Archivio del Tag ‘film’
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Regionopoli: se anche il figlio di Ambrosoli getta la spugna
L’avvocato è Umberto Ambrosoli, un cognome che a Milano è molto impegnativo da portare. Umberto è figlio di Giorgio, ed è uno stimato penalista. Giorgio (lo scrivo per i più giovani) era il liquidatore della Banca Privata Italiana, ucciso nel 1979 su ordine del “banchiere cattolico” della mafia italo-americana Michele Sindona. La storia di Giorgio Ambrosoli è stata raccontata in migliaia di articoli di giornale, “speciali” televisivi, diversi libri. L’ultimo (credo) scritto dallo stesso figlio che lo ha definito «un atto d’amore per il Padre, un attestato di incondizionata ammirazione per il professionista che obbedisce solo alla Legge, un tributo all’Uomo e al Cittadino, esempio altissimo di virtù civili», e si intitola significativamente “Qualunque cosa succeda”. Ma il più conosciuto credo che resti quello scritto da Corrado Stajano (anche e molto per l’incisività del titolo): “Un eroe borghese”. Così si chiama infatti anche il film di Michele Placido che ne ha amplificato la popolarità.
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Rabbia e dolore: Tempest, capolavoro firmato Dylan
Chi è Bob Dylan? Una domanda a cui è difficile rispondere, nonostante quest’uomo sia in giro da più di mezzo secolo. Tra i tanti che ci hanno provato c’è il regista Todd Haynes con il film Io non sono qui. La sua idea (geniale) è stata quella di raccontare Dylan attraverso sei diverse identità. Una di queste è Woody Guthrie, un ragazzino nero vestito come il leggendario folk singer che gira gli Stati Uniti a bordo di un treno sgangherato. Ecco, Dylan nonostante i suoi 71 anni è ancora come quel ragazzino. Un ibrido tra un cantante folk bianco e un bluesman che ha venduto la sua anima al diavolo, proprio come Robert Johnson. E che nonostante tutto fa ancora dischi bellissimi come Tempest. Gira voce che questo sarà il suo ultimo album, il suo canto del cigno. Difficile dirlo, nonostante i riferimenti alla vecchiaia e alla morte siano sparsi un po’ ovunque tra i testi dei pezzi. Ma Dylan è un fuorilegge della canzone. E quindi, come sempre, c’è poco da fidarsi.
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Iran, vigilia di guerra: imminente l’attacco di Israele?
L’Iran minaccia fuoco e fiamme in caso di aggressione da parte di Israele, e arriva addirittura a parlare di attacco preventivo contro il blitz che Tel Aviv starebbe preparando: quasi come se Teheran volesse “avvertire” Washington dell’esistenza di piani segreti del Mossad, per un’escalation ormai imminente. Steve Pieczenik, l’uomo dei depistaggi sul caso-Moro, annuncia una data: 26 settembre. Secondo l’ex vicesegretario di Stato americano, ancora oggi membro del “Council on Foreign Relations”, Israele attaccherà l’Iran in coincidenza con la festa ebraica dello Yom Kippur, il “giorno dell’espiazione”. «Non ho mai creduto a queste cose – dice Giulietto Chiesa – sebbene di fanatici che fanno cose orribili in speciali ricorrenze sia pieno il mondo in tutte le epoche». Ma, al tempo stesso, «è impossibile non vedere segnali dell’acutizzarsi della tensione».
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L’Independent: gli Usa sapevano dell’attentato di Bengasi
L’ambasciatore statunitense Chris Stevens sarebbe stato ucciso l’11 settembre nell’assalto al consolato Bengasi, condotto con armi pesanti, per vendicare il “tradimento” degli americani, che in Pakistan hanno assassinato il guerrigliero Mohammed Hassan Qaed, un agente libico di Al-Qaeda. “Abu Yahya al-Libi”, questo il suo nome di battaglia, sarebbe stato “sacrificato” da Washington dopo la fine della guerra contro Gheddafi, nella quale la Nato non ha esitato a impiegare terroristi islamici. Il film contro Maometto che ha incendiato le capitali musulmane sarebbe stato solo un pretesto per scatenare il caos, all’interno del quale è maturato l’attentato, dei cui preparativi – scrive il quotidiano inglese “The Independent” – si sospetta che l’America fosse al corrente. Dettagli inquietanti, sottolinea “Megachip” in una nota, che rivelano «l’imbarazzante alleanza occidentale, nella sporca guerra di Libia, con i peggiori tagliagole».
