Archivio del Tag ‘efficienza’
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Dunque la valle di Susa esiste, se il suo fumo soffoca Torino
Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che esiste la valle di Susa – o meglio, che la valle di Susa non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché sia governata da trent’anni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.Nel saggio “Binario morto”, il giornalista Luca Rastello – citando un alto funzionario pubblico piemontese – spiega che l’eventuale nuova linea ferroviaria italo-francese, cioè il doppione perfettamente inutile dell’attuale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa valicando le Alpi al traforo del Fréjus, non potrebbe bypassare Torino collegandosi alla rete Tav nazionale «se non attraverso un colpo di Stato». Il guaio? Se la nuova ferrovia si aprisse la strada in superficie dovrebbe sbancare interi quartieri periferici. Resterebbe il sottosuolo, il tracciato in galleria a 30 metri di profondità, ma taglierebbe fatalmente la falda idropotabile che rifornisce d’acqua oltre un milione di persone, fra Torino e hinterland. Persone che, peraltro, finora non si sono poste il problema: la stragrande maggioranza dei torinesi – a differenza degli abitanti di tante altre città italiane – ha finora guardato con fredda diffidenza alle esasperate proteste dei valsusini. Tuttora, se venisse svolto un normalissimo sondaggio, emergerebbe che il torinese medio non ha la più pallida idea del colossale bluff rappresentato dalla Torino-Lione, la grande opera più inutile d’Europa, preziosissima solo per la filiera di interessi collegata alla sua realizzazione: interessi politici, bancari e malavitosi.Probabilmente non ricorda, il torinese medio, di quando – a metà degli anni ‘90 – la valle di Susa fu colpita da una decina di strani attentati dinamitardi, firmati “Lupi Grigi” e rimasti senza colpevoli, per i quali furono inizialmente arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Soledad Rosas e Edoardo Massari, “Sole e Baleno” – morti durante la detenzione, trovati impiccati a un asciugamano. Probabilmente non ricorda, la maggior parte dei torinesi, che appena prima, in quegli anni, la Procura della Repubblica aveva sequestrato pistole in un’armeria, a Susa, finite a una cosca della ‘ndrangheta grazie alla falsificazione dei registri, controfirmati dall’autorità di polizia. Un’indagine inquietante, dalla quale era emersa l’ombra dei servizi segreti, Sisde e Sismi. In compenso, la città di Torino ha immancabilmente espresso fastidio e irritazione di fronte alle proteste ormai ventennali degli abitanti della valle di Susa, spediti all’ospedale – già nel dicembre 2005 – dai reparti antisommossa mandati a sgomberare i prati di Venaus occupati da famiglie alle prese con un sit-in permanente. Torino è passata dal sindaco Castellani a Chiamparino, da Fassino alla Appendino, con marmorea imperturbabilità sabauda. I torinesi vivono in una città che somiglia sempre di più a una camera a gas, ma non fiatano. E si ricordano dei valsusini solo se il fumo della valle li costringere a sprangare le finestre, turbando il loro beato sonno.Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che la valle di Susa esiste – o meglio, che non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché governata per decenni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.
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Eroina, soldi e “terre rare”: perché restiamo in Afghanistan
Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.I caduti afghani sono combattenti (oltre 100.000, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35.000, in aumento negli ultimi anni). E sono stime ufficiali dell’Onu, che trascurano le tante vittime civili non riportate. Senza considerare i civili afghani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: sono 360.000, secondo i ricercatori americani della Brown University. Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afghanistan – aggiunge Piovesana – ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).Politicamente, il regime integralista islamico afghano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagika) «è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma». Per non parlare del problema del narcotraffico: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale è fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afghani che cercano rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afghani sono i più numerosi dopo i siriani, precisa “Micromega”. E anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo 16 anni di guerra, i Talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà del paese. «Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno».Il fronte occidentale è sotto il comando italiano: per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afghani. Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia, riferisce Piovesana: perché mai poche migliaia di soldati che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150.000 soldati occidentali armati fino ai denti? «Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i Talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione». Piovesana ricorda che i Talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza Pashtun degli afghani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente: la loro agenda è infatti la liberazione del suolo nazionale, non la jihad internazionale.Per questo i Talebani combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente, «né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 Settembre, che avevano apertamente condannato». L’alternativa all’accordo? Non esiste. O meglio, sarebbe «il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come Isis-Khorasan». Secondo Piovesana si tratta di una prospettiva «pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico», dal momento che «uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse». Russia, Cina, Iran e Pakistan sarebbero infatti desiderose di estendere la loro influenza strategica per «stroncare il narcotraffico afghano che le colpisce» e, non ultimo, «mettere le mani sulle ricchezze minerarie afghane (in particolare le “terre rare” indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari».Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.
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Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
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Goldman Sachs: troppi migranti, l’Italia sta per scoppiare
L’Italia scoppia: non può reggere la pressione dei migranti. E ormai, chiusa la rotta balcanica grazie all’accordo tra Germania e Turchia, che ha bloccato il flusso dei profughi dal Medio Oriente, è l’Italia ad accogliere la stragrande maggioranza di persone, per lo più provenienti dal Nordafrica, via Libia. Nel 2017 sono finora stati quasi 200.000, ma il loro numero continua a salire vertiginosamente. E l’Italia, lasciata sola dall’Unione Europea, è il paese più fragile e meno adatto a reggere l’urto. Lo afferma nientemeno che la Goldman Sachs, preoccupata che la situazione possa condizionare le elezioni politiche del maggio 2018. Lo riferisce “Zero Hedge”, in un post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Il Belpaese, secondo la grande banca speculativa di Wall Street, è in crisi economica e sociale, nonché alle prese con politiche inefficaci. Come la Spagna e l’Ungheria, afferma la Goldman, l’Italia ha un altissimo tasso di disoccupazione, tale da tendere impossibile l’integrazione economica dei nuovi arrivati, verso i quali si starebbe intesificando una certa insofferenza sociale, anche a fronte delle politiche per l’immigrazione, giudicate inefficienti.Principale punto dolente, la capacità di assimilazione dei migranti nel mercato del lavoro. «Spagna e Grecia hanno il livello più basso di integrazione, indicato dal più ampio gap immigrati/nativi. L’Italia e l’Ungheria hanno invece il più basso tasso di integrazione economica, con i migranti di seconda generazione in condizioni mediamente peggiori dei loro genitori». Questi quattro paesi, secondo Golman Sachs, «hanno anche i tassi di disoccupazione più alti tra la popolazione totale». Il punto è che, in questi paesi, «la disoccupazione colpisce in modo sproporzionato la popolazione immigrata, e la seconda generazione chiaramente non riesce a recuperare lo svantaggio». Di conseguenza, se si vuole sperare in un’integrazione economica dei rifugiati, «l’Italia è l’ultimo paese in cui portarli». Quanto all’integrazione sociale, le indagini attuali rilevano «la discriminazione contro i migranti» e il basso grado di accettazione degli immigranti da parte del paese ospitante. Dai dati, «appare subito evidente come l’Ungheria sia il paese socialmente più ostile ai migranti, seguita da Italia e Grecia».In tutti questi paesi, «l’ostilità dell’opinione pubblica è stata causata dalla crisi migratoria». Ma attenzione, scrive “Zero Hedge” citando lo studio della Goldman: «Mentre i flussi di migranti verso Ungheria e Grecia hanno subito un rallentamento, in Italia stanno intensificandosi». Secondo il ministero dell’interno italiano, il numero di arrivi in Italia ha quasi superato il record annuale di 181.000 immigrati del 2016, e i disordini diffusi in Libia hanno causato un incremento del 44% nel numero di richiedenti asilo che attraversano il Mediterraneo rispetto allo stesso periodo l’anno scorso. «Attualmente l’Italia – insieme all’Ungheria – sembra quindi la nazione più inospitale d’Europa in relazione a due delle coordinate principali: economica e sociale». Grecia e Ungheria sono invece i paesi meno politicamente efficaci nell’integrazione dei migranti. Nel 2013 Atene ha approvato una legge che impedisce agli immigrati di votare alle elezioni nazionali, mentre l’abrogazione dello “ius soli”, la cittadinanza automatica per i nati sul territorio, «ha lasciato diversi bambini nati in Grecia in un limbo legislativo». L’Italia invece punta all’integrazione legale e all’uguaglianza dei diritti, ma fatica a trovare e risorse.«Complessivamente – conclude la banca – l’Italia ha una minore capacità di assorbimento dei migranti rispetto ad altri stati europei». Sulla base degli indicatori presi in considerazione, il nostro «sembra il paese meno integrato economicamente e socialmente». Determinante, in questo giudizio, «l’incremento annuale dell’immigrazione verso l’Italia attraverso il Mediterraneo», insieme alle «fragili finanze pubbliche del paese», letteralente devastato dall’euro-austerity. «L’attuale gestione della crisi migratoria in Italia – aggiunge la Goldman – sarà inoltre un punto centrale durante le prossime elezioni politiche di maggio, soprattutto per il suo ruolo determinante sul sostegno di cui godono i partiti populisti di opposizione». La banca ribadisce il classico vecchio dogma per cui «l’arrivo di migranti in Italia potrebbe apportare benefici economici nel lungo periodo», compensando il declino demografico (nel 2017 la popolazione italiana si è ridotta per il secondo anno consecutivo), ma non può esimersi dal riconoscere che «per poter sfruttare tali benefici è necessaria un’efficace integrazione economica e sociale». Precondizione abbastanza improbabile, perché «le analisi evidenziano dubbi circa la capacità dell’Italia di raggiungere questo risultato e suggeriscono piuttosto l’approssimarsi di una “tempesta perfetta” all’orizzonte».L’Italia scoppia: non può reggere la pressione dei migranti. E ormai, chiusa la rotta balcanica grazie all’accordo tra Germania e Turchia, che ha bloccato il flusso dei profughi dal Medio Oriente, è l’Italia ad accogliere la stragrande maggioranza di persone, per lo più provenienti dal Nordafrica, via Libia. Nel 2017 sono finora stati quasi 200.000, ma il loro numero continua a salire vertiginosamente. E l’Italia, lasciata sola dall’Unione Europea, è il paese più fragile e meno adatto a reggere l’urto. Lo afferma nientemeno che la Goldman Sachs, preoccupata che la situazione possa condizionare le elezioni politiche del maggio 2018. Lo riferisce “Zero Hedge”, in un post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Il Belpaese, secondo la grande banca speculativa di Wall Street, è in crisi economica e sociale, nonché alle prese con politiche inefficaci. Come la Spagna e l’Ungheria, afferma la Goldman, l’Italia ha un altissimo tasso di disoccupazione, tale da tendere impossibile l’integrazione economica dei nuovi arrivati, verso i quali si starebbe intesificando una certa insofferenza sociale, anche a fronte delle politiche per l’immigrazione, giudicate inefficienti.
