Archivio del Tag ‘eurocrazia’
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Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro
Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».
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Lista Tsipras: questo nome vi ricorda ancora qualcosa?
Alexis Tsipras, chi era costui? Ah sì, il leader di “Syriza”, una sinistra vincente in Grecia. E la Lista Tsipras italiana? «Il simbolo rosso, la campagna elettorale tra culi e speranze», il risultato alle europee «tutto sommato positivo, considerato lo scontro totalizzante in corso tra Renzi, Grillo e Berlusconi che oscurava il resto». Un mezzo miracolo, la conquista della soglia-salvezza del 4%, «considerati i soldi, pochissimi», nonché «il simbolo sconosciuto ai più e il nome di un leader difficile anche solo da pronunciare». Allora, dov’è finita la Lista Tsipras? Già praticamente scomparsa. Forse perché «la sinistra ha un grande nemico da combattere: se stessa», ipotizza Matteo Pucciarelli. Prima l’affare Barbara Spinelli, «ennesima figura poco edificante di una sinistra che predica in un modo ma il giorno dopo razzola in un altro», poi la deflagrazione di Sel («nota tutto sommato non proprio negativa, visti i personaggi che se ne sono andati»). Neanche il tempo di festeggiare, ed ecco «il disastro, la rarefazione», il suicidio politico.Alla vigilia delle europee, Aldo Giannuli (già esponente di Rifondazione) fu lapidario: il voto a Tsipras è sprecato, perché quella lista non ha in sé alcun germe di futuro. Pucciarelli è stato invece “simpatizzante” della formazione promossa da Barbara Spinelli, e ad agosto ha fatto una telefonata «a chi forse poteva rispondere alla domanda iniziale: scusa, che fine ha fatto la Lista Tsipras?». La risposta, Pucciarelli la pubblica su “Micromega”. Il “personaggio” interpellato sintetizza: la lista ha centrato il 4% miracolosamente, grazie a Sel e al Prc, «e poi s’è praticamente eclissata dal dibattito politico nazionale», in cui impazza il renzismo rottamatore. Gli unici a fare opposizione, riuscendo anche a dire “qualcosa di sinistra”, sono i “grillini” e i reduci di Sel. Proprio il partito di Vendola è al centro del dibattito-fantasma in corso tra gli ex attivisti della Lista Tsipras: «La corrente più forte dice che Sel è la morte, non ci si può assolutamente mai alleare con il Pd manco sui singoli provvedimenti, neanche a livello territoriale, perché il Pd, come Sel, è la morte. Per loro, per essere brevi e schematici, allearsi con il Pd (magari sull’immigrazione) è come allearsi con la Lega Nord (sul NoTav)», scrive l’informatore di Pucciarelli.Altro capitolo depressivo, il dibattito-ombra sulla possibile candidatura della Lista Tsipras alle elezioni regionali della primavera 2015: «Non abbiamo la forza politica né mediatica per candidarci a marzo», scrive la fonte. «Se volevano candidarsi, dovevano lavorare a questo già dal 27 maggio, cosa che non è stata (scientemente?) fatta. Per ricostruire qualcosa dovevamo cominciare ieri. Per dire che siamo in ritardo, e ogni giorno che passa la lista muore di più». Il 19 luglio, gli attivisti hanno varato un coordinamento che si impegnasse almeno a promuovere qualche campagna politica in autunno (su scuola, immigrazione, reddito minimo). Problema: il coordinamento è affollato di 221 persone, «una follia». Ci sono dentro praticamente tutti: ex candidati, ex garanti, ex comitato operativo, nonché dirigenti di Sel, Prc e “Azione Civile”, e «interi comitati territoriali», che in alcune regioni hanno “cammellato” il coordinamento (per il Lazio, 35 delegati). «Tu immagina cosa può venire fuori da questo coordinamento: se ci va bene non ne viene fuori nulla, se va male – come temo – verrà fuori una guerra tra bande su ogni minima questione».Inoltre, a parte il coordinamento, la lista è ora “suddivisa” in 7 gruppi, che affrontano temi come democrazia, Costituzione, welfare, lavoro. Gruppi troppo folti, suddivisi in sotto-gruppi. Il problema? «Non si vota niente, e quindi alla fine nessuno decide nulla». E i tre europarlamentari eletti, nel nome di “Un’altra Europa”? Non pervenuti: «Sono talmente scollati dal resto della lista che ormai sono tre pianeti a sé stanti che a stento si confrontano anche tra di loro», conclude la fonte. «Purtroppo non c’è trasparenza da parte loro, né la lista riesce a imporsi in questo senso». Un report «deprimente», di cui Pucciarelli tende a fidarsi a occhi chiusi. Il giornalista di “Micromega” crede ancora nella necessità di rifondare una sinistra in Italia, nonostante questo ennesimo disastro. Per contro, nessuna delle forze che hanno promosso Tsipras – Sel, Rifondazione – ha mai neppure lontanamente accennato a criticare i fondamenti economici del regime eurocratico, la confisca della moneta sovrana per poi procedere allo smantellamento dello stato sociale col pretesto del debito pubblico. Gli eurocrati possono continuare a dormire sonni tranquilli, anche nel caso – molto improbabile – in cui la defunta Lista Tsipras dovesse un giorno resuscitare.Alexis Tsipras, chi era costui? Ah sì, il leader di “Syriza”, una sinistra vincente in Grecia. E la Lista Tsipras italiana? «Il simbolo rosso, la campagna elettorale tra culi e speranze», il risultato alle europee «tutto sommato positivo, considerato lo scontro totalizzante in corso tra Renzi, Grillo e Berlusconi che oscurava il resto». Un mezzo miracolo, la conquista della soglia-salvezza del 4%, «considerati i soldi, pochissimi», nonché «il simbolo sconosciuto ai più e il nome di un leader difficile anche solo da pronunciare». Allora, dov’è finita la Lista Tsipras? Già praticamente scomparsa. Forse perché «la sinistra ha un grande nemico da combattere: se stessa», ipotizza Matteo Pucciarelli. Prima l’affare Barbara Spinelli, «ennesima figura poco edificante di una sinistra che predica in un modo ma il giorno dopo razzola in un altro», poi la deflagrazione di Sel («nota tutto sommato non proprio negativa, visti i personaggi che se ne sono andati»). Neanche il tempo di festeggiare, ed ecco «il disastro, la rarefazione», il suicidio politico.
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Renzi, il clown di Firenze che finge di sfidare la Germania
Renzi? L’uomo della provvidenza 2014, dotato di un unico ufficio efficiente: quello delle pubbliche relazioni. Il giovane premier è un fenomeno: è riuscito ad aumentare la sua popolarità nonostante non abbia rispettato nessuna delle scadenze sulle riforme annunciate. Un bluff anche l’aver vantato di ottenere più flessibilità da Bruxelles, mentre gli indicatori economici continuano a precipitare. «Per non dire della sua raggelante slealtà verso Letta, “Enrico, stai sereno”». La sua capacità comunicativa è più forte dei fatti, prende nota Marco Della Luna. In questo, Renzi batte Berlusconi. Marketing raffinato, capacità di schivare il colpo ed evitare «il confronto diretto, serio, approfondito sui risultati e sui programmi». Confronto «da cui spiccherebbe la sua inconsistenza», zero analisi economica, nessuna reale soluzione. Così, non è che altro che «illogicità infantile» la fiducia riposta in lui. Renzi è sempre di fretta: scusate, ora non ho tempo. Se la cava così, evitando qualsiasi domanda. E poi, si sa, le domande sono solo seccature che fanno perdere tempo prezioso.«L’uomo della provvidenza 2014 non ha mai tempo per i consuntivi», continua l’avvocato Della Luna sul suo blog. «Come i suoi due predecessori», Monti e Letta, di cui sta eseguendo più o meno alla lettera il programma, in realtà scritto tra Berlino e Bruxelles, Renzi «sa che quando arrivano i consuntivi la bolla delle speranze sfloppa». Problema, perché «la sua forza sta nel rilanciarle, le speranze: a 100 giorni dapprima, oggi a 1.000». Il momento della verifica? Può attendere, basta che nessuno se ne accorga. Stessa tattica della fretta anche a Strasburgo: prima del discorso ha evitato contatti persino coi suoi parlamentari, e al termine ha dribblato i giornalisti e le loro fastidiose domande, correndo al sicuro nel salotto di Vespa. Quanto all’imbarazzante discorso europeo, «Renzi ha esordito avvertendo che il programma operativo lo aveva depositato alla presidenza del Parlamento in forma scritta», quindi non ne avrebbe parlato in aula. «Il programma, cioè, è una conoscenza riservata ai livelli superiori; per il grande pubblico va bene lo show».Mentre perdura il mistero sul programma, resta solo l’aria fritta del discorso: zero contenuti, ovvero «enunciati ideologici, figure retoriche, evocazioni culturali di bassa qualità, affermazioni velleitarie» su misura per l’elettorato italiano, presso il quale «Renzi ha cercato di accreditarsi come difensore degli interessi nazionali (mentre non lo è come non lo erano Letta e Monti)». Ha anche cercato di guadagnarsi consenso e simpatia «esprimendo giudizi, proteste, accuse, sogni», proiezioni retoriche a buon mercato «in cui si può ritenere che si riconoscano molti strati popolari