare le Convenzioni di Ginevra e altri elementi del diritto internazionale, i terroristi/corsari, viceversa, costituiscono una legione che infrange questi limiti nascondendo la catena delle responsabilità. Quelli dell’Isis condividono valori oscurantisti e l’uso delle decapitazioni con la dinastia saudita che li appoggia e foraggia. Ma siccome l’Arabia Saudita è «un’Isis che ce l’ha fatta», come dice il “New York Times”: il ruolo della canaglia rimane comodamente attaccato solo alla manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo, senza estendersi ai mandanti occulti. Ma poi è arrivato l’intervento in Siria dell’aeronautica russa. Gli aerei di Mosca hanno distrutto quasi tutte le migliaia di autobotti con cui il petrolio razziato dai nuovi corsari veniva smerciato in un paese Nato, la Turchia, proprio con il consenso di Ankara (altro grande sponsor dell’Isis). La mossa strategica di Mosca ha perciò aperto una nuova fase che spinge molti paesi a porsi un semplice problema: che rapporto devo avere adesso con la Russia di Vladimir Putin, ora che i miei alibi sono stati bruciati? Non è un caso che dopo l’intervento russo gli attentati jihadisti, con tutto il loro tipico fumo di false flag, si stiano intensificando drammaticamente, aumentando la pressione e il ricatto sui sistemi politici di mezzo mondo e mostrandosi come una presenza ormai permanente della scacchiera internazionale. Una scacchiera che possono demolire.Sarebbe il momento giusto per fare chiarezza, ma le istituzioni si chiudono a riccio, come nel caso dell’inchiesta sulla strage di Charlie Hebdo: mentre emergevano particolari inquietanti su quell’attentato e i suoi torbidi contorni, il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha deciso che l’inchiesta doveva essere subito insabbiata. Perché? “Segreto militare”. Il che implica – come il lettore vedrà poi in dettaglio in questo saggio – che l’evento terroristico, ancora una volta, andava oltre l’attentato “islamico”, perché erano coinvolti organi di Stato che agivano da complici, se non da pianificatori dell’atto, corresponsabili quindi di un delitto che sacrificava propri cittadini. Le nuove norme eccezionali approvate in Francia si presentano come l’annuncio di una tendenza generale, e già ci sono le avvisaglie del fatto che queste norme saranno usate per restringere le libertà e i diritti, ad esempio di lavoratori o cittadini che manifestino per rivendicare migliori condizioni di vita.Gran parte degli intellettuali – freschi reduci di un’indigestione retorica di “Je suis Charlie” – non leva una sola voce contro le restrizioni della libertà, nemmeno quando toccano in modo massiccio un paese Nato come la Turchia, che ha praticamente schiacciato un’intera generazione di giornalisti che osavano indagare sulle complicità del governo con il terrorismo. Per colmo, accusandoli di terrorismo. Occorre un risveglio intellettuale e morale che accompagni un rinnovamento politico, occorre spostare il pendolo del potere dalle istituzioni modellate dall’«eccezione» e dalla paura verso le istituzioni ispirate alla sovranità popolare e alla corretta informazione. Smascherare il sistema fondato sulle false flag non è una condizione sufficiente per questo risveglio (che ha bisogno anche di coraggio e partecipazione di massa). Ma rivelare ai molti cittadini obnubilati dalla bolla mediatica dominante la verità sugli inganni che hanno subito è una condizione necessaria per difendere e ampliare le proprie libertà. Questo è un buon punto di partenza.(Pino Cabras, prefazione al libro “False flag. Sotto falsa bandiera”, di Enrica Perucchietti, pubblicata sul blog di Cabras. Il libro: Enrica Perucchietti, “False flag. Sotto falsa bandiera”, Arianna Editrice, 256 pagine, euro 12,50).Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.
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Crollo dei bond, la Soluzione Finale di Schäuble per piegarci
Un piano tedesco per riformare l’Eurozona con un meccanismo automatico di ristrutturazione dei debiti sovrani. Obiettivo, impedire qualsiasi forma di condivisione dei rischi tra i paesi dell’Eurozona, confinando i costi dell’instabilità finanziaria e fiscale il più possibile all’interno dei paesi più deboli. Autore del piano, il “venerabile” Wolfgang Schaeuble, super-massone e cervello del governo Merkel. Berlino «sembra aver perso fiducia verso qualsiasi forma di governance centralizzata», scrive Carlo Bastasin sul “Sole 24 Ore”, e ora penserebbe solo a tutelare i tedeschi. Il piano è descritto in una lettera inviata a fine novembre dal ministro delle finanze al capo della Commissione Finanza e Bilancio del Parlamento tedesco. La lettera, non pubblicata, prescrive un meccanismo automatico di ristrutturazione del debito pubblico per qualsiasi paese europeo che richieda assistenza finanziaria. Una volta chiesto “l’aiuto” del Mes, o Esm, «i tempi di scadenza dei titoli pubblici saranno automaticamente prolungati, riducendo il valore di mercato di questi titoli e provocando gravi perdite a chi li detiene».Il meccanismo, continua Bastasin nell’articolo, ripreso dal blog “Vox Populi”, trasformerebbe i titoli pubblici dell’Eurozona in asset finanziari rischiosi. «E questo è anche l’obiettivo di un’altra proposta del governo tedesco, che mira a eliminare l’eccezione normativa che permette alle banche di detenerli senza dover possedere riserve di capitale per coprire le eventuali perdite». Rendere più “rischiosi” i titoli sovrani incoraggerebbe banche e famiglie a evitare di sottoscriverli alla leggera. I governi avrebbero meno incentivi ad accumulare debito, e le banche eviterebbero a loro volta di investire in titoli pubblici. Dov’è il trucco? «Stabilire un meccanismo automatico per sanzionare le situazioni economiche problematiche che si vorrebbero evitare può, nei fatti, renderle ancora più probabili», spiega Bastasin. I titoli pubblici – abolita la moneta sovrana – tengono in piedi gli Stati dell’Eurozona. «Pertanto, una volta che i titoli sovrani nei paesi dell’Eurozona sono diventati più rischiosi, l’intero sistema finanziario potrebbe diventare più fragile, e questo potrebbe influenzare negativamente la crescita e la stabilità finanziaria».Da ultimo, anziché imporre una sana disciplina ad alcuni paesi membri, il nuovo regime «potrebbe ampliare i differenziali di rendimento dei titoli di Stato e rendere impossibile la convergenza dei debiti, aumentando la probabilità di rottura dell’Eurozona». Il piano di Berlino, continua Bastasin, va in parallelo all’idea che il contenimento della crisi sia solo una questione che riguarda i paesi più colpiti. Si basa inoltre sull’assunzione che qualsiasi forma di condivisione del rischio fornisca ai governi gli incentivi sbagliati, producendo “moral hazard”. In realtà, «come la crisi ha dimostrato», la vulnerabilità finanziaria può essere «il risultato di problemi comuni», per cui «sanzionare i singoli paesi può generare un’instabilità che potrebbe degenerare in una nuova crisi».Il documento del governo tedesco dimostra una sfiducia fondamentale verso gli atteggiamenti fiscali degli altri governi. L’applicazione ripetuta delle “clausole di flessibilità” per sottrarre alcune spese con finalità specifiche dal conteggio del deficit sta facendo storcere il naso a Berlino. Secondo Bastasin, il governo tedesco «guarda con disprezzo la Commissione Europea, considerandola troppo esposta ai ricatti dei governi nazionali, con particolare preoccupazione per l’ascesa dei movimenti populisti e anti-europei». L’applicazione asimmetrica delle regole, le decisioni fuori luogo e al momento sbagliato, nonché «la tendenza ad applicare la “legge del creditore” anziché gli interessi comuni, nonché certe propensioni ideologiche», avrebbero fatto venir meno la fiducia verso le decisioni comuni. «I governi nazionali, ciascuno a suo modo, stanno passando da una timida propensione a condividere il rischio a una decisa volontà di decentralizzare qualsiasi rischio, come unica ed esclusiva modalità di gestione dell’unione monetaria».Nel considerare la minaccia di una ristrutturazione del debito come politica efficace per imporre la disciplina, continua l’analista, Berlino chiede che i titoli di debito pubblico perdano la loro condizione di asset considerati privi di rischio. Quest’ultima “eccezione normativa” faceva in modo che le banche accumulassero titoli di debito sovrano nel loro bilancio senza la necessità di incrementare il proprio capitale. Nel documento inviato al Bundestag, il ministro delle finanze propone che l’Eurozona anticipi la regolamentazione internazionale nel riconoscere la specifica rischiosità dei titoli di debito sovrano. In pratica, lo Stato sarebbe definitivamente privato di sovranità e costretto a comportarsi come un’azienda, con i conti in attivo o almeno in pareggio, come vuole il dogma neoliberista che negli ultimi 40 anni ha lavorato incessantemente per demolire la finanza pubblica, lasciando i governi alla mercé dei “mercati”, senza più un soldo da impegnare in investimenti per famiglie, aziende e lavoro, sotto forma di spesa pubblica (deficit positivo, fondamentale per sostenere l’economia reale).