Archivio del Tag ‘Formiche.net’
-
La Meloni entra nell’Aspen, salotto del massimo potere
Cresce nei sondaggi, presiede un partito europeo, parla americano. Continua la scalata a stelle e strisce di Giorgia Meloni. L’ultima novità arriva dall’Aspen Institute, uno dei più grandi e prestigiosi think tank statunitensi al mondo, in Italia presieduto da Giulio Tremonti. Nella lista dei soci per il 2021 spunta anche il nome della leader di Fratelli d’Italia. Fa compagnia al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e a suo figlio Giulio, ordinario a Roma Tre, a Paolo Mieli e al luminare Walter Russell Mead. E poi ancora Roberto Maroni, Antonio Martino e Antonio Marzano, l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo e il direttore generale per le “riforme strutturali” in Ue Mario Nava. Non può non balzare all’occhio il nome dell’aspirante leader della destra italiana, indicata con un laconico “deputato, Roma” in mezzo alla lista. L’Aspen infatti non è un think tank qualsiasi.Il distaccamento italiano si affaccia su Piazza Navona ed è da decenni crocevia di diplomatici e accademici, intellettuali e politici, americani e non. Anche il nuovo presidente americano Joe Biden, in una delle ultime trasferte a Roma da vice di Barack Obama, ha fatto tappa all’Aspen per una conferenza internazionale. La Meloni non è davvero nuova in quel mondo. È stata più di una volta ospite dei convegni che l’istituto organizza in una sontuosa sala affrescata. Ora ci torna in veste di socio, una notizia che qualcosa racconta del percorso fatto dalla leader di Fdi nell’ultimo anno. Alla cavalcata nei consensi, che la vedono tallonare a poca distanza Matteo Salvini, la Meloni ha affiancato un’operazione di re-styling per scacciare l’immagine di una destra anti-europeista ed eternamente tentata da una pregiudiziale anti-americana.Di qui la scelta di impegnarsi, fino ad assumerne la presidenza, unica donna a ricoprire quel ruolo a Bruxelles, nel partito dei Conservatori europei. O ancora il viaggio in America per parlare come ospite al Cpac (Conservative Political Action Conference), il gotha della destra Usa. Con l’entrata in Aspen cade definitivamente un ultimo cliché, quello di una destra che non vuole parlare con i “poteri forti” e che da questi viene evitata. Nel think tank Usa non mancano certo nomi illustri, a leggere chi fa parte del comitato esecutivo. C’è Mario Monti e il presidente onorario Giuliano Amato, Marta Dassù e Gianni Letta, Paolo Savona e Romano Prodi, l’ad di Enel Francesco Starace e John Elkann come vicepresidente.(Francesco Bechis, “Meloni l’americana. Se la leader di Fdi entra nell’Aspen Institute”, da “Formiche.net” del 1° febbraio 2021).Cresce nei sondaggi, presiede un partito europeo, parla americano. Continua la scalata a stelle e strisce di Giorgia Meloni. L’ultima novità arriva dall’Aspen Institute, uno dei più grandi e prestigiosi think tank statunitensi al mondo, in Italia presieduto da Giulio Tremonti. Nella lista dei soci per il 2021 spunta anche il nome della leader di Fratelli d’Italia. Fa compagnia al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e a suo figlio Giulio, ordinario a Roma Tre, a Paolo Mieli e al luminare Walter Russell Mead. E poi ancora Roberto Maroni, Antonio Martino e Antonio Marzano, l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo e il direttore generale per le “riforme strutturali” in Ue Mario Nava. Non può non balzare all’occhio il nome dell’aspirante leader della destra italiana, indicata con un laconico “deputato, Roma” in mezzo alla lista. L’Aspen infatti non è un think tank qualsiasi.