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Matrimoni da film: “Nozze d’agosto”, alla faccia della crisi
Si conoscono in spiaggia, si danno appuntamento in campagna. Il primo bacio, le scorribande in Vespa. E’ tutto vero, si chiama: amore. Ma i due non sono soli. Fuori campo, li spiano le telecamere della troupe di Mauro, regista pirotecnico di film matrimoniali. E alle spalle di Mauro, altre telecamere: quelle dirette da Andrea Parena, che a sua volta filma l’uomo che filma il matrimonio. E’ il copione di “Nozze d’agosto”, documentario che la Mostra del Cinema di Venezia definisce “tenero e buffo”, presentandolo alle Giornate degli Autori, “Venice Days”. Un tuffo al cuore, letteralmente: «Venezia ha apprezzato il nostro lavoro – dice Andrea – pur avendo ricevuto solo una copia provvisoria appena montata, in formato dvd, senza ancora neppure il mix audio e la correzione-colore. Hanno capito lo spirito del film, la sua intenzione: esplorare un mondo con ironia affettuosa, senza scadere nel facile folklore, nel trash dei matrimoni organizzati».
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Fitzcarraldo e Mick Jagger, la conquista dell’inutile
«Mick Jagger è venuto da noi in taxi, ma siccome l’autista si è rifiutato di procedere per gli ultimi cento metri tra le buche piene di fango, nemmeno al doppio della tariffa, l’ho trovato che camminava a tentoni al buio, in smoking e scarpe da ginnastica». A parlare è il grande visionario Werner Herzog, regista di “Fitzcarraldo”, capolavoro del 1982 che evoca la spericolata odissea amazzonica di un battello fluviale, organizzata per finanziare un grande sogno: costruire un grande teatro dell’opera a Iquitos, per farvi esibire la star dell’epoca, Enrico Caruso. Herzog affida singolari memorie al diario del suo film-limite, scritto durante i due anni e mezzo di lavorazione nella giungla, tra il giugno 1979 e il novembre 1981: un’impareggiabile avventura, tra enormi difficoltà logistiche e mutamenti nel cast che, alla fine, comprenderà Klaus Kinski e Claudia Cardinale. Mick Jagger invece sciolse il contratto, essendo troppo occupato nell’ambiente musicale: Herzog scelse di eliminare il suo personaggio piuttosto che affidarlo ad un altro attore.
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Macelleria-Siria, la strana alleanza tra Israele e Jihad
La Reuters ha faticato parecchio prima di poter pubblicare che qualche mese fa il presidente americano Barack Obama aveva approvato una “intelligence” dalla quale risulta che la Cia, Central Intelligence Agency, doveva dare un appoggio ai “ribelli” armati, che si battono per un cambiamento di regime in Siria e che ora questo sostegno deve essere tolto. A questo punto anche i più sperduti pescatori delle isole Figi già saranno a conoscenza di questo “segreto” (per non tornare a ripetere che in tutta l’America Latina si conosce una cosetta o due su come la Cia si sappia destreggiare nel rovesciare un regime). La Reuters descrive con cautela questo sostegno, come «circoscritto». Ma questo è, ovviamente, il codice per “proteggersi le spalle”. Infatti ogni volta che la Cia vuole abbandonare qualche progetto si serve della stampa e di qualche scriba fedele, come David Ignatius del “Washington Post”.
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Gore Vidal, il genio americano che vide la fine dell’America
Non mi piacciono i necrologi. In genere costringono chi li scrive a parlare bene del morto, cioè non sono sinceri, quali che fossero le sue qualità. Meno che mai mi piace scriverne quando chi se n’è andato era un mio amico, e caro. Ne parlo, in morte, per ricordare le cose più importanti che ha scritto. Per me Gore Vidal è stato l’equivalente, nel secolo XX, di quello che fu Alexis de Tocqueville nel XIX. Se quest’ultimo descrisse la nascente democrazia americana, Gore Vidal è stato il più lucido, acuto, implacabile analista della sua fine. Per meglio dire, della sua trasformazione in “impero”. Alcuni libri suggerisco, a chi voglia misurare la sua grandezza come scrittore: “Impero”, per l’appunto, e “Giuliano”, e “L’età dell’oro”.
