Archivio del Tag ‘filosofia’
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Mosul, dalla Siria con furore: l’Isil-Cia e il fantasma Blair
Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.Proprio l’influente Blair, lo statista più amato da Renzi, continua a elargire lo stesso sanguinoso regalo, «la Guerra al Terrore, eternamente riciclata e riconfezionata, della quale il Fantasma è stato il primo sostenitore, che si tira dietro l’ultima moda Usa che bolla l’Isil come la personificazione di un nuovo 11 Settembre». Dato che Blair «sperava in Damasco come ripetizione del 2003 di Baghdad», se la logica dei bombardamenti avesse avuto la meglio in Siria, oggi Aleppo sarebbe una replica di Mosul, continua Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Più ci si addentra, più il Fantasma sembra l’erede degli – altrettanto spiazzati – comandanti britannici nell’Afghanistan degli anni ’90». Escobar ricorda le involontarie conseguenze dei bombardamenti Usa del 2001 in Afghanistan, con Hazaras (sciiti afghani) fianco a fianco con gli iraniani, insieme all’esercito siriano di Bashar al Assad, contro i “ribelli” siriani «sostenuti dal Fantasma». Nemmeno Peter Mandelson, “signore dell’oscurità”, e mente politica del “New Labour” di Blair, «avrebbe potuto giustificare una cosa del genere».In ogni caso, prosegue Escobar, «il Fantasma è sempre stato convinto della “malvagità” dell’Iran, “avvertendo” costantemente che Teheran era sul punto di assemblare un’arma nucleare (vecchie abitudini – come per la sindrome di Saddam – dure a morire)». Stupito come Dick Cheney, il vecchio Blair, quando Washington e Teheran erano sul punto di discutere a Vienna una sorta di fronte comune per combattere l’Isil in Iraq e addirittura “super-falchi” come il senatore repubblicano Lindsey Graham affermare le impensabili parole «avremo probabilmente bisogno dell’aiuto [dell’Iran] per tenere Baghdad». Secondo Escobar, nonostante la pericolosità di Blair «non c’è alcuna strategia di fondo, nessun piano anglo-statunitense a lungo termine di politica estera in quello che il Pentagono chiama ancora “arco di instabilità”». O con noi o con i terroristi, era il motto di Bush. Peccato che in Libia e in Siria l’Occidente era schierato proprio coi terroristi islamici, secondo la filosofia del “divite et impera”.Washington, continua Escobar, ha ammesso di star inviando “assistenza” letale ai ribelli “moderati” in Siria (come, in teoria, i sicari del Fronte Islamico, non l’Isil o Jabhat al Nusra), «come se gli asset holliwoodiani della Cia non sapessero che queste armi saranno sicuramente vendute ai jihadisti più estremi – o rubate da loro». L’Isil nel deserto senza confini tra Siria e Iraq è già un proto-califfato. Armare i cosiddetti “moderati”? «Non ci sono “moderati”, come non c’erano Talebani “moderati”». Lo scenario sarà quindi ulteriormente destabilizzato: «Delle vittime fanno parte i curdi in Siria, Iraq, Turchia e Iran, i turkmeni in Iraq (come sta già avvenendo questa settimana) e ovviamente i cristiani in ogni nazione (come è già successo in Siria)». Il Fantasma? «Ora sta pregando gli Stati Uniti per un “intervento” in Iraq: prima li affami, poi li bombardi fino a una devastazione che chiamerai “democrazia” e li occupi, poi infesti il tutto di jihadisti, che poi scacci, poi gli jihadisti scatenano l’inferno (425 milioni di dollari rubati da una cassaforte governativa a Mosul, oltre a un sacco di soldi presi ai Wahabiti del Golfo per comparsi tutte quelle Toyota e quegli Rpg), poi li rioccupi lentamente. Questo è il regalo che continua ad essere distribuito».Altro scialo di retorica bugiarda, diffusa da Blair e dai neocon statunitensi: l’Isil «una minaccia per la sicurezza dell’Occidente», parole di Kerry. Ridicolo: «E’ uno scherzo enorme quanto la massa di satelliti incapaci di tracciare una colonna di Toyota bianche che avanzano nel bel mezzo del deserto iracheno – dirette verso la distruzione di quattro divisioni dell’esercito. Le hanno viste, le hanno seguite e hanno fatto finta di nulla, come insegna il libro degli schemi dell’impero del caos. Perchè non spingere il “divide et impera” tra sunniti e sciiti? Lasciamoli mangiare i cadaveri – e uccidersi tra di loro, come nella guerra pluriennale tra Iran e Iraq». La spinta dell’Isil è un remix della guerra civile tra sunniti e sciiti nel 2006 e 2007, i cui effetti, prima dell’invasione Usa, Escobar ha documentato nel reportage “Red Zone Blues”. «Il Fantasma, tuttavia, ha ottenuto ciò che voleva; l’Iraq è a pezzi, irrimediabilmente frammentato», e i curdi hanno preso il controllo del petrolio di Kirkuk.Conclude Escobar: «Il “medio oriente” – di fatto il sudest asiatico – è una finzione occidentale imposta dal potere coloniale alle popolazioni locali. Quello che il Pentagono descrive fin dagli anni 2000 come l’“arco di instabilità” è un sistema anarchico che si autoalimenta, con alcuni scampoli di “pace” rappresentati dalle petro-monarchie meglio conosciute come Consigli di Cooperazione del Golfo (dopotutto abbiamo bisogno del “nostro” petrolio). A seguire c’è il lento e inevitabile processo di integrazione eurasiatico, lungo la miriade di nuove vie della seta che fanno riferimento alla Cina. Questa è una maledizione per l’impero del caos e i suoi leccapiedi, per cui il sudest asiatico in perenne caos è più che apprezzato». E dato che c’è sempre di mezzo anche il Fantasma di Tony Blair, «l’arrogante ectoplasma», aspettiamoci pure un bell’aumento dei carburanti da aggiungere «a questo mescolone occidentale già abbastanza delirante».Tony Blair, il Fantasma dell’Opera – una tragedia infinita chiamata Medio Oriente. Per Pepe Escobar, il Fantasma è tornato, ispirando la guerriglia in Iraq. Il fatto che Blair «continui a gironzolare con la sua sequela di intricate menzogne, invece di starsene a marcire in qualche hotel di lusso», secondo il giornalista di “Asia Times” «ci sbatte in faccia tutto ciò che dobbiamo sapere circa le cosiddette “élite” occidentali, delle quali è un fedele, e ragguardevolmente ricompensato, servo». Tutto, nella regione, è precipitato con l’operazione “shock and awe”, la guerra del 2003 per uccidere Saddam Hussein sulla base di invenzioni (le armi di distruzioni di massa, inesistenti). Guerra promossa da Blair insieme a “Dubya” Bush. «Il Fantasma aveva sempre desiderato che l’amministrazione Obama bombardasse la Siria, così come aveva spinto affinchè “Dubya” distruggesse l’Iraq». La logica del Fantasma, continua Escobar, non aveva previsto che lo stesso Isil creato a Damasco (Stato Islamico dell’Islam e del Levante) ora si sarebbe spinto verso Baghdad.