-
La verità su virus e Cina in Italia: ora si indaga alla Camera
È possibile che dopo 11 mesi di pandemia non si conosca ancora la verità su quanto accaduto a Wuhan? «Il Covid viene dalla Cina, ma ciò che si sa del Covid è solo quello che la Cina ha deciso di farci sapere. E quel che è peggio, l’Oms, fortemente influenzata dal regime di Pechino, si è dimostrata compiacente». Non è soltanto un disastro epidemiologico, scrive Federico Ferraù sul “Sussuidiario”: è anche un caso politico di proporzioni planetarie. È per questo che la Lega ha chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta “sulle cause dello scoppio della pandemia di Sars-Cov-2 e sulla congruità delle misure adottate dagli Stati e dall’Oms per evitarne la propagazione nel mondo”. Nella commissione esteri della Camera è stata eppena incardinata la proposta di legge che istituisce la commissione. Primo firmatario il deputato leghista Paolo Formentini, intervistato dallo stesso Ferraù. Prima domanda: perché una commissione d’inchiesta? «Tanti virologi in tutto il mondo hanno denunciato l’inefficienza dell’Organizzazione mondiale della sanità, e questo punto pare acclarato», dice Formentini. «Non intendo trarre conclusioni affrettate, ma le voci che si levano in questa direzione sono tante, e per questo vanno valutate con estrema attenzione».Quali sono gli elementi che non tornano? «Il grande ritardo nella comunicazione della pandemia all’Oms da parte della Cina, e poi dell’Oms al mondo. Come è stato ampiamente osservato, l’Oms si è dimostrata indulgente nei confronti della Cina. Fattori geopolitici inducono a mettere in relazione questo elemento con la penetrazione della Cina in Africa, compreso il paese – l’Etiopia – di provenienza del direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus». Sulla pandemia, sottolinea Formentini, non esiste ancora un’indagine dipendente. Era stata «richiesta a gran voce da più di un centinaio di paesi», ma ancora oggi «tutto procede a rilento». Motivo? «Per coordinarla sono state scelte figure pregiudizialmente favorevoli alla Cina, come l’ex presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf. E i panel di lavoro risultano composti da scienziati graditi alla Cina o scelti direttamente da Pechino. Passano i mesi – aggiunge Formentini – e su ciò che è accaduto a Wuhan si continua a non sapere niente di più di quanto Pechino ha concesso di sapere».Formentini ricorda che la Lega ha chiesto inutilmente al governo Conte se l’Italia volesse imitare gli Usa, che dall’Oms si sono ritirati. Durante un’audizione alla Camera, lo stesso Formentini ha chiesto a Ranieri Guerra (Oms) se potesse escludere al 100% che il virus possa avere una origine artificiale. «Guerra, dopo mille premesse e cautele, mi ha detto che no, in modo assoluto non poteva escluderlo». La situazione è confusa: la virologa cinese Li-Meng Yan ha parlato di produzione del virus in laboratorio, mentre altri autorevoli virologi come Giorgio Palù non lo escludono, ma sospendono il giudizio in attesa di verifiche. Formentini insiste sull’aspetto geopolitico del problema: «È solo dopo ripetuti richiami, da ultimo quello di Mike Pompeo, che il nostro governo sembra essersi ricollocato in un’ottica filo-atlantica, malgrado la presenza del M5S». Un nodo spinoso, a quanto pare: «Il rapporto dei 5 Stelle con la Cina è sicuramente un elemento da mettere sul tavolo. In ogni ufficio di presidenza della commissione esteri chiedo ormai da mesi che il ministro Di Maio venga in audizione e illustri lo stato attuale delle relazioni bilaterali Italia-Cina». Con quali risultati? «Zero. Non è mai venuto, e questo sta creando imbarazzo».Paolo Formentini sostiene che la Lega abbia accolto con scetticismo, nel marzo 2019, l’accelerazione politica che ci fu sul “memorandum of understanding” sulla Nuova Via della Seta. Colpa del governo gialloverde, che «non funzionava». Ovvero: «Ognuno dei due partiti cercava di dettare l’agenda politica e si procedeva a scatti con grande difficoltà, tanto è vero che poi è finita come sappiamo. Però Salvini disse subito: commerciamo con tutti, ma senza mettere in pericolo la sicurezza nazionale, questo è il punto di caduta». Quanto al 5G, aggiunge Formentini, «fino a prova contraria siamo tra quelli che si sono spesi più di tutti gli altri contro il 5G di Huawei e Zte: chiedere a Raffaele Volpi, presidente del Copasir». La mancanza di trasparenza sul virus da parte di Cina e Oms – domanda Ferraù – è l’unico aspetto che attende chiarezza? No, assicura Formentini. «Nella primavera scorsa c’è stata una vera e propria infodemia: la Cina ha scatenato una guerra dell’informazione e invaso i social con commenti pro-Pechino. Lo ha dichiarato anche l’Unione Europea, con un report uscito il 24 aprile scorso, di cui diede notizia a suo tempo un servizio di “Formiche”».