Archivio del Tag ‘forze dell’ordine’
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Cabras: bagno di sangue a Caracas, se tifiamo per Guaidò
E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.A quanti qui a Roma pensano di aver già saputo dirimere le controversie costituzionali a Caracas propongo una constatazione semplice: noi non siamo la Corte Suprema del Venezuela. Siamo invece un paese tenuto a tutelare al meglio i propri cittadini e a rispettare la carta dell’Onu. Riconoscere Guaidò, come presidente già ora pienamente in carica, può avere risvolti politici rilevanti: ne capiamo le ragioni contingenti ma, in termini diplomatici, è un atto impraticabile e incompatibile con gli obiettivi dell’Italia, non riconosciuto né riconoscibile dall’Onu. Guidò non controlla i poteri dello Stato venezuelano, non ha presa sull’amministrazione, non dirige i ministeri, non ha in mano le forze dell’ordine, non ha strumenti per garantire gli impegni internazionali. Il rischio di un riconoscimento prematuro è quello di un vicolo cieco diplomatico, che annichilirebbe le chance per il dialogo e la lascerebbe esposta la comunità italiana in Venezuela a incertezze intollerabili. Da questo aspetto non si scappa.Nell’immediato, Guaidò può riuscire a esercitare davvero il potere solo in tre modi, che comportano tutti un enorme incremento della violenza: o un’insurrezione militare, o una rivolta popolare armata (che si scontrerebbe con l’altro blocco politico e sociale, che è abbastanza forte) oppure con un intervento straniero. E in effetti l’8 febbraio, in una dichiarazione, Guaidò dice che non esclude la possibilità di autorizzare (attenzione a questa parola: autorizzare) un intervento militare statunitense per aiutare a rimuovere dal potere il presidente Maduro, naturalmente sotto l’eterno ombrello giustificativo di una crisi umanitaria. Ecco perché sostenere le forzature istituzionali per il “regime change” significa facilitare la guerra nelle case dei venezuelani: c’è ancora qualcuno che può pensare che in Venezuela si possano tenere libere elezioni e ci sia una governabilità praticabile, in assenza di un accordo politico fra i due blocchi? E senza il supporto delle organizzazioni internazionali? Servono meccanismi di mediazione approvati dell’Onu, in ossequio all’ordinamento internazionale, con l’obiettivo di una via pacifica e democratica alla crisi del Venezuela, come il faticoso tentativo in atto con il meccanismo di Montevideo.In questi giorni ci sono state molte polemiche e distorsioni sulla nostra posizione. Siamo ben lontani dal considerare Maduro un modello di qualcosa. Ma una parte della stampa e della politica ragiona così: se non ritieni auspicabile spalleggiare una forzatura istituzionale, allora sei automaticamente un fan entusiasta del presidente. Viceversa, noi non siamo tifosi di nessuno: riteniamo che, in politica estera, sia sbagliato fare il tifo e usare approcci ideologici. E’ molto più utile capire le ragioni del consenso e del dissenso, e capire perché – a sostegno di un potere che si vuole rimuovere con la logica della “debellatio” – si muovono invece forze storiche molto solide, che hanno alleanze internazionali resistenti. La base sociale del chavismo è stata creata negli anni di punta dei prezzi elevati del petrolio. E’ un buon esercizio, leggere i dati economici degli ultimi vent’anni nella scheda-paese del Venezuela compilata dal Fondo Monetario Internazionale.Ecco, i dati ufficiali non descrivono un paradiso, ma un fenomeno politico notevole, radicato, che ha fondato ex novo uno Stato sociale dentro una rete di relazioni internazionali in cui investivano Cina, Russia e altri paesi. Uno Stato sociale oggi sfiancato dalle sue contraddizioni, degli errori gestionali, da un centro di intermediazione burocratica inadeguato e corrotto, dal calo del prezzo del petrolio e delle sanzioni di Washington, che hanno inciso pesantemente negli ultimi due anni. Si tratta tuttavia di un blocco di interessi ancora consistente, che non sopporterebbe un revanscismo che volesse smantellarlo totalmente, riportando il modello classico dell’America Latina di trent’anni fa: quello di una borghesia esclusivamente orientata al Nord America e indifferente alle disuguaglianze sociali. Dal canto suo, l’opposizione ha solidissimi rapporti con il National Endowment for Democracy, l’ente statunitense che spende ogni anno milioni di dollari (e sono tutti i dati pubblici) per sorreggere il tessuto delle organizzazioni del blocco sociale alternativo venezuelano. Insomma, tutte le grandi potenze sono portatrici di vasti interessi economici e geopolitici, non riducibili alla sola questione – pur ingombrante – del petrolio.E c’è dell’altro: qualcosa di cui finora nel nostro Parlamento non si è discusso, ma che merita l’attenzione di tutti. La recentissima fine del trattato Inf sui missili nucleari a raggio intermedio può riaprire una pericolosa corsa agli armamenti: le grandi potenze nucleari guardano all’Europa e ai Caraibi come possibile teatro di dislocazione dei nuovi missili. Non possiamo trascurare questo scenario drammatico, in grado di ridurre a pochi minuti il tempo delle decisioni che possono evitare la catastrofe atomica. L’Europa ha un interesse vitale a costruire un sistema di relazioni internazionali che sia il più lontano possibile dalla “mezzanotte nucleare”, di cui sarebbe la prima vittima. E per fare questo deve ridurre le faglie che si stanno aprendo ormai su troppi fronti interconnessi, incluso questo fronte tropicale. In Venezuela si tenga conto dell’interesse di venezuelani a trovare una via di conciliazione nazionale pacifica, indipendente, attenta alle interdipendenze mondiali e al riconoscimento democratico di tutte le formazioni sociali e politiche del paese. I due polmoni della democrazia del Venezuela devono respirare nello stesso petto.(Pino Cabras, dichirazioni rilasciate nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati sulla crisi del Venezuela, riprese su YouTube e sul blog “Megachip”. Parlamentare del Movimento 5 Stelle, Cabras è membro della Commissione Affari Esteri della Camera).E’ evidente che in Venezuela siamo alla fine di un lungo ciclo politico, segnato fin qui dai governi di Chavez e Maduro. Il Venezuela cerca una svolta, e merita di trovarla. Dobbiamo tutti chiederci cosa dobbiamo fare, per assicurare una transizione pacifica, verso un nuovo equilibrio che garantisca tutti ed eviti un immenso bagno di sangue. I due blocchi sono lì, entrambi abbastanza forti da potersi giocare alla pari la partita: o la guerra civile, o la conciliazione nazionale costituzionale. Chi oggi vuole ignorare lo spettro di una guerra civile con risvolti internazionali compie un azzardo politico irresponsabile: tutti i precedenti ce lo dicono, in modo evidente. Più volte abbiamo visto potenze esterne esasperare una crisi, introdursi nel nucleo cesaristico di un potere statale, sgretolarlo e cercare di afferrarne i dividendi fra le macerie. Ma quello che riescono a creare davvero è solo il caos, fatto di infiniti compromessi coi “signori della guerra”. Noi non vogliamo vedere delle milizie che scorrazzano tra le macerie di Caracas con enormi mitragliatrici caricate sui cassoni dei pick-up come abbiamo visto a Baghdad, a Tripoli o ad Aleppo. Non vogliamo una guerra in Venezuela. Il modo migliore di evitarla è la non-interferenza, che è un ottimo principio base delle Nazioni Unite.