«Una volta che sia stato stabilito che i titoli pubblici sono a rischio come tutti gli altri», conclude Bastasin, «le banche saranno incoraggiate a ridurre l’ammontare di titoli di Stato che detengono, rompendo il circolo vizioso che ha caratterizzato la crisi, col finanziamento del debito pubblico che minacciava la stabilità bancaria e viceversa». Secondo il documento di Berlino, i paesi dell’Eurozona dovrebbero anche ridurre in modo permanente i loro livelli di debito pubblico sul Pil. «Per poterlo fare, Berlino vuole impedire che ciascun paese invochi clausole di flessibilità. In particolare, la richiesta italiana di flessibilità ha ottenuto un certo cedimento da parte della Commissione Europea durante i negoziati. La Francia non si pone nemmeno il problema di ottenere l’autorizzazione per le sue generose politiche fiscali. Nelle trattative coi primi ministri dell’Eurozona, il presidente della Commissione Europea Juncker è stato costretto a scegliere tra autorizzare i governi in carica ad ampliare i loro deficit per ogni sorta di ragioni oppure fomentare i movimenti populisti anti-europei che vogliono mandare all’aria l’intera unione monetaria».Questa specifica “debolezza” nel coordinamento delle politiche fiscali a livello centralizzato «ha convinto le autorità tedesche a chiedere la decentralizzazione dei rischi e un controllo depoliticizzato». Il ruolo di sorveglianza della Commissione, dice il documento sottoscritto da Schaeuble, «non deve limitarsi a degli obiettivi politici». Per rendere il giudizio di Bruxelles “indipendente dalle convenienze politiche”, Berlino mira a separare la funzione di supervisione svolta dalla Commissione dal suo ruolo nell’orientare le scelte politiche. In alternativa, il controllo delle politiche fiscali potrebbe essere consegnato a una nuova istituzione tecnica e indipendente. «Se questi meccanismi dovessero ancora fallire nel tenere a freno il debito pubblico, allora la minaccia di un semplice meccanismo automatico di ristrutturazione del debito farà il trucco: i mercati diventeranno subito estremamente sensibili alla mancanza di disciplina fiscale, e puniranno ciò che i politici perdonano». E avremo dunque ancora più rigore e ancora più austerity: più tasse, meno lavoro (ma i conti in ordine, come vuole il “venerabile” Schaeuble).Un piano tedesco per riformare l’Eurozona con un meccanismo automatico di ristrutturazione dei debiti sovrani. Obiettivo, impedire qualsiasi forma di condivisione dei rischi tra i paesi dell’Eurozona, confinando i costi dell’instabilità finanziaria e fiscale il più possibile all’interno dei paesi più deboli. Autore del piano, il “venerabile” Wolfgang Schäuble, super-massone e cervello del governo Merkel. Berlino «sembra aver perso fiducia verso qualsiasi forma di governance centralizzata», scrive Carlo Bastasin sul “Sole 24 Ore”, e ora penserebbe solo a tutelare i tedeschi. Il piano è descritto in una lettera inviata a fine novembre dal ministro delle finanze al capo della Commissione Finanza e Bilancio del Parlamento tedesco. La lettera, non pubblicata, prescrive un meccanismo automatico di ristrutturazione del debito pubblico per qualsiasi paese europeo che richieda assistenza finanziaria. Una volta chiesto “l’aiuto” del Mes, o Esm, «i tempi di scadenza dei titoli pubblici saranno automaticamente prolungati, riducendo il valore di mercato di questi titoli e provocando gravi perdite a chi li detiene».
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Gallino: con l’euro ci stanno facendo tornare al medioevo
«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».È possibile che il capitalismo attuale sia in una stagnazione senza fine, dichiara Gallino a Giacomo Russo Spena in un’intervista pubblicata da “Micromega”. Difficile che il sistema riprenda una marcia espansiva come se nulla fosse successo in questi anni: «Con la finanziarizzazione dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la distruzione del nostro sistema ecologico». Ovvero: «Per ottemperare alla crisi, il capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento. Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il surriscaldamento del pianeta». I progressi intrapresi con il Protocollo di Kyoto? «I paesi sono lontani dal mantenere gli obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti: l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni».Gallino narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a questo punto? «Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super-ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato totalmente in crisi». In gioco, aggiunge il sociologo, non c’è soltanto la demolizione del welfare, ma «la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante, soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l’ordoliberalismo», regolato da una ferra disciplina sociale a vantaggio dei più ricchi.A proposito delle ricette economiche adottate per affrontare la crisi, nel libro scrive che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità. «I governi dei paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno utilizzato modelli vecchi e superati». Un esempio italiano? «Nella nuova riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni ’90». Un’altra follia, continua Gallino, è l’aver avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile. «In questa lunga discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi».Con il terremoto finanziario ha “perso” l’idea di uguaglianza. Un dato su tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà in Europa. Sempre il 28, scrive Russo Speana, è la crescita del fatturato delle aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non per tutti? «Nei maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato che l’enorme diseguaglianza non è la causa ma l’effetto delle politiche di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi». Vie d’uscita? Una sola, ovvero «il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico».Nulla che sia all’orizzonte, però. Anche se, recentemente, si stanno sviluppando «esempi di resistenza» e “pensatoi” di studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità. Ma, appunto, «siamo lontani da un effettivo cambiamento dello status quo». In realtà, servirebbe «un segnale di rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni, hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione: l’intero sistema doveva essere ristrutturato come un’impresa che crea e accumula “capitale umano”». La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia? «Sicuramente, basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell’euro».La moneta unica, aggiunge lo studioso, «si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente contribuito a ridurre gli scarti tra un’economia e l’altra in termini di ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale». Gallino si dichiara apertamente no-euro: «Decisamente sì, lo sono da anni». E spiega: «Ci vuole un intervento radicale», anche se sa benissimo che l’uscita dalla moneta unica è «complessa e difficile», quindi «va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles». Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea? Questo no: «Uscire dall’Europa sarebbe, per l’Italia, un disastro economico per via dei cambi che si scatenerebbero contro di noi». Gallino è «favorevole ad una graduale uscita dall’euro, rimanendo però nell’Unione Europea». Sottolienea come sia «tecnicamente possibile», e si impegna a dimostrarlo in un “paper” che presenterà a breve.Russo Spena si domanda se «una sinistra degna di questo nome» non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale. Già, ma quale sinistra? «Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?». Anche in Italia «ci sono dei segmenti», però «sono ininfluenti, soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste», chiarisce Gallino. E Syriza, Podemos, il Sinn Fein e le altre forze della sinistra europea? Nient’altro che «segnali di incoraggiamento», verso i quali Gallino resta cauto: «Bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche d’austerity. Tifo per loro senza illusioni». Poco allegro, dunque, l’orizzonte per i giovani. «Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità». Un messaggio ai ragazzi? «Se volete avere qualche speranza… studiate, studiate, studiate».«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».