«A me interessa segnalare il pericolo di una deriva geopolitica del nostro paese verso la Cina», aggiunge il deputato leghista. «In marzo-aprile scorso, il governo e i principali media raccontavano che la Cina stava aiutando e salvando l’Italia. Non è esattamente così», dice Formentini. «Il Copasir ha approvato una relazione in cui documenta che la penetrazione commerciale e finanziaria della Cina in Italia è aumentata in conseguenza del coronavirus». Intanto, rimarca Ferraù, nella scorsa primavera «abbiamo assistito a un’overdose informativa, sul Covid». Nei mesi precedenti può aver inciso una “zona grigia” sotto il profilo dell’informazione, anche istituzionale? «Se “zona grigia” c’è stata, e il condizionale è d’obbligo perché la commissione d’inchiesta dovrà valutarlo in modo rigoroso – dice Formentini – il pensiero che sorge spontaneo è che sia stata dettata dall’enorme fiducia che il nostro governo aveva nei confronti della Cina, la stessa fiducia che dimostrava verso l’Oms». Lo dimostra anche l’esito dell’interrogazione leghista per valutare la sospensione dei contributi italiani all’Oms: «La risposta è stata un elogio a tutto campo dell’Oms».È possibile che dopo 11 mesi di pandemia non si conosca ancora la verità su quanto accaduto a Wuhan? «Il Covid viene dalla Cina, ma ciò che si sa del Covid è solo quello che la Cina ha deciso di farci sapere. E quel che è peggio, l’Oms, fortemente influenzata dal regime di Pechino, si è dimostrata compiacente». Non è soltanto un disastro epidemiologico, scrive Federico Ferraù sul “Sussuidiario“: è anche un caso politico di proporzioni planetarie. È per questo che la Lega ha chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta “sulle cause dello scoppio della pandemia di Sars-Cov-2 e sulla congruità delle misure adottate dagli Stati e dall’Oms per evitarne la propagazione nel mondo”. Nella commissione esteri della Camera è stata eppena incardinata la proposta di legge che istituisce la commissione. Primo firmatario il deputato leghista Paolo Formentini, intervistato dallo stesso Ferraù. Prima domanda: perché una commissione d’inchiesta? «Tanti virologi in tutto il mondo hanno denunciato l’inefficienza dell’Organizzazione mondiale della sanità, e questo punto pare acclarato», dice Formentini. «Non intendo trarre conclusioni affrettate, ma le voci che si levano in questa direzione sono tante, e per questo vanno valutate con estrema attenzione».
-
Elezioni anticipate, se regge l’intesa tra Salvini e Zingaretti
Non è a Roma la chiave di volta per spiegare quanto sta accadendo, bensì a Strasburgo. E non è il mese di agosto quello decisivo, bensì quello precedente, in particolare nel giorno 16, il giorno del voto al Parlamento Europeo che elegge Ursula von der Leyen alla guida dell’Unione Europea con il concorso (determinante) dei voti del M5S. Metà luglio a Strasburgo dunque, cioè il momento che ha cambiato il corso della politica nazionale e che, con elevata probabilità, ci condurrà presto alle urne. Perché quel voto e così importante e perché Salvini reagisce come stiamo vedendo? La risposta c’è ed è riassumibile in tre elementi piuttosto semplici. Punto primo: quel voto segna una vittoria del premier Giuseppe Conte, che riesce ad entrare nel gioco “grande” a livello europeo portandosi dietro il partito che l’ha voluto per primo a Palazzo Chigi, riuscendo così a trasformare (almeno in parte) il disastroso risultato del M5S nelle urne in un successo politico dentro il “palazzo”. Così facendo però il premier avvalla la linea che vuole il fronte sovranista fuori da tutto, con evidente messa all’angolo proprio di Salvini. Punto secondo: quel voto indica chiaramente che l’asse Berlino-Parigi vince il primo round della partita continentale, relegando i sovranisti non solo ai margini del potere, ma addirittura provando a fare di loro una “bad company” alla mercé dei russi (si veda ai casi Strache e Savoini).