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Monbiot: di crescita si muore, stiamo esaurendo la Terra
Immaginiamo che nel 3030 avanti Cristo tutte le ricchezze del popolo egiziano potessero entrare in un metro cubo, e supponiamo che questa ricchezza sia cresciuta del 4,5% all’anno: quanto sarebbe diventata grande al tempo della battaglia di Azio, tre milleni dopo? Dieci volte il volume delle piramidi? Tutta la sabbia del Sahara? L’Oceano Atlantico? Il volume di tutto il pianeta? Macché. Secondo il banchiere Jeremy Grantham, avremmo avuto bisogno di 2.5 miliardi di miliardi di sistemi solari. «Una volta compreso il significato e le proporzioni di questa conclusione – dice George Monbiot – non dovreste metterci molto ad arrivare alla paradossale posizione che l’unica salvezza sta nel crollo del sistema». Matematico: «Per continuare a far funzionare il sistema attuale dovremmo distruggerci da soli, ma se il sistema non funziona sarà il sistema stesso a distruggerci: questa è la spirale che abbiamo creato».Non possiamo certo ignorare il cambiamento climatico, il crollo della biodiversità, l’esaurimento di acqua, suolo, minerali e petrolio. Ma anche se, per miracolo, tutti questi problemi dovessero svanire, scrive Monbiot in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la semplice regola della “crescita composta” rende comunque impossibile la continuità del sistema. L’attuale crescita economica? E’ un artificio, dovuto all’uso dei combustibili fossili. «Prima che si cominciassero a estrarre grandi quantità di carbone, ogni aumento della produzione industriale coincideva con una flessione della produzione agricola, come avvenne quando il carbone e la forza motore necessari per far espandere l’industria ridussero la quantità di terreno disponibile per la coltivazione di cibo. Ogni rivoluzione industriale ha causato il crollo della situazione precedente, perché la stessa crescita non poteva essere più sostenuta. Ma il carbone ha rotto questo ciclo e ha reso possibile – per qualche centinaio di anni – quel fenomeno che oggi chiamiamo crescita sostenibile».Secondo Monbiot, a scatenare il progresso (e le sue patologie moderne: guerra totale, concentrazione della ricchezza globale, distruzione del pianeta) non sono stati né il capitalismo né il comunismo: è stato il carbone, seguito dal petrolio e dal gas. Il filo conduttore di questa espansione? L’ideologia della crescita. E ora che si stanno esaurendo le riserve accessibili, «dobbiamo saccheggiare gli angoli più nascosti del pianeta pur di sostenere la nostra proposta impraticabile». Mentre gli scienziati annunciano il crollo della calotta antartica occidentale, il governo ecuadoriano decide di consentire la trivellazione petrolifera del parco nazionale Yasuni. Il povero Ecuador, che ha chiesto 3,6 miliardi di dollari, ha invece ricevuto solo 13 milioni. Risultato: «Petroamazonas, una compagnia con un medagliere pieno di record di distruzione e rovina, ora potrà entrare in uno dei luoghi dove esiste la maggior concentrazione di biodiversità del pianeta, dove si dice che un ettaro di foresta pluviale contenga più specie di quante ne esistano nell’intero continente nordamericano».Piove sul bagnato: i petrolieri inglesi della Soco sperano di riuscire a penetrare nel Virunga, il più antico parco nazionale africano, in Congo. Il Virunga, sottolinea Monbiot, è una delle ultime roccaforti dei gorilla di montagna e degli okapi, degli scimpanzé e degli elefanti delle foreste. In Gran Bretagna, dove è stato appena idendificato un probabile giacimento di 4.4 miliardi di barili di “shale oil”, «il governo fantastica di trasformare una verdeggiante periferia in un nuovo Delta del Niger: a tal fine sta cambiando le leggi anti-dispersione per consentire la perforazione del terreno senza nessun consenso ma offrendo ricche tangenti alla popolazione del posto». Tutto vano, in ogni caso: «Lo sfruttamento di queste nuove riserve non risolverà comunque niente», dice Monbiot: «Non metteranno fine alla nostra fame di risorse, la esarbeceranno solamente».Si sta infatti avvicinando il pericolo maggiore: «La traiettoria della crescita composta (scalare) mostra che l’isterilimento del pianeta è appena iniziato. Quando il volume dell’economia globale si espande, in tutto il mondo qualsiasi cosa contenga materiale concentrato, insolito, prezioso, sarà scoperta e sfruttata, le sue risorse saranno estratte e disperse», con buona pace delle ultime meraviglie del mondo. Qualcuno, aggiunge Monbiot, ha provato a risolvere questa “equazione impossibile” con il mito della dematerializzazione, sostenendo cioè che i processi stanno diventando più efficienti e gli oggetti sempre più piccoli. Errore: «Non c’è nessun segnale che questo stia accadendo veramente. La produzione di minerale di ferro è aumentata del 180% in 10 anni. I dati commerciali delle Forest Industries dicono che il consumo di carta globale è ad un livello record e continuerà a crescere». Paradossale: «Se nell’era digitale non riusciamo nemmeno a ridurre il consumo di carta, che speranza possiamo avere per le altre materie prime?».Sembra che nessuno se ne accorga, ma una superficie sempre più vasta del pianeta viene utilizzata per le estrazioni di materiali che servono a produrre oggetti inutili, merci di lusso o destinate a trasformarsi istantaneamente in rifiuti. «Forse è sorprendente che le nostre fantasie di colonizzare lo spazio – che ci fanno capire che potremmo esportare i problemi invece di risolverli – stanno riemergendo». Secondo il filosofo Michael Rowan, l’inevitabilità della “crescita scalare” significa che, se fosse sostenibile la crescita globale prevista lo scorso anno per il 2014 (3.1%), «anche se miracolosamente riducessino il consumo di materie prime del 90%, ritarderemmo l’inevitabile di solo 75 anni». Morale: «L’efficentamento non serve a nulla se la crescita continua. Il fallimento inevitabile di una società basata sulla crescita e sulla distruzione dei sistemi viventi della Terra sono i fatti che opprimono la nostra esistenza. Come risultato, non se ne parla quasi mai». E’ il tabù del ventunesimo secolo, blindato dalla disinformazione.Immaginiamo che nel 3030 avanti Cristo tutte le ricchezze del popolo egiziano potessero entrare in un metro cubo, e supponiamo che questa ricchezza sia cresciuta del 4,5% all’anno: quanto sarebbe diventata grande al tempo della battaglia di Azio, tre milleni dopo? Dieci volte il volume delle piramidi? Tutta la sabbia del Sahara? L’Oceano Atlantico? Il volume di tutto il pianeta? Macché. Secondo il banchiere Jeremy Grantham, avremmo avuto bisogno di 2.5 miliardi di miliardi di sistemi solari. «Una volta compreso il significato e le proporzioni di questa conclusione – dice George Monbiot – non dovreste metterci molto ad arrivare alla paradossale posizione che l’unica salvezza sta nel crollo del sistema». Matematico: «Per continuare a far funzionare il sistema attuale dovremmo distruggerci da soli, ma se il sistema non funziona sarà il sistema stesso a distruggerci: questa è la spirale che abbiamo creato».
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Ma il mondo ha capito che Obama è più bugiardo di Bush
Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.I dati più suggestivi vengono dall’Africa, continente dove Obama aveva sempre goduto di alti indici di gradimento: la caduta delle grandi speranze nei suoi riguardi può spiegare, almeno in parte, il minor consenso in 28 dei 34 paesi esaminati, scrive Davies in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma non può spiegare perché, ora, in 15 paesi su 27 – ovvero nella maggior parte del continente nero – le persone considerano la leadership di Obama peggiore di quella di Bush (compreso il Kenya, il paese di origine della famiglia Obama). Va meglio in Europa, dove più forte era stata l’ostilità verso Bush. Ma attenzione: «Le interviste europee della Gallup, nel 2013, sono state fatte prima delle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della Nsa, e prima che l’assistente segretario di Stato, Victoria Nuland, organizzasse il colpo di stato in Ucraina, trasformando questo paese nell’ultimo campo di battaglia di quella guerra globale americana», cioè il tipo di guerra «che aveva alienato il consenso di così tanti europei all’amministrazione Bush».Le promesse di speranza e di cambiamento fatte da Obama nella campagna presidenziale del 2008 «sono progressivamente sbiadite, nei titoli dei giornali di tutto il mondo, esattamente come in America». La sua politica estera e militare? «E’ clamorosamente fallita nel segnare una rottura con le politiche di Bush». Obama «non è riuscito a chiudere Guantanamo, né a “contenere” gli alti ufficiali statunitensi responsabili dei crimini di guerra». Inoltre ha intensificato la guerra in Afghanistan con 22.000 attacchi aerei e «ha consentito centinaia di illegittimi attacchi di droni in Pakistan, Yemen e Somalia». Sempre Obama «ha ampliato le operazioni delle forze speciali fino all’incredibile numero di 134 paesi, ha lanciato sanguinose guerre “per procura” in Libia ed in Siria precipitando, questi due paesi nel caos, e ha consegnato l’Iraq e l’Afghanistan ai “signori della guerra”». Più operazioni coperte, meno occupazioni militari, più navi da guerra nel Pacifico: un’evoluzione dettata dai fallimenti in Iraq e Afghanistan e dall’ascesa della Cina, più che da una precisa visione della Casa Bianca.