Archivio del Tag ‘generali’
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Usa, 124 ex generali: elezioni rubate, nazione in pericolo
«Siamo in una lotta per la nostra sopravvivenza, come repubblica costituzionale, come in nessun altro momento dalla nostra fondazione nel 1776». E’ una cannonata, la lettera aperta che oltre 124 generali e ammiragli a riposo scagliano contro Joe Biden, la cui salute mentale è messa in dubbio. Gli ex dirigenti di vertice delle forze armate – tra cui Donald Bolduc, William Boykin e John Poindexter, già vice-consigliere per la sicurezza nazionale sotto Reagan – su “Flag Officers 4 America” – accusano i democratici di aver rubato le elezioni con i brogli e di aver svenduto il paese al suo maggiore antagonista, la Cina. Nel mirino anche l’accordo sul nucleare dell’Iran, l’immigrazione clandestina come veicolo di traffici innominabili e la sospensione di progetti energetici vitali come la Keystone Pipeline, voluta da Trump. Bocciate le stesse restrizioni sanitarie introdotte accampando l’emergenza pandemica: «I lockdown che colpiscono le scuole e le imprese equivalgono ad azioni di controllo della popolazione».L’accusa: sarebbe in atto una sorta di golpe bianco, da parte di un gruppo non legittimato da elezioni regolari, che procede a colpi di decretazioni d’urgenza scavalcando il Parlamento e mettendo in pericolo la nazione. Quanto pesi, il malumore degli ex generali (che rappresentano solo la vetta dell’iceberg, a quanto pare) lo conferma la reazione allarmata dell’ammiraglio Mike Mullen, già capo di stato maggiore: secondo Mullen, quella lettera «fa male ai militari e, per estensione, fa male al paese». L’avvertimento degli alti ufficiali americani in congedo (liberi di parlare, non più vincolati al silenzio) fa eco a quello dei colleghi francesi, scesi in campo contro Macron: anche in quel caso, le stellette contestano la legittimità di scelte governative che, secondo i militari, opprimono la popolazione e mettono a rischio la stabilità stessa delle istituzioni, sempre più invise alla cittadinanza.«Il conflitto è tra i sostenitori del socialismo e del marxismo contro i sostenitori della libertà costituzionale», si afferma nella lettera statunitense, estremamente esplicita nel condannare l’assenza di trasparenza nelle procedure elettorali che hanno portato Biden alla Casa Bianca. «L’integrità elettorale richiede di garantire che ci sia un voto legale espresso e contato per ogni cittadino», scrivono gli ex alti ufficiali. «I voti sono individuati come legali tramite le verifiche approvate dal Parlamento statale che includono le carte d’identità governative, la firme verificate. E oggi, molti definiscono “razzisti” questi controlli di buon senso, nel tentativo di evitare di avere elezioni giuste e oneste». I firmatari, tutti ex leader militari, si dichiarano «impegnati a sostenere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti contro tutti i nemici», sia «nazionali» che «stranieri». Precisano: «La Cina è la più grande minaccia esterna per l’America. Stabilire relazioni di cooperazione con il Partito Comunista Cinese li incoraggia a continuare a progredire verso il dominio del mondo: militarmente, economicamente, politicamente e tecnologicamente».Per le stellette a riposo, occorre «imporre più sanzioni e restrizioni», nei confronti dei cinesi, «per ostacolare il loro obiettivo di dominazione mondiale e proteggere gli interessi dell’America». Ai democratici viene rinfacciato il ruolo di “quinte colonne” di potenze ostili, e anche una vocazione elitaria, manipolatrice e anti-popolare. «Dobbiamo sostenere e riconoscere i meriti dei politici che agiranno per contrastare il socialismo, il marxismo e il progressismo, sostenere la nostra Repubblica costituzionale e insistere su un governo fiscalmente responsabile, che si concentri su tutti gli americani e specialmente sulla classe media, non su gruppi di interessi speciali o estremisti che sono usati per dividerci in fazioni in guerra». Gli ex generali e ammiragli concludono il loro appello esortando «tutti i cittadini a partecipare subito a livello locale, statale e nazionale per eleggere rappresentanti politici che agiscano per salvare l’America, la nostra repubblica costituzionale, e per far assumere le proprie responsabilità a chi è attualmente in carica».«Siamo in una lotta per la nostra sopravvivenza, come repubblica costituzionale, come in nessun altro momento dalla nostra fondazione nel 1776». E’ una cannonata, la lettera aperta che oltre 124 generali e ammiragli a riposo scagliano contro Joe Biden, la cui salute mentale è messa in dubbio. Gli ex dirigenti di vertice delle forze armate – tra cui Donald Bolduc, William Boykin e John Poindexter, già vice-consigliere per la sicurezza nazionale sotto Reagan – sul magazine dei veterani (”Flag Officers 4 America“) accusano i democratici di aver rubato le elezioni con i brogli e di aver svenduto il paese al suo maggiore antagonista, la Cina. Nel mirino anche l’accordo sul nucleare dell’Iran, l’immigrazione clandestina come veicolo di traffici innominabili e la sospensione di progetti energetici vitali come la Keystone Pipeline, voluta da Trump. Bocciate le stesse restrizioni sanitarie introdotte accampando l’emergenza pandemica: «I lockdown che colpiscono le scuole e le imprese equivalgono ad azioni di controllo della popolazione».