-
Guerra sui dazi Usa-Cina, tresette col morto (che è l’Europa)
I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).Ma torniamo ai tre contendenti al tavolo da gioco: Usa, Cina e Ue. Gli Usa hanno fatto saltare il branco e terminato il 10 maggio una partita a cui erano stati concessi diversi tempi supplementari: sarebbe dovuta terminare entro il termine perentorio del 30 marzo. Lo hanno fatto nonostante che, almeno nel breve termine, Washington rischi di essere il giocatore che perde di più. Da un lato, i consumatori di prodotti finiti di bassa fascia (giocattoli, abbigliamento) dovranno pagarli di più se non troveranno sostituti manufatti negli Usa o altrove. Da un altro, le aziende (numerose in certe categorie dell’elettronica) che assemblano per il mercato americano componenti manufatte in Cina avranno più alti costi di produzione. Da un terzo, la banca centrale cinese ha nelle sue riserve 1.13 trilioni di dollari Usa e, se vuole, può mettere in serie difficoltà gli americani, riversandone parte sul mercato finanziario.Perde, nel più lungo termine, anche Pechino. Come più volte sottolineato su questa testata, il principale nodo più che il commercio è il fatto che la Cina non ha ottemperato alla promessa, fatta quando è stata ammessa, nel lontano 2001, all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) di trasformarsi in una vera economia di mercato. È a tale trasformazione a cui, per il momento, Pechino si oppone in modo veemente. La bozza di accordo bilaterale prevedeva misure che avrebbero comportato mettere su un piede di parità con gli altri operatori le gigantesche imprese pubbliche cinesi e la revisione della normativa che impone alle aziende straniere che vogliono operare in Cina di dischiudere alle autorità cinesi le loro innovazioni di processo e prodotto. D’altro canto, per Pechino scardinare le imprese statali vuole dire scardinare gli assetti di potere: la Via della Seta è stata concepita come mezzo per mantenere in vita il sistema esistente. Sino a quanto regge.Gli Usa, però, hanno un asso nella manica. Uno studio a limitata circolazione degli uffici del Rappresentante speciale della Casa Bianca, firmato da Alexander Hamilton e Nabil Abbyad, (Executive Briefing on Trade Usitc 2018) documenta la crescita del debito interno della Cina, dovuto in gran misura all’uso inefficiente delle risorse da parte delle imprese statali, e come tale fardello rischia di pesare pesantemente sullo sviluppo del paese nei prossimi anni. Prima o poi, anche a causa di conflitti interni tra la gerarchie del Partito comunista cinese, arriverà il momento del rendiconto. L’Ue potrebbe essere il vincitore, soprattutto se gioca unita e se sa inserirsi astutamente nelle modifiche, ormai urgenti, delle imprese di Stato cinesi. Lo hanno ben compreso Francia e Germania, che hanno concluso accordi di vendita (in contanti) per aerei e macchine utensili. La Grecia, primo Stato a mettersi sulla Via della Seta quando era in brache di tela, rimpiange già la (s)vendita del porto del Pireo. E l’Italia? E’ stata ammaliata nel fascino orientale. Speriamo bene!(Giuseppe Pennisi, “Il tresette commerciale tra Usa e Cina – col morto, che è l’Europa”, da “Formiche.net” del 12 maggio 2019).I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).
