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Rampini: il grande ritorno dei Padroni dell’Universo
C’é un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».“Time Magazine” invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta: «L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto», scrive Rampini su “Repubblica” in un’analisi ripresa da “Micromega”. Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. «È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini». Intanto, “Time” saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica “Forbes” dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali».La sua carriera, ricorda Rampini, cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, “Barbari alle porte”). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs. «E qui viene la sorpresa: invece di assalire Apple con una delle solite scorribande finanziarie mordi-e-fuggi, Icahn si fa il paladino di interessi generali», perché «Apple non è una banca». Icahn vuole che la regina degli iPhone e iPad la smetta di accumulare cash inutilizzato (ben 150 miliardi di dollari, una montagna di liquidità tanto impressionante quanto assurda) e lo distribuisca a tutti gli azionisti – lui incluso, ovviamente, che nel capitale di Apple ha investito due miliardi. Ma l’operazione che Icahn pretende da Apple distribuirebbe benefici anche ai piccoli risparmiatori. «I Padroni dell’Universo si sono convertiti come dei Robin Hood? Tutt’altro. Ma almeno il loro è un capitalismo vero, un’economia di mercato non ingessata».Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. «È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni». Fondata nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. «Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (Jp Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble». Una peculiarità di Blackrock la distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street: «Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa». Soprattutto, Blackrock investe capitali che le vengono affidati anche dai piccoli risparmiatori, per esempio attraverso fondi pensione. «Dunque, a differenza della famigerata e defunta Lehman Brothers o di altre banche d’affari che si rivelarono fragilissime, un investitore istituzionale come Blackrock ha poco “rischio sistemico”».In un certo senso, continua Rampini, la Blackrock ha obbedito anticipatamente alla nuova regola varata solo da poche settimane dall’amministrazione Obama, quella Volcker Rule che vieta ai banchieri di fare speculazioni rischiose coi propri capitali. «È un altro caso di Padrone dell’Universo che può aiutare l’economia di mercato a evitare catastrofi come quella del 2008? Di certo l’universo capitalistico in cui si muove Blackrock dista anni-luce dalla realtà italiana. Per quanto sia un colosso, e grosso azionista di gruppi come Apple, Google, Shell e Nestlè, Toyota e Novartis, in nessuna di queste aziende la sua quota configura una “minoranza di blocco”. Né fa parte di patti di sindacato, che generalmente non esistono a Wall Street e nei mercati più evoluti. Blackrock può usare la frusta verso un management che giudica inefficiente, ma non ha poteri di veto né si può permettere di paralizzare una grande azienda».Il ritorno dei Padroni dell’Universo, aggiunge Rampini, è un fenomeno dalle molte facce. «L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008», in particolare «la finanziarizzazione dell’economia e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata». Larry Summers, ex consigliere economico di Obama, in un importante discorso al Fmi ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.Il “lato positivo” di Wall Street, se esiste, forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza: «Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale». Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera 200.000 nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che «ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere». La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. «Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione».In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, conclude Rampini: è la “macchina del mercato” che, negli Usa, «ha ripreso a girare a pieno ritmo».C’è un fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta, c’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari, e c’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. I “Masters of the Universe” sono tornati, osserva Federico Rampini: i giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. «Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano: se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio» che proprio a loro dedica a “The Wolf, il Lupo di Wall Street”, alla fine di un 2013 che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s in rialzo del 30%. rispetto al primo gennaio. L’“Economist” dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, «un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick».
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Bergoglio: no al liberismo, la tirannia che svuota lo Stato
«Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa». I media italiani ne hanno parlato poco, ma la nuova “esortazione apostolica” di Papa Francesco, “Evangelii Gaudium” (la gioia del vangelo) contiene una potente critica al capitalismo finanziario. «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”», scrive Bergoglio. «Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole». Conseguenza: «Grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita». Aggiunge il pontefice: «Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive».