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Strinati: poesia per Nino Polifroni, l’eroe che rifiutò il racket
«E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni su preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.«Ora che è successo – scrive il figlio, Bruno – posso meditare sulla sua storia da una diversa angolatura: prima d’ora, da figlio cercavo di immaginare il suo punto di vista, da persona ormai matura negli anni, e a come si potesse sentire quando era continuamente vessato dalla ‘ndrangheta. Ora che siamo “coetanei”, ho riavuto poche settimane fa il coraggio di rispolverare documenti e registrazioni del 1992: volevo risentire e studiare le sue reazioni nei momenti più bui, quando era giornalmente minacciato insieme ai suoi figli e qualche delinquente tentava di estorcergli denaro». Aggiunge Bruno: «Ho riascoltato le sue parole, il suo fiatone nel tentare di mantenere la calma, la tensione nel non sapere fare altro per combattere quel nemico invisibile». Li avrebbero presi, i maledetti killer: Bruno Polifroni ne era certo. «Caro papà, hai avuto coraggio e determinazione», scrive. «Senza la tua tenacia, oggi, invece di essere tutti qui a ricordarti ci saremmo occupati solo di vivere una normale giornata di settembre. E spesso ci siamo arrabbiati con te, perché più volte siamo caduti nell’errore di pensare che avremmo preferito fosse così. Ma mentre ti raggiungevo nell’età ho capito che nulla succede per caso e ogni storia ha il proprio significato da mostrare: grazie per averci insegnato a vivere e a farlo da persone libere. Se tu non ti fossi sacrificato per noi, oggi saremmo ancora imprigionati e schiavi di quei delinquenti. Grazie, papà».AD ANTONINO POLIFRONIUomini senza cuorehanno chiuso il tuo sguardoposando un delitto scurosopra la tua animaonesta ed integerrima.Uomini strani d’infima naturahanno spento con violenzai tuoi occhi vitaliimmersi di una luce chiaranutriti di memoriadentro una terra caldae assolata di natura…,ma quel ricordo vivo, densodi un coraggio fertilee di tanta premura che nel tuo pettoancora rintocca l’alba del mattino,mi ricorda il tuo esser fieroche di decoro s’è nutritocome materia di perpetua luceil tuo palpito infinito, smisuratocome un fascio di biluce.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).«E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni fu preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.
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Mazzucco: Salvini e Cucchi, l’eroe Saviano e l’osceno Macron
«Come si dice, in francese, testa di cazzo?». Non trova altri termini, Massimo Mazzucco (men che meno diplomatici) per definire il villano, volgare bugiardo che oggi siede all’Eliseo, secondo cui in Italia non esiste una vera emergenza immigrazione. Se la consente, Mazzucco, questa informalità lessicale, per almeno due motivi: Emmanuel Macron è un triviale “vomitatore” di insulti, un anti-italiano coi fiocchi il cui sprezzante razzismo trasuda da ogni sua parola. E poi si può comunque usare un tono più che confidenziale data la platea del “Mazzucco Live”, la diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un pubblico decisamente informato, a cui non c’è bisogno di spiegare da quale pulpito provengano le odiose esternazioni xenofobe del ducetto francese, sciovinista quanto basta per farsi detestare da mezza Europa (e da più di mezza Francia, ormai) ma abbastanza ipocrita da dimenticare che a manganellare i migranti, respingendoli con inaudita ferocia, è stato innanzitutto il suo governo. Peggio: più che la Francia, Macron – che viene dalla finanza Rotchschild – rappresenta il peggio, in assoluto, di quanto si sia visto finora in Europa: la subdola dittatura del potere oligarchico, orchestrato dalla supermassoneria reazionaria in cui milita l’allievo presidenziale di Jacques Attali, grande architetto dell’euro-orrore a cui l’Italia sta cominciando a opporsi, in modo clamoroso.Il primo muro a crollare è proprio quello dell’ipocrisia, che arma la mano dei difensori del regime e dei loro pupazzi mediatici. Poi ovviamente si può scendere anche nel grottesco e nel genere comico, quando ad esempio l’ex eroe nazionale Roberto Saviano si erge ad avversario del feroce Salvini. Ma scusate, Saviano chi? Seriamente, si domanda Mazzucco: «Chi è Saviano? Ok, uno scrittore. Ha scritto qualche buon libro? Bene, ma non sarà certo l’unico. In realtà è al centro della scena, da anni, solo per via della scorta che lo protegge». Esibito come una Madonna Pellegrina, nell’ex Italia dei Renzi e dei Fabio Fazio, era diventato una specie di icona della lotta alla mafia? Ma mi faccia il piacere, protesta Mazzucco: «Se Saviano desse davvero fastidio alla mafia avrebbero già fatto saltare in aria in lui, la scorta e chi gliel’ha data». Una grande finzione, che ha fatto comodo a molti: al Saviano editoriale e televisivo, allo Stato che ha esibito la sua protezione e all’Ancien Régime finto-progressista a cui qualche eroe di cartone serviva a nascondere la propria sottomissiome totale ai superpoteri europeisti e privatizzatori, ai quali rispondere solo e sempre signorsì. La messa è finita, però: palla al centro. Tutto quello che sembrava vero, fino a ieri, ormai si rivela per quello che è: un bluff piuttosto mediocre.Se qualcuno ha le carte in regola per potersi qualificare come “scomodo”, è proprio Mazzucco: il suo documentario sulle cure alternative per il cancro ha superato su YouTube i 4 milioni di visualizzazioni. Sempre Mazzucco – tramesso anche da Canale 5 – è stato il primo, con “Inganno globale”, a smontare la versione ufficiale dell’11 Settembre. Saviano? Lasciamo perdere. Piuttosto, Mazzucco incalza lo stesso Salvini sul suo terreno d’elezione, l’ordine pubblico. Sul blog “Luogo Comune”, lo invita a sanzionare apertamente gli ufficiali che hanno inflitto un trasferimento punitivo al carabiniere Riccardo Casamassima, “colpevole” di aver denunciato i colleghi che nel 2009 massacrarono di botte Stefano Cucchi, causandone la morte. «Matteo Salvini – scrive Mazzucco – ha di fronte a sé la grande occasione per dimostrare che non è un fascistone manganellatore, come molti lo dipingono, ma che è invece uomo di grande integrità morale, che mette la legge e il diritto al di sopra ogni altra cosa». Il leader leghista ha sempre detto di stare “dalla parte delle forze dell’ordine”, precisando però che “se qualcuno sbaglia deve pagare fino in fondo”? Ecco: «In questo caso non hanno sbagliato solo i carabinieri che hanno pestato a morte Stefano Cucchi, ma hanno sbagliato anche coloro che hanno prima fatto pressioni per far tacere Casamassima, e che poi – come punizione per aver parlato – lo hanno demansionato con un trasferimento umiliante».Mazzucco si rivolge direttamente a quello che si sta rivelando l’uomo forte del governo Conte: «Salvini, fai sentire la tua voce», lo esorta Mazzucco. «Oggi sei il ministro degli interni, non sei solo il segretario della Lega. Facci sapere che sei una persona capace di far seguire in modo coerente alle parole i fatti, non solo sugli sbarchi dei migranti, ma su tutto quello che riguarda la società civile». Ancora silente sul caso Cucchi, in compenso Salvini si è espresso – a ruota libera – sull’obbligo vaccinale, imposto a milioni di famiglie da Beatrice Lorenzin e dal governo Renzi-Gentiloni dopo un anno di tam-tam mediatico basato sul falsi allarmi, come la ridicola emergenza-morbillo. Per l’ennesima volta, il capo della Lega ha scavalcato i 5 Stelle, spiazzando l’attuale ministro della sanità, la pentastellata Giulia Grillo, competente in materia. La Grillo si è mostrata prudente, sui vaccini. «Dato che ha sulle spalle l’incombenza dell’eventuale decreto per annullare le conseguenze della legge Lorenzin, ovvero l’esclusione da scuola per i bimbi non vaccinati – afferma Mazzucco – spero che il suo basso profilo sia una tattica, per poi raggiungere il risultato evitando che le si scateni addosso la bufera mediatica». Certo però che i 5 Stelle sembrano in affanno: Salvini ha messo in ombra sia Conte che Di Maio. «E’ ora che i 5 Stelle si sveglino – chiosa Mazzucco – e si sbrighino a riconquistare la visibilità corrispondente al 32,5% che hanno ottenuto alle elezioni».