«Il fascino di Obama», scrive Davies, «si è sempre basato più sullo stile che sul merito. Dietro alla maschera del “cambiamento” c’è sempre stata la continuità. Né l’America né le popolazioni globali avrebbero accettato tranquillamente un altro George W. Bush». Quindi, servivano «un volto e una voce cui una popolazione sfibrata avrebbe volentieri dato il benvenuto», ma in grado di garantire, al tempo stesso, «la continuità nel controllo di Wall Street e dell’economia, e la ricerca incessante – ma sempre più sfuggente – del dominio militare americano nel mondo». La suggestione del cambiamento? «Era indispensabile per depistare e porre il bavaglio alla crescente richiesta di un cambiamento effettivo nella politica degli Stati Uniti: è questa la sfida che ha definito il ruolo intrinsecamente ingannevole di Obama come nuovo “ceo dell’America Incorporated”».I parametri della politica estera Usa dopo la guerra fredda, continua Davies, furono definiti nel 1992, per orientare i leader e aiutarli a sfruttare il meglio il dividendo acquisito con il crollo dell’Unione Sovietica. Furono precisati nel documento “Defense Planning Guidance” redatto dal sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz e dal suo assistente Scooter Libby, come trapelò sul “New York Times” nel marzo del 1992. «Quel documento fu poi sostanzialmente rivisto per oscurare le sue implicazioni a livello di offensiva globale, prima che fosse ufficialmente rilasciato il mese successivo». Il quadro politico delineato da Wolfowitz nel 1992 fu poi codificato nel 1997 da Bill Clinton e poi nel “2002 National Security Strategy”, che il senatore Edward Kennedy definì «un manifesto dell’imperialismo americano del 21° secolo, che nessun’altra nazione può o dovrebbe accettare».La politica delineata da Wolfowitz nel 1992 stabiliva un ordine mondiale in cui l’esercito statunitense sarebbe stato così schiacciante, e così pronto ad usare la sua forza, che «i potenziali concorrenti sarebbero stati indotti a non aspirare ad un qualche ruolo regionale o globale». Anche gli alleati della Nato sarebbero stati dissuasi dall’agire in modo indipendente dagli Stati Uniti, o dal formare autonomi accordi di sicurezza europea. Quell’impostazione «violava implicitamente il divieto contenuto nella “Carta delle Nazioni Unite” di minacciare o di far ricorso unilateralmente all’uso della forza militare, da parte degli Stati Uniti, contro i “potenziali concorrenti”». Era la fine del cosiddetto “internazionalismo collettivo”, cioè il multilateralismo che aveva permesso agli Alleati, vincitori della Seconda Guerra Mondiale, di dar vita all’Onu come organizzazione deputata a mediare le dispute e scongiurare i conflitti armati.Durante l’amministrazione Bush, la filosofia “neocon” di Wolfowitz «è uscita dal cono d’ombra ed è diventata un bersaglio della critica mondiale». Le radici dell’aggressione all’Iraq sono state rintracciate nel neoconservatore “Project for the New American Century”, il famigerato Pnac firmato nel 1997 da Robert Kagan e William Kristol, direttore del “Weekly Standard” fondato da Rupert Murdoch. Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz e Libby erano tutti membri del Pnac. «Ma il ruolo della moglie di Kagan, Victoria Nuland, quale leader del team del Dipartimento di Stato e della Cia che ha organizzato il colpo di Stato americano in Ucraina, ha attirato nuova attenzione sul fatto che anche sotto Obama i neocon continuano a detenere posizioni di potere e di influenza», ben insediati in tutte le stanze dei bottoni di Washington, accanto a Obama. La Nuland ha lavorato indifferentemente con Cheney, alla Nato, con Hillary Clinton e John Kerry. E suo marito, Robert Kagan, lavora al Brookings Institution e, insieme a Kristol, ha fondato il “Foreign Policy Initiative”, considerato il successore del Pnac. Obama ha citato il suo saggio “The Myth of American Decline” al discorso sullo Stato dell’Unione del 2012.Un altro neocon molto influente nell’amministrazione Obama è il fratello di Kagan, Frederick, studioso dell’“American Enterprise Institute”, mentre sua moglie Kimberly è presidente dell’“Institute for the Study of War”. «Nel 2009 erano tra i principali sostenitori dell’escalation in Afghanistan, e gli stretti rapporti con il segretario Gates e con i generali Petraeus e McChrystal ha dato loro un’influenza fondamentale nel far prendere ad Obama la decisione di intensificare e prolungare la guerra». L’ex direttore del Pnac, Bruce Jackson, è presidente del “Project on Transitional Democracies”, il cui scopo è l’integrazione dell’Europa dell’Est nell’Ue e nella Nato. Reuell Marc Gerecht, membro della “Foundation for the Defense of Democracies” ed ex agente della Cia in Iran, «è una delle voci più forti che si sono alzate a Washington per sostenere l’aggressione americana alla Siria e all’Iran, e l’abbandono di soluzioni diplomatiche per entrambi i casi». Ancora: Carl Gershman e Vin Weber sono i leader della Ned, “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione che ha pianificato il golpe a Kiev spendendo più di 3,4 miliardi di dollari. Ron Paul ha definito la Ned «un’organizzazione che utilizza i soldi delle tasse statunitensi per sovvertire la democrazia, concedendo finanziamenti a pioggia a partiti o movimenti politici di loro gradimento all’estero».Per Davies, l’influenza del neoconservatorismo si estende ben al di là della cricca dei neocon che cavalcavano l’amministrazione Bush: gli obiettivi definiti da Wolfowitz nel 1992 «sono stati scolpiti nella pietra, allo stesso modo, da tutte le amministrazioni democratiche e repubblicane: l’obiettivo della supremazia militare degli Stati Uniti è diventato un tale articolo di fede, che le alternative razionali vengono considerate come un sacrilegio o un tradimento». Non ci sono crimini che l’eccezionalismo americano non possa giustificare, dice Davies, e il genuino rispetto per uno Stato di Diritto «è visto come un’impensabile minaccia al nuovo fondamento del potere americano». Ed ecco il trucco: «L’unico modo attraverso il quale un governo può mantenere una posizione di tale illegittimità, è attraverso l’uso della propaganda, dell’inganno e della segretezza, sia contro il proprio popolo che contro il resto del mondo». Di qui il “modello Obama”, che si è evoluto grazie alle tecniche di marketing e costruzione dell’immagine fiduciaria di un presidente «trendy, sofisticato, con forti radici nell’afro-americanismo e nella moderna cultura urbana».Il contrasto tra l’immagine e la realtà, un elemento così essenziale nel ruolo di Obama, rappresenta la nuova conquista della “democrazia gestita”, che gli consente di «continuare ed espandere politiche che sono l’esatto opposto del cambiamento che i suoi sostenitori pensavano di andare a votare», scrive Davies. «Questo regime di segretezza, di inganno e di propaganda è la caratteristica essenziale della filosofia politica neoconservatrice che sta ora guidando la leadership di entrambi i maggiori partiti politici americani». E’ un pensiero che viene da lontano: Leo Strauss, il padrino intellettuale dei neocon – un rifugiato proveniente dalla Germania del 1930 – credeva che qualsiasi sforzo, seppur sincero, per ottenere un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo” fosse destinato a finire come la Repubblica di Weimar in Germania, con l’ascesa di Hitler e dei nazisti. Pensava che «qualsiasi sistema in cui il popolo avesse detenuto sul serio il potere sarebbe sicuramente finito in barbarie».La soluzione di Strauss? E’ il sistema della “democrazia gestita”, ovvero «una forma privilegiata di “alto sacerdozio” o di “oligarchia”, che monopolizza il potere reale e sovrintende ad una superficiale struttura democratica, promuovendo miti patriottici e religiosi per garantirsi la fedeltà del popolo e la coesione sociale». Il politologo Sheldon Wolin lo definisce “totalitarismo invertito”, meno apertamente offensivo del totalitarismo classico e quindi più sostenibile, oggi, nella concentrazione totale della ricchezza e del potere. Paradossalmente, dice Davies, questa nuova forma di totalitarismo “invisibile” è più insidiosa del roboante totalitarismo storico. Nel suo saggio su Strauss e la destra americana, Shadia Drury avverte: «Strauss crede che ogni cultura ed ogni sua implicita forma di moralità siano invenzioni umane, progettate dai filosofi e dagli altri geni creativi per la conservazione del gregge. Poiché la verità è buia e sordida, Strauss sostiene che il filosofico amore per la verità deve restare un appannaggio riservato a pochissimi».«Nella loro posizione pubblica – continua Drury – i filosofi devono mostrare rispetto ai miti e alle illusioni che hanno fabbricato per gli altri. Devono sostenere l’immutabilità della verità, l’universalità della giustizia e la natura disinteressata del bene, mentre segretamente insegnano ai loro accoliti che la verità non è che una mera costruzione, che la giustizia deve fare del bene agli amici e del male ai nemici, che il solo bene è il proprio piacere. La verità deve essere gustata da pochi, perché è molto pericoloso che la consumino in molti». Se tutto ciò sembra inquietante, esattamente come lo è l’atteggiamento cinico delle persone che gestiscono l’America di oggi, è perché «stiamo vivendo in un sistema politico neoconservatore e straussiano». E il presidente Obama, «lontano dal rappresentare una sorta di alternativa, è un presidente neoconservatore, anch’egli straussiano». Obama e i Clinton «si sono dimostrati praticanti più sofisticati e magistrali della politica straussiana di quanto mai lo siano stati Bush o Cheney».Il report 2013 della Gallup, la prima agenzia di ricerche statistiche del mondo, «è una prova di come si possa ingannare qualcuno per un po’ di tempo, e qualcun altro per tutto il tempo, ma non si può ingannare tutto un popolo per sempre», conclude Davies. «Dietro alla cortina di fumo della democrazia e dei valori americani, il sistema politico statunitense ricicla la ricchezza in potere politico, e il potere politico in ricchezza. Dietro al consumista “Sogno Americano”, un’economia guidata dalle oligarchie economiche e finanziarie sta portando la concentrazione di ricchezza e di potere a un livello che mai i totalitaristi del 20° secolo avevano nemmeno immaginato, sostenuta dalla corrispondente esplosione della povertà, del debito e della criminalizzazione di massa». E dietro a tutto questo «sventola all’infinito la bandiera di una politica estera militarizzata, che distrugge paese dopo paese in nome della democrazia». Se Leo Strauss aveva ragione, «il popolo americano accetterà passivamente questo regime basato sulla propaganda e sull’inganno». Se invece aveva torto, e i cittadini reagiranno, devono sapere che il tempo stringe: «I problemi che affliggono il mondo di oggi non aspetteranno ancora a lungo prima che noi si arrivi a comprendere se Leo Strauss aveva ragione o torto, nella sua oscura e sprezzante visione di chi noi siamo».Caro Obama, ci hai deluso. Firmato: 93 paesi, dalla A di Afghanistan alla Z di Zimbabwe, passando per Europa, Brasile, Medio Oriente, ex Urss, Sudamerica e Africa. Durante gli anni di Bush, le popolazioni di tutto il mondo erano inorridite dalle aggressioni, dalle violazioni dei diritti umani e dal militarismo degli americani. Nel 2008 solo una persona su tre, in tutto il mondo, approvava l’operato dei leader Usa. L’avvento di Obama trasmise un messaggio di speranza e cambiamento, e nel 2009 il monitoraggio della Gallup (Usglp, Us Global Leadership Project) registrò il forte consenso dell’opinione pubblica mondiale: il 49% del campione aveva fiducia nella nuova leadership statunitense, che però è andata riducendosi non appena Obama è passato dalle promesse ai fatti. Domanda: lei approva o disapprova la leadership Usa? In alcuni paesi, «un gran numero di persone ha rifiutato di rispondere e di esprimere un qualsivoglia parere, mascherando la disapprovazione dietro ad un silenzio dettato dalla paura», spiega Nicolas Davies.