-
Euro, Nato, Senato: zitti su tutto. E Becchi lascia i 5 Stelle
Credevo fosse amore, invece era un calesse. E’ l’amara scoperta del professor Paolo Becchi, docente di filosofia del diritto all’università di Genova, fino a ieri considerato co-ideologo del Movimento 5 Stelle. Fine del sogno: non una parola su euro e Nato, cioè le due grandi emergenze, economia a pezzi e politica estera che sta esplodendo di giorno in giorno, a suon di bombe. Grillo? «Ha fatto un discorso di fine anno che era uno spot pubblicitario al suo spettacolo, un intervento teatrale nel quale dice che tutti siamo ologrammi ma, ahimé, è diventato un ologramma pure lui», dice Becchi, intervistato da “Formiche.net”. Strano ma vero, il “Movimento” delle elezioni in rete, dei diktat e delle espulsioni in massa «si sta trasformando in un partito ibrido». A Roma «si può vincere ma si ha paura di farlo e magari non lo si vuole proprio», Dove invece si vuole vincere, «il candidato e la lista vengono blindati e imposti dall’alto come accaduto con Massimo Bugani a Bologna». E, nel frattempo, si puntella Renzi. Come per l’elezione dei giudici costituzionali, dove i 5 Stelle hanno abbandonato la linea dell’opposizione alle nomine renziane. «Il prossimo sarà quello sulle unioni civili», poi verrà «la legge sullo ius soli, anche qui sconfessando Grillo».Il leader, secondo Becchi, è stato sconfessato dal vicepresidente della Camera addirittura sul “Financial Times”, al quale Luigi Di Maio ha detto che loro «non sono favorevoli all’uscita dell’Italia dalla Nato, come invece ha sostenuto Grillo». Il fondatore sembra in ritirata, ma pronto a restare in campo come garante delle regole? «Peccato però che qui non venga rispettata nessuna regola, come sull’espulsione della senatrice Serenella Fucksia: non c’è stata nessuna assemblea dei parlamentari con voto poi ratificato dalla rete. Ormai regna l’arbitrio». Dietro l’angolo ci sono le comunali, e i sondaggi danno i grillini in forte crescita. «Sì, ma ritengo che ai vertici queste elezioni interessino poco», dice Becchi: «Ciò che conta per loro è andare al governo, ma non si sa bene per fare cosa, tranne le politiche anti-casta». Scomparse dai radar le battaglie che contano. L’euro, per esempio: «Grillo aveva promesso agli italiani che entro il dicembre 2015 o al massimo nel gennaio 2016 ci sarebbe stato il referendum sull’euro. Ora più nessuno ne parla, salvo per i banchetti fatti in estate quando il tema appassionava di più e c’era da soffiare qualche voto alla Lega. Ma cosa pensa il Movimento sull’euro? Perché non si porta avanti con convinzione in Parlamento la legge di iniziativa popolare per il referendum?».Buio anche sulla politica estera, altra trincea cruciale. Isis, guerre, Siria. Il Movimento 5 Stelle tace su tutto. «In particolare sul tema della Nato, qual è la posizione? Grillo o Di Maio?». E poi le “riforme” di Renzi, la “rottamazione” della Costituzione: «Perché non si lancia una forte campagna di opposizione alla riforma costituzionale in vista del referendum sul quale Renzi punta tutto quest’anno?». Paolo Bcechi se n’è accorto: «Si pensa troppo a fare opposizione di facciata, come nel caso della mozione di sfiducia alla Boschi su Banca Etruria». Nel frattempo, la tanto decantata democrazia diretta «è stata da tempo accantonata e sostituita dalla democrazia eterodiretta da Casaleggio». Becchi è deluso? «Sì, tanto che il 31 dicembre ho cancellato la mia iscrizione al Movimento, al quale avevo aderito con grande convinzione e entusiamo; l’ho fatto perché non corrisponde più a quella speranza dell’inizio. Non sono nella testa di Beppe, e non so se questo suo progressivo farsi da parte sia sintomatico di un po’ di delusione anche da parte sua, ma è sempre più politicamente assente. Forse era inevitabile che il Movimento si istituzionalizzasse, ma il sogno è finito».Credevo fosse amore, invece era un calesse. E’ l’amara scoperta del professor Paolo Becchi, docente di filosofia del diritto all’università di Genova, fino a ieri considerato co-ideologo del Movimento 5 Stelle. Fine del sogno: non una parola su euro e Nato, cioè le due grandi emergenze, economia a pezzi e politica estera che sta esplodendo di giorno in giorno, a suon di bombe. Grillo? «Ha fatto un discorso di fine anno che era uno spot pubblicitario al suo spettacolo, un intervento teatrale nel quale dice che tutti siamo ologrammi ma, ahimé, è diventato un ologramma pure lui», dice Becchi, intervistato da “Formiche.net”. Strano ma vero, il “Movimento” delle elezioni in rete, dei diktat e delle espulsioni in massa «si sta trasformando in un partito ibrido». A Roma «si può vincere ma si ha paura di farlo e magari non lo si vuole proprio», Dove invece si vuole vincere, «il candidato e la lista vengono blindati e imposti dall’alto come accaduto con Massimo Bugani a Bologna». E, nel frattempo, si puntella Renzi. Come per l’elezione dei giudici costituzionali, dove i 5 Stelle hanno abbandonato la linea dell’opposizione alle nomine renziane. «Il prossimo sarà quello sulle unioni civili», poi verrà «la legge sullo ius soli, anche qui sconfessando Grillo».