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Stop al Great Reset: due morti sfiorano il principe Carlo
«Il principe Carlo ne ha perso un altro», dice Angela Merkel. «Sono due», conferma Vladimir Putin, al telefono con la cancelliera. «Il primo era il suo preferito, lo sai», aggiunge la Merkel. «Sì, sono stato informato». La tedesca: «Non è una coincidenza». «Sappiamo anche questo», chiosa il russo. Ma chi erano, i due morti menzionati? Il ceco Petr Kellner e il britannico Sir Richard Sutton, beniamini di Carlo d’Inghilterra e descritti come uomini-chiave del cosiddetto Grande Reset. Sono scomparsi nei giorni scorsi a distanza di pochissime ore: il primo caduto insieme al suo elicottero, il secondo accoltellato nella sua abitazione. E il favoloso colloquio telefonico tra Merkel e Putin? Lo pubblica “Mitt Dolcino”, sia pure prendendolo con le molle: lo definisce “report apodittico”, e lo attribuisce a «una Sorcha Faal in maschera», lasciando intendere che l’autrice del post (sul blog “What Does It Mean”) si avvalga di fonti d’intelligence.Né deve stupire la possibilità di una telefonata confidenziale come quella, tra Mosca e Berlino, dato che i capi dei due paesi militano nella stessa superloggia, la “Golden Eurasia”, dai tempi della Germania Est. Sia pure senza prove, e per di più «in un volutamente pessimo inglese», scrive Franco Leaf su “Mitt Dolcino”, il post di “Sorcha Faal” «riafferma il legame Merkel-Putin», e soprattutto «ci parla di una strana moria fra gli alti esponenti del Great Reset». La cosa più interessante di quella trascrizione, però, è lo scambio fra il presidente Putin e la cancelliera Merkel sulle loro rispettive posizioni, per come sono state articolate al World Economic Forum di Davos. Se la Merkel ha definito la pandemia «il disastro del secolo», che ha messo a nudo «le debolezze della nostra società», secondo Putin «è del tutto pleonastico sostenere che non ci siano paralleli diretti nella storia: alcuni esperti – e io rispetto la loro opinione – stanno paragonando la situazione attuale a quella degli anni Trenta».Putin, poi, sottolinea «le negative conseguenze demografiche della crisi sociale», nonché «la crisi dei valori, che potrebbe portare alla perdita dell’eredità civile e culturale di interi continenti». Durante questo scambio – scrive Sorcha Faal”- Putin e la Merkel hanno discusso a lungo l’agenda di Davos. La parte più sorprendente sembra mostrarla la trascrizione (dal tedesco) sulle due “perdite” attribuite a Carlo d’Inghilterra, «nelle vesti di uno dei principali sostenitori del programma socialista-globalista “The Great Reset”». Due dei suoi più stretti alleati per lo sviluppo di questo programma – si legge su “What Does It Mean” – erano l’uomo più ricco della Gran Bretagna, Sir Richard Sutton, e Petr Kellner, l’uomo più ricco della Repubblica Ceca». Il principe Carlo incontrò Kellner per la prima volta quando visitò la Repubblica Ceca nel 1991 e, nel 2009, guidò lo sforzo per farlo selezionare come il “giovane leader globale” del World Economic Forum, si ricorda nel post ripreso da “Mitt Dolcino”.«Due settimane fa, il 27 marzo, Petr Kellner è morto in un misterioso incidente d’elicottero in Alaska», disastro aereo «analogo a quello di Olivier Dassault», industriale e parlamentare francese, erede dell’impero familiare (Dassault, un colosso dell’aviazione: dai jet privati Falcon ai caccia Mirage e Rafale). Classe 1964, Petr Kellner è deceduto in Alaska sulle montagne a circa 80 chilometri da Anchorage, dove era andato per fare eliski. Kellner ha perso la vita assieme ad altre cinque persone, tra le quali due guide locali e il pilota dell’elicottero. Alla guida del fondo