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L’overdose da Fentanyl stermina 91 americani ogni giorno
E’ ormai la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni, quindi in età produttiva: 91 americani muoiono ogni giorno per overdose da Fentanyl, un oppioide sintetico, antidolorifico, che crea forte dipendenza. La chiamano “opioid epidemic”: 52.000 morti nel 2015, 59.000 nel 2016 (più 19%), già oltre 60.000 ad agosto 2017; saranno almeno 65.000 a fine anno. Aumenti spaventosi. Gli Stati Uniti sono il paese con più morti per overdose del mondo per milione di abitante e lo sono per un differenziale enorme: 245,8 morti ogni milione all’anno contro i 26,4 per milione in Europa, dati del 2015, quindi 10 volte di più. A morire per overdose non sono tanto i neri o gli ispanici, sono soprattutto i bianchi, e soprattutto i maschi bianchi. Un coroner della Pennsylvania occidentale lamenta: ogni notte mi arrivano anche 13 corpi, non so più dove metterli; è come una peste. In vari Stati i poliziotti sono stati forniti di Naloxone, un farmaco d’emergenza: se trovano un morente per overdose, l’iniezione può salvarlo, ma ovviamente non fa nulla per ridurre il tasso di dipendenza. Lo Stato dell’Ohio ha querelato cinque farmaceutiche che fabbricano e producono il Fentanyl, per “favoreggiamento dell’epidemia”.Incredibilmente, il Fentanyl viene prescritto dai medici, appunto come antidolorifico – almeno all’inizio. Poi i pazienti cominciano a comprarlo illegalmente. Ci sarebbe anzitutto da chiedere: per quali mai dolori gli americani si rivolgono al medico, se il medico trova normale prescrivere un “antidolorifico” oppioide sintetico «che è 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più potente della morfina»? Quali dolori – se non quelli incoercibili del cancro terminale – richiedono un tale palliativo? Oppure si tratta della necessità di “funzionare” sul lavoro anche se si soffre per un qualunque dolore perché non ci si può assentare? E poi: sono dolori fisici, quelli che gli americani maschi bianchi vogliono soffocare con la prescrizione, o dolori spirituali a cui non sanno dare un nome? Anche il male sociale è stato privatizzato. Te lo curi da te. Il sito “Governing.com”, notiziario di tutti gli enti locali, osa un’altra diagnosi: «Non è come le passate crisi per droga, come quelle del crack o delle meta-anfetamine, non è la comparsa di una nuova classe di droghe che creano dipendenza a far morire ogni giorno 91 americani. Questa crisi degli oppiacei è una crisi del lavoro; è una crisi di affitti accessibili per le case. Le stesse forze che hanno rimodellato l’economia nel decennio scorso, hanno lasciato il vuoto riempito, in certe zone, dagli oppioidi».E aggiunge: «Uno studio dell’Università di Pennsylvania dopo le elezioni presidenziali dello scorso novembre ha scoperto che il presidente Trump ha preso enormemente più voti del previsto in quelle province (contee) che registrano il più alto tasso di “morti da disperazione”, ossia suicidi, overdosi di droga o da alcolismo. Ciò mostra che molti americani si sentono lasciati indietro dall’economia che cambia, e non credono più che il quadro politico attuale li sta aiutando». Dunque sono i bianchi maschi, in età da lavoro, che devono “funzionare” anche se malati per non essere licenziati; gente che votava democratico, spesso, che invece ha votato l’uomo nuovo che ha promesso, o anche solo dato l’impressione, di avere a cuore la loro tragedia? Forse i dolori che accusano questi bianchi non vengono dal corpo, né propriamente dallo spirito – ma vengono da una malattia sociale cui non sono più abituati a dare il senso giusto: ossia politico e collettivo, e che reinterpretano come un dolore privato, da “superare” e da “ingoiare”?Ho già accennato – troppo in breve – a un altro studio di due università, la Boston University – Department of Political Science – e la University of Minnesota Law School, sul rovesciamento del voto in circoscrizioni tradizionalmente democratiche, che hanno rifiutato Hillary Clinton e votato invece per Trump: sono quelle dove un numero maggiore di soldati, giovani che avevano “servito la patria” nei 15 anni di guerre americane, sono tornati nelle bare, o vivi e mutilati, o invalidi psichici. Per lo studio, tre Stati chiave per la vittoria di Donald (Pennsylvania, Michigan e Wisconsin) avrebbero dato la vittoria a Hillary se i vicini non avessero visto tante famiglie in lutto o con un invalido di guerra in casa. «Trump ha parlato a questa parte dimenticata dell’America». L’America dimenticata che sta elevando una silenziosa protesta per il costo umano che sta subendo per sostenere i 15 anni di guerre insensate non solo politicamente, ma eticamente (sono infatti, sappiamo, “guerre per Israele”). Il tasso immane di suicidi fra i soldati americani, da otto anni in crescita, è leggibile come l’estrema protesta silenziosa e impotente di un popolo per quello che lo costringono a fare?Nella fanteria, la più colpita, si toccano 29,9 suicidi per 100.000 persone, oltre il doppio della popolazione generale (12,6 per 100.000). Punte di un suicidio ogni 2,2 giorni. Si uccidono molto gli appena arruolati, anche prima di essere dispiegati in territorio nemico; ma moltissimo i congedati: «Venti reduci ogni giorno muoiono per suicidio», dice un rapporto ufficiale della Veteran Authority del 2016. Sulle cause, silenzio. Jason Roncoroni, un tenente colonnello che ha fondato una associazione di prevenzione del suicidio, tocca l’argomento tabù: «Attribuisce il tasso fra i militari al sentimento, fra loro, che le guerre americane non finiranno mai, e l’aspettativa di missioni future senza fine. Abbiamo sfumato la linea tra il tempo di guerra e il tempo di pace». Già: il tasso di suicidi s’è alzato dai primi anni 2000, inizio delle guerre “al terrorismo” (11 Settembre 2001), e non è mai calato. Anche, qui, sono i maschi bianchi a suicidarsi di più: i bianchi compongono poco più della metà dei soldati in servizio, ma i suicidi fra loro sono 7 su 10.Si piega sotto il fardello dell’uomo bianco, l’americano qualunque; l’uomo bianco che deve “funzionare”, e proprio per questo l’hanno caricato con un fardello che ormai lo schiaccia. E lui, sotto, incapace di sollevarlo, ci si uccide. Fatto istruttivo, solo l’armata israeliana ha tassi di suicidi paragonabili. Aggiungiamoci i 500 omicidi l’anno nella sola città di Chicago, in cui sono coinvolti soprattutto negri, quasi due al giorno, e in continuo aumento. Nell’insieme è l’immagine di una popolazione che si autodistrugge, che si devasta. O che viene devastata dalla “economia che cambia” e “li lascia indietro”, con paghe sempre minori ed affitti da pagare, e la coscienza della propria inutilità. E’ il capitalismo terminale, quello che fa profitti non più producendo merci ma producendo bolle finanziarie, che nella sua perfezione ideologica applicata persegue la massima efficienza come la intende: pagare il meno possibile il lavoro, precarizzarlo, sostituirlo con robot a tappe forzate, per retribuire al massimo il capitale finanziario.Tale “efficienza” porta l’effetto paradossale e opposto, che le imprese industriali rimaste in Usa fanno fatica a trovare lavoratori qualificati che non siano resi inservibili dall’oppioide. L’allarme è stato lanciato non da organizzazioni sociali, ma dalla stessa Federal Reserve. Le Fed di St. Louis ha denunciato l’introvabilità di lavoratori non drogati, e quindi improduttivi, in un “Libro Beige” diffuso il 12 luglio. La stessa Janet Yellen, la governatrice della Federal Reserve, ha spiegato in un’audizione al Senato che «gli oppioidi erano una delle cause del crollo della forza-lavoro», insieme beninteso ai robot e alle delocalizzazioni. Un crollo inaudito dalla «partecipazione alla forza lavoro», ossia delle persone che si offrono di lavorare. «Oggi, il 15% degli uomini fra i 25 e i 54 sono inspiegabilmente spariti dalla forza-lavoro – ossia uno ogni sette – nonostante il tasso di disoccupazione sia calato». Sono drogati che non riescono più a “funzionare”. La Yellen ha aggiunto di non capire e non sapere se «un così diffuso abuso di oppiacei sia la causa, o invece il sintomo di “malattie di lunga durata” di questi lavoratori».(Maurizio Blondet, estratto dal post “Usa, la nuova peste stermina l’uomo bianco, ormai superfluo”, pubblicato sul blog di Blondet il 16 agosto 2017).E’ ormai la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni, quindi in età produttiva: 91 americani muoiono ogni giorno per overdose da Fentanyl, un oppioide sintetico, antidolorifico, che crea forte dipendenza. La chiamano “opioid epidemic”: 52.000 morti nel 2015, 59.000 nel 2016 (più 19%), già oltre 60.000 ad agosto 2017; saranno almeno 65.000 a fine anno. Aumenti spaventosi. Gli Stati Uniti sono il paese con più morti per overdose del mondo per milione di abitante e lo sono per un differenziale enorme: 245,8 morti ogni milione all’anno contro i 26,4 per milione in Europa, dati del 2015, quindi 10 volte di più. A morire per overdose non sono tanto i neri o gli ispanici, sono soprattutto i bianchi, e soprattutto i maschi bianchi. Un coroner della Pennsylvania occidentale lamenta: ogni notte mi arrivano anche 13 corpi, non so più dove metterli; è come una peste. In vari Stati i poliziotti sono stati forniti di Naloxone, un farmaco d’emergenza: se trovano un morente per overdose, l’iniezione può salvarlo, ma ovviamente non fa nulla per ridurre il tasso di dipendenza. Lo Stato dell’Ohio ha querelato cinque farmaceutiche che fabbricano e producono il Fentanyl, per “favoreggiamento dell’epidemia”.