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Kissinger: abbiamo vinto, i vostri Stati sono in bolletta
«Vedo in questa crisi globale una grande opportunità», perché «la crisi finanziaria ha fatto il trucco, cioè ha limitato i mezzi che ogni Stato aveva per affermare i propri interessi». Così Henry Kissinger, potentissimo profeta del super-potere mondiale, all’occorrenza anche golpista – ieri coi carri armati, oggi col dominio finanziario di una ristretta élite. «Non c’è neppure più bisogno d’inventarsi un nuovo ordine internazionale», dice l’ex segretario di Stato americano in un’intervista. «Già i problemi esistenti oggi costringono tutti a soluzioni comuni e globali». Li chiama “interessi comuni”, come fossero accordi amichevoli tra buoni vicini di casa, ma in realtà intende l’esatto contrario: «I vicini di casa, cioè gli Stati – scrive Paolo Barnard – vengono prima colonizzati da un unico sistema finanziario, poi sottoposti a crisi di quel sistema talmente devastanti da incatenarli l’uno all’altro, e così per salvarsi sono costretti a cedere tutte le sovranità e a trovare un unico regime politico, o un’unica gestione».Barnard la chiama “l’era degli interessi comuni”, ma ovviamente nell’accezione più orwelliana e ipocrita possibile: la nuova epoca «sarà dettata dalla nazione egemone, in particolare da una minuta élite di uomini». Per Kissinger, «uno dei sacerdoti occulti di questo complotto», l’attuale amministrazione Obama «deve saper cogliere nella crisi la scintilla per costruire un nuovo sistema internazionale». Lo scenario è favorevole: «Ci sono già importanti parallelismi d’interesse fra le grandi potenze, cioè Usa, Cina, Russia, India ed Europa». E aggiunge: «Conosco l’opinione secondo cui si comincia convertendo l’intero pianeta alla nostra filosofia politica». Il super-oligarca americano non vede grossi ostacoli: «Ho parlato a diversi leader mondiali. Ho cercato di capire fino a che punto la crisi finanziaria ha aumentato la loro disponibilità a cooperare con gli Usa».«Di nuovo: il Complotto è lampante, è di una semplicità diabolica», insiste Barnard. «Ripeto: negli scorsi 40 anni il sistema finanziario ha colonizzato tutti, dall’Iran all’Indonesia, dal Giappone alla Russia, dal Brasile a Europa, Cina, Africa. Wall Street e Eurozona fanno deflagrare la più potente crisi in quasi un secolo». L’Eurozona, in particolare, con l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, «la incancrenisce con le Austerità dell’Economicidio, che di rimbalzo mandano sempre più in crisi le potenze anche più distanti, come la Cina». Il sistema, aggiunge Barnard, funziona con degli shock che rimbalzano uno contro l’altro e ri-rimbalzano indietro per ri-sfasciare i paesi da cui si erano originati, in un domino, o cane che si morde la coda, senza fine.«I mezzi sovrani di ogni nazione vegono disabilitati dalle proporzioni immani di questi shock», come nel caso delle banche “too big to fail”, troppo grosse da affrontare coi mezzi tradizionali democratici. «E allora ecco che i cosiddetti leader mondiali vengono costretti a mettersi nella mani di élite di globocrati che sono gli unici oggi in possesso delle chiavi per spegnere questa macchina mostruosa». Interi blocchi continentali, vicini a divenire delle superpotenze economiche fino a pochi anni fa, «si consegnano a questa gestione “comune” in mano a pochissimi uomini: i Neofeudali. Ecco il Complotto». Il vero potere in mano a un’élite esigua, che ormai ha raggiunto l’obiettivo indicato quarant’anni fa dal memoriale di Lewis Powell: neutralizzare completamente lo Stato come governatore democratico del popolo. Togliendoli la linfa vitale: la possibilità di fare spesa pubblica per sostenere il sistema del benessere diffuso.«Vedo in questa crisi globale una grande opportunità», perché «la crisi finanziaria ha fatto il trucco, cioè ha limitato i mezzi che ogni Stato aveva per affermare i propri interessi». Così Henry Kissinger, potentissimo profeta del super-potere mondiale, all’occorrenza anche golpista – ieri coi carri armati, oggi col dominio finanziario di una ristretta élite. «Non c’è neppure più bisogno d’inventarsi un nuovo ordine internazionale», dice l’ex segretario di Stato americano in un’intervista. «Già i problemi esistenti oggi costringono tutti a soluzioni comuni e globali». Li chiama “interessi comuni”, come fossero accordi amichevoli tra buoni vicini di casa, ma in realtà intende l’esatto contrario: «I vicini di casa, cioè gli Stati – scrive Paolo Barnard – vengono prima colonizzati da un unico sistema finanziario, poi sottoposti a crisi di quel sistema talmente devastanti da incatenarli l’uno all’altro, e così per salvarsi sono costretti a cedere tutte le sovranità e a trovare un unico regime politico, o un’unica gestione».
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Huxley, il profeta: ci fanno amare la nostra schiavitù
Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.Eppure ci sono buone ragioni per considerarlo il più utopista tra i due. Infatti una delle ironie della storia è che le previsioni sul nostro futuro ingabbiato dai network si possono trovare tutte negli incubi dell’immaginazione di Huxley e del suo collega di Eton George Orwell. Orwell temeva che saremmo stati distrutti dalle cose di cui abbiamo paura – l’apparato di controllo statale così suggestivamente evocato in 1984. L’incubo di Huxley, rappresentato ne “Il Mondo Nuovo”, il suo grande racconto distopico, era che noi saremmo stati annientati dalle cose che tanto amiamo. Huxley era un rampollo dell’aristocrazia intellettuale inglese. Suo nonno era Thomas Henry Huxley, il biologo vittoriano che fu il più efficace divulgatore della teoria dell’evoluzione di Darwin (era soprannominato “il bulldog di Darwin”). Sua madre era nipote di Matthew Arnold. Suo fratello Julian e il fratellastro Andrew furono entrambi eminenti biologi.Alla luce di queste circostanze non stupisce che Aldous divenne uno scrittore che si spinse ben oltre i normali interessi degli ambienti letterari – si occupò di storia, filosofia, scienza, politica, misticismo e psicologia. Il suo biografo scrisse: «Scelse come suo motto personale l’iscrizione appesa al collo di un logoro straccione in un dipinto di Goya: Aún aprendo, Continuo ad imparare». Era, in un certo senso, un moderno Voltaire. “Il Mondo Nuovo” fu pubblicato nel 1932. Il titolo deriva dalle parole di Miranda nella Tempesta di Shakespeare: “Oh meraviglia! / Quante buone creature vi sono qui! / Come è bella l’umanità! Oh splendido mondo nuovo, / fatto di tali genti”. E’ ambientato nella Londra d’un lontanissimo futuro – il 2540 – e descrive una società immaginaria ispirata da due fattori: l’estrapolazione effettuata da Huxley delle tendenze scientifiche e sociali ed il suo primo viaggio negli Usa, durante il quale fu colpito da come la popolazione potesse essere palesemente soggiogata dalla pubblicità e dal consumismo.In quanto intellettuale affascinato dalla scienza, intuì (correttamente, come si è poi visto) che i progressi scientifici avrebbero finito per dare agli uomini dei poteri fino allora considerati di esclusiva appartenenza degli dèi. I suoi incontri con uomini dell’industria come Alfred Mond lo indussero a pensare che le società sarebbero state gestite con criteri ispirati al razionalismo manageriale della produzione di massa (fordismo) – ed è per questo che l’anno 2540 diventa nel racconto “l’anno 632 del Nostro Ford”. Huxley descrive la produzione di massa di figli attraverso ciò che oggi chiamiamo fecondazione in vitro; la manipolazione del processo dello sviluppo dei bambini per produrre diverse “caste” con livelli di capacità attentamente modulati, in grado di renderli adeguati ai vari ruoli sociali e industriali ad essi assegnati; e infine il condizionamento pavloviano dei bambini fin dalla nascita.In questo mondo nessuno si ammala, tutti hanno la stessa durata della vita, non esistono guerre, e le istituzioni, il matrimonio e la fedeltà sessuale sono superflue. La distopia di Huxley è una società totalitaria, gestita da una dittatura apparentemente benevola, i cui soggetti sono stati programmati per godere della propria sottomissione attraverso il condizionamento e l’uso di un narcotico – il Soma – che è meno dannoso e più gradevole di qualunque droga conosciuta. I governanti del Mondo Nuovo hanno risolto il problema di far amare alle persone la propria schiavitù. Questo ci riporta ai due scrittori di Eton, cardini del nostro futuro. Sul fronte orwelliano, stiamo andando abbastanza bene – come hanno recentemente dimostrato le rivelazioni di Edward Snowden. Abbiamo costruito un’architettura di controllo statale che lascerebbe Orwell senza fiato. E sicuramente, per chi di noi è preoccupato da tutto questo, si è rivelata durevole la capacità di Internet di agevolare tale controllo totalizzante che ha catturato la massima attenzione.In qualche modo comunque ci siamo dimenticati dell’intuizione di Huxley. Non ci siamo accorti che la nostra vertiginosa infatuazione per i giochi prodotti da Apple e Samsung – insieme alla nostra insaziabile fame di Facebook, Google e altre compagnie che ci forniscono servizi “gratuiti” in cambio degli intimi dettagli sulle nostre vite private – potrebbe rivelarsi essere una droga così potente come lo era il Soma per gli abitanti del Mondo Nuovo. Quindi anche se non ci scordiamo di CS Lewis, dedichiamo un pensiero allo scrittore che intuì un futuro in cui saremmo arrivati ad amare la nostra schiavitù digitale.(John Naughton, “Aldous Huxley, il profeta della nostra nuova distopia digitale”, dal “Guardian” del 21 aprile 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.