«Come si dice, in francese, testa di cazzo?». Non trova altri termini, Massimo Mazzucco (men che meno diplomatici) per definire il villano, volgare bugiardo che oggi siede all’Eliseo, secondo cui in Italia non esiste una vera emergenza immigrazione. Se la consente, Mazzucco, questa informalità lessicale, per almeno due motivi: Emmanuel Macron è un triviale “vomitatore” di insulti, un anti-italiano coi fiocchi il cui sprezzante razzismo trasuda da ogni sua parola. E poi si può comunque usare un tono più che confidenziale data la platea del “Mazzucco Live”, la diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un pubblico decisamente informato, a cui non c’è bisogno di spiegare da quale pulpito provengano le odiose esternazioni xenofobe del ducetto francese, sciovinista quanto basta per farsi detestare da mezza Europa (e da più di mezza Francia, ormai) ma abbastanza ipocrita da dimenticare che a manganellare i migranti, respingendoli con inaudita ferocia, è stato innanzitutto il suo governo. Peggio: più che la Francia, Macron – che viene dalla finanza Rotchschild – rappresenta il peggio, in assoluto, di quanto si sia visto finora in Europa: la subdola dittatura del potere oligarchico, orchestrato dalla supermassoneria reazionaria in cui milita l’allievo presidenziale di Jacques Attali, grande architetto dell’euro-orrore a cui l’Italia sta cominciando a opporsi, in modo clamoroso.
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Carpeoro: ma Stati e mafie vivono di trattative, da sempre
«Colpevoli per essere scesi a patti con Cosa Nostra. Colpevoli per aver trattato in nome di uno Stato che mai avrebbe dovuto trattare». Così Saverio Lodato definisce la storica sentenza del tribunale di Palermo sulla famigerata trattativa Stato-mafia che inguaia Marcello Dell’Utri (condannato a 8 anni), braccio destro di Berlusconi dalla fondazione di Forza Italia. Gli imputati eccellenti, esponenti dello Stato – scrive Lodato su “Antimafia Duemila” – sono colpevoli di avere fatto pervenire a Silvio Berlusconi e al suo governo le richieste avanzate dalla mafia per porre fine allo stragismo del biennio ‘92-93. «Colpevoli, in altre parole, di intelligenza con il nemico». Pene pesantissime anche per Mario Mori, allora a capo del Ros, e per Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, cioè «i carabinieri che aprirono il canale con Cosa Nostra», onde far pervenire al governo Berlusconi i “desiderata” dei killer stragisti. L’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, non si unice però al trionfalismo della stampa antimafia. Intanto, osserva, è stato assolto un referente politico di primo piano come l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino, esponente del centrosinistra: «Come al solito – dichiara – le inchieste giudiziarie italiane hanno obiettivi sensibili e obiettivi non sensibili. E così è andata».Quello di Palermo, scrive Lodato, era un processo che faceva paura: «Lo si capiva dall’isolamento che per anni e anni aveva circondato quella che era diventata la figura simbolo di questo processo, il pubblico ministero Nino Di Matteo». Per Carpeoro, in live streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, la clamorosa sentenza palermitana certifica solo che «c’è stata probabilmente una trattativa come ce ne sono state migliaia, in tutto il mondo, tra gli organi di polizia, i servizi segreti e le associazioni criminali». Trattative purtroppo “ordinarie”, che l’ipocrisia del potere polico non può ammettere: patti segreti, «diretti a gestire determinati momenti di particolare tensione», in Italia anche con drammatici risvolti terroristici. «Credo che l’unico politico coinvolto sia stato assolto», dichiara Carpeoro, riferendosi a Mancino. «Una trattativa condotta a livello Ros (e probabilmente servizi segreti) non avrebbe potuto non coinvolgere il ministro degli interni», sostiene l’avvocato, massone iper-critico verso la massoneria, già a capo della più antica comunione massonica del Rito Scozzese italiano nonché autore dello scomodo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione, 2016).Stato-mafia e massoneria? Un fior d’investigatore come il giudice Nicola Gratteri, in prima linea contro la ‘ndrangheta, ha parlato di «magistrati ancora in servizio che intrallazzano con il potere mafioso massonico». Gratteri? «Una volta indagava in grande silenzio, adesso insegue obiettivi anche di comunicazione», rileva Carpeoro, ricordando che – quand’era a capo della sua obbedienza massonica (da lui stesso poi disciolta) – ne vietava espressamente l’ingresso a magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, proprio per evitare di suscitare sospetti e contiguità improprie. Per lo stesso motivo, aggiunge Carpeoro, l’accesso ai politici era consentito a una condizione: che dichiarassero apertamente la loro identità massonica. Nessuna meraviglia, aggiunge Carpeoro, se il mafioso si rivolge alla politica: anche il “Padrino”, il protagonista del romanzo di Mario Puzo e della leggendaria saga cinematografica «sa di non essere libero, perché anche lui deve rispondere al potere». Oggi il “boss dei boss” è Matteo Messina Denaro, «un mafioso 2.0 che certo non sta più chiuso in una cantina a mangiarsi caciotte». Ma attenzione, «il suo potere è forte in Sicilia, molto meno sui mercati internazionali. E’ protetta, la sua latitanza? Non c’è dubbio».«Colpevoli per essere scesi a patti con Cosa Nostra. Colpevoli per aver trattato in nome di uno Stato che mai avrebbe dovuto trattare». Così Saverio Lodato definisce la storica sentenza del tribunale di Palermo sulla famigerata trattativa Stato-mafia che inguaia Marcello Dell’Utri (condannato a 8 anni), braccio destro di Berlusconi dalla fondazione di Forza Italia. Gli imputati eccellenti, esponenti dello Stato – scrive Lodato su “Antimafia Duemila” – sono colpevoli di avere fatto pervenire a Silvio Berlusconi e al suo governo le richieste avanzate dalla mafia per porre fine allo stragismo del biennio ‘92-93. «Colpevoli, in altre parole, di intelligenza con il nemico». Pene pesantissime anche per Mario Mori, allora a capo del Ros, e per Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, cioè «i carabinieri che aprirono il canale con Cosa Nostra», onde far pervenire al governo Berlusconi i “desiderata” dei killer stragisti. L’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, non si unice però al trionfalismo della stampa antimafia. Intanto, osserva, è stato assolto un referente politico di primo piano come l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino, esponente del centrosinistra: «Come al solito – dichiara Carpeoro – le inchieste giudiziarie italiane hanno obiettivi sensibili e obiettivi non sensibili. E così è andata».