-
Galloni: nuova Norimberga, per punire i criminali della crisi
Mentre la situazione economica e politica internazionale va deteriorandosi, nonostante le ottime prospettive di crescita di importanza dei Brics, si stanno prospettando soluzioni e proposte pericolose, nel senso del conflitto con l’interesse all’evoluzione positiva e pacifica del genere umano (oggi e ieri minacciata dalle follie di eliminazione della spesa pubblica e di privatizzazione anche di ciò che è bene non dipenda dalla condizione finanziaria dei singoli, come la sanità, la formazione, la sicurezza, l’acqua, l’aria e via dicendo): c’è chi prospetta un ritorno all’oro dopo che il dollaro tracollasse o chi propone una riserva del 100% per le banche; ma stanno emergendo anche i nuovi “gattopardi” che – persino in nome dell’abbattimento dell’euro – propugnano tesi che, nel recente passato, non hanno mai condiviso. Sia chiaro: quello che è stato compiuto o avallato in questi ultimi trentacinque anni (indebolimento degli Stai nazionali, macelleria sociale, impoverimento e depredamento della popolazione) sono crimini contro l’umanità che, come tali, dovranno essere affrontati.Una nuova Norimberga, in altri termini, appare proponibile, onde evitare che in un domani sempre più prossimo, ognuno dei responsabili di questi crimini possa dire quanto condivide il cambiamento e quanto è lontano dal presente e dal passato recente. Oggi, in Italia, ad esempio, siamo 60 milioni (dove sono i demografi che pochi decenni fa prevedevano, per il presente, una popolazione sotto i 55 milioni?); di questi, circa 20 milioni versano in miseria, altri 20 milioni arrivano con difficoltà a fine mese ed il restante – pur tendendo a diminuire – riesce a riempire cinema e ristoranti, col risultato di far sottovalutare la gravità dell’attuale crisi. Più si taglia la spesa pubblica per ridurre le tasse (la cui pressione è eccessiva, per chi le paga) e più si riduce il Pil; col risultato che, poi, mancano le risorse per tagliare le tasse: si bloccano i contratti dei pubblici dipendenti ed il loro turn over col risultato che peggiorano e diminuiscono i servizi essenziali e, quindi, la gente – oltre le tasse – deve spendere di più, impoverendosi, per mandare i figli a scuola o curarsi o viaggiare.Però, se si tagliano le spese per ridurre le tasse e si ottiene l’esatto contrario, una ragione forse c’è: i debitori (famiglie, imprese e Stati) devono stare sempre peggio, perché l’attuale modello economico si basa non sulla redditività finanziaria, ma sul numero delle emissioni dei titoli (derivati, derivati su derivati, titoli tossici di tutti i tipi) e, quindi, meno i debitori potranno ripagare i loro impegni e maggiore sarà l’accelerazione delle emissioni derivate. In tutto, ciò la gente muore, le imprese muoiono, gli Stati muoiono… cosa si aspetta?(Antonino Galloni, “Perché è necessaria una nuova Norimberga”, da “Formiche.net” del 2 dicembre 2014).Mentre la situazione economica e politica internazionale va deteriorandosi, nonostante le ottime prospettive di crescita di importanza dei Brics, si stanno prospettando soluzioni e proposte pericolose, nel senso del conflitto con l’interesse all’evoluzione positiva e pacifica del genere umano (oggi e ieri minacciata dalle follie di eliminazione della spesa pubblica e di privatizzazione anche di ciò che è bene non dipenda dalla condizione finanziaria dei singoli, come la sanità, la formazione, la sicurezza, l’acqua, l’aria e via dicendo): c’è chi prospetta un ritorno all’oro dopo che il dollaro tracollasse o chi propone una riserva del 100% per le banche; ma stanno emergendo anche i nuovi “gattopardi” che – persino in nome dell’abbattimento dell’euro – propugnano tesi che, nel recente passato, non hanno mai condiviso. Sia chiaro: quello che è stato compiuto o avallato in questi ultimi trentacinque anni (indebolimento degli Stai nazionali, macelleria sociale, impoverimento e depredamento della popolazione) sono crimini contro l’umanità che, come tali, dovranno essere affrontati.