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Chomsky e Barnard: se gridare di rabbia non basta più
«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.«Ancora non riusciamo a fermare l’orrore delle guerre, le ingiustizie su macro-scala, la fame di milioni di bambini, l’avanzare del Vero Potere, la dittatura dei mercati», scrive oggi Barnard. «Ebbi quindi un’idea. Scrissi a Chomsky e gli proposi la formazione di un pannello di esperti a livello mondiale che per la prima volta studiassero “che cosa cambia l’umanità in meglio”, partendo da cosa l’ha cambiata in passato, per arrivare a cosa la può veramente cambiare oggi. Un pannello di storici, antropologi, psicologi, intellettuali e veri combattenti». Assioma di partenza: «Non possiamo dare per scontato che ciò che è riuscito a stemperare la barbarie di 5.000 anni – passando per la Rivoluzione Francese e illuminista, quella socialista, per quella femminista, sulla scia dell’olocausto delle guerre mondiali, durante il prodigioso arrivo della rivoluzione delle tecnologie e mezzi di comunicazione – possa funzionare anche oggi. Talmente tanto è cambiato, soprattutto il Vero Potere ha ottenuto una tale rivincita a livello planetario, che dire – come diceva proprio Noam Chomsky – che “l’umanità è sempre uscita dalla barbarie e non c’è motivo per cui questo non debba continuare”, mi appariva superficiale».Se gli attivisti che lottano “per un mondo migliore” sbagliano l’analisi e gli strumenti per il cambiamento, rischiano di consegnarsi alla vittoria finale di quello che Barnard chiama “Vero Potere”. Sì, «c’è motivo di dubitare che l’attivismo possa ottenere qualcosa», ammette Chomsky, secondo cui però “ieri si stava peggio”. Ovvero: se si crede che il punto di svolta negativo e irreparabile sia maturato negli anni ‘70, fino al fallimento dell’opinione pubblica mondiale che non è riuscita a scongiurare la guerra in Iraq, il grande intellettuale americano cita gli anni ‘60, in cui «gli Usa compivano atrocità ben peggiori di quelle fatte in Iraq». Un solo esempio, il Vietnam: «Già nel 1967 il più rispettato storico militare sul Vietnam, Bernard Fall, dubitava che quel paese potesse persino sopravvivere ad attacchi di quella ferocia. Ma le proteste erano minime. In Europa non si mosse un dito mentre mezzo milione di soldati americani, coreani, thailandesi e mercenari stavano devastando il Vietnam del sud». L’Iraq? «E’ certamente un crimine, ma non si avvicina neppure pallidamente alle atrocità della guerra in Vietnam».Non si tratta di «rinunciare alla speranza», replica Barnard, ma – al contrario – dobbiamo «prendere atto del terrificante cambiamento nelle dinamiche sociali che ha reso apatici milioni di occidentali, e trovare un antidoto a questo finché possiamo». Secondo il giornalista, già inviato di “Report”, «i tempi migliori per la rivolta sociale alla brutalità vennero negli anni ‘70, che rappresentano il culmine, la “crema” se si vuole, di 250 anni di rivoluzioni sociali». La triste novità, invece, è «la paralisi odierna delle masse occidentali, frutto di 35 anni di “esistenza commerciale” e “cultura della visibilità massmediatica”, che hanno eroso la nostra psiche collettiva, e che va peggiorando. Sono due fenomeni che vedono la luce anch’essi negli anni ‘70 e lì iniziarono ad avvelenarci». Sono due fenomeni «interamente nuovi nella storia dell’umanità», mai tanto manipolata, «così come è inedito l’effetto di addormentamento oppiaceo che hanno sulle masse». In concreto, «la nostra esistenza oggi ci priva del tempo di capire, studiare e attivarci contro la barbarie del Vero Potere, ci toglie l’autostima per essere liberi pensatori (con conseguenze catastrofiche fra i sindacati italiani e i loro lavoratori)».Per Barnard, questi sconvolgenti cambiamenti «sono una “prima” assoluta nelle dinamiche sociali umane da 5.000 anni, non possono non aver causato mutamenti nel nostro sviluppo sociale». Sono troppo enormi per essere scartati e il giornalista vi scorge «la più grave minaccia alla nostra capacità di organizzazione collettiva contro i poteri». Dunque, aggiunge: «Io invoco che noi scopriamo la chiave di quella minaccia e la disattiviamo». Questa paralizzante mutazione antropologica, replica Chomsky, in realtà «iniziò negli anni ‘20 per poi massimizzarsi negli anni ‘70». Ha certo «plasmato il pubblico», ma secondo il linguista «con risultati del tutto diversi da quelli che il potere voleva ottenere», se è vero che «l’attivismo dagli anni ‘80 ha raggiunto cime mai viste prima, e ora sta inventandosi altri percorsi creativi». I movimenti tuttavia non sono all’altezza della sfida, né dei nuovi mezzi di cui pure disponiamo? «Argomento interessante», ammette Chomsky: «Un’idea intrigante, ma non so come misurarla».«La speranza, Noam, è nei nuovi metodi», risponde Barnrad, perché «quelli consueti nell’attivismo sono diventati privi di significato», siamo assuefatti anche alla protesta, che il mainstream digerisce senza turbarsi. E allora, «che senso ha continuare ad appellarsi a masse drogate da quei e fenomeni? Quindi perché non cercare nuovi metodi, che sappiano raggiungere le immense masse di maggioranza, quelle che non sanno neppure cosa significhino le parole Fondo Monetario, quelle che credono che la Palestina sia nata da Isreale, che non s’immaginano neppure lontanamente cosa veramente costi alle vite dei contadini africani la nostra tazza di caffè della mattina?. La speranza c’è a tonnellate, Noam, ma solo se abbiamo l’umiltà di accettare che i vecchi metodi sono morti e che un nuovo arsenale va costruito». Chomsy non è d’accordo: è «travolto da richieste di conferenze, interviste, attivismo». E poi, quali sarebbero le nuove forme di lotta? Neppure Barnard lo sa, ma – almeno – è certo che i “girotondi”, le raccolte di firme e i cortei di protesta non servano più a niente.«Quali erano le vecchie forme di lotta? Nominiamole: conferenze sempre piene di fans già convertiti; le solite manifestazioni; pubblicazioni e libri, di nuovo però ospitati da editori e media “amici”; i forum sociali, ancora zeppi di amici degli amici già simpatizzanti; l’equo-solidale col Sud, ok, bene, ma sempre minuti gruppi di “belle anime”. Insomma, le “belle anime” che parlano fra di loro Noam, sempre. Ma dimmi: è sufficiente ’sta roba a combattere una macchina colossale di potere finanziario, mediatico, industriale, politico e massmediatico che ha intrappolato 800 milioni di persone in una frenesia di vita e di indebitamento? Dimmi, Noam: le “belle anime” stanno convincendo e dando potere al taxista, al negoziante, all’impiegato, al pensionato, ai tifosi, alle discotecare, ai poliziotti, ai contadini, agli operai, ai conservatori, ai manager, ai colletti bianchi, gli anziani, ai qualunquisti, ai confusi, a chi non ha tempo per respirare la sera a casa? Sono milioni e votano! Non so, forse negli Usa avete fatto una miracolo, ma qui il movimento No-Global è conosciuto dal 99% come i black block che spaccano le vetrine, e nessuno sa nulla delle loro battaglie contro il Wto e i trattati di libero scambio coi poveri del Sud».«Gli Usa – replica Chomsky – sono oggi una nazione molto più civile di prima, e non è stato per magia. Questo include anche le aggressioni militari. Oggi nessun presidente qui potrebbe cavarsela con quello che hanno fatto Kennedy e Johnson nel sud est asiatico. E lo sanno». Chomsky è felice di essere riuscito a tenere una conferebza a mille cadetti e ufficiali di West Point sul tema della “guerra giusta”. E’ vero, il più delle volte la platea è fatta di “amici”, ma comunque «anni fa gli amici erano tre persone in una chiesa, oggi possono essere 5.000 di ogni estrazione in alcuni dei posti più reazionari d’America, e che ti ascoltano con attenzione. Questo è il risultato di molti anni di attivismo da parte di un sacco di gente, e mi sembra un’ottima cosa». Era solo il 2007, Chomsky non aveva ancora visto la Grande Crisi nella sua espressione più disumana, quella europea: un pugno di criminali, ha detto di recente, ha distrutto l’Europa. «Si credono i padroni del mondo. Dobbiamo fermarli». Già, ma come?«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.