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Il vero motivo della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova
Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.Missione compiuta, si direbbe: dopo Seattle, Praga e altre fiammate, a Genova nel luglio del 2001 è stato letteralmente soppresso «il primo movimento di protesta, nella storia dell’Occidente, capace di mobilitarsi in modo disinteressato, cioè senza più difendere singole cause territoriali, nazionali o di categoria, ma schierandosi in modo permanente a tutela dei diritti dell’umanità, in ogni continente». Lasciata l’intelligence Usa (l’agenzia resa tristemente celebre dallo scandaloso “datagate” spionistico del governo Obama), Madsen è divenuto un fiero accusatore di un sistema manipolatorio che a Genova, dice, richiedeva un preciso tributo di sangue: la morte di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” dei ragazzi inermi nella scuola Diaz (col pretesto di bombe molotov introdotte dagli stessi agenti) e poi l’incubo delle torture inflitte ai “prigionieri” nella caserma di Bolzaneto. Tutta quella violenza barbarica sembra portare la stessa “firma” della mano segreta che, di lì a un paio di mesi, avrebbe pilotato l’immane attentato delle Torri Gemelle a New York, dando inizio alla “guerra infinita” contro il “terrorismo”. Un nome? Il massone “controiniziato” George W. Bush. Esponente, secondo Gioele Magaldi, della “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”. La costola più nera e tenebrosa dell’élite globalista, formata da “signori della guerra” che «non hanno esitato a reclutare, tra i loro affiliati, prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi».Da Al-Qaeda all’Isis, stesso copione (opaco) del terrore, scatenato contro civili, polizia e militari – ma non all’insaputa di precisi settori dell’intelligence. Prove? «Dispongo di 6.000 pagine di documenti», assicura Magaldi, autore del saggio “Massoni”. «Entro due anni certe carte verranno rese pubbliche», afferma Gianfranco Carpeoro, che ha firmato il volume “Dalla massoneria al terrorismo”, fornendo anche – insieme allo stesso Magaldi – un’accurata lettura della simbologia non certo islamica, ma “templare”, del recentissimo terrorismo targato Isis che ha insanguinato l’Europa a cominciare dalla Francia. Identico lo stile degli attentati: colpire nel mucchio, sparare sulla folla per terrorizzare tutti (e rendere accettabili le leggi d’emergenza, sul modello del Patriot Act statunitense disegnato per confiscare libertà e diritti). Genova? Una pietra miliare: il Rubicone varcato da un potere globalista “medievale”, neo-feudale, smisuratamente avido e bugiardo, estremamente feroce. Lo sostiene Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”. Una vera e propria confessione: «Mesi prima, per la tragica “riuscita” di quel G8 – dice – la Nsa mise a disposizione 1.500 funzionari, e a Genova (oltre alla polizia italiana) c’erano 700 agenti dell’Fbi».Nessuno lo sapeva, all’epoca, ma tutti videro lo stesso spettacolo: i reparti antisommossa si accanivano contro manifestanti inermi, ignorando deliberatamente i famosi “black bloc” spuntati dal nulla, liberi di devastare impunemente la città. I “neri” colpivano i loro obiettivi e poi si disperdevano rapidamente tra i vicoli. «E’ una tattica di guerriglia insegnata nelle scuole Nato: si chiama “swarming”», afferma – sempre nel libro di Fracassi – il generale dei paracadutisti Fabio Mini, già comandante della missione atlantica Kfor in Kosovo. «Esistono precise strutture – rivela Mini – in grado di far affluire in piena sicurezza centinaia di persone, da tutta Europa, senza il rischio di subire controlli alle frontiere, neppure dopo l’evento». Lo strascico del G8 di Genova è ancora fatto essenzialmente di rabbia e di dolore: le vittime denunciano omissioni e indulgenze, il nuovo capo della polizia (che ha preso le distanze da De Gennaro) giura che, oggi, simili episodi non potrebbero più ripetersi. Carlo Giuliani, intanto, a piazza Alimonda è morto. E la meccanica delle ricostruzioni difficilmente va oltre i dettagli del crimine. Una coltre di silenzio protegge ancora gli aspetti più decisivi: il movente e i mandanti.Per questo è importante la voce di un uomo come Madsen. «I mandanti sono le multinazionali – dice – che erano letteralmente terrorizzate dal crescente consenso di quei ragazzi: il movimento NoGlobal andava stroncato. E il loro uomo, Bush, ha semplicemente eseguito gli ordini». Com’era, il mondo, nel 2001? Stava molto meglio di adesso, secondo tutti gli indicatori. Archiviata la storica sfida con l’Urss, la guerra era praticamente assente. Anche per gli italiani, all’epoca, l’Unione Europea poteva sembrare un’istituzione amica. Si pagava ancora in lire: l’euro avrebbe iniziato a circolare solo l’anno seguente. In Afghanistan c’erano già i Talebani, ai quali si opponeva solo un leader laico e nazionalista come Ahmad Shah Massud: quando l’Alleanza del Nord entrò in azione, per prima cosa fu assassinato l’ingombrante Massud, autorevole interprete della sovranità afghana. Ucciso da un certo Hekmathyar, collegato ai servizi del Pakistan addestrati dalla Cia. «Il governo di Islamabad ha sostenuto Al-Qaeda in accordo con Bush», denunciò Benazir Bhutto, a sua volta assassinata nel 2007 per impedirle di vincere le elezioni e smascherare le trame che legavano Bush e Bin Laden al generale Musharraf, dittatore “americano” del Pakistan. Da anni, ormai, la “guerra infinita” era diventata la nuova normalità fondata su bombe e menzogne, fino all’attuale conflitto siriano.Un film dell’orrore, sostiene Madsen, grazie al quale nessuno si è più sognato di contestare frontalmente lo strapotere delle corporation e dell’oligarchia finanziaria, che in Europa è riuscita a ridurre alla fame un paese come la Grecia, senza più medicinali per i bambini, e a destituire con un golpe bianco il governo italiano democraticamente eletto. Si arrivò a insediare a Palazzo Chigi uno spettro come Mario Monti, cioè l’essere umano più lontano possibile dall’antropologia di una rockstar come Manu Chao, eroe del “social forum” che a Genova nel 2001 sognava una fratellanza universale capace di opporsi alle diseguaglianze create dalla rapina sistematica del mondo, quella che oggi spinge verso l’Europa milioni di migranti in fuga dalle loro economie sapientemente disastrate dal nostro apparato economico e politico, finanziario e militare. Un mondo migliore è possibile, recitava lo slogan dei ragazzi che guardavano al mito del “subcomandante” Marcos, esotico e mediatico custode di una biodiversità civile fondata sui diritti. Oggi, il dibattito pubblico è precipitato sotto terra, tra le rovine dell’Ue e della Bce: si parla al massimo di soldi, di Flat Tax e reddito di cittadinanza. Siamo caduti in basso? Il primo passo, sostiene Wayne Madsen, è stato il corpo esanime del militante che i grandi poteri economici, dai loro palazzi, volevano morto. E’ toccato a Carlo Giuliani. Forse, riletta così, può sembrare meno oscura la ragione (mostruosa) di quella fine così atroce.(Giorgio Cattaneo, “G8 Genova, il vero motivo della morte di Carlo Giuliani”, dal blog “Petali di Loto” del 17 aprile 2018).Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Totò Riina, un progetto organico al tritacarne del potere
Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.«Il potere – spiega Carpeoro – cerca sempre di additare un responsabile con cui te la devi prendere, altrimenti fininisci per mettere in discussione il vero potere: l’autoconservazione del potere impone che tu te la prenda con qualcuno, non con qualcosa». Per contro, aggiunge, per uno Stato che si ponga obiettivi di progresso «è necessario sgominare un’organizzazione criminale come quella di Totò Riina». E’ esistita una trattativa Stato-mafia? «Sì, più volte», risponde Carpeoro. «Nel momento in cui la mafia ha un riferimento nel potere politico che governa, di questi accordi ce ne saranno stati migliaia». Molte volte, addirittura, «è stata la mafia stessa a consegnare alla pubblica gogna (e alle forze dell’ordine) alcuni suoi esponenti divenuti ingombranti, indifendibili e ingestibili, troppo nell’occhio del ciclone». E l’ha fatto «con l’obiettivo (concordato) di tacitare tutte le altre iniziative di contrasto della criminalità mafiosa». Aggiunge Carpeoro: «Se uno vuole fare davvero la lotta alla mafia, deve combattere lo schema di potere che ha deciso di utilizzare la mafia, così come si è configurata nell’arco di decenni», a partire dallo sbarco alleato in Sicilia nella Seconda Guerra Mondiale.«Per gestire anche la mafia – aggiunge Carpeoro – gli americani hanno creato appositamente una loggia massonica: hanno dato vita al cosiddetto Progetto Colosseum, da cui sono nate numerose logge». Gli statunitensi «hanno utilizzato la mafia anche a scopi bellici, per assicurarsi un’invasione indisturbata della Sicilia (a fin di bene, in quel caso, perlomeno rispetto al contrasto del nazifascismo)». I rapporti tra gli Usa e Cosa Nostra sono sempre stati organici, dice Carpeoro: «Non a caso Andreotti, nel suo processo d’appello, per ottenere l’assoluzione ha citato come testimoni consoli, diplomatici e alti dirigenti degli Stati Uniti d’America». I politici uccisi dalla mafia, da Salvo Lima a Piersanti Mattarella? «Alcuni erano obiettivi tattici, cioè davano fastidio in quel momento; altri erano obiettivi strategici, cioè rappresentavano battaglie da dissuadere fin dall’inizio». Dipende dalle circostanze, dal periodo: «Ci sono stati dei momenti in cui alla mafia è convenuto essere meno visibile, e altri momenti in cui la mafia ha valutato invece che riaffermare le proprie prerogative sul territorio comportasse una certa visibilità».Cosa conteneva la famosa Agenda Rossa di Borsellino? «Elementi delle sue indagini, credo», ipotizza Carpeoro. «Non penso fosse arrivato a indicazioni generali; credo abbia indagato sui rapporti tra la mafia e una certa politica siciliana, e che fosse andato molto avanti, in questa direzione. Non scordiamoci che quel tipo di politica, in realtà, è indispensabile per vincere le elezioni, in Sicilia: quel tipo di politica utilizza anche la mafia, il voto di scambio, tant’è vero che troviamo continuamente casi di politici siciliani coinvolti». Storicamente, continua Carpeoro, la mafia in Sicilia è stata sempre collegata alla Democrazia Cristiana: «Quindi, basta andare appresso agli ex democristiani e si trovano le radici del problema. Borsellino poi indagò anche su Forza Italia, ma perché Forza Italia, in Sicilia, per vincere le elezioni si fece infiltrare da quel tipo di politica democristiana». Le indagini di Borsellino potevano illuminare anche i retroscena della grande svendita finanziaria dell’Italia? «Quelle sono logiche che poi si sono sovrapposte, nel potere. Esistono logiche generali e logiche locali; a volte queste logiche coincidono, e allora si creano questi coaguli di pressione».Il pentito Vincenzo Calcara parla della mafia come di una “entità” accanto ad altre, come la massoneria e il Vaticano. «Tutto ciò che gestisce potere, alla fine, finisce nel tritacarne», insiste Carpeoro: «Tutto il tritato generale della nostra vita civile è fatto di tante componenti; nel momento in cui un certo modo di fare politica ha infiltrato anche la massoneria, la stessa massoneria (almeno quella locale, non so quella nazionale) è diventata uno dei gangli di questo schema di potere. D’altro canto, la stessa massoneria internazionale si è resa “fruibile”, da parte di meccanismi di potere, quindi la cosa non mi meraviglia minimanente». Mafia Capitale a Roma? «Interpretare il termine “mafia” in senso estensivo, cioè riferibile a qualunque associazione criminale, è possibile in linea teorica ma non so quanto sia utile sul piano pratico: perché la mafia, pur essendo diventata di portata ultra-nazionale, è pur sempre un fenomeno molto radicato su territori». La mafia siciliana come prodotto dell’Italia unita? «Cerchiamo di capirci: tutti quelli che collegano la mafia all’Unità d’Italia dicono un cazzata», sostiene Carpeoro, sottolineando che, prima dell’Unità d’Italia, nel Meridione, il potere era in mano ai latifondisti, i cosiddetti baroni, con i loro temutissimi “camperi”.«Il principale alleato del barone era il capobastone del posto», ricorda Carpeoro, «perché la polizia borbonica non era così efficiente e ramificata da garantire l’ordine pubblico. E quindi in ogni paese c’era uno – più furbo, più arrogante, più violento, magari anche dotato di un certo magnetismo nei confronti di coloro che formavano la sua banda – che garantiva ai latifondisti l’esercizio di un potere incontrastato e lo sfruttamento indisturbato delle altre persone. Questa era già mafia», inutile negarlo. Nel momento in cui si crea l’Unità d’Italia, poi, la mafia diventa brigantaggio, «nella dissidenza di quelli a cui il potere è stato tolto». Ma attenzione: «C’è anche una vasta area di trasformazione e di coesione di questi vecchi sistemi nei confronti del nuovo assetto politico: per cui, poi, si creerà il nuovo asse, sul territorio, tra il potere politico e la mafia». Nell’atroce storia mafiosa, suscitano orrore delitti come l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino rapito a 13 anni e poi, dopo oltre 700 giorni di prigionia, ucciso da Brusca e altri complici, che ne sciolsero il corpo nell’acido. «Come leggere un delitto di questo tipo? Come una barbarie, ricollegabile al basso livello della manovalanza mafiosa – basso livello da ogni punto di vista: non solo etico, ma anche pratico e strategico». Eppure, sottolinea Carpeoro, bisogna ricordarsi che la mafia di Brusca e Riina è stata usata e incorporata nello schema di potere dell’Uomo Nero, quello che fa in modo che ce la prendiamo sempre con qualcuno, non con il sistema stesso. E’ così che il gioco è destinato a non finire.Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.