italiani: noi siamo bravi, noi facciamo riforme sostanziali, noi diamo più di quanto riceviamo, noi non accettiamo lezioni da nessuno, la colpa è degli altri, noi abbiamo una grande storia dietro le spalle, noi abbiamo diritto a reclamare flessibilità anche perché essa è condizione per il successo anziché insuccesso dell’Europa stessa». Parlando a braccio, Renzi «ha fatto il gigione, o il ganzo, come si dice in Toscana, ma con una caricatura della toscanità, uno stile che i miei amici toscani trovano forzato e grossolano», annota Della Luna.Insomma, di fronte «al grande dramma sociale, alla crescente diseguaglianza entro i paesi europei e di fronte al fatto che l’Eurozona cresce la metà dei paesi dell’Ocse», al cospetto di tutta l’Europa il premier italiano «parla di Ulisse e Telemaco, di orgoglio nazionale, di sentimenti e ideali, di accoglienza ai migranti, e non di cose concrete». In altre parole, «tratta il suo pubblico come un insieme di deficienti». E non a torto, purtroppo: «Molti, in effetti, lo applaudono». Per Della Luna, «è stato uno spettacolo disgustoso». Siccome le cose in Europa vanno palesemente male, molto male, e le tensioni continuano ad aumentare, «un approccio serio, professionalmente nonché politicamente onesto, sarebbe stato incentrato sull’analisi di questi mali e delle loro cause, per proseguire con una motivata proposta di soluzioni operative». Renzi, per esempio, «avrebbe dovuto rilevare che l’Ue ha applicato una teoria economica, con le sue ricette e le sue riforme – tra cui l’austerità – che da anni i fatti stanno smentendo, perché non produce risanamento del debito ma aggravamento, non produce stabilità ma instabilità, non produce sviluppo ma recessione». C’è divergenza là dove dovrebbe esserci convergenza tra diverse economie, perché il rigore «non produce occupazione ma precari, disoccupati e sottoccupati».Se i fatti smentiscono rovinosamente tutte le previsioni dell’élite eurocratica, «non si tratta di aumentare di qualche centesimo percentuale la flessibilità del meccanismo, ma di prendere atto che la teoria è falsa perché confutata dai fatti». Stesso discorso per l’euro e i suoi effetti reali. In quanto alle “riforme” neoliberiste continuamente evocate, riforme «che Renzi e i mass media presentano al popolo come contropartita per la “flessibilità”», Della Luna ricorda che quelle contro-riforme «vengono dalla medesima teoria confutata dai fatti, e fanno parte di quella linea di riforme del settore bancario e finanziario che hanno permesso, in Europa come in America, le maxi-bolle e le mega-truffe bancarie che, oltre alla crisi bancaria mondiale, con la loro ricaduta sulle finanze pubbliche, hanno prodotto la crisi dei debiti sovrani, dei debiti pubblici, in cui stiamo dibattendoci. E’ proprio il caso di continuare su quella linea?». Sappiamo qual è il risultato: «Precipitare le nazioni in condizioni di miseria e asservimento dal potere bancario».Renzi, continua Della Luna, avrebbe dovuto rilevare che quella teoria smentita dai fatti e quei principi di pareggio di bilancio e liberalizzazione finanziaria anch’essi smentiti dai fatti «ormai li difende solo la Germania assieme ai suoi satelliti, e li difende non per ragioni “scientifiche”, ma solo perché ne trae un vantaggio a spese degli altri paesi, in quanto ne assorbe capitali e altre risorse». Quindi, il vero problema «è un conflitto oggettivo di interessi». E la trattativa, da parte dei paesi svantaggiati come l’Italia, «può funzionare solo se prospetta alla Germania la scelta secca, con una rigida data di scadenza, tra un accordo per nuovo sistema finanziario e monetario da una parte, e dall’altra parte un piano-B, di rottura, in cui la Germania abbia da perdere seriamente». Altrimenti, «niente tutela degli interessi nazionali, ma solo fandonie». E la disputa coi “falchi” tedeschi «è solo una messa in scena per illudere il popolo degli sprovveduti», quello che applaude alle trovate del clown di Firenze mentre la nave affonda.Renzi? L’uomo della provvidenza 2014, dotato di un unico ufficio efficiente: quello delle pubbliche relazioni. Il giovane premier è un fenomeno: è riuscito ad aumentare la sua popolarità nonostante non abbia rispettato nessuna delle scadenze sulle riforme annunciate. Un bluff anche l’aver vantato di ottenere più flessibilità da Bruxelles, mentre gli indicatori economici continuano a precipitare. «Per non dire della sua raggelante slealtà verso Letta, “Enrico, stai sereno”». La sua capacità comunicativa è più forte dei fatti, prende nota Marco Della Luna. In questo, Renzi batte Berlusconi. Marketing raffinato, capacità di schivare il colpo ed evitare «il confronto diretto, serio, approfondito sui risultati e sui programmi». Confronto «da cui spiccherebbe la sua inconsistenza», zero analisi economica, nessuna reale soluzione. Così, non è altro che «illogicità infantile» la fiducia riposta in lui. Renzi è sempre di fretta: scusate, ora non ho tempo. Se la cava così, evitando qualsiasi domanda. Le interviste? Seccature, che fan perdere tempo prezioso.
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Macché golpe, da anni i padroni dell’Italia sono stranieri
Per favore, non chiamatelo golpe: ormai tra le macerie dell’Italia una vera Costituzione non c’è più, e da molti anni. Napolitano? Sta solo cercando di «mettere insieme una Costituzione transitoria per gestire questa fase di declino e disgregazione del paese». Tutto più facile, oggi, con un Renzi finalmente legittimato dalle urne: il fiorentino potrà «formalizzare costituzionalmente l’autocrazia, con la collaborazione di un Berlusconi teleguidato mediante le sue disavventure giudiziarie». Renzi il mandato lo ha avuto «da italiani tipici, senza dignità e senza matematica, a cui non importa della svolta autocratica né del fatto che il governo toglie in maggiori tasse e in minori servizi un multiplo della mancia di 80 euro al mese». Sintetizzando, dice Marco Della Luna, da dieci anni è al potere «l’alleanza tra la casta nazionale e la grande finanza apolide (tedesca, francese, statunitense)». Un sodalizio creato «per spartirsi il risparmio, i redditi, i mercati e le aziende di questo paese, e metterlo sotto il governo del capitale bancario».In virtù di questa alleanza, la grande finanza, via Bruxelles e Bce, ha dato alla casta «legittimazione politica e morale nonché sostegno economico», in due momenti: prima – nella fase 1 dell’euro – con credito agevolato e bassi tassi d’interesse, «con cui la casta ha ampliato strutturalmente la spesa pubblica clientelare», e poi – fase 2 dell’euro – usando la Bce per fare incetta di bond italiani allo scopo di «tenere artificiosamente bassi i loro rendimenti, a dispetto dei pessimi indicatori economici», sostenendo così le politiche dei governi Monti, Letta e Renzi, perfette per facilitare l’élite a spese di tutti gli altri. Un collasso finanziario dello Stato (spread) o delle banche (sofferenze) era da evitare, perché avrebbe spinto l’Italia fuori dall’Eurozona e quindi «avrebbe arrestato il processo di spartizione delle risorse dello sfortunato paese». Quello attuato a nostro danno è dunque un piano complesso, che richiede «profonde deroghe, violazioni e alterazioni della prassi e della stessa Carta costituzionale, cioè di una serie di colpi di Stato e di rivoluzioni, giustificati dalle emergenze e dal “ce lo chiede l’Europa”».Le emergenze – fabbricate a tavolino – sono iniziate con la destituzione del governo nel 2011, dopo che Berlusconi (irritando la Germania) aveva chiesto di conteggiare nel rapporto deficit-Pil anche l’economia sommersa e il patrimonio netto dei privati. Come reazione, le grandi banche tedesche – d’intesa con la Bundesbank e col governo – vendettero in massa i bond italiani, facendone esplodere i rendimenti e aprendo la strada, con Napolitano, all’eurocrate Monti, il quale «lanciò un piano di demolizione dell’economia nazionale e di spremitura fiscale degli italiani per assicurare ai banchieri francesi e tedeschi i loro iniqui incassi sui prestiti che in malafede avevano erogato a Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda». Ne seguì un tracollo economico e occupazionale, una costante ascesa del debito pubblico nonché una campagna di svendite al capitale straniero. Tendenze puntualmente continuate con Letta e ora con Renzi, appoggiate dagli acquisti della Bce. «L’artificiosa calma finanziaria creata da questo sostegno consente al governo Renzi di procedere a riforme in senso autoritario e autocratico».Oggi, continua Della Luna, abbiamo un Parlamento di nominati (dai segretari dei partiti), retto da una maggioranza artificiosa e incostituzionale (sistema maggioritario bocciato dalla Consulta), non rappresentativa del popolo. Questo Parlamento dapprima ha rieletto lo stesso capo dello Stato, e ora sta riformando la Costituzione. Tutto arbitrario, dato che il Parlamento è “illegittimo” e le sentenze della Corte Costituzionale sono immediatamente efficaci e persino