-
De Bortoli l’anti-Renzi, un suicidio le sanzioni alla Russia
«Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.«Renzi non mi convince», scrive De Bortoli sul “Corriere” il 24 settembre. «Se vorrà veramente “cambiare verso” a questo paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso». Ha «una personalità egocentrica», che è «irrinunciabile per un leader» ma nel suo caso è «ipertrofica». Fatto «non irrilevante», visto che Renzi è «un uomo solo al comando del paese (e del principale partito), senza veri rivali». Vuol fare tutto da solo, e la sua squadra di governo «è in qualche caso di una debolezza disarmante»: il sospetto è che alcuni ministri «siano stati scelti per non far ombra al premier». In troppi casi «la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier», e additrittura «a prevalere è la toscanità», non il valore. La competenza? «Un criterio secondario». L’esperienza? «Un intralcio, non una necessità». L’irruenza può scuotere la “palude”, ma «non sempre è preferibile alla saggezza negoziale». Inoltre, «la muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan». Ovvero: «Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto».Se Renzi è un oratore travolgente, «il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa». Il marketing della politica? «Se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso». E in Europa, «meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti». Attenzione: «Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere». E qui sorge quello che De Bortoli definisce l’interrogativo più spinoso: «Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015». Quindi «sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti, liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria». Ultimo consiglio al premier: «Quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi Troika), e tantomeno quella bianca».Il durissimo attacco di De Bortoli costituisce il punto culminante di un crescendo di critiche taglienti portate avanti dalle firme di punta di Via Solferino, scrive Edoardo Petti su “Formiche.net”. Prima Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sulla strategia economica del premier, poi i corsivi di Antonio Polito, Ernesto Galli della Loggia e Pierluigi Battista. Ora, l’intervento a gamba tesa del direttore. Per Giancarlo Galli, l’asprezza di De Bortoli riflette «lo stato d’animo di un mondo imprenditoriale lombardo e italiano che, tranne l’eccezione della Fiat ormai pienamente americana, è preoccupato per l’eccessivo filo-americanismo del premier». Le sanzioni contro la Russia? «Quella è la punta dell’iceberg», sostiene Galli. «La classe economica del nostro paese ritiene che gli sbocchi privilegiati delle attività commerciali italiane siano i mercati orientali, Russi e asiatici in primo luogo. E per questo motivo ha giudicato malissimo la politica muscolare perseguita dal presidente del Consiglio verso Mosca, da cui importiamo energia e soprattutto gas metano. Comparto fondamentale, in cui gli Usa si apprestano a far concorrenza alla Russia attraverso la ricerca e raffinazione dello “shale gas”». In più, aggiunge Galli, gli industriali italiani guardano con timore all’offensiva del premier contro l’articolo 18 e i sindacati: «Potrebbe creare una fase di turbolenza negli ambienti di lavoro, ed è l’ultima cosa di cui gli imprenditori hanno bisogno».Di fatto, scrive Gianni Gambarotta, Renzi e il suo modo di far politica sono stati demoliti: col suo editoriale, De Bortoli ha tagliato i ponti col palazzo che oggi conta. Dunque si dimostrano infondate «le voci che puntasse, dopo l’uscita da via Solferino nell’aprile prossimo, a una presidenza Rai». De Bortoli «non si prende nemmeno il disturbo di accennare, nel suo tacitiano articolo, al centro di potere che ruota attorno ai suoi editori». Ormai «gioca una sua partita di direttore di quotidiano libero da ogni vincolo». Ma che cosa ha in mente per il futuro? «Un futuro che si immagina ancora lungo e intenso, dato che Fdb ha solo 60 anni, e in 40 di brillante carriera ha dimostrato di essere un eccellente professionista e di amare molto il lavoro». Gambarotta ricorda che di De Bortoli si parlò come possibile sindaco di Milano dopo Gabriele Albertini. Non se ne fece nulla, «però quella mezza idea di tanti anni fa potrebbe essere ripescata dal cassetto, e magari non solo a livello locale», conclude Gambarotta. «La politica italiana di oggi è un immenso nulla nel quale rimbombano i bla-bla-bla di Renzi. In questo vuoto una personalità come de Bortoli sarebbe un gigante».«Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.