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Se il popolo di Vasco marciasse contro il governo zootecnico
Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».Bisognerebbe «gridare che le mitiche speranze dell’europeismo sono state tradite», e che «nel mondo reale, il liberismo di mercato non ha gli effetti promessi dal modello ideale, ossia che il mercato non è “libero” ma gestito da cartelli: non tende a evitare o assorbire le crisi, ma le genera e amplifica», onde «non a distribuire le risorse, ma concentrarle in mano a pochi monopolisti». E’ un sistema che «dissolve la società invece di renderla più efficiente», anzi «dissolve l’idea stessa dell’uomo», scrive Della Luna. «Se i giovani per una volta dormissero all’addiaccio, pagassero i trasporti verso Roma, si comportassero per qualche giorno da soldati politici – dice Blondet nel suo blog – farebbero paura al governo che ci è stato imposto dalla Banca Centrale e da Bruxelles, ai parlamentari che dipendono dalle lobbies e comitati d’affari, e che hanno svenduto l’Italia, le sue industrie e la sua sovranità agli interessi stranieri». Della Luna, annota Blondet, è stato «il primo in Italia ad avvertirci che il capitalismo terminale globale fa soldi non più producendo merci ma bolle finanziarie per poi farle scoppiare: non ha più bisogno di lavoratori, produttori, operai, eserciti di massa – né quindi di mantenere sani, efficienti, istruiti, men che meno prosperi e soddisfatti i popoli». Non servono più, i popoli, e neppure i consumatori (risale infatti al 2010 il suo saggio “Oligarchie per popoli superflui”).In questo nuovo saggio, Della Luna ci avverte che il sistema è entrato in una fase ulteriore e più letale, anti-umana. Ormai persino il profitto finanziario «ha perso importanza, sia come scopo che come mezzo». Basta ricordare «le migliaia di miliardi che le banche centrali (appartenenti alla finanza privata) creano dal nulla per mantenere a galla il sistema, mettendoli a disposizione di chi comanda in misura illimitata». E il denaro creato dal nulla «genera un flusso di cassa positivo, ossia un reddito, che la banca incassa, ma su cui non paga le tasse», perché a pagare sono i contribuenti. Della Luna giunge a preconizzare perfino «il tramonto della finanza», inteso come «sistema di dominio della società». Un tramonto che però non coinciderà con la nostra liberazione: è già in arrivo «il dominio diretto e materiale sulla società», attraverso la «gestione coercitiva del demos, potente e unilaterale, e insieme non responsabile delle scelte verso i suoi amministrati». Questo nuovo potere, «non diversamente dalla zootecnia», non è responsabile verso gli animali che “alleva”, cioè noi. Governo zootecnico: «L’allevamento-condizionamento di masse umane per l’utilità degli allevatori». Già lo fanno per via mediatica, «restringendo e omogeneizzando le rappresentazioni che gli umani hanno della realtà».Di fatto, continua Della Luna, stanno già «tabuizzando e psichiatrizzando il dissenso e la contro-informazione», fino a renderla penalmente perseguibile. Lo fanno con “la Buona Scuola”, l’attuale sistema educativo congegnato in modo da non sviluppare facoltà cognitive, né l’attenzione sostenuta, né la capacità di auto-dominio: è il metodo perfetto per «produrre persone deboli, dipendenti, condizionabili, incapaci di opporsi». Non si tratta di risultati fallimentari e ideologie erronee. Al contrario, dice Della Luna: sono effetti perseguiti deliberatamente per «semplificare» l’uomo, standardizzandolo in vista dell’allevamento zootecnico. «Impressionante – aggiunge Blondet – è l’esempio che fa della scomparsa della borghesia produttiva, culturalmente vivace e reattiva, rovinata dalle crisi deflattive continue e dal fisco rapacissimo». Non è un caso malaugurato. E’ che «la piramide sociale va interrotta lasciando uno spazio vuoto sotto il suo apice», il famigerato 1% che concentra l’80% delle ricchezze, «così che l’apice sia al sicuro dalle scalate (mobilità verticale) e dagli attacchi delle classi intermedie erudite».L’obiettivo del vertice è «realizzare tra l’oligarchia e i popoli la medesima distanza e differenziazione qualitativa che c’è tra l’allevatore e gli animali allevati», secondo il modello zootecnico. «Nella chiave del governo zootecnico – scrive Blondet – diventano perfettamente spiegabili la plurivaccinazione obbligatoria dei cuccioli», cioè bambini. Se fossimo cittadini, e non polli d’allevamento, dovremmo rifiutare «la potestà giuridica di immettere nel corpo della gente sostanze attive», fra cui quelle basate su nanotecnologie e biotecnologie, «e molte di esse coperte da segreto militare o commerciale», rileva Della Luna. Sempre nella prospettiva dell’allevamento zootecnico acquista senso anche «il dogma dell’accoglienza e della mescolanza dei popoli», imposto come «evidente, dimostrato», presentando chi li contraddice come «irragionevole, malintenzionato, pericoloso, immorale». La verità è che, oltre ad essere in Italia un business, il «circuito dell’affarismo parassitario» che succhia denaro pubblico, il “dogma” pro-migranti «ha perfettamente senso dal punto di vista dell’allevatore: la trasformazione dall’alto del popolo, il popolo-bestiame, imponendo l’immigrazione sostitutiva delle popolazioni nazionali» nello stesso modo in cui l’allevatore inserisce nella stalla nuovi tori e nuove fattrici, per “migliorare la razza”.L’immigrazione caotica è anti-economica, diminuisce l’efficienza della società e costa moltissimo? Infatti, conferma l’autore: ciò dimostra che «la comprensione economicistica del divenire attuale è palesemente scavalcata». Quando la casta politica-amministrativa «lascia senza tetto e senza cibo i cittadini italiani mentre alloggia gli immigrati in alberghi a tre e quattro stelle», scrive Della Luna, quel che attua è «l’annullamento programmatico del concetto di cittadino come titolare di diritti specifici verso la sua polis», cioè «l’annullamento del “demos”, ossia del “popolo” come entità politica, padrona collettivamente delle proprie scelte». Un modello che «non implica affatto pace, sicurezza, efficienza per le popolazioni, esattamente come non le implica il modello zootecnico». Per gli allevatori, gli animali allevati «sono solo fonte di utilità; non hanno diritti né dignità riconosciuta». Dalla robotizzazione dell’industria all’elemosina elettorale degli 80 euro di Renzi: «La mancanza di redditi e servizi sicuri, la dipendenza da interventi anno per anno, rende queste masse sempre più passive, remissive», dunque «politicamente inattive». Ecco lo scopo.Se infatti il “capitalismo finanziario terminale” tende a «togliere alla gente tutto il reddito e tutti i risparmi disponibili», facendo passare a tutti la voglia di pagare le tasse, “lorsignori” sanno come scongiurare la possibile rivolta: «Contrariamente a quel che fa credere la narrativa hollywoodiana – scrive Blondet – le rivoluzioni non le fanno gli affamati», in coda alle mense della Caritas, ma «le classi emergenti nella prosperità», pronte a reclamare diritti politici. «Quelli con la pancia vuota sono passivi e remissivi, aspettano il bonus da 80 euro; i giovani passano da un precariato all’altro e non avranno mai una pensione sufficiente a farli sopravvivere: dunque pietiranno dallo Stato interventi, che saranno anno per anno, incerti, caritativi». Siamo ormai al “precariato ontologico”, lo stato nel quale puntano a ridurci come condizione naturale. La precarietà «assunta a paradigma normativo» ormai è la condizione standard dei giovani: uno “stipendio” da 450 euro al mese o, in alternativa, l’emigrazione in Nord Europa. «Siete già precari ontologici?», conclude Blondet, rivolgendosi ai giovani. «Per Vasco l’avete fatta, la marcia su Modena. Ne rifarete un’altra per rifiutare il governo zootecnico?».Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».