d’investimento Ppf, Kellner era stato protagonista della stagioni della grande privatizzazione nell’allora Cecoslovacchia post-sovietica. Un operatore di primissimo piano: banche e assicurazioni, energia, immobiliare e grande distribuzione, con interessi anche in Slovacchia, Russia e Bielorussia, Cina, Vietnam e Kazakhstan. Dal 2007 al 2011 era anche entrato a far parte, in Italia, del Cda delle Generali.L’inglese Richard Sutton, un baronetto di 83 anni, è stato invece aggredito il 7 aprile all’interno della sua villa vicino a Gillingham, nel Dorset (una dimora valutata oltre due milioni di euro). Sutton era un imprenditore che gestiva molte proprietà e alberghi importanti del Regno Unito, come l’Athenaeum Hotel di Mayfair e lo Sheraton Grand London di Park Lane. Figurava nella lista del “Sunday Times” delle persone più facoltose del paese, al 453esimo posto, e il suo patrimonio era valutato in oltre 300 milioni di sterline (quasi 350 milioni di euro). A queste due morti misteriose s’è aggiunta la notizia che – sempre il 9 aprile – il padre di Carlo, il principe Filippo di Edimburgo, è morto in ospedale all’età di 99 anni.Durante una conversazione con la “Deutsche Press Agentur”, come riportato dal tabloid “Express”, trent’anni fa il principe Filippo ebbe a dire: «Nel caso in cui mi reincarnassi, vorrei tornare come un virus mortale, per contribuire a risolvere il problema della sovrappopolazione». Una battuta di spirito, che oggi assume un retrogusto quasi inquietante: ricorda i moniti del Club di Roma, che per mezzo secolo ha parlato della crescita demografica come di una calamità planetaria, ben prima che spuntassero i teorici della decrescita e poi i personaggi come Greta Thunberg, profeti di sventura trasformati in fenomeni mediatici mondiali.«L’importanza di quanto si son detti il presidente Putin e la cancelliera Merkel – entrambi d’accordo sul fatto che le morti misteriose degli alleati del principe Carlo, Sir Richard Sutton e Petr Kellner, non siano una coincidenza – è monumentale», sottolinea “Sorcha Faal” nel post citato da “Mitt Dolcino”. Il contatto tra Mosca e Berlino, secondo “What Does It Mean”, «suggerisce fortemente che queste morti siano in realtà degli omicidi mirati: un messaggio rivolto a chi sostiene il “Great Reset”». Secondo il post, c’era da aspettarselo: «A fronte dell’agenda socialista-globalista volta a “resettare” il mondo intero, le potenti forze che vi si oppongono non permetteranno mai che ciò accada». E’ ancge il motivo, sempre secondo “Sorcha Faal”, per il quale «il presidente Putin ha avvertito quei pericolosi idioti del Wef che il percorso che stanno percorrendo è esattamente come quello degli anni Trenta», che portò fatalmente alla Seconda Guerra Mondiale.«Il principe Carlo ne ha perso un altro», dice Angela Merkel. «Sono due», conferma Vladimir Putin, al telefono con la cancelliera. «Il primo era il suo preferito, lo sai», aggiunge la Merkel. «Sì, sono stato informato». La tedesca: «Non è una coincidenza». «Sappiamo anche questo», chiosa il russo. Ma chi erano, i due morti menzionati? Il ceco Petr Kellner e il britannico Sir Richard Sutton, beniamini di Carlo d’Inghilterra e descritti come uomini-chiave del cosiddetto Grande Reset. Sono scomparsi nei giorni scorsi a distanza di pochissime ore: il primo caduto insieme al suo elicottero, il secondo accoltellato nella sua abitazione. E il favoloso colloquio telefonico tra Merkel e Putin? Lo pubblica “Mitt Dolcino“, sia pure prendendolo con le molle: lo definisce “report apodittico”, e lo attribuisce a «una Sorcha Faal in maschera», lasciando intendere che l’autrice del post (sul blog “What Does It Mean”) si avvalga di fonti d’intelligence.