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Il web abbatterà il capitalismo: è la fiaba di Paul Mason
«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».Ciascun componente di questo metaforico proletariato digitale «è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo in competizione con gli altri», scrive Demichelis su “Micromega”. «Difficile immaginare la realizzazione di un postcapitalismo se ormai l’essenza della stessa società è il capitalismo più la tecnica». Quale alternativa, dunque, «se ogni giorno il sistema ci educa ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in versione non 2.0 ma 0.0)»? Eppure oggi circola questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel “Postcapitalismo” che sta occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti – della vecchia favola del postcapitalismo che verrà. Mason propone «un mondo senza mercato, i banchieri centrali eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di macchine, beni e servizi a costi marginali nulli». Si torna al tempo in cui il web, agli inizi, «già dimostrava la sua sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di massa», una macchina «capace di generare uno sconfinato e inarrestabile storytelling» in grado di «abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni anticonformismo tecnologico».Leggere Mason, continua Demichelis, fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Jeremy Rifkin, alla wikinomics di Don Tapscott e Anthony Williams (2007), al punkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’Internet delle cose, all’ascesa del “commons collaborativo” e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Toni Negri e Michael Hardt del Comune (2010), «per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste».La loro soluzione per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia, quindi condivisione e libera circolazione delle idee – è in contraddizione con la natura stessa della tecnologia, «ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola)», visto che proprio la tecnologia permette al capitalismo «di sopravvivere alle sue contraddizioni», mentre il capitalismo non è che «la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono». Paradossale, aggiunge Demichelis, è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (“totalitaria” la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescersi, possa giocare contro se stessa liberandosi dal capitalismo che la sostiene. «Curioso: le ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi tecno-fideismi e tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto alle nuove tecnologie». Come le nuove tecnologie di vent’anni fa «ci affascinano e ci promettono molto, e continuamente cediamo alla loro richiesta di fede». Illusioni: «Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro, meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di recitare nuovamente il loro Credo».Giornalista economico di simpatie laburiste, in questo “Postcapitalism” (che uscirà in Italia nei prossimi mesi), Mason scrive che il capitalismo finanziario di questi ultimi anni – erede di quello industriale e mercantile – avrebbe i giorni contati: la rivoluzione informatica determinerebbe una modifica sostanziale dei modi di produzione e di consumo, mettendo in discussione il sistema basato sulla legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e inaugurando una nuova economia basata su tempo libero, attività in rete e gratuità. «La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita», scrive Mason. «Quello che resta della vecchia sinistra – e di tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire». Il capitalismo «non sarà abolito con una marcia a tappe forzate», bensì «grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».Questo processo sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti: nuove tecnologie, informazione dal basso, produzione condivisa. Le nuove tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario». Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza retribuzione. Inoltre, annota Demichelis, «cancellando la distinzione tra vita e lavoro», le nuove tecnologie hanno prodotto «una società a mobilitazione tecno-economica totale e permanente». E l’informazione? «Sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma questo non può durare, perché contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità di usare le idee liberamente».Assolutamente falso, protesta Demichelis: «Il mercato sa benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti), grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete», e quindi «usa proprio le nuove tecnologie per farlo». Altrettanto sbagliato è «credere che l’informazione e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione, non della conoscenza)». Di fatto, «la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data) di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più, e perché è nella natura di un capitalismo non controllato». Quanto alla «crescita spontanea della produzione condivisa», con «beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale», Demichelis ribatte: «Anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni relazione umana (il neoliberismo vive in ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato – a meno di considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro, il dover essere imprenditori di se stessi».«Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato – aggiunge Mason – interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi». Favole, replica Demichelis: in verità, da anni, le migliori reatà restano ai margini, senza riuscire a scalfire la potenza di fuoco del tecno-capitalismo. E intanto «i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque sotto forma di impresa e agisce secondo il mercato, socializzandolo». Secondo Mason, «Marx immaginava qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi, e aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo». Ma in realtà “l’intelletto generale” di Marx «non è qualcosa di simile all’economia dell’informazione», e soprattutto «non farà saltare in aria il capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato dal lavoratore stesso», sia esso «uberizzato o lavoratore della conoscenza e dell’informazione».Ci vuole ben altro, per uscire dal tecno-capitalismo: per Demichelis, «occorre una destrutturazione di tutti i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini (mercato e tecnica)», nonché «una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e mercato) e di alienazione», e poi «un anticonformismo digitale, una laicizzazione della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo, una separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine, posto che la loro logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro». Soprattutto, conclude l’analista di “Micromega”, è indispensabile «una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) e società (che deve tornare ad essere il fine)». Viceversa, contrariamente al Mason-pensiero, non esiste uscita di sicurezza dal tecno-capitalismo globalizzato che sta destabilizzando il mondo e minando la società occidentale.«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».
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Yogananda: la conquista della felicità è nelle nostre mani
La mente è come un miracoloso elastico che si può tendere all’infinito senza che si strappi. Vivete soltanto nel presente, non nel futuro. Fate del vostro meglio oggi; non aspettate il domani. Cercare felicità all’esterno di noi stessi è come cercare di prendere al laccio una nuvola. La felicità non una cosa della mente. Dev’essere vissuta. La libertà dell’uomo è definitiva ed immediata, se così egli vuole; essa non dipende da vittorie esterne, ma interne. Spesso noi continuiamo a soffrire senza fare uno sforzo per cambiare; ecco perché non troviamo pace durevole e appagamento. Se noi perseverassimo, saremmo certamente capaci di superare tutte le difficoltà. Dobbiamo fare lo sforzo, perché possiamo passare dalla miseria alla felicità, dallo sconforto al coraggio. Il regno della mia mente è infangato dall’ignoranza. Con le piogge incessanti della scrupolosa autodisciplina, possa io rimuovere dalle città della mia negligenza spirituale gli annosi detriti dell’illusione.I vostri due occhi fisici vi inducono erroneamente a pensare che questo mondo di dualità sia reale. Aprite il vostro occhio spirituale e vedete la vostra forma invisibile. Se, nel silenzio interiore, il vostro occhio spirituale è aperto, l’invisibile diviene visibile. La mente è l’artefice di tutte le cose. Voi dovete indurla a creare soltanto il bene. Se, con tutta la forza della volontà dinamica, vi concentrerete su un determinato pensiero, alla fine lo vedrete prendere una tangibile forma esteriore. Quando riuscirete a servirvi della volontà esclusivamente per scopi costruttivi diverrete padroni del vostro destino. Il sucesso e l’insucesso sono la diretta conseguenza del vostro abituale modo di pensare. Quale di questi pensieri predomina in voi: il successo o l’insuccesso? Se il vostro consueto atteggiamento mentale è negativo, uno sporadico pensiero positivo non sarà sufficiente ad attirare il successo. Se invece è costruttivo, raggiungerete la meta, anche se vi sembra di essere avvolti dalle tenebre.La volontà dell’uomo è il grande generatore di energia. Con la volontà e il giusto atteggiamento è possibile attingere rapidamente all’infinita riserva della forza interiore. Una persona che compie malvolentieri i propri doveri quotidiani soffrirà di una mancanza di energia. Un uomo che invece lavora sodo ma con buona volontà, è sostenuto fisicamente e moralmente dalla corrente cosmica. Se vuoi essere triste nessuno al mondo può renderti felice. Ma se decidi di essere felice nessuno e niente può toglierti la felicità! L’anima non può essere rinchiusa entro confini creati dall’uomo, la sua nazionalità è lo spirito; il suo paese l’Onnipresenza. Ci sono persone che ti trasmettono la sensazione immediata di conoscerle da sempre. Sono i tuoi amici dalle incarnazioni precedenti. Rafforza l’amicizia che esiste tra voi. Gli amici sono la tua collezione di gioielli splendenti dell’anima… In queste scintillanti galassie dell’anima contemplerai l’unico Grande Amico… è Dio che viene a trovarti, travestito da amico nobile e sincero, per servirti, ispirarti, guidarti.Abbatti i muri dell’egoismo. Rendi il tuo amore così vasto e profondo da contenere tutti gli esseri viventi. Ogni forte risoluzione che prendete con grande decisione può diventare subito un’abitudine. Perchè non dovreste essere capaci di fare ciò che desiderate fare, guidai dalla ragione? Dovete tentare. Via tutti i vostri difetti! Rivedete le vostre azioni dell’anno passato. Vedete quali abitudini inopportune potete aver messo in atto: forse litigate con la gente, o mangiate troppo o siete gelosi. Prendete la decisione oggi e sappiate che non farete quelle cose mai più. I romani usavano legare i prigionieri ai loro carri e trascinarli sul terreno: un’usanza terribile. Eppure essa racchiude una lezione per noi, perchè noi permettiamo alle nostre abitudini di trattarci allo stesso modo. Dovremmo fare delle nostre abitudini le nostre prigioniere, piuttosto che le nostre carceriere; dovremmo attaccarle al carro della nostra volontà e trascinarle, invece di essere trascinate. Essere in grado di fare qualunque cosa che sappiamo di dover fare e non solo ciò che vorremmo fare per capriccio, significa essere liberi. Rimani calmo, sereno, sempre padrone di te. Allora scoprirai quanto è facile andare d’accordo. La tua religione non e’ il vestito che indossi esteriormente, ma l’abito di luce che tessi intorno al tuo cuore.(“Le più belle frasi di Paramahansa Yogananda”, dal blog “Il Giardino degli Illuminati”. Nato in India nel 1893 e spentosi a Los Angeles nel 1952, Yogananda è stato un filosofo e mistico indiano, autore di besteller come “Autobiografia di uno Yogi”. In India entrò in stretto contatto col Mahatma Gandhi e con lui condivise gli ideali della resistenza passiva e della nonviolenza. Era maestro nella tecnica del Kriya Yoga, particolare tecnica meditativa per l’evoluzione personale. Considerato un “grande iniziato”, sarebbe appartenuto alla fratellanza dei Rosacroce, il cui ultimo gran maestro fu il pittore Salvador Dalì).La mente è come un miracoloso elastico che si può tendere all’infinito senza che si strappi. Vivete soltanto nel presente, non nel futuro. Fate del vostro meglio oggi; non aspettate il domani. Cercare felicità all’esterno di noi stessi è come cercare di prendere al laccio una nuvola. La felicità non una cosa della mente. Dev’essere vissuta. La libertà dell’uomo è definitiva ed immediata, se così egli vuole; essa non dipende da vittorie esterne, ma interne. Spesso noi continuiamo a soffrire senza fare uno sforzo per cambiare; ecco perché non troviamo pace durevole e appagamento. Se noi perseverassimo, saremmo certamente capaci di superare tutte le difficoltà. Dobbiamo fare lo sforzo, perché possiamo passare dalla miseria alla felicità, dallo sconforto al coraggio. Il regno della mia mente è infangato dall’ignoranza. Con le piogge incessanti della scrupolosa autodisciplina, possa io rimuovere dalle città della mia negligenza spirituale gli annosi detriti dell’illusione.