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Crisi economica, i neurologi: la povertà ci cambia il cervello
Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica? Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard. Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”. Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EmPath), una no-profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova. Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale? A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.Essa lavora in concerto col sistema limbico (parte più “antica” del cervello), che si trova nella parte centrale dell’encefalo, precisamente nel tronco encefalico. Il sistema limbico si occupa del processamento dei segnali emotivi e dell’elaborazione delle risposte emotive, in parte per via del suo collegamento con la memoria a lungo termine. Un ampio corpus di ricerche, dopo aver analizzato il cervello tanto di adulti quanto di bambini che vivono in condizioni di povertà, ha evidenziato che «quando una persona vive a lungo in condizioni di povertà, dal sistema limbico partono costantemente messaggi di paura e di stress che poi vengono inviati alla corteccia prefrontale. Quest’ultima influenzerebbe la capacità di un individuo di risolvere problemi, raggiungere obiettivi e fronteggiare le situazioni della vita quotidiana e varie richieste ambientali nei modo più efficaci possibili». E’ vero che questo può succedere a chiunque ad un certo punto della propria vita, indipendentemente dalla classe sociale. E’ vero però anche che le persone in condizione di povertà rischiano di essere “abituate” a dover fronteggiare uno stress continuo e duraturo nel tempo.Questo può generare condizioni di “strain” (stress negativo) che più facilmente possono portare a modi di agire e re-agire alle richieste ambientali disadattivi e disfunzionali. Lo stress, inoltre, sarebbe spesso acutizzato dal dover combattere contro i pregiudizi della società nei confronti di chi è più povero. La scienza è chiara su questo: l’energia cerebrale utilizzata per far fronte alle paure e agli “stressors” di tutti i giorni, riferiti al soddisfacimento dei bisogni primari (sbarcare il lunario, vestirsi, potersi permettere un’istruzione, ecc…), viene completamente “assorbita” da queste impellenze e diventa inefficiente e non utilizzabile per cambiamenti di prospettiva, di valutazione delle situazioni e di se stessi in relazione ad esse. Ne risentono inoltre l’immagine di sé, l’autostima e l’autoefficacia, oltre che le abilità di problem solving e di “insight”.Elisabeth Babcock, presidente dell’EmPath, sostiene che, in questo modo, le persone in povertà tenderebbero a divenire vittime, col tempo, di un vero e proprio “circolo vizioso” che si auto-rinforzerebbe (come un serpente che si morde la coda) basandosi sull’idea per la quale le persone povere non possono cambiare e migliorare le proprie condizioni di vita. Lo studio più recente, in merito, afferma che questo meccanismo passa dall’essere un evento occasionale che inibisce temporaneamente alcune facoltà intellettive al diventare una routine che trasforma il cervello dei soggetti interessati. È possibile interrompere questa spirale negativa che si auto-alimenta? La risposta è: sì! E’ stata spiegata da Atlantic Al Race, condirettore del Centro di sviluppo del bambino dell’Università di Harvard: «È vero che gli stress e i rischi costanti cui la povertà espone cambiano il cervello delle persone. Ma è vero anche che le sezioni cerebrali interessate dal fenomeno preso in esame si caratterizzano per essere particolarmente “plastiche”, cioè possono essere rafforzate e ri-sviluppate in modo positivo anche nell’età adulta».Facendo leva sulla plasticità neurale, la funzione di “rigenerazione” e “riorganizzazione” dei circuiti neurali del cervello, presente anche in età adulta, gli studiosi hanno rilevato che questi modi appresi e disadattivi di immagine di sé, problem solving e task execution che col tempo hanno trasformato il cervello, possano essere ri-costruiti e “corretti” tramite tecniche di psicoterapia rivolte a singoli adulti, minori e ad interi nuclei familiari. Ha detto Elisabeth Babcock: «Il segreto per rompere il meccanismo è aiutare queste persone a portare a termine anche un solo obiettivo che non credevano di poter raggiungere». Gli stessi autori della ricerca infatti spiegano che questa spirale può essere rappresentata metaforicamente come «un ponte in cui basta far venire giù un pilastro per fare cadere l’intera struttura». Si potrebbe concludere che le capacità che abbiamo di ri-generazione e cambiamento sono infinite, e queste sono date dalla complessità che ci caratterizza. La stessa complessità che ci porta a cadere in spirali negative, è la stessa che ci porta a rialzarci e guardare con “nuovi occhi” noi stessi e il mondo.(Carlotta Cadoni, “Crisi economica e neuroscienze: come la povertà cambia il cervello”, dal blog “Il Sapere” dell’8 luglio 2017).Quali sono gli effetti sul nostro cervello del vivere in particolari condizioni di povertà socio-economica? Ci dà risposta una recente ricerca condotta dall’università di Harvard. Sembra proprio che lo stress prolungato scaturito da problemi economici interferisca col nostro “circuito decisionale”. Una recente ricerca americana, commissionata da Economic Mobility Pathways (EmPath), una no-profit di Boston che dal 2006 lavora nella promozione di strumenti sociali contro la povertà, mette in luce un collegamento diretto tra meccanismi neuronali che coinvolgono sistema limbico e corteccia prefrontale e alcune contingenze pratiche della vita, come le condizioni socio-economiche in cui ci si trova. Di cosa sono responsabili il sistema limbico e la corteccia prefrontale? A grandi linee, si può dire che la corteccia prefrontale (parte più “recente” del cervello) medi e sia responsabile delle capacità di problem-solving, goal-setting e task execution; presiede quindi alla pianificazione dei comportamenti, alla capacità di prendere decisioni ed eseguirle e, secondo molti studiosi, anche all’espressione della personalità.