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Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
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Mercato, sovrano globale: lo Stato è solo il suo gendarme
La tesi centrale di questo libro è che con la globalizzazione contemporanea sta prendendo forma un tipo d’imperialismo che è fondamentalmente diverso da quello affermatosi nell’Ottocento e nel Novecento. La novità più importante consiste nel fatto che le grandi imprese capitalistiche, diventando multinazionali, hanno rotto l’involucro spaziale entro cui si muovevano e di cui si servivano nell’epoca dei grandi imperi coloniali. Oggi il capitale si accumula su un mercato che è mondiale. Perciò ha un interesse predominante all’abbattimento di ogni barriera, di ogni remora, di ogni condizionamento politico che gli Stati possono porre ai suoi movimenti. Mentre in passato il capitale monopolistico di ogni nazione traeva vantaggio dalla spinta statale all’espansione imperialista, in quanto vi vedeva un modo per estendere il proprio mercato, oggi i confini degli imperi nazionali sono visti come degli ostacoli all’espansione commerciale e all’accumulazione.
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La finanza parassitaria, il cancro che uccide il lavoro
Se l’industria produce 100, la finanza pretende una “tangente” che va da 50 a 70. I parassiti stanno letteralmente divorando le aziende, cui impongono costi finanziari mostruosi. L’Unione Europea sta dalla parte della finanza e lascia al suo destino l’industria. La quale, complici i dirigenti – reagisce in un solo modo, e cioè tagliando posti di lavoro. E’ la crisi europea “spiegata” dall’economista francese Laurent Cordonnier, co-autore di un importante studio dell’università di Lille, che dimostra che è proprio la rendita finanziaria ad aver cannibalizzato il lavoro in Europa, provocando l’attuale disastro. «L’aumento del costo del capitale – o piuttosto del suo sovraccosto – sulla scia della finanziarizzazione dell’economia, spiega le performance deludenti che le vecchie economie sviluppate hanno offerto negli ultimi trent’anni: il ritmo fiacco dell’accumulazione di capitale, l’aumento delle diseguaglianze, il boom dei redditi finanziari, la persistenza di un massiccio fenomeno di sottoccupazione».
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Revelli: sinistra fallita, s’è accodata al capitalismo in crisi
Quello nato dopo la morte del Novecento è un mondo infinitamente più diseguale. Ed è un mondo che non offre alternative a se stesso. Sono queste le grandi sconfitte storiche della sinistra, ossia di una forza politica e culturale che possiede nel Dna il valore dell’eguaglianza e la capacità di immaginare un’alternativa allo stato di cose presente. La catastrofe del socialismo reale è parte della scomparsa della sinistra, che ne è stata paralizzata. Ma una sinistra che rinuncia a proporre un altrove cessa di essere sinistra. È nata proprio per quello. Accadde nel 1789 a Versailles, quando alla sinistra della presidenza dell’assemblea si schierarono coloro i quali erano contro il potere di veto del Re. Così cadde l’ultimo pilastro dell’Ancien Régime. Non c’è bisogno di alzare la ghigliottina. Basta un voto per sancire la fine di un ordine. E l’inizio di un altro.
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Barbari sociopatici: profilo dell’élite che domina il mondo
Dal tunnel della crisi c’è una sola uscita di sicurezza. Non è l’economia, ma qualcosa di ancora più importante: si chiama democrazia. «L’alternativa alla società ordinata dal principio economico è la società ordinata dal principio politico». Quindi, «l’alternativa al capitalismo non è una nuova forma economica, ma una nuova forma politica: l’alternativa al capitalismo è la democrazia». Se infatti il capitalismo è in tilt, è solo dalla democrazia che potrà nascerà la nuova funzione economica: «E’ solo dalla civiltà, dalla civis, che può provenire l’emancipazione dalla barbarie». E’ la conclusione a cui perviene Pierluigi Fagan, esplorando la “fenomenologia dello spirito barbaro” che alimenta il pensiero liberale. Punto di partenza: il carattere antisociale di maxi-criminali finanziari come Bernard Madoff o di uomini super-potenti come Lloyd Blankfein, “ceo” di Goldman Sachs. C’è chi li ritiene casi umani, patologici, affetti da sindrome Adp, ovvero “disturbo antisociale della personalità”.
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Futuro sostenibile: lavoro, terra e denaro non sono merci
Lavoro, terra e denaro: tre cose che, se diventano “merce”, decretano la fine del sistema sociale ed economico. Difatti, eccoci qua: globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico. Debito, pubblico e privato, come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro. E poi guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. Fino a quarant’anni fa i meccanismi portanti dell’accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l’intervento dello Stato nell’economia. Non era un mondo perfetto, come provvide a ricordare la grande contestazione del ’68. E oggi? Stiamo ancora peggio. E siamo alla vigilia di un nuovo, clamoroso cambio di paradigma: sarà valido soltanto ciò che potrà essere sostenibile.