retroattive, ma ormai la manipolazione è in corso. «Dietro una rassicurante facciata di attivismo, giovanilismo e idealismo, Renzi sta procedendo a una radicale riforma costituzionale ed elettorale, per rendere il Parlamento ancora più maggioritario, ancora meno rappresentativo della volontà popolare». Quelle che Renzi demolisce, con l’aiuto di un Berlusconi sotto ricatto, sono «le garanzie fondamentali della Costituzione». Un uomo solo al comando: il premier potrà nominare un nuovo capo dello Stato ma anche 10 giudici costituzionali su 15, nonché i componenti laici del Csm e le autorità di controllo e garanzia, quelle che dovrebbero essere imparziali per poter controllare il governo. Di fatto, «una dittatura con pretese di costituzionalità, di legalità e di democrazia». Ma è anche «una dittatura da quattro soldi», perché è solo «la dittatura di una buro-partitocrazia ladra su un paese la cui sovranità monetaria, legislativa e fiscale è già stata trasferita ad organismi esterni, non italiani, non democraticamente responsabili, e in ampia parte esenti anche dalla sindacabilità dei tribunali». Il vero potere ormai è altrove: l’autocrate Renzi controllerà solo quel che resta del terminale periferico italiano.Secondo Della Luna, il trasferimento di sovranità è di natura eversiva: l’articolo 1 della Costituzione “fondata sul lavoro” è stato ampianente sostituito dal nuovo fondamento, la finanza. I trattati internazionali cui l’Italia ha aderito? Illegali, perché estorti forzando l’interpretazione dell’articolo 11 della Carta, che consente limitazioni (non cessioni) della sovranità, sul piano di parità (non di subordinazione), in quanto necessarie per la pace e la giustizia tra le nazioni (non, quindi, per scopi finanziari). «Usando lo strumento dei trattati, senza consultare il popolo e senza passare per le procedure di revisione della Costituzione (articolo 138)», la Carta «è stata stravolta nella sua stessa prima parte, nei principi fondamentali, iniziando con quello della sovranità popolare e dell’indipendenza». Un percorso avviato ben prima dell’avvento dell’euro, ovvero nel 1981 con la sostanziale privatizzazione della Banca d’Italia, «tra il plauso generale dei giornalisti, degli economisti e dei politici, equamente divisi tra imbecilli e imbonitori». Risultato: «Adesso l’Italia è uno Stato fondato sul mercato». I “padroni” del paese non siamo più noi, ma neppure i “banditi” della casta: la sovranità italiana appartiene a potenti investitori stranieri.E’ vero, Napolitano ha lanciato Monti e poi Letta prima ancora di far accomodare Renzi, ma perché parlare di golpe? «Sostanzialmente – scrive Della Luna – la Costituzione scritta non era mai stata attuata nelle sue parti determinanti», e inoltre l’Italia «non era mai stata indipendente, bensì occupata militarmente da oltre cento basi militari statunitensi». La nostra repubblica «è nata sottomessa», e ha sempre solo finto di essere indipendente. Inoltre, aggiunge provocatoriamente Della Luna, è sbagliato censurare moralmente la liquidazione dell’Italia e la sua sottomissione a potentati stranieri: «L’Italia era ed è spacciata», vittima di «un processo degenerativo» insanabile, aggravato da partiti «dediti strutturalmente al saccheggio della spesa pubblica». Le inchieste parlano: «Non si tratta di mele marce, ma del sistema, dell’ambiente». Una alternativa non esiste, «perché la maggior parte della popolazione si è adattata e accetta il rapporto clientelare, di complicità, coll’uomo politico. Non è possibile che l’Italia sia amministrata in modo non ladresco: i partiti si reggono sulla spartizione del bottino».Su questo sistema così fragile, una non-moneta come l’euro ha effetti devastanti: i debiti pubblici dei singoli Stati restano separati e attaccabili, anche perché la Bce, a differenza delle banche centrali di Usa, Giappone e Regno Unito, non li garantisce contro il default, né garantisce le banche nazionali. Per questo, il debito pubblico dei paesi dell’Eurozona «paga mediamente tassi di interesse più elevati», anche se ha un miglior rapporto col Pil. «L’Eurosistema, come ogni sistema di blocco dei cambi, è inevitabilmente dannoso e non può essere corretto». Se un paese importa più di quanto esporti, la sua moneta sarà più offerta (per pagare le importazioni) che domandata (per comperare le sue esportazioni), quindi tenderà a svalutarsi; svalutandosi, renderà più convenienti le esportazioni e meno le importazioni. «Questo è il meccanismo naturale, di mercato, di correzione degli squilibri commerciali internazionali». Se invece si blocca il cambio tra le due monete, «la correzione non avviene», e così «il paese che ha costi di produzione superiori continua a importare e a indebitarsi, la sua industria si atrofizza e in parte emigra, i suoi capitali pure, la disoccupazione si impenna e il reddito cade». Al che, lo sfortunato paese non riesce più a sostenere gli oneri del debito e deve svendersi: «Il paese più efficiente, avendo accumulato crediti, compera i pezzi migliori, banche incluse, e assume il dominio anche politico del paese indebitato, detta le regole». Ecco il disegno europeo: «Lo strumento principale è l’euro: una pompa che trasferisce risorse dai paesi euro-deboli e debitori ai paesi euro-forti».Esclusi gli Usa, «che scaricano i costi sul resto del mondo attraverso il dollaro», le unioni monetarie tra aree diverse (dove diverso è il costo per unità di prodotto) non ha mai funzionato, aggiunge Della Luna, perché – per tenere insieme le parti tendenzialmente divergenti – il sistema deve trasferire costantemente reddito dalle aree più produttive a quelle meno produttive. Ma se lo Stato super-tassa le aree forti (taglio degli investimenti, fuga di capitali e aziende) le indebolisce, impedendo loro di continuare sussidiare le aree deboli, che nel frattempo dovrebbero essere corrette nelle loro disfunzionalità (sprechi e mafie, corruzione e parassitismo, clientelismo e immobilismo). In Italia, si è rimediato con l’emigrazione interna attraverso il pubblico impiego quando lo Stato disponeva di risorse finanziarie e monetarie proprie. Viceversa, col blocco dei cambi (prima lo Sme, ora l’euro) il disastro è garantito. Dal 1960 ad oggi, scrive Della Luna, l’Italia ha speso l’equivalente di 300 miliardi di euro per portare il Sud ai livelli del Nord, col risultato di peggiorare le condizioni del Sud e di soffocare (o mettere in fuga) le imprese del Nord, stritolate dalle tasse.«Chi ha voluto l’euro lo ha imposto in perfetta malafede, con dolo». Ci vuole “più Europa”? Magari gli Stati Uniti d’Europa, con un bilancio federale europeo che metta in comune i debiti pubblici, ripiani i deficit e finanzi le aree meno efficienti con investimenti per l’occupazione? Le aree forti questo tipo di soluzione non l’accetteranno mai, conclude Della Luna, né i lombardi per soccorrere i siciliani, né i tedeschi per “salvare” gli italiani. «La soluzione federale tra aree non omogenee produce un livellamento al basso, un degrado civile, un impoverimento globale che porta all’instabilità quando lo Stato centrale non è più in grado di “comprare” il consenso o perlomeno la quiete mediante l’assistenzialismo, e si mette a consumare con le tasse e con le privatizzazioni il risparmio e le risorse». Procede quindi all’esaurimento delle riserve, bruciando con le tasse il risparmio (ricchezza mobiliare e immobiliare), dopo aver prelevato fiscalmente tutto il reddito prelevabile della popolazione governata. «Queste sono le cause strutturali, essenziali, congenite nella sua composizione, che condannano l’Italia alla rovina e che legittimano quindi i suoi commissari liquidatori». La Germania? Si “difende” a modo suo dai paesi del Sud, «li sottomette, li svuota delle loro risorse industriali e finanziarie attraverso i suoi “reichskommissaren”, rinnovando ciò che faceva con i territori occupati durante la Seconda Guerra Mondiale».Per favore, non chiamatelo golpe: ormai tra le macerie dell’Italia una vera Costituzione non c’è più, e da molti anni. Napolitano? Sta solo cercando di «mettere insieme una Costituzione transitoria per gestire questa fase di declino e disgregazione del paese». Tutto più facile, oggi, con un Renzi finalmente legittimato dalle urne: il fiorentino potrà «formalizzare costituzionalmente l’autocrazia, con la collaborazione di un Berlusconi teleguidato mediante le sue disavventure giudiziarie». Renzi il mandato lo ha avuto «da italiani tipici, senza dignità e senza matematica, a cui non importa della svolta autocratica né del fatto che il governo toglie in maggiori tasse e in minori servizi un multiplo della mancia di 80 euro al mese». Sintetizzando, dice Marco Della Luna, da dieci anni è al potere «l’alleanza tra la casta nazionale e la grande finanza apolide (tedesca, francese, statunitense)». Un sodalizio creato «per spartirsi il risparmio, i redditi, i mercati e le aziende di questo paese, e metterlo sotto il governo del capitale bancario».