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Brancaccio: il liberismo razzia lo Stato e la sinistra applaude
Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.Potremmo dire che in questa fase, più che in passato, lo Stato è “ancella” del capitale privato, nel senso che asseconda i movimenti speculativi dei grandi proprietari, li soccorre quando necessario e ne assorbe le perdite. Questo ruolo dell’apparato pubblico è ormai apertamente riconosciuto ai massimi livelli del capitalismo mondiale, proprio per garantire la ripresa e la stabilizzazione dei profitti dopo la “grande recessione” del 2008. Nella grande maggioranza dei casi l’intervento dello Stato a favore dei capitali privati implica aumenti significativi del debito pubblico. In prospettiva si tratterà di capire se tali aumenti saranno fronteggiati tramite nuovi tagli al welfare oppure attraverso una stagione di “repressione finanziaria”, in cui il debito viene ridotto a colpi di controlli sui capitali e crescita dei redditi monetari e dell’inflazione rispetto ai tassi d’interesse. La scelta tra l’una e l’altra opzione sarà un bivio politico decisivo per i prossimi anni.Gli economisti liberisti continuano a sostenere che lo Stato rappresenta una zavorra, per il capitale privato? Poi però si affrettano a invocare il salvataggio pubblico quando qualche banca privata fallisce, e a ben guardare non si scandalizzano nemmeno quando lo Stato compra a prezzi alti e poi rivende a prezzi bassi qualche spezzone di capitale industriale. Il divario fra le loro teorie e le loro ricette si fa sempre più ampio. L’impresa pubblica può perseguire obiettivi di carattere sistemico, che sfuggono alla ristretta logica capitalistica del profitto. Inoltre, anche adottando criteri di valutazione puramente capitalistici, l’impresa pubblica si rivela più efficiente di quanto si immagini. Da una recente ricerca dell’Ocse effettuata sulle prime 2.000 aziende della classifica mondiale di “Forbes”, si evince che le imprese a partecipazione statale presentano un rapporto tra utili e ricavi significativamente maggiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. L’Italia non si discosta molto da queste medie internazionali.Bisognerebbe ricordare che al momento della privatizzazione dell’Iri, molti settori della holding pubblica segnavano ampi attivi, e che nel 1992 le perdite aggregate non si discostavano molto dalle perdite che all’epoca registrava la maggior parte dei gruppi privati italiani.Sono ancora molti i miti liberisti da sfatare, specialmente in Italia. Corbyn in Gran Bretagna e Mélenchon in Francia? Tra le macerie del vecchio socialismo filo-liberista qualcosa lentamente si muove. Ma la nuova concezione dell’intervento pubblico che queste forze emergenti propongono richiederebbe cambiamenti macroeconomici imponenti, tra cui una messa in discussione della centralità del mercato azionario e della connessa libertà dei movimenti di capitale. Mi sembrano propositi molto ambiziosi per movimenti politici ancora incerti, fragili, ai primissimi vagiti. Certo, sono trainati da una nuova generazione di elettori, costituita da giovani lavoratori e studenti. Questa è una delle novità più promettenti della fase attuale. I giovani elettori che istintivamente muovono verso sinistra non esprimono un mero voto d’opinione. La loro scelta sembra piuttosto la risultante di un profondo mutamento dei rapporti di produzione, fatto di deregolamentazioni e precarietà, che negli ultimi anni ha inasprito le disuguaglianze di classe.Questi giovani sperimentano presto lo sfruttamento, crescono già disillusi e sembrano quindi vaccinati contro le vecchie favole dell’individualismo liberista. Tuttavia, organizzare una tale massa di disincantati intorno a un progetto di progresso e di emancipazione sociale non è un’impresa facile. Nell’attuale deserto politico e culturale, la loro rabbia può sfociare facilmente a destra. Che fa la sinistra in Italia? Sembra immobile. Una estenuante, ipertrofica discussione sui contenitori politici che ripropone schemi di un ventennio fa, come se nulla fosse accaduto nel frattempo. E poi, quando provi ad aprire quelle scatole ti ritrovi in un limbo, un oscuro mondo in cui nulla è chiaro. Nel Pd ho sentito esponenti politici di vertice affrettarsi a dichiarare la loro appartenenza alla famiglia liberale e la loro distanza dalle “sirene neo-stataliste” provenienti dalla Gran Bretagna. Ne ho sentiti altri sostenere che le elezioni vanno il più possibile rinviate per evitare che i mercati si “innervosiscano” e lo spread aumenti di nuovo.Soprattutto, ho assistito a un maldestro balletto sui temi cruciali del diritto del lavoro, che dovrebbero situarsi al vertice di qualsiasi proposta politica di sinistra e intorno ai quali, invece, prevalgono la confusione e i miopi tatticismi. A sinistra del Pd noto ancora molta subalternità culturale ai vecchi slogan del liberismo, sebbene la realtà si rivolti da tempo contro di essi.(Emiliano Brancaccio, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il capitalismo cambia, la sinistra è in ritardo”, pubblicata su “Micromega” il 3 luglio 2017).Siamo giunti ad un sistema che alla luce del sole privatizza i profitti e socializza le perdite. I dati indicano che a livello mondiale, soprattutto in Occidente, dopo la recessione del 2008 si è registrata una quantità enorme di acquisti statali di partecipazioni azionarie in banche e imprese, per un valore addirittura superiore alle vendite di Stato che erano state realizzate nel decennio antecedente alla crisi. E’ un’inversione di tendenza che segna una cesura rispetto all’epoca delle privatizzazioni di massa. Siamo all’inizio di una nuova fase storica. Un tempo lo Stato acquisiva i mezzi di produzione per finalità strategiche di lungo periodo, talvolta anche in aperta competizione con il capitale privato. Oggi questo tipo di acquisizioni pure si verifica, ma è un fenomeno minoritario. La maggior parte degli interventi statali odierni rivela un livello senza precedenti di subalternità agli interessi privati dei principali operatori sul mercato azionario. Lo Stato infatti compra a prezzi più alti dei valori di mercato, assorbe le parti “malate” del capitale e poi rivende le parti “sane” prima di una nuova ascesa dei prezzi, in modo da sgravare i privati dalle perdite e predisporli a ulteriori guadagni.
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Cremaschi: stanno svendendo l’Italia al miglior offerente
Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?Questa cifra non viene mai fornita ad una opinione pubblica martellata dalla campagna a favore delle svendite. Svendite come quella delle acciaierie di Piombino, che dopo una lunga trafila di fallimenti imprenditoriali, da Lucchini ai magnati russi, sono state regalate ad un imprenditore algerino che non si è mai fatto vedere. Quella che oggi è l’Ilva è stata regalata alla famiglia Riva dal governo e dall’Iri di Prodi. I Riva hanno accumulato per anni miliardi, poi sono crollati sotto il peso della crisi e dei danni ambientali. Lo Stato da allora finanzia l’azienda a fondo perduto, in attesa di svenderla a qualche multinazionale che saccheggerà ciò che è rimasto, farà un’ecatombe di licenziamenti e lascerà tutti i danni ambientali a carico della comunità e della spesa pubblica. Mentre fallivano in Ilva, i Riva venivano chiamati da Berlusconi a salvare l’Alitalia, assieme a Colaninno, Marcegaglia, Montezemolo e tanti altri bei nomi, tutti coordinati da Passera allora a capo di Banca Intesa. Tutta la crema della imprenditorialità e della finanza italiana ha mostrato il suo reale valore nella gestione della compagnia aerea. E il fallimento è stato totale, come quello del quotidiano che ufficialmente la rappresenta, il “Sole 24 Ore”.Le poche grandi privatizzazioni che, per ora, non sono fallite hanno consegnato le eccellenze del sistema produttivo italiano, dalla Telecom all’Ansaldo, alle multinazionali. Multinazionali a cui si affidano le aziende private medie, non appena i loro vecchi titolari pensino al futuro, Luxottica insegna. La Fiat della famiglia Agnelli è un’azienda americana con sede legale in Olanda, mentre l’Olivetti non esiste più, è stata sacrificata da De Benedetti per realizzare l’Omnitel, che oggi appartiene alla Vodafone. Le banche, che in gran parte erano pubbliche, o sono già in possesso o sono in attesa di un compratore estero, partner si dice nel mondo bene. Quel sistema industriale e finanziario che era stato in grado di collocare il nostro paese tra quelli più sviluppati, e che si reggeva proprio per il peso ed il ruolo del sistema pubblico, è stato smantellato e svenduto pezzo dopo pezzo. E dopo il fallimento indecoroso della classe imprenditoriale italiana, quel sistema è ora terreno di caccia per tutti i venditori di Colosseo che parlino inglese.Il vice di Renzi, Martina, ha sfacciatamente confessato che il governo non può nazionalizzare Alitalia, altrimenti dovrebbe fare altrettanto con tutte le aziende che dovessero chiudere. Che evidentemente sono tante per l’ingenuo ministro, che smentisce in tal modo l’ottimismo ufficiale del palazzo. Così, grazie alla fermezza autolesionista del governo, Lufthansa può far sapere di non essere interessata alla nostra compagnia aerea: deve solo aspettare la catastrofe finale dell’azienda e poi raccoglierne gratis i cocci. Lo stesso faranno le multinazionali