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Magaldi: carabinieri, massoneria e democrazia-fantasma
Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho mai risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».Pur di evitare le primarie, Berlusconi evoca la candidatura di un generale dei carabinieri? Non è il solo a utilizzare il prestigio dell’Arma in chiave elettorale: l’hanno fatto anche Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa chiamando il generale Nicolò Gebbia a presentare il progetto della loro “Lista del Popolo”, definita anche “La Mossa del Cavallo” e ribattezzata da Magaldi “la Mossa del Somaro”, con allusione ai portatori d’acqua («i somari, appunto») cui toccherebbe mettere in piedi liste in tutta Italia, in pochissime settimane, «lasciando però l’ultima parola agli autoproclamati leader, di fatto padroni di ogni decisione». Il generale Gebbia, intanto, denuncia il ruolo occulto della massoneria nella politica: lascia anche intendere di esser stato messo da parte, nei ranghi dell’Arma, in quanto non-massone, e propone di obbligare i “grembiulini” a dichiararsi pubblicamente, se intendono concorrere a cariche pubbliche. Magaldi inorridisce: «E perché mai solo i massoni dovrebbero dichiararsi? Perché non anche esponenti di sindacati e associazioni religiose o filosofiche?». Quella contro gli aderenti alla massoneria, dice, sarebbe una grottesca discriminazione: «L’ennesima, in un paese come l’Italia, dove fa comodo fingere di non sapere che è stata proprio la massoneria a dar vita allo Stato unitario e poi a concorrere alla democrazia: era massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “commissione dei 75” che partorì la nostra Costituzione».Massone l’insigne giurista Pietro Calamandrei, massone il martire antifascista Giacomo Matteotti: di cosa stiamo parlando? Nel bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, Magaldi è stato il primo a rivelare, semmai, il ruolo occulto delle Ur-Lodges sovranazionali nella cabina di regia del vero potere mondiale. Ne fa cenno anche il generale Gebbia, ricordando il ruolo di protezione esercitato da Berlusconi per le truppe italiane schierate a Nassiriya, in Iraq: un intervento risolutivo, ottenuto perché «Bush e Berlusconi facevano parte della stessa loggia». Magaldi corregge l’ufficiale, allora a capo del contingente dispiegato in Iraq: «Bush tentò di affiliare Berlusconi alla superloggia “Hathor Pentalpha”, ma non vi riuscì». Nella “Hathor”, invece, era presente – scrive Magaldi nel suo libro – l’allora ministro della difesa Antonio Martino, peraltro lungamente a capo della Mount Pélerin Society, santuario europeo dell’ordoliberismo finanziario di marca reazionaria. Chiarisce Magaldi: «Ci sono massoni non solo tra i carabinieri, ma anche tra poliziotti e finanzieri. Quando viene iniziato, un massone innanzitutto giura fedeltà alla repubblica italiana. Qualcuno se ne stupisce? Non dovrebbe: proprio la massoneria è stato il maggior fautore dello Stato laico, libero e democratico, basato sul suffragio universale e non più su privilegi di casta».Il generale Gebbia si sente vittima di carabinieri massoni? «Forse dovrebbe interrogarsi sulle sue effettive benemerenze», gli risponde a distanza Magaldi, non entusiasta del profilo politico-culturale che le parole dell’anziano ufficiale lasciano trasparire, evocando la consueta “caccia alle streghe” che contraddistingue tanto mainstream, politico e giornalistico: «Siamo bravissimi a fare i duri con i piccoli massoni di provincia, magari coinvolti in maneggi bancari come quelli di Banca Etruria e Montepaschi, per poi tacere di fronte all’identità supermassonica dei veri massoni di potere», accusa Magaldi. «Rosy Bindi reclama le liste degli aderenti al Grande Oriente d’Italia e Claudio Fava propone addirittura una legge che escluda i massoni dalla politica, privandoli cioè di un fondamentale diritto civile, ma poi tutti fingono di non conoscere la cifra massonica di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, che in qualità di dirigenti di Bankitalia avrebbero dovuto vigilare su Mps». “Dagli al massone?” Sì, ma a patto di sorvolare sui “fratelli” che contano davvero, «per esempio Mario Monti, il devastatore dell’economia italiana, e il suo sodale Giorgio Napolitano».Pura ipocrisia italica, insiste Magaldi: anziché dare la caccia ai “grembiulini” in quanto tali (e non invece ai pericolosi oligarchi nascosti anche nei club più esclusivi della supermassoneria che conta, quella internazionale) saerebbe il caso di mettersi sulle tracce della vera, grande assente dalla scena italiana: la democrazia. Che, appunto, rischia di restare ancora largamente latitante, se è vero che il Pd renziano sembra prepararsi all’ennesimo inciucio con Berlusconi, grazie anche al disastroso Rosatellum. «L’alibi delle larghe intese sarà il solito: fermare il Movimento 5 Stelle, come se fosse un vero pericolo». Purtroppo, continua Magaldi, i 5 Stelle non sono affatto un pericolo, per l’establishment: «Al contrario, sono un movimento soporifero: dove governano, come a Roma, addormentano le istituzioni, che andrebbero invece scosse con robuste dosi di democrazia». Insieme all’economista Nino Galloni, il presidente del Movimento Roosevelt scommette sul ritorno alla sovranità finanziaria, anche monetaria: «Non è possibile che l’Europa sia governata dai cartelli bancari a capo della Bce, e dalle oligarchie private che pilotano le cancellerie. L’Italia, che resta uno dei maggiori contraenti dell’Ue, deve dire semplicemente: ci riprendiamo la nostra sovranità, oppurre arrivederci, ben sapendo che – senza l’Italia – l’Unione Europea non esiste, crolla».Proposta secca: «Una Costituzione Europea politica, validata da referendum popolari». Ipotesi completamente ignorata da Renzi, Berlusconi e 5 Stelle. «Ma sarebbe l’unica soluzione, per poter finalmente cominciare a fare sul serio». Invece, conclude Magaldi, ci tocca assistere anche alla farsa di Bersani e D’Alema, che si appellano all’articolo 1 della Costituzione dopo aver rottamato la Carta, con l’inserimento del pareggio di bilancio. «Chiamare il loro movimento “democratico e popolare”, in antitesi a Renzi, è un insulto all’intelligenza degli italiani: Renzi non ha le colpe di D’Alema e Bersani, non ha lesionato la Costituzione», sostiene Magaldi. «Persino la sua brutta proposta di riforma, quella bocciata dal referendum, non avrebbe fatto i danni delle modifiche costituzionali votate da Bersani: l’abolizione del Senato elettivo non sarebbe stata così devastante, per il paese, quanto l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, che ha privato l’Italia di un fondamentale strumento di sovranità democratica». Ma non sarà così per sempre, si augura Magaldi: il paese dovrà svegliarsi dal sonno e sbarazzarsi di troppi politici mediocri e inutili, spesso anche cialtroni. Massoni e non, ma tutti agli ordini del vero potere, l’élite neo-feudale della globalizzazione privatizzatrice, «interpretata dai veri antieuropeisti, come la Merkel e gli oligarchi di Bruxelles».Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».