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Fermare il Pd, il partito che ha fatto più danni all’Italia
Non ignoro i limiti ed i problemi del M5S e su questo sito, ma è anche vero che si tratta di un movimento giovane, che deve ancora attraversare il lungo tunnel della propria definizione. Quanto all’accusa di populismo (che peraltro Grillo non respinge ed anzi rovescia in una orgogliosa rivendicazione): io non sono affatto populista, vengo da una cultura politica che non è affatto populista, però so che ogni processo di rivolta contro il sistema ha sempre avuto esordi di tipo populista. Ma, soprattutto, so che questa polemica contro il populismo è la foglia di fico dietro cui queste miserabili élite nascondono le loro incapacità, la loro voracità, i loro ignobili privilegi. Questo mi dice da che parte stare in questo scontro. Io credo che siamo in un momento cruciale della storia del nostro paese. Ed in particolare in Italia, le cosiddette élite stanno dando il peggio di sé.Dopo un ventennio nel quale hanno preparato il disastro presente, si apprestano a svendere questo paese: pezzi pregiati di Eni, Finmeccanica, porti, patrimonio immobiliare e artistico, Ferrovie, Cdp, tutto sta per essere svenduto ed alla fine ci ritroveremo con lo stesso debito ma molto più poveri. Ricordate la svendita delle Partecipazioni Statali degli anni Novanta? Dovevano servire ad abbattere il debito: che fine hanno fatto? In questi venti anni abbiamo avuto un ceto politico sostanzialmente omogeneo, salvo sfumature di stile: stessa cultura politica liberista, stesso uso cinico delle tecniche surrettizie di raccolta di consenso, stessa moralità politica. Entrambe hanno occupato l’intero spazio politico con il solito argomento: vota me per non far vincere l’altro. Ma era una falsa alternativa, come l’esito finale di questo ventennio nero rende evidente.Dunque, è arrivato il momento di rovesciare questa classe dirigente in tutte le sue “varianti”. La specie berlusconiana sembra felicemente avviata all’estinzione, ma ora è il momento di pensare al Pd. Il partito che ha fatto più danni sul piano della democrazia (per tutte si pensi alle leggi elettorali maggioritarie e senza preferenze ed alla riforma del titolo V nel 2001; alla riforma dei servizi segreti del 2007), che sta svendendo la Banca d’Italia, che ha sempre espresso il maggior grado di asservimento agli Usa, che in 20 anni non ha svolto alcuna azione di contrasto alla corruzione, che non ha fatto alcuna legge sul conflitto di interesse chiedendo i voti per farla, che per i giovani propone solo e sempre maggiori periodi di lavoro gratuito (servizio civile, praticantato post laurea, lavoro in azienda durante il periodo scolastico), che, con il pacchetto Treu, ha dato il via alla demolizione dei diritti dei lavoratori, che ha difeso la legge Fornero, etc.Ora, l’approdo alla segreteria Renzi è il punto di arrivo finale della degenerazione di quello che fu un grande partito di sinistra ed è oggi un piccolo covo di intriganti e faccendieri. Posso avere molte perplessità sul M5S, ma in compenso ho la certezza che il Pd di Renzi sia il nemico da battere e punire. E’ probabile che in questo turno Renzi cresca, l’importante ora è ostacolarne al massimo l’avanzata per batterlo nella prossima occasione. Il M5S è lo strumento più efficace che ho per colpire questa classe politica. C’è poi un secondo ordine di motivi: è evidente ormai che l’ordinamento della Ue, con l’euro al centro, sta soffocando l’Europa ed occorra un forte ripensamento di questa costruzione tecnocratica. Se l’Europa dei popoli non è solo uno slogan, ma un’aspirazione vera, occorre prima mandare in frantumi questa Europa dei finanzieri e dei tecnocrati che è inconciliabile con l’altra. Il M5S, in Italia, è l’unico martello che ho a disposizione per colpire l’Europa delle banche, se non voglio lasciare campo libero, su questo tema, alle formazioni fasciste, xenofobe, di destra.Inoltre, come ho sempre dichiarato, sono un convinto fautore della legge elettorale proporzionale come unica garanzia di vera rappresentanza non manipolata e, non solo il M5S è l’unica forza politica dichiaratamente proporzionalista, ma soprattutto so che una forte affermazione del M5S avrebbe l’effetto immediato di paralizzare l’abominevole legge Renzi-Berlusconi che è in discussione in Parlamento. E’ sufficiente che il M5S emerga come secondo polo per far passare qualsiasi velleità di legge maggioritaria a doppio turno. E già questa sarebbe da sola una ragione sufficiente. Dunque, sulla base di queste considerazioni, voterò il M5S.Tuttavia, faccio anche i miei auguri alla lista Tsipras di raggiungere il quoziente richiesto. Una sconfitta di questa lista sarebbe molto negativa, comportando la dissoluzione della sinistra radicale. Certo sarebbe stato auspicabile che questa lista avesse espresso posizioni meno ambigue su questioni come l’Euro e non si fosse rifugiata nello slogan fumoso dell’Altra Europa, che vuol dire tutto e niente; ma sarà un alleato importante la prossima volta, quando avrà chiarito le sue posizioni. E, dunque, che per ora non le manchi il quoziente. Ci pensino quei malpancisti del Pd che non se la sentono di votare per il M5S: hanno quest’altra occasione di voto per sbarrare la strada a Renzi.(“Perché voto M5S, auguri anche alla Lista Tsipras”, estratti dell’intervento che Aldo Giannuli ha pubblicato sul suo blog il 18 maggio 2014).Attenti agli applausi: quelli che Grillo ha rimediato a Torino, nella straripante piazza Castello. Secondo il blog marxista “Contropiano” è utile prendere nota di cosa enstusiasma i seguaci: dalla battaglia No-Tav all’“euro-nazismo” di Schulz, che dimentica i meriti dell’Urss («Non avesse vinto Stalin, oggi Schulz avrebbe una svastica sulla fronte»). E c’è anche il fantasma buono di Enrico Berlinguer, evocato da Giuseppe Zupo per dire che il Movimento 5 Stelle è «l’unico erede, oggi in Italia, della battaglia berlingueriana per la “questione morale”», cioè istituzioni pulite come argine necessario contro la tentazione della violenza, di fronte alla rabbia per uno Stato dilaniato dalla corruzione di casta. Un’élite così moralmente fragile da farsi “comprare”, a poco prezzo, da chi vuol finire di mangiarsi l’Italia in un sol boccone: votare 5 Stelle, dice un ex esponente di Rifondazione Comunista come il professor Aldo Giannuli, storico e politologo, significa punire la classe politica (Pd, in primis) che ha tradito l’elettorato di sinistra per fare politiche di destra, al servizio esclusivo dei poteri forti.
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Il Guardian: l’euro è fallito, l’Europa lo ammetta o è la fine
Umore nero alla vigilia delle europee: il quantitative easing della Fed ha dato respiro all’Eurozona, i cui debiti però sono superiori alla velocità di crescita. Così l’austerity ha messo in croce l’economia e la Bce non ha fatto nulla per compensare le perdite, sostiene il “Guardian”. «La disoccupazione è alta e gli elettori sono malati di austerità». Secondo il giornale inglese, sarebbe un errore aspettari miracoli dal voto per Strasburgo: «I partiti mainstream con il loro pensiero dominante saranno ancora in carica e la vita andrà avanti come prima». Come risultato, «l’Europa si condannerà a un periodo anche più lungo di stagnazione economica, disoccupazione di massa e austerità», al punto che «fiorirà l’estremismo». Un’alternativa a questo scenario deprimente? «Ammettere che adottare l’euro come un modo per promuovere la causa di un’unione sempre più stretta è stato un errore di proporzioni storiche», scrive Larry Elliot.L’euro, scrive Elliot in un servizio ripreso da “Voci dall’Estero”, potrebbe essere radicalmente riformato secondo le linee proposte da Charles Grant, direttore del “Centre for European Reform”: questo permetterebbe di ristrutturare i debiti sovrani, ridurre velocemente l’austerità e riconvertire l’economia tedesca per renderla meno concentrata sull’export. L’alternativa radicale è invece quella di «rompere il vincolo della moneta unica, restituire il potere alle singole nazioni o gruppi di Stati con economie convergenti, e ricominciare». Questo, secondo il “Guardian”, «non accadrà, almeno non ancora», visto che l’euro è il simbolo dell’eurocrazia a guida tedesca. Secondo l’economista Roger Bootle, «l’euro è stato un disastro economico, imposto all’Europa per ragioni politiche». Anziché unire l’Europa, la sta frantumando in modo pericoloso. Già negli anni ‘90 si sapeva che l’euro «avrebbe potuto rivelarsi una macchina che distrugge il lavoro», dato che tutti quei paesi «non erano pronti per un’unica politica monetaria».Dice Elliot: «Sembrava lampante che, in assenza di mobilità del lavoro e redistribuzioni su larga scala, i paesi, privati del potere di condurre la propria politica monetaria, avrebbero dovuto ricorrere all’austerità se fossero diventati non più competitivi». Tutto questo, ovviamente, è rimasto inascoltato. «Si prevedeva molto fiduciosamente che l’euro avrebbe reso l’Europa più prospera e così facendo avrebbe creato le condizioni per un’unione sempre più stretta. La realtà è stata una crescita lenta, alti tassi di disoccupazione, riforme strutturali pasticciate, deriva e crescente malcontento. I problemi sono sorti non solo nella periferia, ma anche al centro, dove dalla creazione della moneta unica la situazione è decisamente peggiorata». Quel che è successo è che l’euro ha significato «un tasso di interesse unico e un tasso di cambio unico: il tasso di interesse era troppo basso per alcuni paesi come l’Irlanda e la Spagna, che erano in rapida crescita, ed era troppo alto per paesi come la Germania e la Francia, che crescevano meno rapidamente».Prima della creazione dell’euro, i paesi della periferia economica avrebbero lasciato deprezzare le loro monete per restare competitivi rispetto alla Germania. «Per un decennio, i lavoratori tedeschi hanno avuto aumenti salariali al di sotto del livello di inflazione per vendere le loro merci a prezzi bassi nei mercati europei». Un grande successo, ma fino a un certo punto, aggiunge Elliot: «Il surplus commerciale della Germania è aumentato, ma il rovescio della medaglia è che i deficit commerciali in paesi come la Spagna, la Grecia e l’Italia sono peggiorati». Prima della crisi, il sistema reggeva perché la Germania esportava capitali verso i paesi della periferia. Con la crisi, Berlino ha cominciato a raccontare che, se i paesi del Sud Europa erano in difficoltà, era perché avevano “vissuto oltre le proprie possibilità”. «Un po’ eccessivo, dato che la Germania era stata complice nel permettere loro di farlo», pur di vendere il made in Germany.La Merkel ha detto che avrebbe aiutato i paesi in difficoltà, ma solo alle sue condizioni: tutti i partner europei dovrebbero «replicare la Germania, comprimendo la domanda interna e promuovendo le esportazioni». Questo è chiaramente un’impossibilità logica, obietta Elliot, perché il surplus di un paese è il deficit di un altro paese. Così, non potendo più restare competitivi attraverso la svalutazione, gli altri paesi «hanno dovuto farlo tramite l’austerità, tagliando i salari e la spesa pubblica in modo aggressivo». Con una sola eccezione: il mondo finanziario. «Su insistenza della Germania, per le banche non c’è stata nessuna austerità». Conclude Elliot: «I leader europei considerano l’euro “troppo grande per fallire”? Si sbagliano: è già fallito». Semplice: «E’ fallito perché non riesce a dare la prosperità economica promessa e non riesce a portare l’Europa a unirsi politicamente. L’euro è come il gold standard, ma peggio, è per questo che sarebbe un errore di proporzioni storiche ignorare le elezioni di questa settimana. Sappiamo come finisce questo film». L’ultima grande crisi europea – non c’è bisogno di dirlo – portò al potere un certo caporale Hitler.Umore nero alla vigilia delle europee: il quantitative easing della Fed ha dato respiro all’Eurozona, i cui debiti però sono superiori alla velocità di crescita. Così l’austerity ha messo in croce l’economia e la Bce non ha fatto nulla per compensare le perdite, sostiene il “Guardian”. «La disoccupazione è alta e gli elettori sono malati di austerità». Secondo il giornale inglese, sarebbe un errore aspettari miracoli dal voto per Strasburgo: «I partiti mainstream con il loro pensiero dominante saranno ancora in carica e la vita andrà avanti come prima». Come risultato, «l’Europa si condannerà a un periodo anche più lungo di stagnazione economica, disoccupazione di massa e austerità», al punto che «fiorirà l’estremismo». Un’alternativa a questo scenario deprimente? «Ammettere che adottare l’euro come un modo per promuovere la causa di un’unione sempre più stretta è stato un errore di proporzioni storiche», scrive Larry Elliott.