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Sempre più ricchi: la crisi è il paradiso dei super-miliardari
Usa, Cina e Gran Bretagna: è il “podio” mondiale degli ultra-ricchi, secondo l’agenzia “Wealth-X” che collabora con le prime 8 grandi banche del mondo e monitora la dislocazione delle maggiori ricchezze del pianeta, non solo finanziarie ma anche immobiliari. “Tesori” costituiti da auto di lusso, aerei privati, yacht, opere d’arte. Dopo sei anni consecutivi di recessione, negli Usa come in Europa e in Giappone si tende a sostenere che, nella grande crisi, ci rimettono un po’ tutti, ricchi e poveri. Non è affatto così: la crisi favorisce ulteriormente i più ricchi, scrive Alfredo Zaiat su “Rebelion”, analizzando la panoramica di “Wealth-X” sull’affollamento planetario di nababbi, i cui ricavi superano il miliardo di dollari. Americani, cinesi e inglesi. E poi, nell’ordine: tedeschi, indiani e russi. A seguire, Hong Kong, Svizzera, Brasile e Canada. “Oligarchi” iper-facoltosi, le cui fortune superano la ricchezza nazionale di interi paesi.
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Facciamo come la Danimarca, l’equità conviene a tutti
Cattiva distribuzione dei redditi, debolezza delle imprese, fragilità del sistema bancario e pessima bilancia commerciale. Senza contare «la povertà del pensiero degli economisti». Questa la diagnosi della “grande crisi” del 1929 secondo John Kenneth Galbraith. Quasi un secolo dopo, ci risiamo: «Il capitalismo finanziario sregolato e ipertrofico produce disoccupazione e povertà, mentre arricchisce indecentemente i suoi protagonisti». Chi dice che il capitalismo è morto, e chi ripete che questo è l’unico sistema possibile. Sbagliato: se volessimo, anche noi potremmo imitare la Danimarca, un paese dove i poveri riescono a diventare ricchi e dove il benessere diffuso conviene a tutti. Lo sostiene Davide Reina nel blog “Cado in piedi”: il cambio di paradigma consiste nel passare dal “capitalismo esclusivo”, che tesaurizza la ricchezza a beneficio dei super-potenti, al “capitalismo inclusivo” che costruisce futuro per tutti in regime di equità.
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Il bottino segreto dei super-ricchi, protetto dalle banche
Sono 21.000 miliardi di dollari: è la cifra che gli uomini più ricchi del mondo nascondono nei paradisi fiscali sparsi per il pianeta. C’è chi parla addirittura di 32.000 miliardi, ma l’ammontare complessivo è quasi impossibile da calcolare. Si stima che il solo rientro dei super-capitali evasi basterebbe ad azzerare l’attuale crisi europea del debito. Mentre i governi tagliano la spesa e licenziano lavoratori sotto la scure dell’austerity, gli ultra-ricchi (meno di dieci milioni di persone) hanno nascosto al fisco un “bottino” pari alla somma del prodotto interno lordo degli Stati Uniti e di quello del Giappone. Lo rivela il nuovo rapporto del “Tax Justice Network”, secondo cui «le entrate perse a causa dei paradisi fiscali sono talmente ampie da costituire una differenza significativa secondo tutti i nostri indici convenzionali di diseguaglianza», visto che «la maggior parte della ricchezza finanziaria mancante appartiene a una piccola élite».
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Harvey: città ribelli e sindacati, una rivoluzione ci salverà
Quando parlo del diritto di ripensare la città più vicina a come la vorremmo, e a cosa invece abbiamo visto qui a New York City negli ultimi 20-30 anni, si tratta di come la vorrebbero i ricchi. Negli anni ’70 pesava molto la famiglia Rockefeller, per esempio. Oggi c’è gente come Bloomberg, che sostanzialmente trasforma la città nel modo che più si adatta a sé e ai propri affari. Ma la gran massa della popolazione praticamente non conta nulla. In città c’è quasi un milione di persone che tenta di farcela con diecimila dollari l’anno. E che influenza hanno sul modo in cui si trasforma la città? Nessuna. Penso a quel milione di persone con meno di diecimila dollari l’anno, che dovrebbero pesare almeno tanto quanto l’1% che sta al vertice.