dell’acciaio interessate all’Ilva: anch’esse devono solo attendere il disastro. Le privatizzazioni sono solo svendita di beni di tutti, una svendita pagata coi soldi di tutti. Non c’è nulla di più falso e in malafede che affermare che lo Stato non può più spendere i soldi dei cittadini per finanziare aziende in crisi. Perché la realtà dimostra che regalare le aziende pubbliche ai privati alla fine costa molto di più. Costa di più sul piano produttivo perché le aziende vanno peggio. Costa di più sul piano sociale per i nuovi disoccupati che si aggiungono ai tanti altri già esistenti. E costa di più perché il conto, per la spesa pubblica che deve riparare ai guasti del privato, è più alto oggi di quando le aziende erano in mano pubblica. Se l’amministratore di un condominio ruba si caccia lui, ma non si butta giù la casa. Le privatizzazioni han buttato giù la casa.Gli articoli 41e 42 della nostra Costituzione hanno definito i vincoli a cui sono sottoposte la proprietà e l’iniziativa privata e gli spazi riservato all’intervento pubblico. Decenni di politiche liberiste sotto dettatura della Unione Europea hanno rovesciato nel loro opposto questi e tanti altri articoli della nostra Carta. Il privato deve avere tutto e il pubblico lo deve finanziare a fondo perduto. Si regalano 20 miliardi alle banche perché i loro futuri acquirenti non trovino troppe sofferenze, se ne sono versati altri 60 in sede europea per lo stesso scopo. Gentiloni promette a Trump di pagare la bolletta Nato, ma salvare Alitalia, Ilva, Piombino non si può, lì o ci pensa il mercato o si chiude. L’ideologia liberista è già insopportabile in sé, quando poi diventa la giustificazione per lo spreco dei soldi pubblici e per la distruzione del patrimonio industriale diventa un costo insostenibile. Dobbiamo ringraziare i lavoratori Alitalia che con il loro No hanno respinto l’ennesimo regalo ai privati, questa volta concesso agli sceicchi di Etihad, che non sono certo privi di mezzi propri. La nazionalizzazione di Alitalia, dell’Ilva, delle altre aziende strategiche in crisi è la sola via realistica per sottrarsi ai danni dell’incapacità imprenditoriale nazionale e della rapina multinazionale. Il resto è solo servilismo verso i poteri e gli interessi che vogliono il nostro paese in vendita. Low cost.(Giorgio Cremaschi, “Nazionalizzare o svendere, l’economia italiana in mano ai migliori offerenti”, dall’“Huffington Post” del 28 aprile 2017).Se l’amministratore di un’impresa privata decidesse di regalare beni aziendali e poi regalasse soldi a chi accettasse di appropriarsene, questo amministratore difficilmente riuscirebbe ad evitare il confronto col codice civile e penale. Invece i nostri governanti, amministratori dei beni di tutti, così si comportano con le nostre proprietà e con quelle altrui che finanziano. Per lo Stato, nell’economia debbono valere regole di svantaggio rispetto a qualsiasi grande azienda privata, così vuole l’Unione Europea e così i governanti che ad essa ubbidiscono. Ovviamente con la massima soddisfazione degli imprenditori privati, che si vedono regalate le aziende e che quando le mandano in malora possono fuggire e scaricare di nuovo tutto sullo Stato. Con quanti nostri soldi lo Stato italiano ha finanziato le privatizzazioni? Decine e decine, forse centinaia sono i miliardi spesi per privatizzare il patrimonio produttivo pubblico, nel nome della riduzione di un debito che non si è mai realizzata e di un maggiore efficienza mai ottenuta. Quanti miliardi sono stati regalati a imprenditori e multinazionali che poi hanno sfasciato le aziende?
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Cremaschi: il precariato è schiavismo, un inferno mafioso
A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.Può sembrare una piccola cosa dover cedere la propria patente al capo, di fronte alla quantità di vergognosi ricatti che subiscono i lavoratori e ancora di più le lavoratrici, a cui si può impunemente dire: o accetti o quella è la porta, dietro la quale c’è la fila di chi aspetta il tuo posto. Tuttavia sono le piccole sopraffazioni che a volte ci danno il segno e la portata di quelle più grandi, è la violenza della precarietà che colpisce i diritti e la stessa dignità delle sue vittime e assorbe il rapporto di lavoro in un ambiente di mafia. Immaginiamo poi quando la precarietà dura all’infinito, quando con i trucchi permessi dalla stessa legge si è precari a tempo indeterminato, cioè ogni anno si deve subire l’esame di lavoro per continuare ad essere sfruttati e vessati. E non solo nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico. Pochi giorni fa la Usb ha indetto lo sciopero dei precari pubblici e una manifestazione a Roma sotto il ministero, manifestazione ben riuscita nonostante gli ostacoli posti dalla polizia. Qui ho saputo da un lavoratore disperato che, nella pubblica amministrazione, ci sono persone precarie da più di venti anni, per una retribuzione mensile oggi giunta a ben 580 euro lordi.Il tribunale di Nola, in Campania, funziona grazie a questi precari più che ventennali, che mandano avanti tutte le attività di cancelleria. Come posso guardare crescere i miei figli negandogli una marea di cose, e subire anche l’umiliazione per cui ogni anno devo avere la conferma del contratto, altrimenti sono a casa? Che vita è questa? Così quel lavoratore ha concluso il suo racconto mentre la rabbia tratteneva le lacrime. Il governo ha appena suonato la fanfara per qualche decimale di disoccupazione in meno e Gentiloni ha esaltato le riforme del mercato del lavoro che avrebbero permesso questo clamoroso risultato. Per questo, dopo aver abolito i voucher per evitare il referendum, stanno pensando di sostituirli con il contratto a chiamata, quello per cui si deve essere sempre a disposizione gratuita dell’azienda, in attesa di essere convocati per poche e sottopagate ore di lavoro. La precarietà del lavoro marcia a tappe forzate verso lo schiavismo e le leggi che da trent’anni l’hanno autorizzata, incentivata, diffusa, hanno la stessa portata sociale e morale di quelle che nell’800 disciplinavano l’Asiento.Il mercato degli schiavi organizzato e pubblico che nelle Americhe veniva considerato un passo avanti rispetto a quello clandestino. Non si dice forse da trenta anni che le leggi sulla precarietà servono a far emergere il lavoro nero? Questo del resto sostengono tutte le istituzioni della Unione Europea, per le quali la merce lavoro non deve essere sottoposta a vincoli e controlli che ne impediscano la libera concorrenza. Se c’è disoccupazione è perché il lavoro costa troppo, bisogna che la concorrenza tra le persone ne abbassi il prezzo fino a che le imprese non trovino conveniente assumere. È la filosofia liberista della riduzione del costo del lavoro che dagli anni 80 ha ispirato tutte le leggi e tutti gli interventi sul mercato del lavoro delle istituzione europee e dei governi italiani. Negli anni ‘70 il contratto di assunzione era tempo indeterminato con l’articolo 18, salvo eccezioni che erano davvero tali. Il collocamento allora era pubblico e numerico, cioè le imprese dovevano assumere seguendo le liste pubbliche di chi cercava occupazione, non servivano curricula o partite di calcetto. E la pubblica amministrazione non era sottoposta ai vincoli massacranti del Fiscal Compact e ai conseguenti tagli al personale stabile, sostituito dall’appalto e dal lavoro precario.Poi, nel nome del mercato, della modernità, dell’Europa, questo sistema semplice, giusto e anche efficiente è stato metodicamente smantellato da tutti i governi senza distinzioni, con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. Ora il collocamento è un affare delle agenzie interinali, una volta vietate come caporalato, i rapporti di lavoro precari sono una quarantina e lo stesso contratto a tempo indeterminato è una finta, visto che grazie al Jobs Act i nuovi assunti possono essere licenziati in qualsiasi momento. E se un sindaco regolarizza i dipendenti del suo comune rischia di finire sotto processo. Ora si può essere assunti in Romania con paghe del posto e lavorare nel Trentino eludendo i contratti, grazie alla Unione Europea e alle sentenze della sua Corte di Giustizia nel nome della libertà di mercato. E le leggi securitarie, anti migranti e anti poveri, come la Bossi Fini e il decreto Minniti, sono una tecnologica riedizione delle misure contro il vagabondaggio degli albori del capitalismo, che avevano la funzione di imporre il lavoro forzato e semi-gratuito in fabbrica.È dilagato il precariato, ma contrariamente alle giustificazioni ufficiali la disoccupazione è esplosa e il lavoro nero continua a espandersi. I devastatori del diritto però non hanno fallito, perché alla fine hanno realizzato esattamente ciò che volevano, riportare le lavoratrici e i lavoratori nella condizione di soggezione degli schiavi. Il sistema di lavoro fondato sulla precarietà è prima di tutto una organizzazione violenta e criminale dello sfruttamento e della schiavizzazione delle persone. Non è più tempo di combatterlo solo nel nome delle convenienze economiche, ma in quello della libertà e dei diritti fondamentali della persona. E l’Unione Europea, i suoi governi e le loro regole di mercato vadano all’inferno.(Giorgio Cremaschi, “Oggi lo schiavismo si chiama precarietà”, da “Micromega” del 4 aprile 2017).A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.