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Addio made in Italy: agli stranieri tutti i nostri marchi storici
Fiorucci, Versace e i gelati Motta. Negli ultimi anni sono state diverse le aziende del Made in Italy a essere rilevate da compagnie straniere. Il marchio italiano piace a tutti e a far gola non sono solo le marche di moda, ma tutti i settori. Dall’alimentare all’energia, i migliori “pezzi” italiani vengono arpionati e trascinati in acque straniere. Facciamo il punto su tutti i gioielli tricolore “perduti”. Alta Moda e Lusso – Uno dei brand più in voga tra gli anni ’70 e gli anni ’90 è Fiorucci, fondata a Milano da Elio Fiorucci nel 1967. Nel 1990 viene rilevata dalla Edwin International, società giapponese di abbigliamento con diversi marchi di proprietà e licenza, poi dalla Itochu Corporation e infine dagli inglesi di Schaeffer. Le collezioni di Krizia sono invece passate a Marisfrolg Fashion Co. Non solo moda. Alle aziende straniere piacciono molto anche gli yacht. Quelli Ferretti sono di proprietà di Shandong Heavy Industry-Weichai Group. Grande scorpacciata per il fondo francese Kering, che ha acquistato Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori.Dal 2012, la maison Valentino è nelle mani di Mayhoola Investments mentre Ferrè è passato nelle mani del Paris Group di Dubai. Anche La Rinascente appartiene alla compagnia thailandese Central Group of Companies. Tra i casi che ha tenuto alta l’attenzione degli italiani c’è quello di Versace, il cui brand è stato venduto allo stilista americano Michael Kors per la bellezza di 2 miliardi di dollari. L’altro grande colosso francese della moda, Lvmh, è diventato proprietario di Loro Piana, Fendi, Emilio Pucci e Bulgari. La giapponese Itochu Corporation ha fatto suoi altri marchi italiani come Mila Schon, Conbipel, Sergio Tacchini, Belfe e Lario, Mandarina Duck, Coccinelle, Safilo, Ferrè, Miss Sixty-Energie, Lumberjack e Valentino SpA. Quasi tutte queste aziende sono state poi rivendute sempre ad aziende straniere. Anche l’Italia, seppur non con la stessa voracità, ha però acquistato un’azienda francese, la Moncler, che dal 2003 è di proprietà dell’italiano Remo Ruffini.Cibo – Galbani, Locatelli, Invernizzi e Cademartori sono di Lactalis, acquirente della Parmalat nel luglio del 2011, mentre gli oli Cirio-Bertolli-De Rica sono passati nel 1993 alla Unilever, che poi li ha ceduti nel 2008 alla spagnola Deoleo, già titolare di Carapelli, Sasso e Friol. Anche l’Eridania Italia, società leader nel settore zucchero italiano, è passata poi in mani francesi. La Birra Peroni, comprendente i marchi Peroni e Nastro Azzurro, è stata fagocitata dal colosso giapponese Asahi Breweries, mentre la Star, proprietaria di diversi marchi come Pummarò, Sogni d’oro, GranRagù Star, è stata acquistata dalla spagnola Gallina Blanca del Gruppo Agrolimen. Finanza – Anche in termini economici e finanziari, sono molte le società straniere che stanno fagocitando quelle italiane. Nel 2006, il gruppo Bnp Paribas acquisisce Bnl. Nel 2007, Crédit Agricole prende il controllo delle banche Cariparma e Banca Popolare FriulAdria. Sempre nello stesso anno, Generali accetta l’offerta di Groupama per l’acquisto del 100% di Nuova Tirrena per 1,25 miliardi di euro.Anche Unicredit ha venduto Pioneer ad Amundi per un valore di 3,5 miliardi di euro. Industria – Nell’industria, Italcementi è stata acquisita da HeidelbergCement. A Pirelli invece tocca andare in Cina. ChemChina è infatti il nuovo socio. A settembre 2016 la francese Suez ha acquisito parte di Acea mentre Magneti Marelli passa ai giapponesi di Calsonic Kansei. Energia – In campo energetico, Edison ha piegato la bandiera tricolore a favore di un’altra: quella francese. Trasporti – Nell’industria dei treni, il made in Italy non esiste più. La Fiat Ferroviaria è controllata da Alstom. AnsaldoBreda è stata invece venduta alla giapponese Hitachi da parte di Finmeccanica. Non è diverso per gli aerei, Etihad ha acquisito per tre anni Alitalia mentre la Piaggio Aerospace è dal 2014 in mano agli arabi di Mubadala. Per Lamborghini, invece, la nuova casa è in Germania dove il padrone di casa è il Gruppo tedesco Volkswagen.