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Il giudice: l’euro condanna a morte l’Italia antifascista
Il trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».Una volta attuate, dichiara Barra Caracciolo ad “Abruzzo Web”, le democrazie costituzionali contemporanee portano a una crescita incrementata programmaticamente da un intervento pubblico «che è, prima di tutto, correttivo dell’assetto di forze che il capitalismo tende a creare». Un assetto «redistributivo verso la parte più debole, e largamente maggioritaria, della comunità sociale». L’effetto di questa correzione statale è che «tutti stanno meglio», perché la priorità indiscutibile è «la soddisfazione dei bisogni collettivi, non certo la stabilità finanziaria intesa come garanzia della intangibilità dei profitti del capitalismo finanziario». La democrazia moderna quindi “aiuta” la maggioranza, non i privilegiati, e questo «non sta bene a chi sta in cima alla piramide», anche perché la crescita del benessere diffuso «comporta una crescita culturale della massa e fa sì che questa abbia maggiore peso politico», contrastando le élite che tendono invece a condizionare i governi dall’alto del loro potere economico. Ed ecco spiegata l’attuale Ue con la sua Eurozona: sbaraccare lo Stato democratico e restituire il potere all’oligarchia, secondo uno schema pre-moderno, neofeudale.Certo, chi è a favore dell’euro spara a zero contro l’Italia, considerata incapace di intercettare al meglio i fondi europei. Errore, interviene il magistrato: i fondi europei sono nel bilancio dell’Ue ma non dell’unione monetaria, «che è stata deliberatamente creata senza un bilancio fiscale federale: i trattati non offrono strumenti compensativi degli squilibri interni all’area euro, e le dimensioni dei cosiddetti fondi Ue sono assolutamente inadeguate al Pil europeo». Ogni altro sistema federale al mondo – Usa, Canada, la stessa Germania – dispone di ben altro budget. Dato il peso economico dell’Europa, secondo l’economista francese Jacques Sapir servirebbe un bilancio federale europeo paragonabile a quello degli Stati Uniti. «Ma di questo bilancio, la Germania dovrebbe sopportare un peso pari a 8-9 punti del proprio prodotto interno lordo: un risultato semplicemente impensabile, e certamente respinto senza equivoci dalla stessa Germania».Dall’Unione Europea (non dall’area euro) si ripete che agli Stati come l’Italia viene semplicemente “restituita”, in parte, una somma che gli Stati hanno già versato. Per effettuare questa contribuzione netta, dati i vincoli di bilancio (drastica limitazione del deficit, fino all’attuale vincolo al pareggio di bilancio), «dobbiamo sostanzialmente rinunciare ai programmi pubblici previsti dalla nostra Costituzione» dice Caracciolo. «L’Unione Europea, in pratica, ne vieta la piena attuazione nei livelli solidaristici da essa previsti, non si scappa. Insomma, diamo dei soldi e ne riceviamo di meno, il meccanismo è questo. Le priorità, poi, vengono pianificate a livello eurocentrico, secondo finalità settoriali, ben diverse da quelle previste dalla nostra Costituzione». Cifre: ogni anno, secondo la Corte dei Conti, sono oltre 6 miliardi in meno che riceviamo rispetto alla nostra contribuzione. Inoltre, per la stabilizzazione della moneta unica – cioè degli squilibri creati dall’euro – solo negli ultimi tre anni abbiamo dovuto pagare, a vario titolo ed emettendo debito pubblico aggiuntivo (che ci viene poi rimproverato come “colpa”, costringendoci a ulteriori dosi di austerità) oltre 53 miliardi, tra cui i 10 miliardi di soccorsi bilaterali concessi a Spagna e Grecia.Ma anche spendendo per sostenere i paesi più deboli, l’Unione Europea non fa la cosa giusta, nel modo giusto: «I fondi accumulati per tenere su i sistemi bancari greci o spagnoli non sono stati usati per incrementare i bilanci di intervento sull’economia reale di quei paesi, ma vengono direttamente dati in pagamento alla Bce», che compra – da Francia e Germania – i titoli di Stato spagnoli e greci Parigi e Berlino avevano acquisito. Oppure, gli “aiuti” vengono immediatamente girati dagli Stati debitori al sistema bancario dei paesi creditori, quello tedesco in primis. In ogni caso, data la sua esiguità, per un vero “salvataggio” non sarebbe sufficiente neppure il fondo del Mes, il meccanismo europeo di stabilità. E così, nel frattempo le tasse aumentano: «Dall’assetto giuridico attuale non possiamo attenderci che una continua progressione della pressione fiscale», dice Barra Caracciolo. Una super-tassazione, «spesso artificiosa e contraria alla Costituzione», realizzata sia attraverso la moltiplicazione del tipo di imposte, sia attraverso «il continuo allargamento normativo delle basi imponibili», che però tendono a contrarsi dato che siamo in recessione.Uno dei drammi italiani è proprio il crollo della domanda interna di consumi, che aggrava il debito perché riduce il gettito fiscale e compromette il futuro: «Se non c’è più domanda interna, non c’è incentivo alcuno a fare nuovi investimenti in Italia. Chi vorrebbe produrre non lo fa perché non ci sono prospettive di vendere il prodotto, e il carico fiscale rende difficile immaginare anche la convenienza dell’esportazione». Per il magistrato, «siamo nel pieno della visione neoclassica dell’economia», quella della destra economica. «Siamo praticamente in stagnazione dal 1992». Già all’epoca del Trattato di Maastricht «era evidente che non si potesse tollerare un vincolo di cambio e di bilancio fiscale del genere e mantenerlo insieme alla crescita». L’euro – moneta rigida e non sovrana – non può che deprimere l’economia, tagliando le gambe all’unico possibile volano risolutivo, l’intervento statale: in una situazione di crisi, senza investimenti pubblici il settore privato crolla.«In un’economia liberista come quella dell’area euro, fondata sulla lotta all’inflazione e sulla limitazione dell’intervento pubblico, si finisce nella trappola della liquidità», spiega Luciano Barra Caracciolo. «Anche se i tassi praticati dalla banca centrale sono vicini allo zero, i soldi rimangono là, fermi. E i risparmi fermi non si trasformano in investimenti». Questo viene regolarmente imputato «alla mancanza di produttività del lavoro, che viene ulteriormente compresso nel salario: ciò che chiamano “riforme strutturali”», dalla riforma Fornero al Jobs Act di Renzi, dopo il pacchetto Treu del primo governo Prodi e poi la legge Biagi. Secondo Giulio Sapelli, siamo sull’orlo di una guerra. In realtà, la competizione tra Stati è già esplosa: avremmo dovuto cooperare, ma è lo stesso Trattato di Maastricht a parlare di “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, prefigurando quindi «una competizione tra Stati per la supremazia sul mercato unico».Eccoci qua: «Privi di governo federale e di sovranità monetaria, stretti da vincoli di bilancio che escludono ogni autonoma politica economica e industriale nazionale, gli Stati non hanno più la parte essenziale della sovranità. Ma quella sovranità, sottrattagli ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione per consentire di aderire a un’organizzazione internazionale, non è poi esercitata da nessuno, in termini di politiche di interesse generale dei popoli. È come se ci fosse un buco nero in cui la sovranità si disperde». Gli Stati della nuova Europa? «Devono competere tra loro, altre vie non vengono indicate». Secondo Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia, tutto questo non porta sviluppo: si può anche vincere sulle esportazioni, ma nessuno vince se si vuole realizzare questo obbietivo tutti insieme simultaneamente. Risultato: zero crescita comune, proprio grazie alla perduta sovranità “dispersa nel nulla”. L’export in ogni caso non è la soluzione: «Le esportazioni si mandano avanti comprimendo domanda interna e salari: quindi, negli effetti sociali, siamo in guerra», sottolinea Caracciolo. «Chi perde si trova di fronte a perdite epocali e a un impoverimento che diviene irreversibile».Apriamo gli occhi, aggiunge il magistrato: «Non è l’euro ad aver garantito la pace: semmai è uscire dall’euro che porterebbe finalmente a una “pace”, intesa come armonizzazione cooperativa sul piano commerciale e industriale, che oggi non c’è perché è appunto incentivata una guerra commerciale-finanziaria dalla stessa struttura istituzionale della