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Se crolla Internet: l’apocalisse, in appena 48 ore
«Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul “New Yorker”, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr. Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini. Tra le cause, spiccano due anomalie.Primo, nella Rete la sicurezza non è una priorità così stringente come lo è per esempio nel trasporto aereo (dove gli incidenti diminuiscono da anni anziché aumentare). Secondo punto, a conferma del primo: molti dispositivi di sicurezza (come il software di crittografia OpenSsl che è stato vittima del supervirus Heartbleed) sono frutto di lavoro volontario, semi-gratuito o scarsamente remunerato, nonostante gli immensi profitti incassati dai giganti dell’economia digitale. Ma questa sottovalutazione potrebbe portarci verso un cataclisma molto peggiore. È il Grande Blackout della Rete, evocato in una conferenza “Ted” da Dan Dennett, raccogliendo plausi e allarme nel mondo degli esperti. «Cerchiamo almeno di prepararci a sopravvivere per le prime 48 ore di caos e paralisi totale», è una delle esortazioni di Dennett. In quei primi due giorni forse ci giocheremmo tutto, l’umanità (almeno quella che abita nei paesi avanzati) rischierebbe di retrocedere in una sorta di Medioevo.«L’11 settembre 2001 sembrerebbe un episodio minore, al confronto», rincara Dennett, ricordando che in effetti l’attacco alle Torri Gemelle avvenne in un’era quasi preistorica dal punto di vista della nostra dipendenza digitale. Dennett non è un apocalittico. Al contrario, a 72 anni il celebre scienziato e filosofo cognitivo è considerato uno dei più grandi esponenti di un pensiero laico, iper-razionale. Direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University di Boston, Dennett è autore di numerosi saggi tradotti in italiano (tra gli ultimi “La religione come fenomeno naturale”). Ai cicli di conferenze “Ted”, affollati di esperti di informatica, lui viene presentato come “il filosofo preferito dagli studiosi dell’intelligenza artificiale” per le sue analisi sull’analogia tra il pensiero umano e il funzionamento della robotica. Quando lo intervisto, partiamo dallo scalpore che ha suscitato la sua profezia sul Grande Blackout.Questo pericolo è sempre apparso remoto, per via della struttura stessa di Internet: agli antipodi di un sistema centralizzato, la Rete è stata concepita fin dalle origini per essere policentrica, federata, non gerarchica, diffusa, flessibile, perciò stesso non esposta ad un collasso generale. «Verissimo – mi dice Dennett – e infatti tutti sono ammirati dalla robustezza, anzi dalla resilienza di Internet. E tuttavia il monito che ho lanciato non è un’idea mia, l’ho raccolta consultando molti esperti di tecnologia. Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Alcuni esperti calcolano che un Grande Blackout abbia probabilità remote, ma non nulle. Potrebbe accadere fra moltissimo tempo, o la settimana prossima ». Evento improbabile ma non impossibile, un po’ come il Big One nella versione estrema (con mezza California che sprofonda nel Pacifico).Ieri, intanto, si è registrato il down di Instagram, il social network di condivisione di fotografie, rimasto fermo per ore. Quello che preoccupa Dennett è la totale mancanza di preparativi. O perfino di immaginazione. «La gente non si rende conto che oggi tutto dipende dalla Rete, nessuna funzione vitale può continuare se si blocca Internet. Qui negli Stati Uniti si spegnerebbero tv e cellulari, si fermerebbero bancomat, supermercati, distributori di benzina. Ecco perché il maggiore pericolo sarebbe il panico, il folle panico delle prime 48 ore, quando la gente non sa che fare, non ha notizie, non ha istruzioni, non ha mai fatto un’esercitazione per prepararsi. Occorre un piano-B per resistere le prime 48 ore, in attesa che si riattivi qualche funzione essenziale della società. Altrimenti si rischia la disperazione di massa, e dunque la disintegrazione di una civiltà».Il piano-B, come “battello di salvataggio”. Dennett usa proprio quest’immagine, il vecchio canotto di salvataggio in dotazione obbligatoria sulle navi e i traghetti, con torce elettriche, acqua potabile e altri strumenti di soccorso. Ma il suo canotto di salvataggio dovrebbe includere «una seconda Rete, un Internet isolato e autonomo, pronto a mettersi in funzione, riservato esclusivamente agli scopi vitali, alle comunicazioni di emergenza». Quando ci fu l’attacco dell’11 Settembre, c’erano ancora delle tecnologie pre-digitali che ora stanno scomparendo. Molti telefonini a Manhattan si ammutolirono, ma le tv funzionavano, la radio pure. Oggi è tutto talmente interconnesso che il Grande Blackout sarebbe davvero totale. Proprio perché è uno dei massimi pensatori della razionalità, Dannett mi spiega di aver lanciato il suo appello «anche per dare un’alternativa ai Survivalist, quei movimenti apocalittico-religiosi che hanno una presa sull’opinione pubblica americana, ispirano filoni di cinema e tv, s’impadronirebbero del Grande Blackout digitale per immaginare un mondo post-civilizzato, uno scenario da Independence Day».Curiosamente, mentre nella Silicon Valley è obbligatorio fare esercitazioni regolari per le evacuazioni in caso di terremoto (la zona è sismica), non esiste nulla di simile per un cataclisma digitale. Presunzione? O avarizia? «Certo i costi del piano-B sono elevati – riconosce Dennett – ma bisogna prendere sul serio questo pericolo, il buio elettronico non è abitabile per gli occidentali del 2014, abituati ad avere un intero universo d’informazione alla portata dei polpastrelli sul display dello smartphone. In uno scenario di caos generale, molti di noi hanno perso da tempo quei nuclei locali di sostegno che un tempo si chiamavano la parrocchia, il club, le associazioni di quartiere. Una parte delle spese per attrezzarci collettivamente dovrebbero sostenerle le banche, che sono tra le più vulnerabili». E la Casa Bianca, dopo gli avvertimenti dei cyber-attacchi contro i suoi siti? È possibile che Washington non abbia pensato di prepararsi all’ipotesi finale, la più estrema? «Ci pensano, c’è dell’interesse – risponde – ma c’è anche una reticenza, un gioco di veti. La destra repubblicana non vuole che sia un’amministrazione democratica ad aprire un cantiere di sicurezza di queste dimensioni, che potrebbe sfociare in nuovi poteri per il governo federale». Di certo lui trova paradossale che «Internet ci abbia reso così dipendenti, al punto da poterci ricacciare verso l’età della pietra».(Federico Rampini, “Se crolla Internet, da “La Repubblica” del 13 aprile 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).«Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul “New Yorker”, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr. Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini. Tra le cause, spiccano due anomalie.
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Nella tela di Atropo, coi malati abbandonati nelle strade
Sappi, amica, che la citta è sotto assedio e che presto dovrà soccombere. I nuovi egemoni hanno fatto circondare l’acropoli con una coltre invisibile. Ti è stato risparmiato, di provare questa vergogna, e questo è giusto, poiché tu scegliesti di rifiutare anche l’abbraccio del sudario. Ora gli umani sono prossimi all’inèdia, ed è stato detto loro che debbono essere grati, perché non morranno subito. Prima dovranno amare il loro destino, e desiderarne ogni più recondita fibra. Quando il colpo finale verrà vibrato, ad essere spazzate via saranno statue, con orbite vuote per il troppo piangere, non più creature animate da un soffio vitale.Chiederai chi siano questi padroni, venuti a dettare legge dal nulla. Tre è il loro numero, come tre furono le tessitrici. Ricordi Klotho la filatrice, Lachesis colei che assegna in sorte, e poi l’inesorabile, Atropo, la vecchia che tagliava la vita degli uomini.Le tre Moire regnarono senza nemici, senza doversi curare d’alcuna resistenza. Le genti d’allora sapevano, o credevano di sapere, che al destino non v’è rimedio, che anche pensare agli dei è solo un gioco, il canto sussurrato del bimbo che si avventura nell’oscurità, e racconta a sé stesso una favola. Così chi viaggiava sotto il sole trascorreva i suoi giorni, col capo piegato e le spalle appesantite dal giogo della paura. Poi la scintilla della sfida iniziò a brillare, e non seppe più fermare il suo brillìo. Dapprima, prese la forma del mito, e come tale si nascose nel conforto dell’ambiguità. Icaro, Prometeo, sceglievano di opporsi a quel che era scritto, ma venivano puniti. A questi esseri finiti e fragili non pareva vero di poter scegliere, e sapevano sempre trovar conforto nell’immaginar torture per chi fuggiva dalla gabbia. Quando il pensiero emerse da quest’informe boscaglia di pulsioni, fu un nuovo inizio.A quell’epoca, se ne accorsero in pochi, ché la lotta per sopravvivere non permetteva di guardare oltre l’orizzonte della propria fatica. Alcune frasi dei filosofi, tuttavia, presero a viaggiare, e viaggiando crearono scandalo. Non potrò essere felice al banchetto se qualcuno è troppo povero per prendervi parte. Queste parole segnarono la fine d’un età dove il privilegio veniva lodato come un merito. Certo, la superstizione non cessò d’ammorbare l’aria, ma un’inquietudine s’era diffusa, una nostalgia dei giorni a venire. Infine, quando ormai gli idoli giacevano a terra infranti, la lotta assunse il volto più vero e più acre, la posta in palio divenne il dominio d’ogni cosa. Da un lato, gli avvoltoi, bramosi di cibarsi dei dolori altrui, dall’altro le moltitudini, non più afflitte dal ricorso all’oppio dell’autorità.Fu uno scontro immenso, lungo un secolo, non privo di compromessi, astuzie e inganni. I vincitori non tralasciarono nulla, anche i ricordi e le speranze degli schiavi. Ora le Moire sono tornate, e di nuovo impongono la misura della vita di ciascuno. Esse vengono per dividere. Immaginale, se puoi giungere a tanto, mentre preparano una mistura di silicio per estrarne delle monete fatte di fumo e di ombra. Gli uomini credono che questo rito sia verità incarnata, e fremono perché si credono inadeguati al cospetto dei giochi di prestigio. E’ giunta voce che non si debbano più prestare cure agli abitanti della città, non ne sono degni, non hanno seguito le esortazioni che giungevano dall’alto.I malati verranno abbandonati ai bordi delle strade, e questo creerà nuove e più gravi pestilenze. I fanciulli, abbandonati da chi li ha messi al mondo, già cadono svenuti ai piedi dei loro insegnanti. Forse dovrei dire che fosti fortunata, amica, a vederti risparmiare tutto ciò. Non lo credo. In ogni tuo singolo giorno, hai tenuta alta la lanterna per illuminare la via. Così facendo, donasti fiducia ad ognuno di noi.(Alberto Melotto, “La tela di Atropo”, 8 maggio 2014. Pubblicista e collaboratore di “Megachip”, Melotto è il presidente torinese di “Alternativa”, laboratorio politico fondato da Giulietto Chiesa).Sappi, amica, che la citta è sotto assedio e che presto dovrà soccombere. I nuovi egemoni hanno fatto circondare l’acropoli con una coltre invisibile. Ti è stato risparmiato, di provare questa vergogna, e questo è giusto, poiché tu scegliesti di rifiutare anche l’abbraccio del sudario. Ora gli umani sono prossimi all’inèdia, ed è stato detto loro che debbono essere grati, perché non morranno subito. Prima dovranno amare il loro destino, e desiderarne ogni più recondita fibra. Quando il colpo finale verrà vibrato, ad essere spazzate via saranno statue, con orbite vuote per il troppo piangere, non più creature animate da un soffio vitale. Chiederai chi siano questi padroni, venuti a dettare legge dal nulla. Tre è il loro numero, come tre furono le tessitrici. Ricordi Klotho la filatrice, Lachesis colei che assegna in sorte, e poi l’inesorabile, Atropo, la vecchia che tagliava la vita degli uomini.