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Guerra ad alta velocità, la Nato e la linea Tav Torino-Lione
Si vis pacem, para bellum. Magari anche via treno, sulle rotaie dell’alta velocità? Potrebbe essere la Nato, oggi, a fornire finalmente un alibi credibile al più inspiegabile progetto infrastrutturale dell’Unione Europea, la linea Tav Torino-Lione? «Ci servono trasporti europei più rapidi in caso di guerra con la Russia», dice il segretario dell’Alleanza Atlantica, il norvegese Jens Stoltenberg, rivelando che le manovre militari in corso sul Baltico non sono un semplice war game, sono reali – tanto quanto i missili atomici e supersonici che Mosca potrebbe sganciarci sulla testa, per rappresaglia, come spiega Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, allarmatissimo per la «folle escalation di provocazioni lanciate in modo unilaterale da Washington, esponendo l’Europa al rischio-apocalisse». Pazzie di oligarchi, avidi di commesse militari miliardarie, o autentica minaccia geopolitica? Non è dato saperlo, e men che meno in Italia, paese Nato in cui queste notizie non hanno praticamente diffusione, sui media mainstream e nell’arena politica, opposizione inclusa. La Nato, questa sconosciuta, ancora a guardia di frontiere senza più un nemico. Un mistero, il fantasma della guerra che la Russia non vuole, protetto da una nebbia fittissima: almeno quanto quella che impedisce di capire cosa mai ce ne faremmo della Torino-Lione, il “binario morto” del nord-ovest destinato a restare senza treni (civili, perlomeno).
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Potere e denaro, dal caso Moro all’Isis fino al Russiagate
Andreotti e Cossiga: sarebbero stati soprattutto loro a impedire che Aldo Moro venisse liberato dai Gis dei carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme ai Nocs della polizia. Reparti speciali che, si dice, avevano individuato la prigione romana dello statista democristiano. E’ la tesi, più volte esposta (anche in libri di successo) da un magistrato di lungo corso come Ferdinando Imposimato, già pm e poi presidente onorario della Cassazione. La sua versione, suffragata da testimoni-chiave delle forze dell’ordine: il blitz decisivo fu impedito da Andreotti e Cossiga. Movente: ambivano entrambi alla carica alla quale sarebbe stato destinato Moro, il Quirinale. Gli americani? C’entrano, ma fino a un certo punto: perché poi, al dunque, “ritirarono” il loro uomo, Steve Pieczneick, in un primo momento inviato a Roma per controllare (e depistare) le indagini. Regia dell’operazione Moro: affidata alla Gladio, costola dell’intelligence Nato, in Italia gestita da uomini della P2 come il generale Giuseppe Santovito, allora a capo del Sismi. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, Gianfranco Carpeoro aggiunge un nome, quello del politologo statunitense Michael Leeden, tuttora attivissimo: sarebbe stato il vero burattinaio di Gelli. Per Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni”, la P2 era il terminale italiano della Ur-Lodge “Three Eyes”, potentissima superloggia internazionale di stampo antidemocratico.
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Eurogendfor, la Gestapo europea non risponde ai giudici
I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.La nuova super-polizia, scrive Cesare Sacchetti su “L’Antidioplomatico”, non risponderà più neppure al presidente della Repubblica, che è il comandante in capo delle forze armate secondo la Costituzione italiana. Eurogendfor obbedirà solo agli ordini del Cimin, l’alto comando interministeriale composto dai rappresentanti dei ministeri delle parti firmatarie, che ha il compito di governare la gendarmeria europea. «Nelle democrazie costituzionali il controllo delle forze armate deve rispondere a criteri di trasparenza e sono previsti precisi meccanismi di controllo sul loro operato», ricorda Sacchetti. Eurogendfor, invece, «si colloca gerarchicamente al di sopra delle forze di polizia italiane, indirizzandone le attività ordinarie e persino d’intelligence». Potrà infatti «condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico, monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa l’attività d’indagine penale». Inoltre potrà assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence. «I servizi segreti italiani potranno trovarsi tagliati fuori nella gestione dell’intelligence, con gravi rischi per la sicurezza nazionale».Ma l’aspetto più inquietante, secondo Sacchetti, è l’immunità penale che questo trattato attribuisce ai membri della gendarmeria europea: «I membri del personale di Eurogendfor – recita la normativa – non potranno subire alcun procedimento relativo all’esecuzione di una sentenza emanata nei loro confronti nello Stato ospitante o nello Stato ricevente per un caso collegato all’adempimento del loro servizio». Super-polizia sovrana, al di sopra della magistratura: niente informazioni, controlli, perquisizioni, indagini. «Le autorità delle parti non potranno entrare nei locali e negli edifici senza il preventivo consenso del comandante Egf o, ove possibile, del comandante della Forza Egf», si legge. «Gli archivi di Eurogendfor saranno inviolabili». E l’inviolabilità degli archivi «si estenderà a tutti gli atti, la corrispondenza, i manoscritti, le fotografie, i film, le registrazioni, i documenti, i dati informatici, i file informatici o qualsiasi altro supporto di memorizzazione dati appartenente o detenuto da Eurogendfor, ovunque siano ubicati nel territorio delle parti».In linea teorica, segnala Sacchetti, «Egf potrebbe avere già un archivio (illegale) dove vengono schedati cittadini che per qualche motivo sono sotto osservazione». Archivio ovviamente «precluso l’accesso alle autorità italiane». L’obbligatorietà dell’azione penale, alla quale è tenuta la magistratura italiana? «In questo modo è annullata, e viene meno uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, attraverso il trapianto di una milizia sovranazionale sul territorio italiano con sede a Vicenza, le cui spese sono a carico dello Stato italiano come previsto dall’articolo 10 del trattato». Milizia che «non risponde all’autorità giudiziaria dello Stato, e non è tenuta ad osservare le sentenze emesse dai suoi tribunali». L’inviolabilità delle sedi e l’impossibilità di intercettare le comunicazioni della gendarmeria europea «è una situazione di extra legem, ovvero la completa inefficacia degli atti giuridici nazionali». Per Sacchetti, «il Trattato di Velsen rappresenta una chiara violazione della Carta, poiché le forze armate non debbono e non possono possedere un’immunità penale nell’esercizio delle loro funzioni, né tantomeno sono escluse dalla possibilità di essere intercettate e le loro sedi possono essere perquisite su mandato della magistratura». Di fatto, «la gendarmeria di Velsen non risponde alle leggi italiane e alla sua Costituzione».Chi ha concepito e firmato quel trattato «ha pensato di istituire una forza di polizia che non appartenesse direttamente agli Stati nazionali, da poter utilizzare violando le fondamentali procedure di controllo democratiche». Storia: «Gli esempi di polizie che non rispondono a principi democratici sono da rintracciare nel passato come la Gestapo della Germania nazista, o la Ceka dell’Unione Sovietica, vere e proprie polizie politiche incaricate di perseguire gli avversari dei rispettivi regimi», scrive Sacchetti. «La gendarmeria europea è stata utilizzata ad Atene nel 2010 durante le manifestazioni contro la Troika, e non è da escludersi che possa operare prossimamente sul nostro territorio per reprimere il dissenso montante nei confronti delle politiche di austerità». Col pretesto dei tagli alla spesa, l’Italia di Renzi torna a parlare di riordino delle forze dell’ordine (troppi corpi di polizia) ma definisce fantascienza la sparizione dell’Arma dei carabinieri, assorbita da altre strutture. Sicuri che siano solo fantasie? L’articolo 3 della legge di ratifica di Velsen dice chiaramente che «la forza di polizia italiana a statuto militare per la forza di gendarmeria europea è l’Arma dei carabinieri».I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.