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Il laburista Corbyn: diamo soldi alla gente, non alle banche
Se non diamo soldi direttamente alla gente, non usciremo dalla crisi: per questo lo Stato deve tornare “padrone” della sua moneta. Jeremy Corbyn, attualmente in testa nei sondaggi per la leadership del partito laburista britannico, vuole «un Quantitave Easing per le persone, anziché per le banche», ovvero: un nuovo mandato alla Banca d’Inghilterra, per «migliorare la nostra economia investendo massicciamente in nuove abitazioni, nell’energia, nei trasporti e nei progetti digitali». Si tratterebbe di un processo, spiega il suo consigliere economico Richard Murphy, tramite il quale «viene riacquistato il debito che era stato deliberatamente creato da una banca d’investimenti “verde”, o da un ente locale, o da un’azienda sanitaria o da altre agenzie, con lo scopo specifico di finanziare nuovi investimenti nell’economia – visto che i grandi mercati commerciali e finanziari non sono in grado di effettuarli nella quantità necessaria». Secondo il “Telegraph”, una vittoria di Corbyn alle prossime elezioni «metterebbe la Gran Bretagna in rotta di collisione con Bruxelles».Tra gli scettici si schiera l’economista Tony Yates, già in forza alla Bank of England, secondo cui «questa strada conduce alla rovina della politica monetaria: è esattamente quello che ha fatto lo Zimbabwe, che ha smesso di pagare i suoi debiti stampando nuova moneta». Anche il governatore della banca centrale inglese, Mark Carney, ha paura di Corbyn: dice che la sua proposta, se attuata, «porterebbe alla rimozione di qualsiasi disciplina in materia di politica fiscale». In altre parole, l’establihsment finanziario teme che il leader laburista minacci seriamente il monopolio della finanza privata, con una svolta radicalmente sovranista e popolare a beneficio della finanza pubblica. Una prospettiva, scrive Ellen Brown in un post su “Counterpunch” ripreso da “Come Don Chisciotte”, che allarma da sempre l’élite bancaria di Wall Street e della City, pronta ad agitare puntualmente lo spauracchio dell’iper-inflazione ogni volta che una banca centrale – dalla Fed alla Bce – annuncia un forte sconto sul costo del denaro. Guerre valutarie, svalutazioni competitive ai danni degli Stati vicini e inflazione galoppante? I Qe sono in corso fin dalla fine degli anni ‘90, eppure «questa presunta iperinflazione non si è mai verificata».La Federal Reserve ha appena smesso di stampare nuova moneta per comprare titoli di Stato, la Banca del Giappone ha stampato soldi per anni «per cercare di risollevare la sua economia da decenni di perma-recessione» e la Bce ha tagliato il suo “tasso di deposito” a meno dello 0,2% per cercare di forzare i risparmiatori ad investire. Questo però «significa che i risparmiatori devono pagare le banche perché queste pensino ai loro soldi». La Cina, continua Ellen Brown, ha iniettato 310 miliardi di dollari per puntellare un mercato azionario che ha ceduto quasi il 43% rispetto al suo picco. Ha spinto in basso lo yuan cinese e ha speso altri 200 miliardi di dollari per impedire ulteriori cadute, allentando anche le regole per il credito bancario. Tuttavia, non c’è alcun segno della minacciata iperinflazione: «Il taglio dei tassi e la stampa di denaro hanno reso attraente l’acquisto di azioni, immobili e obbligazioni che producono un reddito regolare superiore ai tassi d’interesse, che sono prossimi allo zero». Eppure, l’economia reale non si riprende. Perché?«Secondo la teoria economica convenzionale, conseguentemente all’aumento della massa monetaria, una maggior quantità di denaro dovrebbe essere a caccia di un minor numero di beni, il che farebbe salire i prezzi. Perché allora non è successo, nonostante vari Qe di dimensioni mondiali?». La teoria monetarista convenzionale era unanimemente accettata fino all’arrivo della Grande Depressione, quando John Maynard Keynes e altri economisti notarono che i massicci fallimenti bancari avevano portato ad una sostanziale riduzione dell’offerta di moneta. Contraddicendo la teoria classica, la carenza di denaro stava incidendo sempre di più sui prezzi. Questo fatto, ricorda Ellen Brown, sembrava fosse direttamente collegato con la massiccia ondata di disoccupazione e con il fatto che le risorse restavano inutilizzate. «I prodotti marcivano a terra, mentre la gente moriva di fame, perché non c’erano i soldi per pagare i lavoratori che li avrebbero dovuto raccogliere, o per i consumatori che li avrebbero potuto acquistare».La teoria convenzionale ha poi ceduto il passo alla teoria keynesiana, che – ricorda Asad Zaman sul “New York Times” – si basa su un’idea molto semplice, ovvero che la conduzione delle attività ordinarie di un’economia richiede una certa quantità di denaro: «Se la quantità di denaro è inferiore a quella necessaria, allora le imprese non possono funzionare – non possono fare acquisti [prodotti da rivendere, materie prime da lavorare etc.], pagare i lavoratori o affittare i negozi. E’ stata questa la causa fondamentale della Grande Depressione». La soluzione era piuttosto semplice: aumentare l’offerta di moneta. «Keynes suggerì che avremmo potuto stampare denaro e seppellirlo nelle miniere di carbone perché i lavoratori disoccupati potessero essere occupati a scavare». Se il denaro fosse stato disponibile in quantità sufficiente, le imprese avrebbero ripreso a vivere e gli operai disoccupati avrebbero trovato un lavoro.C’è un consenso quasi universale, ormai, su questa idea. Persino il neoliberista Milton Friedman, leader dei “Chicago Boys” e avversario delle idee keynesiane, ha ammesso che la riduzione dell’offerta di moneta è stata la causa della Grande Depressione. «Invece di seppellire i soldi nelle miniere, suggerì che il denaro avrebbe dovuto essere lanciato dagli elicotteri, per risolvere il problema della disoccupazione». E questo, sottolinea Ellen Brown, è esattamente il punto in cui siamo ora: «Nonostante i ripetuti cicli di Qe, c’è ancora troppo poco denaro a caccia di troppi beni». Infatti, «i ricchi diventano sempre più ricchi, conseguentemente ai salvataggi bancari e ai tassi d’interesse molto bassi, ma non ci sono soldi nell’economia reale, che resta priva dei fondi necessari per creare la domanda, che a sua volta creerebbe posti di lavoro». Per essere efficace, aggiunge la Brown, il denaro “lanciato dall’elicottero” dovrebbe cadere direttamente nel portafoglio dei consumatori: «Iniettare un certa quantità di denaro nell’economia reale è fondamentale per poterla mettere di nuovo in movimento».Secondo la teoria del credito sociale, persino la creazione di nuovi posti di lavoro non risolve del tutto il problema del troppo poco denaro nelle tasche dei lavoratori, perché possano essere svuotati gli scaffali dei supermercati. I venditori fissano i prezzi per coprire i loro costi, molto più alti del semplice salario dei lavoratori. Il primo, per importanza, fra i costi non salariali, è l’interesse sul denaro preso in prestito per poter pagare la manodopera e i materiali, prima ancora che ci sia un prodotto da vendere. La stragrande maggioranza della massa monetaria entra in circolazione sotto forma di prestiti bancari, come ha recentemente riconosciuto la stessa Banca d’Inghilterra. Le banche creano il capitale, ma non l’interesse necessario per rimborsare i prestiti che hanno concesso, lasciando un “eccesso di debito” che richiede a sua volta la creazione di sempre più debito, nel tentativo di colmare il divario. L’unico antidoto si chiama: sovranità monetaria per l’interesse pubblico, cioè «emissione di “soldi senza debiti”, ovvero di “soldi senza interessi”, da far scendere direttamente nel portafoglio dei consumatori». In altre parole, «un dividendo nazionale, pagato direttamente dal Tesoro».Come Keynes insegna, l’inflazione dei prezzi si verifica solo quando l’economia raggiunge la sua piena capacità produttiva; prima di allora, l’aumento della domanda richiede un aumento dell’offerta: se un numero maggiore di lavoratori viene assunto per produrre quantità maggiori di beni e servizi, allora la domanda e l’offerta si alzeranno insieme. «Nei mercati globali di oggi, le pressioni inflazionistiche hanno uno sbocco nella capacità produttiva in eccesso della Cina e nel maggior uso di robot, computer e macchine», scrive la Brown. «Le economie globali hanno decisamente molta strada da fare prima di raggiungere la piena capacità produttiva». Secondo Paolo Barnard, autore dell’esplosivo saggio “Il più grande crimine”, che denuncia il “golpe” europeo della privatizzazione della moneta con l’introduzione dell’euro, la disoccupazione di massa è esattamente l’obiettivo numero uno dell’élite finanziaria, mentre il recupero della sovranità monetaria permetterebbe di raggiungere il risultato storico della piena occupazione, quella che il “vero potere” teme più di ogni altra cosa, perché riuscirebbe a riscattare milioni di persone dalla condizione di precarietà e bisogno.Secondo Peter Spence, del “Telegraph”, l’ostacolo più impegnativo per la rivoluzionaria proposta di Corbyn è l’Unione Europea. In particolare, l’articolo 123 del “mostruoso” Trattato di Lisbona (quello che lo stesso Giuliano Amato ha definito “scritto in modo tale da essere deliberatamente incomprensibile”), vieta alle banche centrali di stampare moneta per finanziare la spesa pubblica, confermando la tesi di Barnard: Ue ed Eurozona rappresentano un sofisticato sistema tecnocratico di sottomissione, creato dall’élite finanziaria per confiscare democrazia partendo dalla demolizione dello Stato come soggetto garante del benessere dei cittadini, grazie ai micidiali tagli imposti al welfare