non-politica monetaria accentrata nella Bce». A questa analisi, la propaganda comune – e i mezzi di informazione di massa – replicano nel solito modo, cioè puntando il dito contro i presunti vizi italiani: non abbiamo mai saputo governarci bene, quindi non cresceremmo nemmeno in caso di uscita dall’euro. Il che è falso, puntualizza il giudice: «L’Italia se la cavava benissimo, riuscendo a stare almeno alla pari di Francia e Inghilterra, con una struttura industriale più dinamica». Fino all’irruzione dello Sme, il sistema monetario europeo e quindi il “vincolo esterno” alla spesa pubblica, «la realtà economico-industriale italiana non era affatto quella mostruosità che è stata dipinta ad arte da chi voleva “ridimensionare” l’Italia». Cifre alla mano, Bara Caracciolo smentisce i pro-euro: tra gli anni ‘70 e gli ‘80 l’Italia aveva una bassa spesa pubblica, inferiore di 10 punti alla spesa tedesca.C’era un deficit strutturale, certo, «ma il deficit non è un in sé un elemento negativo per il prodotto interno lordo», visto che corrisponde «all’immissione pubblica di moneta nel sistema», cosa che da noi «ha generato un grande risparmio privato», il primo d’Europa: gli italiani, in altre parole, si sono arricchiti anche grazie all’azione strategica dello Stato, che ha “speso a deficit per i cittadini”, aziende e famiglie, permettendo al sistema-paese di svilupparsi nel modo che abbiamo visto. Il debito pubblico? Altra mistificazione: nel 1981, al momento del divorzio fra Tesoro (Andreatta) e Banca d’Italia (Ciampi), il debito era appena al 58%, sottolinea Barra Caracciolo. Poi è esploso, quando è stato affidato ai titoli di Stato sul mercato finanziario privato, imbrigliando lo Stato prima con lo Sme – tassi di cambio a oscillazione limitata – e infine con l’euro, moneta iper-rigida che ci vincola «a realtà economiche come la Germania, strutturalmente inconciliabili con la nostra». Morale: «Sottraendo deficit e debito dalle mani dello Stato sovrano, si è avuta un’esplosione degli interessi». Non a caso, naturalmente: «Già in quel momento hanno cominciato ad arricchirsi minoranze di privati che sono diventati i sottoscrittori privilegiati di questo debito a interessi superiori al livello dell’inflazione, determinandosi un trasferimento a loro favore dei soldi dei contribuenti».Uno dei refrain del centrosinistra – da Prodi a Renzi – è la necessità di tagliare la spesa pubblica. E’ solo «una scusa», replica Luciano Barra Caracciolo. «In termini assoluti la spesa italiana non è mai stata alta, era sotto controllo: il problema del deficit era in realtà dovuto alla pressione fiscale relativamente bassa rispetto agli altri paesi europei come Francia e Germania», con in più una vasta evasione fiscale. Con Maastricht, si è cercato di “rimediare” aumentando la pressione fiscale su tutte le categorie produttive. Questo, insieme al cambio sfavorevole (l’euro troppo “forte”) e al venir meno del sostegno pubblico (il taglio del deficit) ha provocato «il blocco dello sviluppo industriale», cioè la grande crisi italiana, sottoposta allo choc improvviso della moneta unica, del rigore fiscale e della fine del sostegno pubblico. Il problema dunque non è l’Italia, ma questa Unione Europea. Il famoso malgoverno italiano? «Non era peggiore di altri ordinamenti in competizione, come Francia e Germania», e in ogni caso gli illustri tangentocrati del passato non hanno certo impedito al paese di svilupparsi rapidamente, arricchendo famiglie e aziende. «Capiamoci bene», insietre Caracciolo: «Con le attuali politiche fiscali, e specialmente col pareggio di bilancio, si azzererà il risparmio privato delle famiglie».«È un fatto di contabilità nazionale, non si può non capire un concetto così elementare», continua il magistrato. «Se devo tenere il deficit sotto un certo limite, si deve comprimere la domanda fino a provocare la recessione». Ma attenzione: il deficit non è un problema. Al contrario: «E’ il risparmio del settore privato». Sono soldi che lo Stato spende per cittadini e aziende. Se invece si taglia, e quindi si comprime la domanda interna di beni e servizi, il saldo arriva allo zero. Pareggio di bilancio, appunto. Così, l’onere degli interessi viene trasferito «nelle mani di chi detiene il debito pubblico», cioè «non certo le famiglie, ormai marginalizzate». Peggio ancora: «Col pareggio di bilancio si arriverà addirittura a un risparmio negativo: per fronteggiare la vita e le tasse, i cittadini dovranno vendere i propri beni patrimoniali, intaccando lo stock di risparmio. Questi beni andranno in sovraofferta, e i prezzi caleranno drammaticamente. Guardate i prezzi degli immobili, già in aperta flessione. In vent’anni di Fiscal Compact i valori reali saranno ridotti almeno a un terzo rispetto ai picchi della metà degli anni 2000. Alla fine del processo saremo tutti più poveri».E mentre il Pd continua a chiedere “più Europa”, proponendo il tedesco Martin Schulz alla guida dell’Ue, «si sta deindustrializzando l’Italia: la Germania su tutte vuole controllarla, in quanto sua principale concorrente industriale nell’area euro». Obiettivo: fare del nostro paese «una gigantesca fabbrica-cacciavite, a bassi salari, progressivamente decrescenti». Insiste il giudice: «La Germania non vuole un’Italia viva e vitale, proprio perché è il principale concorrente sul mercato unico. Fingendo di non volerci – come confermano le posizioni di Helmut Kohl durante la trattativa finale per l’introduzione dell’euro – costrinse l’Italia a entrare nella moneta unica, sapendo di poterla neutralizzare definitivamente nella sua competitività grazie al livello di cambio impostoci per sempre». Certo, televisioni e giornali non hanno certo aiutato gli italiani a capire quello che stava accadendo: «Gli editoriali italiani degli ultimi trent’anni sui più importanti quotidiani ci hanno detto enormi bugie, falsificando il senso economico del deficit e della spesa pubblica. Un lavoro ben orchestrato dai padroni finanziari. Colpevolizzando gli italiani e l’Italia spendacciona siamo arrivati alla povertà: dovevamo espiare i peccati e rinunciare a tutti i nostri diritti sociali. In Europa funziona così». Alla Bce è vietato espressamente di sostenere gli Stati e l’occupazione. «Se non cambiamo è la fine: di tutti».I trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
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Terzi: subito più deficit per tutti, o l’Europa è spacciata
I posti di lavoro sono scomparsi perché il fatturato delle imprese è crollato, e senza domanda non c’è lavoro. Da qui nasce il provvedimento del governo Renzi che riduce il prelievo fiscale sui lavoratori dipendenti per aiutare la ripresa dei consumi. Il governo avrebbe preferito farlo aumentando il deficit, ma sarà costretto invece a finanziarsi tagliando ancora la spesa pubblica: tagli permanenti di tasse saranno finanziati da tagli permanenti di spesa. Risultato: «Molto semplicemente, qualcuno in Italia starà meglio e qualcun altro starà peggio», osserva un economista come Andrea Terzi. «La riduzione della spesa (buona o cattiva che sia) comprime immediatamente redditi e risparmi del settore privato. D’altro canto, la riduzione dell’Irpef lascerà nelle tasche di qualcun altro più reddito e più risparmio. Crescerà la domanda interna? Poco o nulla. E anzi calerà, se una fetta di quel reddito redistribuito ai lavoratori dipendenti non dovesse essere spesa».Ben più efficace sarebbe la manovra – scrive Terzi in un intervento su “Sbilanciamoci” ripreso da “Megachip” – se Renzi potesse sforare i limiti imposti dalle regole europee sul disavanzo. Ma solo a certe condizioni: «Se i risparmi creati dalla riduzione fiscale saranno spesi in merci tedesche, crescerà il Pil della Germania e l’Italia si ritroverà presto col rapporto deficit-Pil di nuovo in allarme rosso». Per uscire dalla spirare dell’euro-crisi, dice Terzi, c’è un’unica soluzione: l’aumento della spesa pubblica, mediante una forma concordata di “deficit comune europeo”. Le altre soluzioni sono binari morti. Più credito bancario? Opzione non realistica: «La Bce non può fare quasi nulla: se la domanda è depressa, le imprese non investono, né le banche sono propense a rischiare. Tassi negativi e quantitative easing sono solo palliativi». Opzione due: più export? Negativo. Nemmeno se crollasse il valore dell’euro