(”Addio al Made in Italy: tutte le aziende italiane diventate straniere”, da “TgCom24″ del 14 luglio 2020; articolo realizzato in collaborazione con il master biennale in giornalismo della Iulm, contenuto a cura di Ilaria Quattrone).Fiorucci, Versace e i gelati Motta. Negli ultimi anni sono state diverse le aziende del Made in Italy a essere rilevate da compagnie straniere. Il marchio italiano piace a tutti e a far gola non sono solo le marche di moda, ma tutti i settori. Dall’alimentare all’energia, i migliori “pezzi” italiani vengono arpionati e trascinati in acque straniere. Facciamo il punto su tutti i gioielli tricolore “perduti”. Alta Moda e Lusso – Uno dei brand più in voga tra gli anni ’70 e gli anni ’90 è Fiorucci, fondata a Milano da Elio Fiorucci nel 1967. Nel 1990 viene rilevata dalla Edwin International, società giapponese di abbigliamento con diversi marchi di proprietà e licenza, poi dalla Itochu Corporation e infine dagli inglesi di Schaeffer. Le collezioni di Krizia sono invece passate a Marisfrolg Fashion Co. Non solo moda. Alle aziende straniere piacciono molto anche gli yacht. Quelli Ferretti sono di proprietà di Shandong Heavy Industry-Weichai Group. Grande scorpacciata per il fondo francese Kering, che ha acquistato Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Dodo, Brioni e Richard Ginori.
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Moody’s, conflitto d’interessi: è ora di portarli in tribunale
Gli italiani dovevano arrivare sull’orlo del baratro, annusare l’aspro odore di tragico default e immaginare poveri i propri figli per rendersi conto della colossale truffa internazionale che è stata (e continua ad essere) perpetrata da trent’anni ai danni dell’Italia dal capitalismo finanziario globale? Evidentemente sì, sostiene Glauco Benigni su “Megachip”, segnalando che Moody’s declassa il governo Italiano – da Baa2 a Baa3 – nel suo ruolo di emettitore di moneta e titoli di Stato, perché nel suo programma il deficit ipotizzato per il 2019 è troppo alto e le riforme fiscali non sono adeguate a garantire la crescita nel medio termine. In sostanza: attenti italiani, perché l’eventuale prossimo declassamento vi identifica come nazione non affidabile, impedirà la compravendita dei vostri titoli di Stato e aprirà la porta al commissariamento (la Grecia docet). Da notare che Moody’s si arroga il diritto di valutare l’Italia solo conto di un terzo dei creditori (non gli stranieri), esprimendo però un’opinione a beneficio di tutti. Sul “Sole 24 Ore”, Morya Longo si domanda: «Perché mai il destino dell’Italia deve essere determinato da valutatori che in passato non hanno sempre azzeccato le previsioni?». Piaccia o non piaccia, aggiunge Longo, questa è la realtà: il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su Moody’s e Standard & Poor’s è perché l’Italia rischia, prima o poi, di essere declassata a “junk”, spazzatura.Attenzione, obietta Benigni: chi, come, dove, quando e perché ha conferito alle agenzie di rating questa facoltà di esprimere valutazioni che poi, “piaccia o non piaccia”, diventano il parametro per stabilire l’affidabilità nei confronti del mercato obbligazionario? La risposta è semplice e triste: «Le agenzie di rating sono possedute dagli stessi soggetti che compongono, rappresentano e gestiscono di fatto il mercato azionario e obbligazionario. Corporation finanziarie pubbliche e private, istituti di credito strategico, banche, assicurazioni, fondi. Tutte istituzioni quotate nelle maggiori Borse del pianeta. Sono dunque loro i padroni dei “valutatori”. E sono dunque sempre loro i “compratori” dei titoli di Stato: sono loro, esclusivamente loro, che “fanno il prezzo” (in questo caso, di intere nazioni) in deroga a qualsiasi legge sul confronto tra domanda e offerta, che – sempre secondo loro – regolerebbe i mercati». Per Glauco Benigni «siamo dentro un labirinto, le cui chiavi sono detenute da strozzini privi di alcuna etica». A indossare per primo l’Elmo di Scipio, aggiunge Genigni, è stato il Codacons, presieduto da Carlo Rienzi, che ha presentato un esposto alla Procura di Roma in cui si può leggere: «Il declassamento si configura come un atto privato volto ad influenzare il mercato e la Commissione Ue». Vero, è proprio così.