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In bikini per Tsipras, che ignora le cause dell’euro-lager
«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?Come può convivere l’etica del marketing con la lotta al mercato e al capitalismo? «Marxisti in crisi di identità? Marxisti dell’Illinois? (da una famosa scena del film “The Blues Brothers”, anche se là erano nazisti)», scrive la Spadini su “Come Don Chisciotte”. «Gli tsiprioti infatti sono quegli esseri che viaggiano sollevati a un palmo da terra (come Remedios la Bella di “Cent’anni di solitudine”), sono entità moralmente sovrannaturali, si spendono e si spandono per i diritti umani di tutta l’umanità, sono gli oracoli viventi dell’“unico dogma” che può salvare la pace, la libertà, la democrazia, sono i profeti dell’“unica verità socialista, marxista, comunista”. Quale complicità ci può essere tra i novelli Templari del marxismo, i monaci militanti della fratellanza universale e la subdola seduzione del mercato? Quale connivenza tra le loro esistenze votate all’ideale universalistico della distribuzione globale dei diritti e la sporcizia morale di chi seduce con una sveltina (per di più anale) in cambio di un voto?».Senza considerare, aggiunge Spadini, che spesso gli “tsiprioti” provengono dalle vaste e profonde gole di “Micromega”, frequentate da intellettuali che hanno attraversato gli anni tormentati del berlusconismo «ragionando sapientemente dei massimi sistemi dell’esistenza, senza che il loro nobile pensiero si traducesse mai in risoluzione pratica dei problemi sociali, confondendo spesso l’astrattezza della loro speculazione filosofica con l’astuta strategia politica di chi intercetta e decifra le esigenze del reale». Ecco perché gli “tsiprioti” sono andati in Grecia a cercarsi un loro degno rappresentante: «Perché in Italia non c’era nessun Zarathustra degno di fede, non c’era nessuno che potesse corrispondere ai loro criteri di selezione darwiniana della specie eletta degli ubermensch». Ma Tsipras e i suoi followers, a partire da Barbara Spinelli, «non sembrano capire che un’Europa federale e democratica dei popoli fratelli non è possibile se non uscendo da quel lager eurocratico che la sta devastando».Secondo Rosanna Spadini, «non ci può essere democrazia se non all’interno dello Stato-nazione, non ci può essere sovranità economica se non restaurando la collaborazione tra Tesoro e Bankitalia che è stata interrotta dal “divorzio” del 1981 (legge Ciampi-Andreatta), e non ci può essere benessere sociale se non recuperando la nostra indipendenza politica e democratica». Per di più, «questi monaci militanti della fratellanza globalizzata, che ha anche impedito in Italia la nascita di una coscienza nazionale, concezione da loro soavemente disprezzata, confusa con quella di nazionalismo (che è decisamente un’altra cosa), questi sacerdoti laici che celebrano quotidianamente il loro anacronistico rito liturgico, sono stati sempre la ruota di scorta dei poteri forti, “utili idioti” al servizio del sistema neoliberista, ottusi strumenti nelle mani del potere eurocratico, tribuni di strategie politiche del nulla, sempre e comunque perdenti, proprio perché connaturate amabilmente al potere costituito (vedi Laura Boldrini)».Non si rendono conto, aggiunge Spadini nella sua requisitoria, che l’Europa odierna sta vivendo uno dei momenti più tragici della propria storia: non potrà cambiare il proprio destino se non facendo una diagnosi precisa della cause che hanno provocato il disastro. E’ «un “golpe bianco” che viene da lontano, dal crollo del muro di Berlino del 1989, quando il sistema capitalistico-imperialistico-neoliberista rimasto unico ordine mondiale, si apprestò a dissolvere gli Stati-nazione, privandoli della loro sovranità politico-economica, per ricomporli in quell’orrido organismo sovranazionale, privo di identità e di cultura, che è appunto l’Unione Europea». Un “golpe bianco” che «si serve dell’euro come arma di distruzione di massa per imporre politiche di austerity che devastano l’economia e i diritti, una dittatura finanziaria che ha imposto i trattati-capestro, dal Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), quando al contrario i popoli di Francia e Olanda avevano ampiamente bocciato la Costituzione Europea».Il “nemico” da riconoscere «una dittatura finanziaria che ha poi aperto la strada all’inarrestabile corso dei tagli alla spesa pubblica (che invece statisticamente non oltrepassa la media dei paesi europei), al ciclo delle privatizzazioni, alla precarizzazione a vita del lavoro e alla devastazione del welfare, straordinaria conquista sociale delle lotte del Novecento, ma anche strategia funzionale all’antagonismo tra il benessere capitalistico dell’ovest europeo, opposto al malessere comunista del suo nemico storico, rappresentato dall’Urss, durante il periodo della guerra fredda». Pertanto, Tsipras e «i suoi gattopardeschi followers» vorrebbero rimuovere gli effetti disastrosi della dittatura eurocratica «senza toccarne le cause, rappresentate dall’euro e dai trattati». E questo, purtroppo o per fortuna, è ben più importante dell’ostentata esposizione delle terga della giovane portavoce in bikini.«Qualche giorno fa Paola Bacchiddu, responsabile per la comunicazione della lista “L’altra Europa con Tsipras” ha postato una propria foto in bikini, con il culo seminudo ben in evidenza in primo piano, accompagnata dal seguente commento: “Ciao è iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate l’Altra Europa con Tsipras”». Un voto in cambio di un desiderio, scrive Rosanna Spadini: un voto in cambio di una proposta indecente? Vince «l’etica della modernità liquida», il monoteismo del marketing: non avrai altro mercato al di fuori di me, ricordati di santificare lo shopping, onora ogni mio desiderio, non uccidere la libidine dentro di te, ama il piacere tuo come te stesso. «Non si capisce a questo punto quale relazione ci possa essere tra il rigore moralistico laico degli tsiprioti, che per certi versi è dogmatico e reverenziale quanto quello cristiano, e la nuova morale postmoderna della società globalizzata, dominata dal neoliberismo sovranazionale planetario». Quale etica, nel tempo dell’assoluta mancanza di etica?