si riuscirebbero a recuperare i 7 milioni di posti di lavoro che mancano all’appello dal 2008, per non parlare dei 19 milioni di occupati scomparsi dall’Eurozona.E se fossimo tutti competitivi come la Germania? «È la ricetta del presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem. E non si sa se ridere o preoccuparsi (più la seconda)», continua Terzi. «Significherebbe accontentarsi di prezzi più bassi per portar via fatturato agli altri, allargando a tutta l’Europa quella stessa strategia che la Germania ha potuto realizzare solo grazie al fatto che qualcun altro, altrove in Europa o nel mondo, alimentava il fatturato delle proprie imprese». Meglio, di gran lunga, l’opzione tre: più disavanzo pubblico, che è «il motore delle altre due», nonché «il vero e unico carburante della domanda». Niente di così strano, peraltro: «È quello che gli Stati Uniti hanno impiegato, pur col contagocce, per uscire dalla recessione. Ed è quello di cui la Cina si è servita, in dosi massicce, per evitare la recessione globale». Stati Uniti e Cina: paesi sovrani, a moneta sovrana. L’Europa dell’euro, invece, si rifiuta ostinatamente di ricorrere al deficit, «autocondannandosi al declino».In Europa, aggiunge Terzi, prevale la convinzione (infondata) per cui il disavanzo pubblico sarebbe una sorta di “ripiego”, di “droga” da cui è bene stare alla larga, pena l’assuefazione, l’inflazione o un’altra crisi finanziaria. Tutto sbagliato: nelle economie monetrarie contemporanee, «la fonte ultima di denaro in circolazione» è proprio «la spesa del settore pubblico che eccede gli introiti fiscali». Se per lo Stato il saldo è zero (pareggio di bilancio) o addirittura positivo (avanzo primario), comincia la tragedia per aziende, famiglie, lavoratori. L’élite neoliberista nega la realtà: il denaro viene creato dal nulla, non è un “tesoro” conquistato e accantonato. Perché non crearne di più e investirlo, sotto forma di spesa pubblica, cioè deficit positivo? Secondo Terzi, si tratta innanzitutto di convincere i poteri forti europei – Germania in primis – a «lasciar crescere il disavanzo pubblico europeo in maniera economicamente e politicamente equilibrata»,e cioè «non certo concedendo a questo o a quel paese di sforare il tetto nazionale consentito».Obama propone che i paesi coi deficit pubblici più piccoli «mettano a repentaglio le proprie finanze pubbliche per aiutare gli altri», mentre Draghi sostiene che «il risanamento delle banche e delle finanze pubbliche farà crescere la fiducia». Nemmeno i ricercatori più attenti della Bce ci credono, osserva Terzi, visto che alcuni di loro hanno scritto che la devastante crisi tedesca del 1931 fu causata proprio dall’austerità. L’economista ritiene invece percorribile la creazione di «un “disavanzo pubblico europeo” finalizzato alla piena occupazione», cioè l’obiettivo che l’élite eurocratica contrasta in ogni modo, fin dalla nascita dell’Unione Europea. Piena occupazione: proprio quello che i signori di Bruxelles non vogliono. Eppure, insiste terzi, il lavoro per tutti «risolverebbe molti problemi assieme: dal rispetto dei vincoli nazionali, allo spread, al rilancio del credito bancario». Per cui «è indispensabile, e drammaticamente urgente, studiare una soluzione condivisa». Un’ottima soluzione, democratica: quella che l’euro-regime vuole evitare a tutti i costi, anche a rischio di far fare a mezza Europa la fine della Grecia.I posti di lavoro sono scomparsi perché il fatturato delle imprese è crollato, e senza domanda non c’è lavoro. Da qui nasce il provvedimento del governo Renzi che riduce il prelievo fiscale sui lavoratori dipendenti per aiutare la ripresa dei consumi. Il governo avrebbe preferito farlo aumentando il deficit, ma sarà costretto invece a finanziarsi tagliando ancora la spesa pubblica: tagli permanenti di tasse saranno finanziati da tagli permanenti di spesa. Risultato: «Molto semplicemente, qualcuno in Italia starà meglio e qualcun altro starà peggio», osserva un economista come Andrea Terzi. «La riduzione della spesa (buona o cattiva che sia) comprime immediatamente redditi e risparmi del settore privato. D’altro canto, la riduzione dell’Irpef lascerà nelle tasche di qualcun altro più reddito e più risparmio. Crescerà la domanda interna? Poco o nulla. E anzi calerà, se una fetta di quel reddito redistribuito ai lavoratori dipendenti non dovesse essere spesa».
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Putin il più amato dagli inglesi, Obama e Merkel retrocessi
Il leader più amato dagli inglesi? Nessun dibbio: Vladimir Putin. Questo il verdetto dei lettori dell’“Independent”, sollecitati dal quotidiano britannico a pronunciarsi sul tema dopo l’esplosione della crisi in Ucraina. Ad aprile, a dare fuoco alle polveri era stato Nigel Farage, fondatore dello Ukip, il partito anti-Ue dato in vetta all’euro-punteggio del Regno Unito per le elezioni del 25 maggio. Lui e l’ex vicepremier Nick Clegg, ricorda Cristiano Patuzzi sul blog “Nuova Auras”, si erano scontrati in un dibattito televisivo: oggetto, la questione ucraina. Farage ha osservato fra l’altro che «la Russia è stata provocata dall’Europa, gli eurocrati hanno fatto male a costringere gli ucraini fra Occidente e Russia, e Vladimir Putin – senza necessariamente prenderne le parti – è obbiettivamente uno stratega politico di prima grandezza». Lo pensa anche il 90% del campione inglese sondato dal giornale.«Insulti, derisioni e persino minacce sottintese, attacchi violenti e grossolani, ben poco british hanno seguito il giorno dopo i commenti del media inglesi», scrive Patuzzi, citando il “Guardian”, «quasi che la stampa fosse già in guerra», alla fine di marzo. Al che, un quotidiano più moderato come l’“Independent” ha avuto l’idea di lanciare un sondaggio fra i suoi lettori. Scrive, provocatoriamente, il giornale londinese: «Il leader mondiale preferito da Farage è Putin. Lo stesso Putin che sta aiutando Assad in Siria, che s’infischia del diritto internazionale per annettersi la Crimea. Questo, Farage lo trova ammirevole. Diteci: qual è il vostro leader preferito?». Idea malaugurata, osserva Patuzzi. Ecco infatti i risultati del primo sondaggio, datato 5 aprile: Barack Obama è fermo al 4%, il premier britannico David Cameron è appena al 2%, Angela Merkel lotta nelle retrovie con un 8% (il doppio del presidente americano, comunque) mentre il fanalino di coda è il francese Francois Hollande, all’1%. A Mosca, invece, Putin se la ride dall’alto del suo irraggiungibile 82%.Il che ha francamente dell’incredibile: significa che i lettori non si fidano più dei media mainstream, televisione in testa, e non credono alla versione ufficiale che viene loro proposta. Due giorni dopo, il 7 aprile, per i nemici di Putin la situazione peggiora ulteriormente: Cameron è sempre fermo al 2%, ma Obama perde un punto e scivola al 3%, imitato dalla Merkel che cala al 6%. «Ammirevole la tenuta di Hollande, inchiodato all’1%», mentre Putin sale all’86%. L’ultima verifica è dell’11 aprile, e per gli amici della Nato sono ancora dolori: «Cameron rovina al 1% a pari merito con Hollande, Obama è ulteriormente retrocesso al 2%», perde ancora terreno anche la Merkel che scende al 4%, e «nonostante l’ingresso in classifica del premier giapponese Shinzo Abe, al 1%, con Dilma Rousseff e Matteo Renzi (nemmeno a dirlo) allo 0%, Vladimir Putin svetta al 90%». Qualcosa di non orribile sta davvero per succedere?Il leader più amato dagli inglesi? Nessun dubbio: Vladimir Putin. Questo il verdetto dei lettori dell’“Independent”, sollecitati dal quotidiano britannico a pronunciarsi sul tema dopo l’esplosione della crisi in Ucraina. Ad aprile, a dare fuoco alle polveri era stato Nigel Farage, fondatore dello Ukip, il partito anti-Ue dato in vetta all’euro-punteggio del Regno Unito per le elezioni del 25 maggio. Lui e l’ex vicepremier Nick Clegg, ricorda Cristiano Patuzzi sul blog “Nuova Auras”, si erano scontrati in un dibattito televisivo: oggetto, la questione ucraina. Farage ha osservato fra l’altro che «la Russia è stata provocata dall’Europa, gli eurocrati hanno fatto male a costringere gli ucraini fra Occidente e Russia, e Vladimir Putin – senza necessariamente prenderne le parti – è obbiettivamente uno stratega politico di prima grandezza». Lo pensa anche il 90% del campione inglese sondato dal giornale.