e alla demonizzazione del debito pubblico, che da strumento fisiologico dell’economia statale (investimenti, a deficit, per creare servizi, infrastrutture e posti di lavoro) si trasforma in “colpa”, declassando lo Stato a soggetto privato, in balia delle banche (in questo caso la Bce).In realtà, di fronte al collasso dell’economia europea provocato proprio dal rigore imposto dall’Eurozona, la stessa Bce alla fine è stata costretta a ricorrere al “quantitative easing”, sia pure solo per gli istituti di credito. Perché allora – chiede Corbyn – non andare oltre, piegando ulteriormente questa norma, in modo che possa avvantaggiare direttamente l’economia reale, le famiglie, le aziende, le infrastrutture nazionali? Nell’Europa devastata dall’austerity, la proposta del leader laburista è il primo segnale di una svolta epocale: la fine del monopolio privato della finanza, imposto come dogma attraverso una “guerra” sanguinosa, durata decenni, di cui il devastante declassamento dell’Italia e l’atroce sacrificio della Grecia non sono che gli ultimi capitoli.Se non diamo soldi direttamente alla gente, non usciremo dalla crisi: per questo lo Stato deve tornare “padrone” della sua moneta. Jeremy Corbyn, nuovo leader del partito laburista britannico, vuole «un Quantitave Easing per le persone, anziché per le banche», ovvero: un nuovo mandato alla Banca d’Inghilterra, per «migliorare la nostra economia investendo massicciamente in nuove abitazioni, nell’energia, nei trasporti e nei progetti digitali». Si tratterebbe di un processo, spiega il suo consigliere economico Richard Murphy, tramite il quale «viene riacquistato il debito che era stato deliberatamente creato da una banca d’investimenti “verde”, o da un ente locale, o da un’azienda sanitaria o da altre agenzie, con lo scopo specifico di finanziare nuovi investimenti nell’economia – visto che i grandi mercati commerciali e finanziari non sono in grado di effettuarli nella quantità necessaria». Secondo il “Telegraph”, una vittoria di Corbyn alle prossime elezioni «metterebbe la Gran Bretagna in rotta di collisione con Bruxelles».
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Giulietto Chiesa: via dall’Unione Europea, è un branco di lupi
Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.In realtà, questa “non è mai stata Europa”, replicano i critici dell’europeismo franco-tedesco. Secondo Paolo Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio che illumina, con anni di anticipo rispetto alla catastrofe odierna, la genesi dell’euro come strumento di dominio dell’élite finanziaria a spese degli Stati e dei popoli) l’Unione Europea non è mai stata altro che questo: pura confisca di democrazia, senza contropartite di alcun genere. Confisca istituzionalizzata mediante organismi non elettivi, espressione diretta del “vero potere” neoliberista nemico del welfare e persino dello Stato di diritto. Un regime ideologico che in Europa si è alimentato anche con teorie risalenti all’800, l’economia neoclassica (pagare i lavoratori il meno possibile) e il tragico mercantilismo tedesco (la vocazione all’export, che comprime i salari e deprime la domanda interna). La fobia teutonica dell’inflazione, di hitleriana memoria, si è saldata con la demonizzazione del debito pubblico, motore naturale dell’economia espansiva (se il debito è denominato in moneta nazionale). E’ semplicemente sconcertante, sostiene il politologo Aldo Giannuli, che la sinistra europea non si sia mai accorta del “mostro” cresciuto a Bruxelles; ovvio, quindi, che oggi non abbia proposte, perché qualsiasi vera alternativa democratica comporterebbe innanzitutto la denuncia dell’Ue e del suo braccio secolare, l’euro, come strumenti di pura dominazione antipopolare.Peggio ancora: proprio la sinistra ufficiale – da Mitterrand in poi – ha conferito il massimo supporto al progetto europeista, ben sapendo che la “disciplina di bilancio” indotta fisiologicamente da una non-moneta come l’euro avrebbe causato tagli devastanti alla spesa sociale e abrogazione di diritti e storiche conquiste. Quello che accade oggi in Grecia, dunque, non è che una logica conseguenza, il modus operandi “naturale” di un impianto oligarchico di potere, che non guarda in faccia a nessuno. Proprio la ferocia dimostrata contro Atene, per giunta “colpevole” di aver osato sfidare il regime di Bruxelles con un referendum, finisce per scuotere anche chi aveva sperato in una residua quota di ragionevolezza, se non altro per evitare di consegnare il continente a una pericolosa deriva incarnata da populismi ultra-nazionalisti, spesso xenofobi e neofascisti. «Sono in molti a dire apertamente che ciò che si è consumato a Bruxelles il 13 luglio 2015 è stato un “colpo di Stato”», scrive Chiesa su “Sputnik News”. Un golpe, «realizzato con strumenti finanziari, con un ricatto dei forti contro i deboli, che implica e si regge su un atto di forza, su un’imposizione illegittima».Per il giornalista, autore del profetico libro-denuncia “La guerra infinita” che illustrò con anni di anticipo il piano egemonico dei neocon statunitensi e le “guerre americane” puntualmente condotte negli ultimi anni, la crisi fra Berlino e Atene «è l’inizio della fine dell’Europa come entità che si proponeva di essere unitaria e si rivela ora un’accozzaglia di egoismi, che non è nemmeno possibile definire “nazionali”, poiché sono stati dettati dalla frenesia del guadagno delle élites bancarie internazionali». Questa è ormai «un’Europa senza solidarietà e divisa, spaccata. Con la Germania (ma che dico?, con una parte della Germania; ma che dico?, con un partito tedesco – la Cdu-Csu – guidato da un ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che combatte contro la premier del suo partito Angela Merkel) che si trascina dietro sei Stati dell’est, tutti antieuropei in sostanza, e che pretende di fare la lezione a tutta la restante Europa, per costringerla ad accettare il modello tedesco». Giulietto Chiesa cita l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: la vera posta in gioco non è Atene ma Parigi, perché il piano degli oligarchi tedeschi consiste nel «mettere il timore di Dio nei francesi, costringendo la Grecia a uscire dall’euro».Dunque, conclude Chiesa, «la Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi». Quella di Bruxelles, allora, è «un’Europa che si comporta come un branco di lupi». Sicché, «questa Europa finisce, insieme alla Grecia indipendente e sovrana». Una constatazione che «dovrebbe aprire una riflessione a tutte le forze europee, democratiche e che vogliono conservare le loro sovranità nazionali, sulla “questione tedesca”». Attenzione: «Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette e repentaglio la pace nel continente. Un’Europa senza Germania è sempre stata impensabile. Ma una Germania che non è in grado di moderare la sua pulsione al dominio diventa il nemico di ogni idea europea comune».Per quanto concerne la Grecia, la soluzione imposta a Tsipras, «mostruosa sotto ogni profilo», non è che «una tappa verso un disastro, non solo economico: è l’esistenza stessa della democrazia che è stata annientata», costringendo i greci ad accettare un piano economico peggiore di quello che, col referendum, avevano rifiutato. «Perfino la proprietà privata, dei singoli e dello Stato, è stata cancellata. Con totale impudenza, quella del vae victis – continua Giulietto Chiesa – la Germania ha preteso il controllo diretto di 50 miliardi di euro di proprietà greche attraverso il Kfw (Kreditanstalt Fur Wiederanfbau, Istituto di Credito per la Ricostruzione), che altro non è che una banca tedesca (80% dello Stato e 20% dei laender) e il cui presidente è Wolfgang Schäuble».Peraltro, proprio la Kfw (la “Cdp” tedesca) è lo strumento col quale la Germania ha regolarmente aggirato le restrizioni sull’euro, acquisendo moneta praticamente a costo zero per finanziare il governo – la Kwf è giudiricamente privata, ma di fatto chi comanda è lo Stato. Nessuno, però, si è mai permesso di far osservare ai tedeschi che stavano barando: hanno imposto il costo dell’euro a tutta l’Eurozona (moneta che ogni paese può ottenere solo con l’emissione di titoli di Stato, attraverso il sistema bancario privato), mentre Berlino, sottobanco, ha trovato il modo di finanziarsi impunemente in modo assai più economico. Inutile, quindi, aspettarsi che simili oligarchi potessero fare la benché minima concessione sulla indispensabile ristrutturazione del debito greco, «che è un debito illegale e estorto con l’inganno e con la complicità dell’Europa e della Germania», ricorda Giulietto Chiesa. «Non c’è più nemmeno l’ombra dell’economia di mercato: questa è rapina e violenza allo stato brado».Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, ha spesso tuonato contro i “maghi” dell’austeriy europea, che impongono solo e sempre ricette disastrose. Sbagliano? No, lo fanno apposta: retrocedere i popoli, ex consumatori ormai inutili, fa parte del piano. Diverranno lavoratori-schiavi, senza più diritti sindacali e con salari da Bangladesh, alla periferia meridionale del Quarto Reich. Giulietto Chiesa cita ancora il greco Varoufakis, che bene esprime il panico di Syriza di fronte all’ipotesi Grexit: l’ex ministro, che oggi accusa Tsipras di non aver osato tener duro di fronte al “waterboarding” cui è stato sottoposto a Bruxelles, sostenendo che si poteva reggere molto meglio il braccio di ferro e spuntare condizioni migliori per restare nell’Eurozona, cita l’Iraq (paese bombardato, invaso, raso al suolo) come esempio per spiegare le enormi difficoltà nel rimettere in piedi una moneta partendo da zero (missione impossibile, in quel caso, senza l’aiuto Usa). In più, lo stesso Varoufakis evita di citare – come invece fa Krugman – il caso eclatante dell’Argentina, la cui prodigiosa rinascita è iniziata proprio con l’abbandono del legame col dollaro (cambi bloccati, come nel caso dell’euro) tornando pienamente sovrana, “da zero”, dei propri pesos.Se è quindi chiaro che nessun Varoufakis avrebbe mai potuto – con quelle argomentazioni – impensierire neppure lontamente la Bce e la Commissione Europea (oltre a non aver messo a punto un vero piano-B, il governo di Syriza non ha nemmeno pensato a reclutare un adeguato team di economisti, per esempio quelli, americani e democratici, di cui si servì Nestor Kirchner per la rianimazione-record della sua Argentina), resta di fronte agli occhi di tutti lo spettacolo dell’orrore che Berlino e Bruxelles hanno esibito, a prescindere dall’impresentabilità di Syriza – spettacolo che non mancherà di suscitare ripercussioni drastiche, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, l’unico leader europeo a chiedere a gran voce, e non da oggi, l’uscita di Parigi dall’Unione Europea, prospettiva che ormai sfiora l’Austria e nel 2017 chiamerà al voto anche la Gran Bretagna. L’incubo Grexit – espulsione disordinata, non preparata come invece nel caso argentino – comporterebbe «conseguenze sociali e politiche sconvolgenti: sicuramente provocazioni, disperazione, disordini, sangue», scrive Giulietto Chiesa. «Questa è l’Europa, oggi. Bisogna prepararsi a uscirne, per tempo».Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza, con la collaborazione di Napolitano, per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.
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Pura ferocia, ecco l’Ue: spietata, contro il pallido Tsipras
Consenti alla finanza privata di impadronirsi della moneta e quindi del debito pubblico degli Stati? Vietato stupirsi, dopo, gli se esattori rivogliono tutto indietro, con gli interessi. Sul “Guardian”, l’ex ministro delle finanze ellenico Yanis Varoufakis denuncia «la testarda ostinazione» dei creditori nel rifiutarsi di concedere una sostanziale riduzione del debito, in barba a «qualsiasi normale prassi bancaria», che consiglierebbe di «non accanirsi contro i debitori in difficoltà». Di “normale”, in realtà, in Europa non c’è più nulla, dal momento in cui – col Trattato di Maastricht – proprio la “prassi bancaria” ha sostituito l’interesse pubblico, basato sul governo sovrano della moneta per evitare che lo Stato cada nelle mani di creditori privati, i veri padroni della scena, che manovrano politici-fantoccio e istituzioni comunitarie create solo per proteggere il business finanziario a spese delle comunità nazionali. L’altra notizia è che i paesi europei non insorgano in favore dei greci: nessun governo si ribella, le piazze europee non sono gremite di bandiere greche. E i sondaggi rivelano che 7 tedeschi su 10 danno ragione al super-falco Schaeuble, l’uomo dei diktat, l’esecutore fiduciario dei banchieri.Alla sopravvivenza economica della Grecia, scrive Varoufakis, l’Ue ha preferito «il salvataggio delle banche francesi e tedesche esposte sul debito pubblico ellenico». Nulla di così strano: l’anomalia, semmai, consiste nel fatto che il debito statale di Atene sia stato finanziato da banche private, attraverso la moneta privata chiamata euro. L’austerity che ha devastato la Grecia, facendone crollare il Pil del 25%, serviva solo a “rifondere” le banche straniere, non certo a risollevare l’economia di Atene. «Una volta che questa sordida operazione è stata completata, l’Europa si è subito inventata un altro motivo per rifiutarsi di discutere la ristrutturazione del debito: andava a colpire le tasche dei cittadini europei! E quindi – continua Varoufakis – venivano somministrate dosi ancora maggiori di austerità, mentre il debito cresceva spingendo i creditori a erogare nuovi prestiti in cambio di altra austerità».Il governo Tsipras, continua l’ex ministro, è stato eletto «per porre fine a questo circolo vizioso, per esigere un haircut del debito e mettere fine all’austerità». Mission impossible, ovviamente, sotto il regime euro-Ue: Syriza, invece, si è fatta eleggere raccontando ai greci che sarebbe stato possibile passare all’inferno al paradiso, pur restando nell’Eurozona. Il resto sono dettagli: «Le trattative – racconta Varoufakis – si sono arenate nella ben nota impasse per una semplice ragione: i nostri creditori continuavano a negare qualsiasi ristrutturazione, mentre allo stesso tempo esigevano che il nostro debito, che non è pagabile, fosse rimborsato “parametricamente” dalle fasce più deboli della popolazione greca, dai loro figli e dai loro nipoti». In realtà, il debitro sovrano non è mai “pagabile”, non lo è mai stato e non deve esserlo: il debito del Giappone rappresenta il 250% del Pil ma non è un problema, perché lo Stato – padrone della sua moneta – è in grado di sostenerlo in qualsiasi momento. Nell’Eurozona, invece, si “deve” ricorrere al denaro dei banchieri, che non concedono prestiti a scopo di beneficenza.Lo stesso Varoufakis ricorda che, nella sua prima settimana da ministro, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem (l’Eurogruppo è l’assemblea dei ministri delle finanze europei) lo mise «brutalmente» messo di fronte a un ultimatum: «Accettare la logica dei bailout e rinunciare a ogni pretesa di ristrutturazione, altrimenti il nostro accordo sui nuovi prestiti sarebbe stato cancellato – con l’implicita conseguenza non detta che le nostre banche avrebbero dovuto chiudere». Dopo cinque mesi di trattative, eccoci al redde rationem: le “istituzioni” europee, guidate da Merkel e Schaeuble, impongono a Tsipras di rimangiarsi tutto, per screditarlo di fronte ai greci, dopo l’intollerabile sfida democratica del referendum contro l’austerity. Nel 2010, ricorda ancora Varoufakis, la minaccia della Grexit «nel 2010 spaventava a morte gli investitori finanziari perché le loro banche erano piene zeppe di debito greco». E ancora nel 2012, «nonostante Wolfgang Schaeuble ritenesse che i costi della Grexit avrebbero avuto il vantaggio di disciplinare la Francia e gli altri, la prospettiva continuava a creare grandi preoccupazioni». Quando invece Syriza è andata al potere a gennaio scorso, «a conferma del fatto che i bailout non hanno realmente lo scopo di salvare la Grecia (ma piuttosto quello di costruire una muraglia cinese attorno al nord Europa), una larga maggioranza dell’Eurogruppo – sotto la tutela di Schaeuble – ha considerato la Grexit come l’esito più favorevole e l’ha adoperata come minaccia contro il nostro governo».Varoufakis sostiene che i greci, «giustamente», hanno «i brividi al pensiero di essere amputati dall’unione monetaria». Il problema è proprio l’euro, «una moneta completamente controllata da creditori ostili alla ristrutturazione del nostro insostenibile debito nazionale». Per uscire dall’euro, secondo l’ex ministro, «dovremmo inventarci una valuta dal nulla: nell’Iraq occupato c’è voluto un anno per introdurre nuove banconote, circa 20 Boeing 747, la mobilitazione di tutta la potenza militare americana, tre stabilimenti per stampare il denaro, centinaia di camion. Senza questi aiuti – continua Varoufakis – sarebbe come se la Grecia dovesse annunciare una grossa svalutazione con 18 mesi di anticipo, il che porterebbe all’immediata liquidazione di tutti i capitali investiti e al loro trasferimento all’estero con ogni mezzo possibile». Così, con la minaccia della Grexit che rafforzava il “bank run” indotto dalla Bce, «il nostro tentativo di rimettere sul tavolo la questione della ristrutturazione si è scontrato contro un muro di gomma. Tutte le volte ci rispondevano che quella era una questione da affrontare in un non meglio specificato futuro successivo alla completa realizzazione del “programma”».Scontata, quindi, l’intransigenza tedesca, anche di fronte al tentativo del successore di Varoufakis, Euclid Tsakalaotos, che ha tentato di convincere «un Eurogruppo chiaramente ostile» che la ristrutturazione del debito «è un prerequisito per il successo delle riforme in Grecia». Finalmente, Varoufakis ammette che il problema è proprio la moneta unica europea: «L’euro è un ibrido fra un vincolo valutario fisso come l’Erm del 1980 o il gold standard e una “moneta di Stato”. Il primo fonda la sua forza sulla paura di esserne espulsi, mentre la “moneta di Stato” implica meccanismi di riciclo (reinvestimento) dei surplus fra Stati membri», ad esempio un budget federale e l’emissione di titoli di Stato in comune, gli eurobond invocati inutilmente già ai tempi di Tremonti. «L’euro è una via di mezzo – più vincolo monetario che moneta di Stato». Di statale, in realtà, l’euro non ha nulla: è anzi il braccio operativo dell’élite finanziaria interessata a lucrare sullo smantellamento degli Stati, ma questo Syriza non l’ha mai osato dire.Anche oggi, Varoufakis si limita in fondo a considerazioni tattiche: «Il ministro delle finanze tedesco – scrive, sul “Guardian” – vuole che la Grecia venga costretta a uscire dalla moneta unica per mettere una paura del diavolo ai francesi e convincerli ad accettare un modello di Eurozona di tipo disciplinario». E’, in fondo, il peccato originale di Syriza: pensare che esista un modello di Eurozona non-disciplinario. E’ come aspettarsi che possa davvero essere ristrutturato (tagliato) un debito nominalmente pubblico, ma non denominato in moneta sovrana. Eppure, nonostante gli errori strategici di Syriza, il “martirio” della Grecia offre un terrificante spettacolo di cos’è realmente l’Unione Europea. L’Austria farà un referendum per uscirne, la Gran Bretagna voterà nel 2017 per abbandonare Bruxelles, mentre Obama teme l’aiuto di Putin alla Grecia e l’Ue punta tutto sulle dimissioni di Tsipras per ripristinare il dominio totale della Troika, togliendo ai greci ogni illusione di sovranità.Consenti alla finanza privata di impadronirsi della moneta e quindi del debito pubblico degli Stati? Vietato stupirsi, dopo, se gli esattori rivogliono tutto indietro, con gli interessi. Sul “Guardian”, l’ex ministro delle finanze ellenico Yanis Varoufakis denuncia «la testarda ostinazione» dei creditori nel rifiutarsi di concedere una sostanziale riduzione del debito, in barba a «qualsiasi normale prassi bancaria», che consiglierebbe di «non accanirsi contro i debitori in difficoltà». Di “normale”, in realtà, in Europa non c’è più nulla, dal momento in cui – col Trattato di Maastricht – proprio la “prassi bancaria” ha sostituito l’interesse pubblico, basato sul governo sovrano della moneta per evitare che lo Stato cada nelle mani di creditori privati, i veri padroni della scena, che manovrano politici-fantoccio e istituzioni comunitarie create solo per proteggere il business finanziario a spese delle comunità nazionali. L’altra notizia è che i paesi europei non insorgano in favore dei greci: nessun governo si ribella, le piazze europee non sono gremite di bandiere greche. E i sondaggi rivelano che 7 tedeschi su 10 danno ragione al super-falco Schaeuble, l’uomo dei diktat, l’esecutore fiduciario dei banchieri.