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Morto il lavoro, c’è solo la paura: nessuno è al sicuro
Era uno dei principali obiettivi sin dall’inizio, e ci sono arrivati. Forse un po’ in ritardo rispetto ai tempi che si erano prefissati, ma ci sono arrivati. Chi ha capito il progetto dell’Unione Europea sa che le riforme del mercato del lavoro rappresentano lo strumento per ampliare la massa dei precari disposti a tutto e che, seppure con salari bassi e privi di risparmi, saranno costretti a comprare quei servizi essenziali (sanità, acqua, educazione) che nel frattempo verranno privatizzati. Noi tutti lo abbiamo capito da tempo, forse ora anche il sindacato? In realtà anche il sindacato lo aveva capito da tempo, solo che ora gli è impossibile girare la testa dall’altra parte. In diversi lavori la Mmt ha spiegato perché la linea di intervento “per superare la crisi bisogna lavorare sul lato dell’offerta” è sbagliata, perché il presupposto “per crescere, uno Stato deve avere i conti a posto” è in realtà una superstizione e perché il modello export-oriented a cui tende l’Ue è folle.Le riforme del mercato del lavoro hanno un impatto negativo sulla dinamica occupazionale ma anche un effetto disastroso da un punto di vista psicologico sul sentimento del lavoro di chi continuerà a lavorare. Chi come me viene dalle scienze sociali sta assistendo a uno stravolgimento tale che potremmo anche chiamarlo la cancellazione del sentimento e della cultura del lavoro. È come una malattia e si manifesta tramite una serie di sintomi. La destabilizzazione: il continuo dibattito sul mercato del lavoro serve a veicolare il messaggio “nessuno si senta più al sicuro”; in questo senso l’abolizione dell’articolo 18 è simbolico per l’Ue, nel senso che è il simbolo giusto tramite cui mandare questo messaggio. La fine dei valori del lavoro: cioè quel valore personale che una lavoratore cerca nel lavoro e che è alla base della sua soddisfazione (sentirsi utile oppure fare carriera o lavorare in un bell’ambiente). La cultura dell’austerità cancella la scelta e il desiderio nel lavoro: «E’ già tanto se lo hai, un lavoro», ti viene detto, «non puoi pretendere che sia il lavoro che vorresti».Per chi si ostina ad avere questo desiderio (meglio definito come “pretesa”) è prevista la fustigazione; per chi non ha più questa pretesa è prevista la frustrazione. La morte bianca dell’utilità del lavoro: è stato ucciso l’orgoglio del fare un lavoro utile che proviene anche dal fatto che gli altri lo riconoscano come un lavoro utile (produzione, insegnamento, il lavoro delle forze dell’ordine) che poi era l’essenza del “mestiere”. Ma per lo Stato, sotto scacco dei mercati finanziari, garantire un lavoro non è più una priorità, figurarsi se si pone il problema di far fare cose utili alla collettività, tanto il Pil è dato anche dalle attività illecite. Con la riforma degli ammortizzatori sociali, quei lavoratori in cassa integrazione prima orgogliosi di aver fatto il Pil della nazione saranno costretti ad accettare il primo lavoro utile proposto dalle agenzie di collocamento, cioè il primo che ti viene offerto, pena la fine del sussidio.Vedere oggi questo discorso di Roosevelt che parla del diritto delle persone ad avere un lavoro utile è come assistere a un documentario sul pianeta Marte. In un contesto in cui aumentano le famiglie povere, difendere il diritto a esprimersi tramite il lavoro, per le proprie capacità e aspirazioni, è etichettato dalla “cultura della scarsità” come un’assurda pretesa. Ma, a ben guardare, così si sta demolendo un altro pezzo della civiltà europea, quella della cultura del lavoro. L’austerità si porta dietro l’azzeramento della soggettività al lavoro, cioè quel mondo di sentimenti e di relazioni che rendevano il lavoro una parte importante della vita delle persone (le relazioni con gli altri, le aspettative, le gratificazioni e delusioni). Vale solo quanto sei disposto a fare un lavoro per un costo minore degli altri, a prescindere da quello che sei. E allora, scienziati sociali, psicologi del lavoro, sociologi, e così via: è o non è anche nostra la battaglia contro l’austerità?(Deanna Pala, “Senza lavoro sei disperato, ma non pensare che con un lavoro sarai tanto allegro”, da “Rete Mmt” del 22 settembre 2014).Era uno dei principali obiettivi sin dall’inizio, e ci sono arrivati. Forse un po’ in ritardo rispetto ai tempi che si erano prefissati, ma ci sono arrivati. Chi ha capito il progetto dell’Unione Europea sa che le riforme del mercato del lavoro rappresentano lo strumento per ampliare la massa dei precari disposti a tutto e che, seppure con salari bassi e privi di risparmi, saranno costretti a comprare quei servizi essenziali (sanità, acqua, educazione) che nel frattempo verranno privatizzati. Noi tutti lo abbiamo capito da tempo, forse ora anche il sindacato? In realtà anche il sindacato lo aveva capito da tempo, solo che ora gli è impossibile girare la testa dall’altra parte. In diversi lavori la Mmt ha spiegato perché la linea di intervento “per superare la crisi bisogna lavorare sul lato dell’offerta” è sbagliata, perché il presupposto “per crescere, uno Stato deve avere i conti a posto” è in realtà una superstizione e perché il modello export-oriented a cui tende l’Ue è folle.