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Errore medico: terza causa di morte, dopo cuore e cancro
«Ce ne siamo già occupati altre volte in passato: gli errori medici sono la terza causa di morte nel mondo occidentale, dopo le malattie cardiovascolari e il cancro». Quello che esce da un recente studio pubblicato dal “British Medical Journal” ha però dell’incredibile: l’errore medico non è incluso nei certificati medici e nelle statistiche riguardanti le cause di morte. «Questo significa una sola cosa: i numeri delle morti che noi tutti conosciamo sono sottostimati», afferma il nutrizionista Marcello Pamio, autore di svariati saggi sullo stretto rapporto fra alimentazione e salute. Morte provocata dal medico che sbaglia? «Le cause iatrogene potrebbero risalire il podio diventando la seconda o addirittura la prima causa di morte al mondo». Ovviamente i media tacciono, accusa Pamio: «Argomento tabù, gli sponsor sono sacri. Farmaci killer spietati? Assolutamente no, le droghe non si toccano, gli interessi economici sotterrano le morti che passano in secondo piano. Esattamente come i morti civili nelle guerre: danni collaterali. Oggi la realtà è la seguente: probabilmente i farmaci uccidono più delle guerre».A fare un po’ di luce sono due importanti ricercatori, Martin Makary e Michael Daniel, che hanno cercato di stimare il contributo dell’errore medico sul tasso di mortalità americano. L’oncologo Makary, in forza al prestigioso John Hopkins Hospital di Baltimora, nel Maryland, ha pubblicato studi sull’importanza della trasparenza nella sanità, ed è lo sviluppatore della “checklist” post-operatoria, precursore della “checklist” chirurgica istituita dall’Oms. Daniel è un suo allievo, specializzato nella ricerca per la sicurezza del paziente, anche in relazione all’analsi dell’efficienza del servizio sanitario. La loro ricerca risale al 2016 ed è stata pubblicata il 3 maggio scorso dalla prestigiosa rivista britannica. La lista annuale delle cause più comuni di morte negli Stati Uniti, spiega Pamio su “Disinformazione.it”, è stilata dal Cdc, il Centro di controllo e prevenzione delle malattie: è un elenco composto dai certificati di morte compilati da medici, agenzie funebri e medici legali. Uno dei maggiori limiti del certificato di morte è che fa affidamento al codice Icd, quello dell’assegnazione internazionale della classificazione delle patologie mortali. «Ciò che ne risulta è che le cause di morte non associate ad un codice Icd, come ad esempio fattori legati a errori dell’uomo o del sistema, non vengono menzionati», sottolinea Pamio.Dal Cdc sono comunque partiti i due ricercatori, che hanno analizzato la letteratura scientifica sugli errori medici, per identificare il loro “contributo” nella mortalità ai danni della popolazione negli Usa. L’errore medico? E’ stato definito «un atto inconsapevole», oppure «un processo che non raggiunge il risultato aspettato (errore di esecuzione)». O, ancora, un «errore di pianificazione» nella terapia, fino a «una deviazione del processo di cura». Il danno al paziente? «Può provenire da un errore medico a livello individuale o di sistema». Errare è umano, ovviamente. Ma, mentre molti sbagli non portano a conseguenze gravi, in altri casi invece una sola svista può bastare a determinare la morte dello sfortunato paziente. Pamio cita – tra i tantissimi – il caso di una giovane donna, inizialmente rimessa in sesto grazie a un delicato trapianto, ma poi morta (come appurato dall’autopsia) a causa di un ago che, durante un rilievo diagnostico profondo, le aveva lesionato il fegato. «Il certificato di morte riportò, però, che la causa del decesso era da ricondursi ad una patologia cardiovascolare della paziente». Quindi, il fatale errore medico “scomparve” dalle statistiche.Quanto è grande il problema? Negli Stati Uniti, spiega Pamio, la più comune fonte che riporta stime di decessi annuali causati da errori medici è un report datato 1999, «molto limitato e obsoleto», firmato dallo Iom, Istituto di Medicina. Il report descrive una media tra i 44.000 e i 98.000 decessi annuali. Le cifre però non si basano su una ricerca primaria condotta dall’istituto, ma su uno studio di pratica medica condotto ad Harvard nel lontano 1984, più uno secondo studio più recente, del 1992, condotto in Utah e in Colorado. Già nel 1993, Lucian Leape, un investigatore che si occupava dello studio di Harvard, pubblicò un articolo secondo il quale le stime riportate nel primo storico report erano troppo basse, sostenendo che il 78% anziché il 51% delle 180.000 morti “iatrogene” effettivamente riscontrate erano evitabili, senza contare poi che alcuni sostengono che tutte le morti causate dal medico siano evitabili. «Questa incidenza più elevata – aggiunge Pamio – è stata conseguentemente supportata da studi che affermano che il report Iom del 1999 ha sottostimato l’entità del problema». Un altro report del 2004, riguardante i decessi di pazienti ricoverati sempre negli Usa, stima che oltre mezzo milione di decessi (575.000) siano stati causati da errori medici tra il 2000 e il 2002, vale a dire circa 195.000 morti all’anno. Una conferma viene dal ministero statunitense della salute, che – basandosi su parziali rilevazioni d’archivio aggiornate solo fino al 2009 – arriva a contare 180.000 decessi, dovuti a errori medici, sempre in relazione a pazienti ricoverati in strutture ospedaliere.«Se questa media venisse applicata a tutte le ammissioni registrate negli ospedali statunitensi nel 2013 – ne deduce Marcello Pamio – il numero delle morti diventerebbe più di 400.000 all’anno, e cioè 4 volte maggiore alle morti stimate dallo Iom». Specialisti come Classes e Landrigan hanno cooperato a pubblicazioni riguardanti la sicurezza del paziente, scoprendo che lo 0,6% delle ammissioni ospedaliere nella Carolina del Nord, nell’arco di 6 anni (2002-2007), sono risultate letali a causa di eventi avversi: ed è stato stimato che il 63% fosse causato da errori medici. «Riportati ad una media nazionale, questi dati si traducono in 134.581 morti annuali di pazienti a causa di una scarsa cura». Da notare inoltre che nessuno di questi studi menziona le morti di pazienti curati esternamente, assistiti a casa o in ambulatori e cliniche private. «Noi – scrive Pamio – abbiamo calcolato una media di decessi causati da errori medici di 251.454 per anno, utilizzando gli studi sviluppati sul report dell’Iom del 1999, valutando anche le ammissioni ospedaliere registrate nel 2013 negli Stati Uniti», e restando ai soli pazienti ricoverati in ospedale.«Nonostante le nostre supposizioni fatte estrapolando dati di studi effettuati sul più ampio range di popolazione statunitense possibile – continua Pamio – emerge sempre di più la quasi totale assenza di dati nazionali evidenti e la conseguente necessità di una sistematica analisi di questo problema». Verificando le stime del Cdc, il centro clinico di controllo e prevenzione Usa, «se ne deduce che gli errori medici sono la terza causa più comune di decessi negli Stati Uniti». Una classifica impietosa, quella aggiorata al 2013: i decessi per malattie cardiache sono 611.000 e quelli per cancro 585.000, mentre i morti da “errore medico”, in ospedale, sono 251.000. «Gli errori medici che conducono alla morte del paziente – aggiunge Pamio – sono sottostimati e poco conosciuti anche in molti altri paesi, incluso il Regno Unito e il Canada». Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ben 117 nazioni codificano i decessi utilizzando la classifica standard Icd, che esclude l’errore umano. Al fenomeno va dato il giusto risalto, per «aumentare la consapevolezza e guidare alla collaborazione tra diverse realtà», investendo di più in termini di ricerca e prevenzione. E’ questo lo spirito che ha mosso i due autori dello studio pubblicato dal “British Medical Journal”, due prestigiosi specialisti – assicura Pamio – degni della massima fede.«Ce ne siamo già occupati altre volte in passato: gli errori medici sono la terza causa di morte nel mondo occidentale, dopo le malattie cardiovascolari e il cancro». Quello che esce da un recente studio pubblicato dal “British Medical Journal” ha però dell’incredibile: l’errore medico non è incluso nei certificati medici e nelle statistiche riguardanti le cause di morte. «Questo significa una sola cosa: i numeri delle morti che noi tutti conosciamo sono sottostimati», afferma il nutrizionista Marcello Pamio, autore di svariati saggi sullo stretto rapporto fra alimentazione e salute. Morte provocata dal medico che sbaglia? «Le cause iatrogene potrebbero risalire il podio diventando la seconda o addirittura la prima causa di morte al mondo». Ovviamente i media tacciono, accusa Pamio: «Argomento tabù, gli sponsor sono sacri. Farmaci killer spietati? Assolutamente no, le droghe non si toccano, gli interessi economici sotterrano le morti che passano in secondo piano. Esattamente come i morti civili nelle guerre: danni collaterali. Oggi la realtà è la seguente: probabilmente i farmaci uccidono più delle guerre».