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Ancora menzogne sulla Grande Guerra, odissea nell’orrore
Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.Nel suo intervento Veneziani rispolvera tutto l’armamentario ideologico che a proposito della Grande Guerra è stato usato nell’ultimo secolo, riadattato ovviamente ad una sensibilità meno incline di una volta a celebrare l’ardimento e l’eroismo, la guerra e l’annientamento del “nemico”. E infatti Veneziani precisa subito che «ricordando l’entrata in guerra dell’Italia non si vuole certo celebrare l’amore per la guerra». E però, insiste, «col 24 maggio si vuole commemorare la nascita di una nazione con una mobilitazione popolare senza precedenti e un rito di sangue che fu un’ecatombe. Ricordare quel centenario significa ripensare l’Italia, riproporre il tema dell’identità nazionale nello scenario presente e proiettarsi a pensare il futuro senza cancellare o smantellare le storie e le culture nazionali. L’intervento nella Prima Guerra Mondiale portò a compimento, come allora si disse, il Risorgimento, non solo perché ricondusse all’Italia Trento e Trieste, quanto perché coinvolse per la prima volta il paese intero, da nord a sud, popolo e borghesia, e lo indusse a sentirsi nazione e comunità di destino, fino a donare alla patria la propria vita».«Quella conquista unitaria, dovuta nel secolo precedente a una minoranza, diventò con la mobilitazione totale e la leva obbligatoria, patrimonio sofferto di un popolo intero. Non mancarono episodi di valore, un’epica popolare che coinvolse le famiglie italiane, i nostri nonni». Ecco, questo è il senso comune che viene ancora una volta dispensato alle nuove come alle vecchie generazioni, condannate a non avere accesso, sui mezzi di comunicazione mainstream, a strumenti che gli consentano di riflettere in maniera critica sulle vicende che hanno caratterizzato, in maniera spesso drammatica, la storia individuale come quella collettiva. Pochi i testi che tentano di contrastare la retorica mistificatoria del “mito” della Grande Guerra, seppure edulcorato e reso più adatto al contesto di generale, quanto spesso ipocrita, esaltazione della pace, che viene sparso a piene mani; e che trova la sua sintesi forse più brillante nelle drammatiche poesie dal fronte di Ungaretti, lette dal poeta stesso in età avanzata e riproposte in questi giorni dalla Rai col sottofondo della marcetta della “Canzone del Piave”.Tra i testi di fresca pubblicazione che possono costituire uno strumento utile per demistificare in maniera documentata e puntuale tale retorica, ce n’è uno particolarmente interessante. Si tratta del libro scritto di recente da Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella, insegnati e redattori dell’agenzia di stampa Adista i primi due, storico del cristianesimo ed ex deputato nelle file degli indipendenti di sinistra il secondo. “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale” (Dissensi editore) non è certo l’unico volume attualmente in circolazione ad avere un taglio “critico” di assoluto rigore rispetto agli eventi considerati. Esso ha però il pregio di essere specificamente destinato ad un pubblico di non specialisti, cui gli autori propongono una serie di brevi ma documentati saggi (completi di riferimenti storico-critici, bibliografici, documenti e foto) che cercano di indagare aspetti che della Prima Guerra Mondiale sono certamente noti a cultori, specialisti e studiosi di storia contemporanea ma non al grande pubblico. Fatti che sono però di fondamentale rilievo se si vuole restituire alla Grande Guerra il suo volto più tragico e vero.Gli autori spiegano le ragioni dell’incredibile percorso che in pochi mesi porta forze politiche, grandi giornali ed intellettuali a schierarsi dal neutralismo più convinto all’interventismo più acceso. Il ruolo giocato dalle forze industriali e dai poteri finanziari nel periodo che va dalla fine del 1914 al maggio del 1915. Raccontano l’uso di armi terribili durante i combattimenti, quali l’iprite, uno dei gas impiegati nella guerra chimica, o le mazze ferrate utilizzate dai fanti per finire i nemici agonizzanti, in genere proprio in seguito a un attacco con quel gas. Viene inoltre descritta la capillare organizzazione della prostituzione che lo Stato Maggiore dell’esercito offriva ai fanti ed agli ufficiali – in maniera ovviamente diversa, dal momento che tutta la guerra, come ben emerge da questo lavoro, viene combattuta secondo una rigida concezione classista della vita militare. Una sorta di “sfogo risarcitorio” nei confronti della disumanizzante esperienza del fronte, con il conseguente, brutale sfruttamento delle donne e dei loro corpi, sistematicamente ed istituzionalmente perpetrato.Gli autori svelano poi i casi di patologie mentali diffusi nelle trincee, l’uso sistematico della repressione per impedire che si diffondesse tra i soldati il rifiuto o il dissenso nei confronti della prosecuzione della guerra: il francescano padre Agostino Gemelli, medico e psicologo, collaborò con lo Stato Maggiore nell’individuare le strategie più efficaci per mantenere il consenso e la disciplina tra i soldati. E proprio dal punto di vista del ruolo della Chiesa cattolica nel grande massacro, il libro analizza come – al di là della posizione (sostanzialmente isolata e comunque neutralizzata da parte della gerarchia ecclesiastica) di Benedetto XV – sia stato fondamentale il ruolo dei cappellani militari. Quest’ultimi distribuivano nelle trincee materiale devozionale (di cui nel libro vengono pubblicati alcuni esempi) teso ad esaltare l’eroismo di coloro che si erano immolati per la patria, rappresentavano Gesù nell’atto di accogliere in paradiso i caduti o di incitare i soldati ad andare all’assalto; benedicevano i gagliardetti militari e le truppe lanciate contro il nemico, intonando Te Deum di ringraziamento per le stragi compiute.Eppure, anche dentro questo desolante quadro e nel contesto di una martellante ideologia mistificatoria, si faceva largo una coscienza delle reali ragioni della guerra: ecco allora i capitoli dedicati alle lettere (censurate) dei soldati al fronte; gli appelli di donne ed uomini al re affinché fermasse la strage; le canzoni che raccontavano la realtà di classe della guerra, il cinema che già prima della pace di Versailles aveva cominciato a raccontare cosa quella guerra fosse realmente. Come fa questo libro che, scrivono gli autori nella loro introduzione, intende creare “una solida coscienza critica del perché fu orrore quella guerra, come e più di altre guerre. E suscitare ugualmente orrore nei confronti della ‘grande menzogna’ attraverso la quale ancora oggi molti vorrebbero continuare a ricordarla, nonostante devastazioni, lutti, torture, prigionie, ruberie, deportazioni”.(Giovanni Avena, “Oltre la retorica, l’orrore della Grande Guerra”, da “Micromega” del 22 maggio 2015. Il libro: Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella, “La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla Prima Guerra Mondiale”, Dissensi editore, 170 pagiene, euro 13,90).Certo non si può dire che da Marcello Veneziani l’apologia della Grande Guerra non ce la si potesse aspettare. È in fondo un intellettuale della nuova destra, lo stesso che alla vigilia del 70mo anniversario del 25 aprile aveva riaffermato: «Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa», perché – a suo dire – sarebbe considerata una ricorrenza divisiva, che non è stata concepita «all’insegna della veritas e della pietas». Aveva, Veneziani, anche rincarato la dose, sostenendo che sarebbe «cresciuta l’enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra Mondiale». Se si considera però che Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, è oggi anche membro del comitato scientifico che si occupa degli anniversari della storia d’Italia (istituito a Palazzo Chigi e dal 2013 presieduto da Franco Marini), le sue prese di posizione sulla storia del paese – visto il ruolo “istituzionale” che ricopre – non possono lasciare indifferenti. Così come non lascia indifferenti lo spazio che il “Corriere della Sera” del 20 maggio 2015 ha concesso ad un suo intervento-appello a fare del 24 maggio, almeno quello di quest’anno, l’occasione per una celebrazione istituzionale.