«A destare sospetto – continua il Codacons – è proprio la tempistica seguita da Moody’s, che ha proceduto al declassamento pochi giorni prima della decisione Ue, valutando quindi una manovra non formalmente definitiva». Il declassamento «interferisce in un procedimento amministrativo che ha fasi ben precise, le quali non appaiono ancora concluse». Ma c’è di più, secondo il Codacons: «In caso di apertura di un procedimento da parte della Procura, l’associazione potrà avviare un’azione collettiva a tutela dei risparmiatori e dei cittadini italiani palesemente danneggiati da un atto arbitrario assunto con una tempistica del tutto sbagliata e lesiva degli interessi del paese». Secondo Benigni, questa è l’occasione buona per aprire almeno un tavolo di trattative, con le agenzie di rating, avendo dalla nostra parte organizzazioni come Adiconsum e Adoc, Adusbef, Altroconsumo, Assoutenti, Cittadinanzattiva, Federazione Confconsumatori – Acp. E poi Federconsumatori, Movimento Consumatori, Unione Nazionale Consumatori e ogni altra rappresentanza della società civile. Obiettivo: sostenere e aderire alla presentazione dell’esposto, con l’aggiunta di «individui, parrocchie, partiti e comitati di quartiere».Stavolta, sostiene Benigni, deve muoversi l’Italia intera, «altrimenti gli italiani annegheranno nell’ignavia, nella pigrizia, nell’indolenza, nella viltà». In altre parole: «Siamo al Tumulto dei Ciompi, siamo chiamati ad una manifestazione imponente in difesa di ogni brandello di sovranità che ancora non abbiamo già ceduto». Tanto più, che se appena vediamo con chi abbiamo a fare, in questo caso, scopriamo subito che «si tratta di quel famigerato 1% che affama il rimanente 99% della popolazione». Moody’s Corporation? «E’ una società privata con sede a New York che esegue ricerche finanziarie e analisi sulle attività di imprese commerciali e statali». È stata più volte indagata da diverse autorità finanziarie (soprattutto Usa e di Hong Kong) per reati quali aggiotaggio, insider trading, circolazione di report non chiari, inadeguato controllo interno: «Insomma, azioni o omissioni fondate sul crescere o diminuire del costo dei pubblici valori o sul prezzo di certe merci, operate valendosi di informazioni riservate o divulgando notizie inconsistenti, allo scopo di avvantaggiare o far avvantaggiare altri a danno dei risparmiatori o dei consumatori».A Hong Kong, nel 2016: la Sfat ha multato Moody’s per 11 milioni di dollari. L’anno seguente, negli Usa, la società ha subito una multa da 864 milioni di dollari per aver gonfiato il rating dei mutui ipotecari. E lo scorso agosto, sempre negli Stati Uniti, la Sec ha inflitto a Moody’s una doppia sanzione, per un totale di oltre 17 milioni di dollari. «Insieme a Standard & Poor’s, Moody’s finì sotto inchiesta per l’accusa di aver manipolato il mercato con dati falsi sui titoli tossici», ricorda Benigni. «Il magistrato indagava, per aggiotaggio e “market abuse”, Ross Abercromby, l’analista di Moody’s che firmò il report diffuso il 6 maggio del 2010, a mercati aperti, in cui si affermava che il sistema bancario italiano, in seguito al tracollo della Grecia, era tra quelli a rischio. La diffusione del report, che la Procura riteneva basato su “giudizi infondati e imprudenti” provocò il crollo del mercato dei titoli italiani». Il pm e la Guardia di Finanza contestavano alle agenzie di rating anche l’aggravante di «aver cagionato alla Repubblica Italiana un danno patrimoniale di rilevantissima gravità».Sal canto suo, l’Esma (European Securities and Markets Authority, autorità paneuropea di vigilanza sui mercati) il 2 luglio 2012 ha avviato un’indagine sulle procedure seguite dalle tre principali agenzie di rating nella loro valutazione della solidità patrimoniale delle banche. Il presidente dell’Esma, Steven Maijoor, dopo i «downgrade di massa», ha sollevato il dubbio che vi siano «sufficienti risorse analitiche» presso le tre agenzie. A Moody’s si rimprovera anche di aver attribuito un rating di massima affidabilità (la cosiddetta tripla A) alla banca Lehman Brothers, fino a alla vigilia della bancarotta, sebbene l’amministratore dell’istituto, Richard Fuld, avesse esibito da tempo dei bilanci falsi e quantunque si sapesse che negli ultimi dieci anni aveva versato 300.000 dollari a deputati e senatori del Congresso