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In bikini per Tsipras, che ignora le cause dell’euro-lager
«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?Come può convivere l’etica del marketing con la lotta al mercato e al capitalismo? «Marxisti in crisi di identità? Marxisti dell’Illinois? (da una famosa scena del film “The Blues Brothers”, anche se là erano nazisti)», scrive la Spadini su “Come Don Chisciotte”. «Gli tsiprioti infatti sono quegli esseri che viaggiano sollevati a un palmo da terra (come Remedios la Bella di “Cent’anni di solitudine”), sono entità moralmente sovrannaturali, si spendono e si spandono per i diritti umani di tutta l’umanità, sono gli oracoli viventi dell’“unico dogma” che può salvare la pace, la libertà, la democrazia, sono i profeti dell’“unica verità socialista, marxista, comunista”. Quale complicità ci può essere tra i novelli Templari del marxismo, i monaci militanti della fratellanza universale e la subdola seduzione del mercato? Quale connivenza tra le loro esistenze votate all’ideale universalistico della distribuzione globale dei diritti e la sporcizia morale di chi seduce con una sveltina (per di più anale) in cambio di un voto?».Senza considerare, aggiunge Spadini, che spesso gli “tsiprioti” provengono dalle vaste e profonde gole di “Micromega”, frequentate da intellettuali che hanno attraversato gli anni tormentati del berlusconismo «ragionando sapientemente dei massimi sistemi dell’esistenza, senza che il loro nobile pensiero si traducesse mai in risoluzione pratica dei problemi sociali, confondendo spesso l’astrattezza della loro speculazione filosofica con l’astuta strategia politica di chi intercetta e decifra le esigenze del reale». Ecco perché gli “tsiprioti” sono andati in Grecia a cercarsi un loro degno rappresentante: «Perché in Italia non c’era nessun Zarathustra degno di fede, non c’era nessuno che potesse corrispondere ai loro criteri di selezione darwiniana della specie eletta degli ubermensch». Ma Tsipras e i suoi followers, a partire da Barbara Spinelli, «non sembrano capire che un’Europa federale e democratica dei popoli fratelli non è possibile se non uscendo da quel lager eurocratico che la sta devastando».Secondo Rosanna Spadini, «non ci può essere democrazia se non all’interno dello Stato-nazione, non ci può essere sovranità economica se non restaurando la collaborazione tra Tesoro e Bankitalia che è stata interrotta dal “divorzio” del 1981 (legge Ciampi-Andreatta), e non ci può essere benessere sociale se non recuperando la nostra indipendenza politica e democratica». Per di più, «questi monaci militanti della fratellanza globalizzata, che ha anche impedito in Italia la nascita di una coscienza nazionale, concezione da loro soavemente disprezzata, confusa con quella di nazionalismo (che è decisamente un’altra cosa), questi sacerdoti laici che celebrano quotidianamente il loro anacronistico rito liturgico, sono stati sempre la ruota di scorta dei poteri forti, “utili idioti” al servizio del sistema neoliberista, ottusi strumenti nelle mani del potere eurocratico, tribuni di strategie politiche del nulla, sempre e comunque perdenti, proprio perché connaturate amabilmente al potere costituito (vedi Laura Boldrini)».Non si rendono conto, aggiunge Spadini nella sua requisitoria, che l’Europa odierna sta vivendo uno dei momenti più tragici della propria storia: non potrà cambiare il proprio destino se non facendo una diagnosi precisa della cause che hanno provocato il disastro. E’ «un “golpe bianco” che viene da lontano, dal crollo del muro di Berlino del 1989, quando il sistema capitalistico-imperialistico-neoliberista rimasto unico ordine mondiale, si apprestò a dissolvere gli Stati-nazione, privandoli della loro sovranità politico-economica, per ricomporli in quell’orrido organismo sovranazionale, privo di identità e di cultura, che è appunto l’Unione Europea». Un “golpe bianco” che «si serve dell’euro come arma di distruzione di massa per imporre politiche di austerity che devastano l’economia e i diritti, una dittatura finanziaria che ha imposto i trattati-capestro, dal Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), quando al contrario i popoli di Francia e Olanda avevano ampiamente bocciato la Costituzione Europea».Il “nemico” da riconoscere «una dittatura finanziaria che ha poi aperto la strada all’inarrestabile corso dei tagli alla spesa pubblica (che invece statisticamente non oltrepassa la media dei paesi europei), al ciclo delle privatizzazioni, alla precarizzazione a vita del lavoro e alla devastazione del welfare, straordinaria conquista sociale delle lotte del Novecento, ma anche strategia funzionale all’antagonismo tra il benessere capitalistico dell’ovest europeo, opposto al malessere comunista del suo nemico storico, rappresentato dall’Urss, durante il periodo della guerra fredda». Pertanto, Tsipras e «i suoi gattopardeschi followers» vorrebbero rimuovere gli effetti disastrosi della dittatura eurocratica «senza toccarne le cause, rappresentate dall’euro e dai trattati». E questo, purtroppo o per fortuna, è ben più importante dell’ostentata esposizione delle terga della giovane portavoce in bikini.«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?
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Ribellarsi all’Europa, reportage finanziato dai lettori
Europa ribelle: quella che gli altri media di solito non raccontano. E che, il 25 maggio, annuncia amare sorprese per gli eurocrati di Bruxelles. Gian Micalessin e Andrea Indini, inviati del “Giornale”, si sguinzagliano a caccia di informazioni in Inghilterra, Francia, Olanda e Germania, «alla ricerca delle ragioni della rabbia e della delusione che minacciano di metter fine all’Unione Europea e alla sua moneta». Operazione gestita con la collaborazione del crowdfunding: sono i lettori, con apposite donazioni online, a contribuire alla realizzazione del reportage sulla “guerra già cominciata”, quella contro l’austerity imposta dalla Troika dell’Eurozona. «Fuori dall’euro, fuori dal Concordato», scrive “Vency”, aprendo la lotteria dei commenti sull’iniziativa editoriale. «L’Europa esiste ed è ancora nel mio cuore il sogno di bambina di avere una Europa unita», scrive Giulia. «Peccato che quando ci si mettono i denari è come dare tutto in pasto ai porci». E a proposito: «Si sa perché il regno Unito non ha mai aderito all’euro?».Non mancano gli euro-rassegnati come Tonio, «convinto che, senza l’Europa, pur con alcuni errori, staremmo molto peggio». Il rimedio? «Imparare a saper spendere meglio e di più i fondi europei assegnatici». Senza contare che «l’Europa ci ha garantito circa 70 anni di pace, dopo le 2 terribili e atroci guerre mondiali con milioni di morti». Per Alessandro, quella di Tonio è una nota «banalissima», peraltro «propagandata da coloro che ci vogliono tenere incatenati all’euro». Gli eurocrati italiani? «Vogliono finire di distruggere il fior fiore dell’industria che hanno ereditato, nel settore energetico, produttivo, sanitario, scolastico, abitatativo, pensionistico, innovativo che aveva l’Italia». La pensa così anche Gianmario: «Credo che tutti gli uomini di buona volontà che amano la libertà, non debbano sottrarsi dal combattere, con qualsiasi mezzo, questa politica europea che ci porterà a una disastrosa rovina. Pensate agli ultimi gravi eventi che questi pagliacci, includendo Obama, hanno ispirato e realizzato: sto parlando della Libia, delle primavere arabe, della Siria e ora della questione Ucraina. Lo avete visto Kerry, il pollo americano, correre a riconoscere il governo fantoccio messo su dalla Ue? Dobbiamo fermarli!».«L’Europa – fa eco Cosimo – risponde a “Capitan America” con un film mozzafiato, “L’impero s’è desto”, ambientato nel 2058: il conflitto mondiale tra gli alleati (Usa, Gb, Canada e Australia) contro i confederati (Cina, India e l’Eurussia)», cioè «il grande impero dove non tramonta mai il sole, che si estende dall’Atlantico al Pacifico, fondato dalle nuove generazioni dalle ceneri della vecchia Unione Europea che non seppe soddisfare le aspettative economiche e democratiche». I lettori dimostrano di capire cosa significhi l’euro-rovina nel bel mezzo delle tensioni mondiali Usa-Russia, con sullo sfondo la Cina e le emergenze economiche, climatiche, energentiche. Nel fanta-film geopolitico di Cosimo, la nuova guerra sarebbe scoppiata «perché gli Usa, dopo aver stabilito il controllo sulle risorse energetiche siberiane, del Medio Oriente e quelle minerarie dell’Africa, vogliono accaparrarsi anche lo sfruttamento del sistema delle piogge monsoniche a ridosso dell’Himalaya, che rappresenta ormai l’unica grande riserva di acqua potabile». Torna a bomba Andrea Pacini: «L’ Europa così come noi l’abbiamo vista nascere non esiste più, lo spirito della sua nascita si è dissolto».«E’ desolante e sconfortante – aggiunge Andrea – vedere come il genuino impegno di uomini politici d’altri tempi si sia vanificato, dissolto davanti a interessi che, più che di semplice natura economica, definirei di depravato potere economico che non guarda in faccia a nessuno». Le conseguenze? «Sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo veramente bisogno di questa Europa genuflessa ai grandi poteri, sopratutto di oltreoceano?». Risponde, nel modo più diretto possibile, Dimitriye Popovic: quale Europa, scusate? «E’ tutto ancora come prima, per l’uomo che lavora per sostenere la propria famiglia». Storia personale: «Non mi è entrato in tasca un bel nulla, anzi le tasche me l’hanno svuotate». Adesso non si fanno più guerre? «Con le armi no, ma c’è una guerra più cruenta che fa morti bianche: forse, allora, è meglio morire traffitti da una palla di piombo». E, detto per inciso alla redazione del “Giornale” che lancia il crowdfunding per il reportage sulla rivolta contro gli euro-orrori, Dimitriye quasi si scusa: «Non posso contribuire, perchè non ho una carta di credito».Europa ribelle: quella che gli altri media di solito non raccontano. E che, il 25 maggio, annuncia amare sorprese per gli eurocrati di Bruxelles. Gian Micalessin e Andrea Indini, inviati del “Giornale”, si sguinzagliano a caccia di informazioni in Inghilterra, Francia, Olanda e Germania, «alla ricerca delle ragioni della rabbia e della delusione che minacciano di metter fine all’Unione Europea e alla sua moneta». Operazione gestita con la collaborazione del crowdfunding: sono i lettori, con apposite donazioni online, a contribuire alla realizzazione del reportage sulla “guerra già cominciata”, quella contro l’austerity imposta dalla Troika dell’Eurozona. «Fuori dall’euro, fuori dal Concordato», scrive “Vency”, aprendo la lotteria dei commenti sull’iniziativa editoriale. «L’Europa esiste ed è ancora nel mio cuore il sogno di bambina di avere una Europa unita», scrive Giulia. «Peccato che quando ci si mettono i denari è come dare tutto in pasto ai porci». E a proposito: «Si sa perché il regno Unito non ha mai aderito all’euro?».