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Questa non è una crisi economica, ma un piano di dominio
Questa non è una crisi economica, ma è uno strumento, un processo voluto e pianificato per arrivare a sostituire la zootecnia alla politica, ossia per poter governare la popolazione terrestre con la padronanza e prevedibilità con cui si governa il bestiame nella stalla o i polli in batteria. E per arrivarci con la collaborazione della gente, facendole credere che le riforme siano tutte scelte scientifiche razionali e magari anche democratiche (l’aspetto didattico-ideologico, la dottrina dei mercati sani e disciplinanti). Questo processo è stato avviato dalla metà degli anni ’70, mediante una serie di precise scelte: un preciso modello economico, una serie di riforme legislative, di lungo respiro (soprattutto la deregolamentazione del settore bancario, l’indipendenza delle banche centrali, la privatizzazione del rifinanziamento del debito pubblico), che si sapeva benissimo che cosa avrebbero prodotto, ossia una società e un’economia reale permanentemente in balia dei mercati e ricattabili dagli speculatori finanziari. Una crescente concentrazione di quote di reddito, quote di ricchezza, quote di potere, nelle mani dei pochi che decidono.Tutti gli altri soggetti (cioè Stati, imprese, famiglie, pensionati, disoccupati…) permanentemente con l’acqua alla gola, impoveriti, costretti ad obbedire, ad accettare, come condizione per una boccata d’aria o di quantitative easing, dosi ulteriori di quelle medesime riforme. Dosi ulteriori di concentrazione di ricchezza e potenza, di oligarchia tecnocratica irresponsabile e senza partecipazione dal basso, senza controllo democratico. Senza garanzie costituzionali. Era tutto intenzionale. Infatti, nessuno dei meccanismi finanziari che hanno prodotto e mantengono l’apparente crisi è stato rimosso, dopo, visti i danni che faceva, nemmeno la possibilità per le banche di giocare in Borsa coi soldi dei risparmiatori. Anche l’euro si sapeva benissimo che cosa avrebbe prodotto, in base a ripetute esperienze precedenti con il blocco dei cambi tra paesi economicamente dissimili.Tutto questo non è un incidente, una crisi, un cigno nero, bensì un’operazione di potenziamento e razionalizzazione tecnologica del controllo sociale; non mira banalmente al profitto economico, il quale ormai è un concetto superato da quando la ricchezza si produce con metodi contabili ed elettronici nel gioco di sponda tra banche e governi, che possono creare tanto denaro quanto vogliono. Mira all’ottimizzazione tecnologica e giuridica del dominio sociale. Non è una crisi, e soprattutto non è una crisi economica, signori economisti; sicché affannarsi a proporre ingegnose soluzioni sul piano economico e monetario è incongruo, improduttivo. Non è qualcosa di accidentale, non si sta cercando di uscirne, è un processo guidato verso un obiettivo preciso e già ampiamente conseguito, un processo a cui nessuna forza politica o morale può opporsi efficacemente, dati i rapporti di forza, e l’unica speranza sta nella possibilità che esso sfugga di mano ai suoi strateghi e ingegneri, per la sua stessa complessità e dinamicità.La fascistoide riforma costituzionale ed elettorale di Renzi – diciamo di Renzi, ma sappiamo che le riforme strutturali in Italia le detta Francoforte, nell’interesse di padroni stranieri, e che da qualche tempo i primi ministri italiani agiscono su suo mandato – è un tassello italiano di questa strategia zootecnica, disegnato per consentire la gestione dell’intero paese attraverso un’unica persona, un unico organo istituzionale, il primo ministro, che assommerà in sé i poteri politici senza contrappesi e controlli indipendenti. I tempi forzati in cui detta riforma deve venire attuata sono verosimilmente in relazione al tempo per cui la situazione italiana può reggere, prima che vengano meno le condizioni esterne molto favorevoli oggi presenti, prima che arrivino pesanti scadenze finanziarie, prima che si dissolva l’impressione popolare di incipiente ripresa e che si renda necessario imporre nuovi e impopolari sacrifici.Quando ciò avverrà, si scateneranno forti tensioni sociali e si calcola di poterle reprimere e contenere grazie a una riforma costituzionale di tipo autoritario. Renzi non è un dittatore, è solo un esecutore teleguidato, costruito col marketing. Ma sta preparando il posto di comando per il dittatore che verrà dopo di lui. Ecco il perché della fiducia posta dal governo sull’Italicum, una riforma elettorale che andrà in vigore nel 2016, sicché non ci dovrebbe essere fretta ad approvarla; ma in realtà c’è molta fretta, perché proprio nel 2016 finirà il quantitative easing assieme agli effetti benefici della svalutazione dell’euro, e allora il quadro potrebbe saltare, bisogna avere tutto pronto.Per rispettare questi tempi, e a conferma del fatto che il suo governo come i precedenti rappresenta l’alleanza (asimmetrica) tra gli interessi della casta italiana e quelli del padrone straniero, il governo Renzi deve mantenere l’appoggio degli interessi parassitari legati alla politica e necessari per avere i voti in parlamento, il che spiega perché non ha toccato i centri di spreco e ruberie come le famose società partecipate e non ha proceduto alla spending review, quantunque queste siano vere urgenze. Se l’avesse fatto, la sua maggioranza si sarebbe squagliata subito. Invece il 29 e 30 aprile ben due terzi dai suoi apparenti oppositori interni gli hanno votato la fiducia sulla legge elettorale. Funziona sempre, questa irresistibile attrazione delle poltrone che resteranno a galla quando il paese affonderà.(Marco Della Luna, “Questa non è una crisi economica”, dal blog di Della Luna del 30 aprile 2015).Questa non è una crisi economica, ma è uno strumento, un processo voluto e pianificato per arrivare a sostituire la zootecnia alla politica, ossia per poter governare la popolazione terrestre con la padronanza e prevedibilità con cui si governa il bestiame nella stalla o i polli in batteria. E per arrivarci con la collaborazione della gente, facendole credere che le riforme siano tutte scelte scientifiche razionali e magari anche democratiche (l’aspetto didattico-ideologico, la dottrina dei mercati sani e disciplinanti). Questo processo è stato avviato dalla metà degli anni ’70, mediante una serie di precise scelte: un preciso modello economico, una serie di riforme legislative, di lungo respiro (soprattutto la deregolamentazione del settore bancario, l’indipendenza delle banche centrali, la privatizzazione del rifinanziamento del debito pubblico), che si sapeva benissimo che cosa avrebbero prodotto, ossia una società e un’economia reale permanentemente in balia dei mercati e ricattabili dagli speculatori finanziari. Una crescente concentrazione di quote di reddito, quote di ricchezza, quote di potere, nelle mani dei pochi che decidono.