statunitense al fine di corromperli. Per non parlare di tutti gli altri procedimenti che pendono o si sono conclusi a volte con condanne pesanti. E l’Italia, “piaccia o non piaccia”, dovrebbe essere valutata da costoro? Per le attività che analizza, continua Benigni, Moody’s realizza il rating che porta il suo nome: si tratta di un indice che misura la capacità di restituire i crediti ricevuti in base a una scala standardizzata e suddivisa tra debiti contratti a medio e a lungo termine. Insieme a Standard & Poor’s, Moody’s è una delle due maggiori agenzie di rating al mondo. Dal 19 giugno 1998 è quotata al New York Stock Exchange.Il primo azionista di Moody’s, con una quota maggioritaria del capitale, risulta Warren Buffett, con la holding Berkshire Hathaway (24 milioni di azioni). Successivamente, compaiono in ordine (dal sito del New York Stock Exchange): Vanguard (16,8 milioni di azioni), BlackRock (11 milioni), StateStreet (7) e Baillie Gifford (6 milioni). Alcuni critici, si legge su Wikipedia, hanno evidenziato come Moody’s – alla pari di altre agenzie – sia «remunerata dalle stesse società su cui è chiamata a esprimere giudizi di redimibilità». Inoltre, «i suoi stessi azionisti principali (banche, gruppi finanziari, fondi privati), si servono dei suoi rating per acquistare prodotti finanziari sul mercato finanziario, evidenziando una situazione di conflitto di interesse». A causa dei ripetuti e clamorosi errori di valutazione, evidenti dagli anni Novanta, le Borse in vari casi hanno mostrato di ignorare il “downgrade” di Moody’s. Lo stesso Mario Draghi, presidente della Bce, il 24 gennaio 2011 ha detto al pm di Trani: «Bisogna fare a meno delle agenzie di rating: sono altamente carenti e discreditate».Glauco Benigni fa notare che ben 11 milioni di azioni dell’agenzia Moody’s sono gestite da BlackRock, la più grande società di investimento nel mondo. Con sede a New York, Blackrock vanta un patrimonio totale di oltre 6.000 miliardi di dollari – quasi quattro volte il Pil italiano – di cui un terzo collocato in Europa. Cosa gestisce BlackRock in Italia? Dispone di pacchetti azionari tra il 5 e il 6% in Banco Popolare, Unicredit, RaiWay, Banca Popolare Milano, Azimut, Intesa SanPaolo, Atlantia e Telecom Italia, più pacchetti di circa il 3% di Fiat e Generali. «Qualche analista la considera la maggiore potenza finanziaria straniera in Italia», sottolinea Benigni. La giornalista Heike Buchter, autrice di un saggio su BlackRock pubblicato nel 2015, conclude così una sua ricerca su “Handelsblatt”: «Nessun governo, nessuna autorità ha una visione così completa e profonda del mondo finanziario e aziendale globale come BlackRock». Dunque, che farà BlackRock a Piazza Affari dopo il declassamento? E cosa aspettiamo, ribadisce Benigni, a potare Moody’s in tribunale?Gli italiani dovevano arrivare sull’orlo del baratro, annusare l’aspro odore di tragico default e immaginare poveri i propri figli per rendersi conto della colossale truffa internazionale che è stata (e continua ad essere) perpetrata da trent’anni ai danni dell’Italia dal capitalismo finanziario globale? Evidentemente sì, sostiene Glauco Benigni su “Megachip”, segnalando che Moody’s declassa il governo Italiano – da Baa2 a Baa3 – nel suo ruolo di emettitore di moneta e titoli di Stato, perché nel suo programma il deficit ipotizzato per il 2019 è troppo alto e le riforme fiscali non sono adeguate a garantire la crescita nel medio termine. In sostanza: attenti italiani, perché l’eventuale prossimo declassamento vi identifica come nazione non affidabile, impedirà la compravendita dei vostri titoli di Stato e aprirà la porta al commissariamento (la Grecia docet). Da notare che Moody’s si arroga il diritto di valutare l’Italia solo conto di un terzo dei creditori (non gli stranieri), esprimendo però un’opinione a beneficio di tutti. Sul “Sole 24 Ore”, Morya Longo si domanda: «Perché mai il destino dell’Italia deve essere determinato da valutatori che in passato non hanno sempre azzeccato le previsioni?». Piaccia o non piaccia, aggiunge Longo, questa è la realtà: il motivo per cui tutti gli occhi sono puntati su Moody’s e Standard & Poor’s è perché l’Italia rischia, prima o poi, di essere declassata a “junk”, spazzatura.