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Gad Lerner: perché De Gennaro non può chiedere scusa
Undici anni dopo bisognerà finalmente correggere il testo che scorre prima dei titoli di coda, dandoci l’ultimo scossone, alla fine di “Diaz”, lo straordinario film di Daniele Vicari (se non l’avete visto cercatelo, è imperdibile per intensità narrativa e rigore storico). La frase diceva più o meno: “Nessuno dei funzionari di Polizia coinvolti nell’inchiesta è stato sospeso dal servizio”. Nella nuova versione bisognerà ricordare che una sentenza definitiva della Cassazione il 5 luglio 2012 comportò la rimozione dai vertici della Polizia di alcuni fra i suoi massimi dirigenti. Data da ricordare, perché segna una vittoria non scontata dello Stato di diritto alle prese con reati commessi da uomini di potere collusi fra loro e ormai convinti di godere dell’immunità derivante dal loro alto grado.
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Dopo le scuse, la verità su Genova: perché quel massacro?
Antonio Manganelli si scusa con l’Italia e persino con la madre di Federico Aldrovandi, il giovane ucciso a Ferrara da quattro agenti nel 2005, ma il suo ex capo Gianni De Gennaro – promosso sottosegretario da Mario Monti – continua a tacere, anche se resta il massimo responsabile istituzionale delle operazioni di polizia che a Genova nel 2001 culminarono nel massacro della Diaz. Una mattanza, che Amnesty International definì la più grave sospensione della democrazia in Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. Una pagina nera, nella storia della polizia italiana: 93 persone selvaggiamente picchiate e terrorizzate, quindi arrestate in massa per reati serissimi e poi tutte prosciolte. Tra queste, 60 feriti anche gravi, come il giornalista inglese Mark Covell, ridotto in fin di vita. E dal super-poliziotto De Gennaro silenzio totale: anche oggi, dopo la sentenza della Cassazione che terremota il vertice della polizia, con rimozioni a tappeto di altissimi dirigenti.
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La Kill List dell’orrore: così Obama decide chi assassinare
L’orrore più spaventoso è quando nessuno s’inorridisce più per l’orrore. È quel avviene da giorni nei mass media mondiali a proposito della Kill list di Barack Obama. Dove Kill list non è un film di Quentin Tarantino che il presidente degli Stati Uniti si godrebbe in poltrona nello Studio ovale della Casa Bianca. No, la Kill list è la lista degli esseri umani da uccidere che Obama personalmente redige ogni settimana. In quello che il New York Times definisce «il più strano dei rituali burocratici», «ogni settimana circa, più di 100 membri del sempre più elefantiaco apparato di sicurezza nazionale si riuniscono in videoconferenza segreta, per esaminare le biografie dei sospetti terroristi e raccomandare al presidente quale dovrà essere il prossimo a morire». I burocrati raccomandano, ma l’ultima parola spetta a Obama che firma di sua mano la condanna a morte di questi “sospetti terroristi”, che essi siano cittadini americani o stranieri.
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Giapponesi traditi: Fukushame, vergogna criminale
Limiti di esposizione alle radiazioni alzati di 20 volte per risarcire meno famiglie, fusioni del nocciolo taciute, migliaia di animali abbandonati e costretti a morire di fame e stenti. Sono solo alcune delle “vergogne” giapponesi raccontate in “Fukushame. The lost gardens of Japan”. Un titolo inglese per un documentario tutto italiano, fra i primi al mondo a descrivere la situazione all’interno della “No Go Zone”: area fantasma che, creata dal governo nipponico ed evacuata subito dopo la tragedia dell’11 marzo 2011, separa con un muro di radioattività crescente la centrale di Fukushima Daiichi dal resto del mondo. Un problema ambientale, ma anche politico e sociale. «Le popolazioni locali sono trattate come oggetti», denuncia il regista Alessandro Tesei. Anzi, «oggetti fastidiosi».