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La giudice: questo regime fascista chiamato neoliberismo
Il tempo della retorica è finito, le cose vanno chiamate con il loro nome: il neoliberismo è il fascismo del XXI secolo. Lo afferma Manuela Cadelli su “Off-Guardian”, sito d’opinione creato da alcuni autori del celebre quotidiano inglese, scontenti della linea ufficiale del giornale. La Cadelli è presidente del sindacato dei magistrati belgi. Se il liberismo originario deriva dalla filosofia dell’Illuminismo, sviluppata per garantire ai cittadini «il rispetto delle libertà e l’emancipazione democratica», divenendo «il motore per l’ascesa, e il continuo progresso, delle democrazie occidentali», il neoliberalismo dei nostri giorni è invece «una forma di economicismo che colpisce continuamente tutti i settori della nostra comunità». In altre parole, «si tratta di una forma di estremismo». Il fascismo? Era «la subordinazione di ogni parte dello Stato a una ideologia totalitaria e nichilista». E dunque, «il neoliberalismo è una specie di fascismo, perché l’economia ha soggiogato non solo il governo dei paesi democratici, ma anche tutti gli aspetti del nostro pensiero: lo Stato è ora agli ordini dell’economia e della finanza, che lo trattano come un subordinato e spadroneggiano su di esso in misura tale da mettere in pericolo il bene comune».«L’austerità richiesta dall’ambiente finanziario è diventata un valore supremo, che sostituisce la politica», scrive Manuela Cadelli, nel post tradotto da “Voci dall’Estero”. «La necessità di risparmiare preclude il perseguimento di qualsiasi altro obiettivo pubblico». Siamo arrivati al punto in cui «si rivendica che il principio di ortodossia di bilancio dovrebbe essere incluso nelle Costituzioni statali», cosa che per l’Italia è già legge grazie al governo Monti, sorretto da Berlusconi e dal Pd. «La nozione di servizio pubblico è stata trasformata in una presa in giro», continua la Cadelli. «Il nichilismo che ne deriva rende possibile il rigetto dell’universalismo e dei valori umanistici più ovvi: la solidarietà, la fraternità, l’integrazione e il rispetto per tutti e per le differenze». Non c’è nemmeno più posto per la teoria economica classica: se prima il lavoro era «un elemento della domanda», e quindi «c’era rispetto per i lavoratori», da tempo «la finanza internazionale ne ha fatto una mera variabile di compensazione».Ogni totalitarismo, continua Cadelli, inizia con uno stravolgimento del linguaggio, come nel romanzo di George Orwell: «Il neoliberalismo ha la sua Neolingua e le sue strategie di comunicazione che gli permettono di deformare la realtà». In questo spirito, «ogni taglio di bilancio è rappresentato come un esempio di modernizzazione». Alcuni dei più poveri non hanno più accesso al rimborso per le spese mediche e di conseguenza interrompono le visite dal dentista? Pazienza, «è la modernizzazione della previdenza sociale in azione». Nella discussione pubblica «predomina l’astrazione, in modo da nascondere le concrete implicazioni per gli esseri umani». Così per tutto: «In relazione ai migranti, è imperativo che la necessità di ospitarli non conduca a lanciare pubblici appelli che le nostre finanze non potrebbero sostenere», trascurando il diritto (primario) alla solidarietà nazionale verso chi ha bisogno di assistenza.Ormai «predomina il darwinismo sociale», che assoggetta tutti a «criteri di efficienza nelle prestazioni assolutamente inflessibili», sicché «essere deboli vuol dire fallire». Per Manuela Cadelli, «vengono ribaltate le fondamenta della nostra cultura: ogni premessa umanista viene squalificata o demonizzata perché il neoliberalismo ha il monopolio della razionalità e del realismo». Margaret Thatcher nel 1985 disse: «Non c’è alternativa». Tutto il resto è utopia, irrazionalità e regressione. «La virtù del dibattito e i punti di vista differenti sono screditati perché la storia è governata dalla necessità». Questa sottocultura «ospita una propria minaccia esistenziale: prestazioni carenti condannano alla scomparsa, mentre allo stesso tempo chiunque è accusato di essere inefficiente e obbligato a giustificare tutto». Una catastrofe antropologica: «La fiducia è infranta. Regna la valutazione, e con essa la burocrazia che impone la definizione e la ricerca di una pletora di obiettivi e indicatori che l’individuo deve rispettare. La creatività e lo spirito critico sono soffocati dall’amministrazione. E ognuno si batte il petto per lo spreco e l’inerzia di cui è colpevole».Fiducia infranta, e giustizia ignorata: l’ideologia neoliberale produce norme «in concorrenza con le leggi del Parlamento», al punto che «lo Stato di diritto democratico è compromesso», e le sue regole – che mirano a tutelare i cittadini, al riparo dagli abusi – vengono ormai «guardate come ostacoli». Questo perché «il potere giudiziario, che ha la capacità di opporsi alla volontà dei gruppi dominanti, deve essere messo sotto scacco». In Belgio, accusa Manuela Cadelli, la magistratura è stata privata dell’indipendenza assegnatale dalla Costituzione in modo che potesse svolgere il ruolo di contrappeso che i cittadini si aspettano. «L’obiettivo di questo progetto chiaramente è che non ci dovrebbe più essere giustizia in Belgio». Ma la classe dominante, «una casta al di sopra degli altri», non prescrive per sé la stessa medicina che deve essere presa dai normali cittadini: l’austerità ben organizzata è sempre “per gli altri”. Come ricorda Thomas Piketty, nonostante la crisi esplosa nel 2008 «non è stato fatto nulla per sorvegliare la comunità finanziaria». Chi ha pagato? «La gente comune, voi e io».Anche il Belgio conferma la tendenza generale: sgravi fiscali da 7 miliardi alle multinazionali, e tasse aggiuntive (il 21% delle spese legali) per i cittadini che ricorrono alla magistratura: «D’ora in poi, per ottenere un risarcimento, le vittime dell’ingiustizia dovranno essere ricche», scrive Cabelli. «Tutto questo, in uno Stato in cui il numero dei dipendenti pubblici batte tutti i record internazionali». Lì non valgono gli standard di efficienza imposti agli altri lavoratori: «La razionalizzazione e l’ideologia manageriale si sono comodamente fermate alle porte del mondo politico». E la situazione peggiorerà ancora, secondo la sindacalista dei giudici del Belgio, grazie all’uso strumentale del terrorismo: «Presto sarà possibile aggirare la giustizia, già priva di potere su tutte le violazioni delle nostre libertà e dei nostri diritti, riducendo ulteriormente la protezione sociale per i poveri, che saranno sacrificati al “sogno della sicurezza”».Siamo condannati allo scoraggiamento e alla disperazione? «Certamente no», dice Cabelli, ricordando che «cinquecento anni fa, al culmine delle sconfitte che avevano abbattuto la maggior parte degli Stati italiani con l’imposizione dell’occupazione straniera per più di tre secoli», Niccolò Machiavelli esortava gli uomini virtuosi «a sfidare il destino e a ergersi contro le avversità del tempo, a preferire l’azione e il coraggio alla cautela», anche perché «più è tragica la situazione, più sono richieste l’azione e il rifiuto della “rinuncia”». Questo, insiste Cabelli, è l’insegnamento necessario oggi: «La determinazione dei cittadini attaccati alla radicalità dei valori democratici è una risorsa preziosa». Non ha ancora rivelato appieno il suo potenziale? I mezzi non mancano: «Attraverso i social network e la potenza della parola scritta, oggi tutti possono essere coinvolti a portare il bene comune e la giustizia sociale al cuore del dibattito pubblico e dell’amministrazione dello Stato e della comunità, in particolare quando si tratta di servizi pubblici, università, mondo studentesco, magistratura».Il tempo della retorica è finito, le cose vanno chiamate con il loro nome: il neoliberismo è il fascismo del XXI secolo. Lo afferma Manuela Cadelli su “Off-Guardian”, sito d’opinione creato da alcuni autori del celebre quotidiano inglese, scontenti della linea ufficiale del giornale. La Cadelli è un giudice, presidente del sindacato dei magistrati belgi. Se il liberismo originario deriva dalla filosofia dell’Illuminismo, sviluppata per garantire ai cittadini «il rispetto delle libertà e l’emancipazione democratica», divenendo «il motore per l’ascesa, e il continuo progresso, delle democrazie occidentali», il neoliberalismo dei nostri giorni è invece «una forma di economicismo che colpisce continuamente tutti i settori della nostra comunità». In altre parole, «si tratta di una forma di estremismo». Il fascismo? Era «la subordinazione di ogni parte dello Stato a una ideologia totalitaria e nichilista». E dunque, «il neoliberalismo è una specie di fascismo, perché l’economia ha soggiogato non solo il governo dei paesi democratici, ma anche tutti gli aspetti del nostro pensiero: lo Stato è ora agli ordini dell’economia e della finanza, che lo trattano come un subordinato e spadroneggiano su di esso in misura tale da mettere in pericolo il bene comune».