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Torino, l’Hotel Gramsci e la sinistra che rinnega tutto
L’hotel di lusso a cinque piani sorgerà nel centro di Torino, in Piazza Carlo Emanuele: si chiamerà Hotel Gramsci. Sorgerà sulle ceneri della casa in cui Antonio Gramsci abitò dal 1919 al 1921, fondando “L’Ordine Nuovo” e gettando le basi del futuro Pci. Non conosco, personalmente, miglior modo di descrivere la storia della sinistra italiana: il passaggio dalla nobile figura di Antonio Gramsci all’hotel di lusso a lui dedicato, con il pieno sostegno della sinistra cittadina. È l’emblema dell’involuzione indecente della sinistra, la tragicomica vicenda del “serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd” (la definizione è di Costanzo Preve): in essa è possibile leggere, in filigrana, una dialettica di progressivo abbandono dell’anticapitalismo e di graduale integrazione, oggi divenuta totale, alle logiche illogiche del mercato divinizzato da parte delle forze di sinistra.L’Hotel Gramsci presenta una sinistra (!) analogia con il Grand Hotel Abisso di cui diceva Lukács nella “Distruzione della ragione”. Il paradosso sta nel fatto che la sinistra oggi, per un verso, ha ereditato il giacimento di consensi inerziali di legittimazione proprio della valenza oppositiva dell’ormai defunto Partito Comunista e, per un altro verso, li impiega puntualmente in vista del traghettamento della generazione comunista degli anni Sessanta e Settanta verso una graduale “acculturazione” (laicista, relativista, individualista e sempre pronta a difendere la teologia interventistica dei diritti umani) funzionale alla sovranità irresponsabile dell’economia. I molteplici rinnegati, pentiti e ultimi uomini che popolano le fila della sinistra si trovano improvvisamente privi di ogni sorta di legittimazione storica e politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa di mobilitazione conservatrice.Per questo, la sinistra continua inflessibilmente a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede ideologica precedente nell’atto stesso con cui abdica completamente rispetto al proprio originario spirito di scissione, aderendo alle logiche del capitale in forme sempre più volgari. Si tratta del tradizionale zelo dei neofiti, a cui peraltro – accanto ai riti di espiazione – si aggiunge il fatto che, sulla testa dei pentiti, pende sempre la spada di Damocle del loro passato comunista, che, ancorché rinnegato, può sempre essere riesumato all’occasione. Lungo il piano inclinato che dalla nobile figura di Antonio Gramsci porta a Massimo D’Alema, si è venuto consumando il tragicomico transito dalla passione trasformatrice di matrice marxiana al disincanto weberiano fondato sulla consapevolezza della morte di Dio, con annessa riconciliazione con l’ordo capitalistico. Con i versi di Shakespeare, “lilies that fester smell far worse than weeds”: orribile più di quello delle erbacce è l’odore dei gigli sfioriti.(Diego Fusaro, “Hotel Gramsci”, da “Lo Spiffero” del 15 aprile 2014).L’hotel di lusso a cinque piani sorgerà nel centro di Torino, in Piazza Carlo Emanuele: si chiamerà Hotel Gramsci. Sorgerà sulle ceneri della casa in cui Antonio Gramsci abitò dal 1919 al 1921, fondando “L’Ordine Nuovo” e gettando le basi del futuro Pci. Non conosco, personalmente, miglior modo di descrivere la storia della sinistra italiana: il passaggio dalla nobile figura di Antonio Gramsci all’hotel di lusso a lui dedicato, con il pieno sostegno della sinistra cittadina. È l’emblema dell’involuzione indecente della sinistra, la tragicomica vicenda del “serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd” (la definizione è di Costanzo Preve): in essa è possibile leggere, in filigrana, una dialettica di progressivo abbandono dell’anticapitalismo e di graduale integrazione, oggi divenuta totale, alle logiche illogiche del mercato divinizzato da parte delle forze di sinistra.
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Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.
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Della Luna: indipendentisti veneti e violenza di Stato
Pericolo indipendista? Non scherziamo, dice l’avvocato Marco Della Luna: «In Italia, le uniche organizzazioni capaci di condurre una vasta e metodica azione militare sono le mafie». Gli indipendentisti irlandesi che conquistarono la libertà nel 1922 dopo otto secoli di occupazione britannica «lo fecero con metodi che i veneti e i padani non sono assolutamente in grado di replicare né di digerire moralmente». Della Luna, sul suo blog, ricorda di aver personalmente conosciuto alcuni degli attivisti veneti ora arrestati con l’accusa di aver commesso reati eversivi: «Erano persone del tutto incapaci di violenza organizzata e metodica. Spirito marziale zero. Dissi loro che non è pensabile conquistare l’indipendenza con la forza, mancando la mentalità, il temperamento, la volontà di combattere realmente, indispensabili per l’auto-liberazione sul modello irlandese». Riformare lo Stato in senso democratico per vie legali? «E’ pure impossibile, perché il potere costituito non molla la gallina dalle uova d’oro. E aspettare poi che siano gli stranieri a liberarci, è semplicemente assurdo».Secondo Della Luna, ogni unione tra aree geografiche con diversi livelli di produttività «funziona male e tende a degenerare», perché «esclusi gli Usa, che scaricano i costi sul resto del mondo attraverso il dollaro», per tenere insieme le parti tendenzialmente divergenti lo Stato «deve trasferire reddito dalle aree più produttive a quelle meno produttive, col risultato di super-tassare le prime». Si finisce per tagliare fondi per l’investimento e l’innovazione e si provica una fuga di capitali, imprese e cervelli. Sicché, sempre secondo Della Luna, col tempo le aree “forti” si impoveriscono, e così non riescono neppure più a «sussidiare le aree meno produttive». In questo modo, anziché correggere il sistema, si incentivano e si stabilizzano «le caratteristiche disfunzionali delle aree meno produttive», cioè «sprechi, mafie, corruzione, parassitismo», favorendone la propagazione verso le aree “forti” attraverso l’emigrazione interna, «in Italia soprattutto attraverso il pubblico impiego».Per Della Luna, si genera «un livellamento al basso, un degrado civile, un impoverimento globale» che destabilizza il sistema-paese «quando lo Stato centrale non è più in grado di “comprare” il consenso o perlomeno la quiete mediante l’assistenzialismo», e dunque «si mette a consumare con le tasse e con le privatizzazioni il risparmio e le risorse». Si raschia il fondo del barile, esaurendo le riserve. «Aree di diversa produttività (e mentalità) abbisognano di bilanci, monete e politiche economiche separate», insiste Della Luna. «Questa è la ragione oggettiva per la quale, insieme all’Eurozona, anche l’Italia – come assemblato di aree eterogenee – funziona male». Problemi a cascata: «Funzionando male», gli aggregati disomogenei «per sopravvivere arrivano alla violenza», che nel caso dell’Eurozona è «la violenza distruttiva di regole finanziarie economicamente assurde e controproducenti, con la quali la Germania si difende dal pericolo della solidarietà coi paesi mediterranei», a cui nel nostro caso si aggiunge «la violenza famelica, cieca e distruttiva della casta italiana».Una casta che, «per procurarsi i soldi necessari a mantenere i suoi redditi e privilegi», ben sapendo di essere «in un paese che affonda», da un lato «si asservisce agli interessi tedeschi», e dall’altro lato «spreme ciecamente il Nord e soprattutto il Veneto (40 miliardi l’anno) mentre chiude uno o due occhi sugli sprechi e sull’evasione fiscale e contributiva delle regioni più sussidiate, incurante delle imprese che muoiono, degli imprenditori che si suicidano, dei flussi migratori di aziende, imprese e lavoratori». Questa, aggiunge Della Luna, «è violenza reale di ogni giorno, che distrugge e uccide, che annienta il futuro». Violenza «perpetrata attraverso il fisco e il braccio armato dello Stato contro i lavoratori e interi popoli produttivi da parte di gente spinta da una bramosia di denaro simile a quella degli eroinomani disposti ad ammazzare i genitori per trovare i soldi della dose quotidiana». L’avvocato la definisce «violenza organizzata, armata, legale, ingiusta. Violenza al potere. Violenza che col Parlamento si fa le leggi per blindarsi e assolversi. Ad oltranza».L’Italia, sostiene Della Luna, è «preda di 10 milioni di voti, mafiosi o clientelar-parassitari». Con questa base di partenza «non si potrà mai cambiare veramente». Le mafie, tra l’altro, «si rinforzano con l’immigrazione incontrollata», che «provoca una concorrenza sleale tra lavoratori nostrani e no: chi non lavora cerca assistenzialismo». Così, «il cancro aumenta vertiginosamente le sue metastasi: poi il malato (Italia) muore generando un mostro incontrollabile che si dirigerà spavaldamente verso una più evidente forma di tirannia».Della Luna è pessimista: per lui, l’unica via d’uscita da questo sistema oppressivo e concertato con le potenze economiche estere è la «secessione pacifica». Ovvero: «Andarsene, trasferirsi con beni e risparmi in qualche paese migliore, lasciando gli italiani ad arrangiarsi. Trasferirsi in gruppo, in modo organizzato, dopo aver concordato con le autorità dei paesi di destinazione condizioni favorevoli per una nuova vita».Pericolo indipendentista? Non scherziamo, dice l’avvocato Marco Della Luna: «In Italia, le uniche organizzazioni capaci di condurre una vasta e metodica azione militare sono le mafie». Gli indipendentisti irlandesi che conquistarono la libertà nel 1922 dopo otto secoli di occupazione britannica «lo fecero con metodi che i veneti e i padani non sono assolutamente in grado di replicare né di digerire moralmente». Della Luna, sul suo blog, ricorda di aver personalmente conosciuto alcuni degli attivisti veneti ora arrestati con l’accusa di aver commesso reati eversivi: «Erano persone del tutto incapaci di violenza organizzata e metodica. Spirito marziale zero. Dissi loro che non è pensabile conquistare l’indipendenza con la forza, mancando la mentalità, il temperamento, la volontà di combattere realmente, indispensabili per l’auto-liberazione sul modello irlandese». Riformare lo Stato in senso democratico per vie legali? «E’ pure impossibile, perché il potere costituito non molla la gallina dalle uova d’oro. E aspettare poi che siano gli stranieri a liberarci, è semplicemente assurdo».