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Il Telegraph: l’euro-golpe sta mettendo in pericolo l’Italia
Le élite italiane favorevoli all’euro si sono spinte troppo in avanti. Il presidente Sergio Mattarella ha creato lo straordinario precedente che nessun movimento politico, o coalizione di partiti, potrà mai prendere il potere se sfida l’ortodossia dell’Unione Monetaria. Senza rendersene conto, ha inquadrato gli eventi come se fossero una battaglia tra il popolo italiano e un’eterna “casta” fedele ad interessi stranieri, facendo il gioco dei ribelli grillini e dei nazionalisti antieuro della Lega. Per giustificare il suo veto all’euroscetticismo ha incautamente invocato lo spettro dei mercati finanziari ma, nell’insieme, le sue azioni hanno reso la situazione infinitamente peggiore. Lo spread sulle obbligazioni italiane a 10 anni è salito di quasi 30 punti base, fino al massimo di 235 (lunedì), quando gli investitori si sono resi conto delle terribili implicazioni dello spasmo costituzionale: una crisi che durerà tutta l’estate e che potrà concludersi solo con nuove elezioni, che non risolveranno nulla. Negli ultimi giorni si è fatto molto per ridurre il calo delle azioni bancarie, ma queste stanno ora cedendo in modo ancora più forte. Banca Generali è scesa del 7,2% e Unicredit del 5%.Che si tratti o meno di un “morbido colpo di Stato”, il territorio resta comunque assai pericoloso. Il presidente Mattarella ha apertamente dichiarato di non poter accettare come ministro delle finanze Paolo Savona, perché le sue passate critiche alla moneta unica “potrebbero provocare l’uscita dell’Italia dall’euro” e portare ad una crisi finanziaria. In un certo senso questo veto poteva essere previsto. Anche il governo Berlusconi fu rovesciato nel 2011 da Bruxelles e dalla Banca Centrale Europea. Qualche “informatore” ha rivelato di aver manipolato gli spread sui bond per poter esercitare la massima pressione. L’Ue aveva persino provato a reclutare Washington, che però si rifiutò d’intervenire. «Non possiamo sporcare di sangue le nostre mani», dichiarò il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Tim Geithner. La novità è che la santità dell’euro dovrebbe amaramente essere formalizzata come imperativo costituzionale italiano!«Abbiamo un problema di democrazia, perché gli italiani sono sovrani e non possono essere governati dallo spread», ha detto Matteo Salvini, l’uomo forte della Lega, in forte ascesa. «È una questione molto seria il fatto che Mattarella abbia scelto i mercati e le regole dell’Unione Europea invece degli interessi del popolo italiano». «Perché non diciamo semplicemente che in questo paese il voto è inutile, visto che sono le agenzie di rating e le lobby finanziarie a decidere i governi?», ha dichiarato Luigi di Maio, leader del Movimento Cinque Stelle. La Costituzione italiana concede al presidente Mattarella alcuni poteri, per lo più non sperimentati e comunque posti in una zona grigia. Potrebbe anche sostenere che il blitz fiscale Lega-Grillini violi l’art. 80 della Costituzione e che comunque egli ha il dovere di salvaguardare i trattati dell’Ue. Tuttavia, non ha alcun mandato diretto conferito dal popolo. Egli fu scelto come compromesso di basso profilo nell’ambito di un accordo preso dietro le quinte. Non ha l’autorità per bloccare in eterno l’Italia nell’euro.L’onorevole Di Maio sta ora facendo richiesta d’impeachment, ai sensi dell’articolo 90. «Voglio che il presidente sia processato, voglio che questa crisi istituzionale venga risolta dal Parlamento per evitare che il malcontento popolare sfugga di mano», ha dichiarato. I ribelli, in effetti, hanno voti sufficienti per poterlo rimuovere. Ciò che è degno di nota è che le élite pro-euro hanno agito in modo veramente rozzo, spingendo la situazione verso un’impasse pericolosa. Il ministro delle finanze proposto, Paolo Savona, non è un testa calda. E’ stato funzionario della Banca d’Italia, ministro e presidente di Confindustria, oltre che direttore di un hedge-fund londinese. Aveva fatto dichiarazioni concilianti, lasciando cadere la suggestione che l’euro sia una “gabbia tedesca”. Aveva insistito sul fatto che il suo “Piano B” per uscire dalla moneta unica (2015) non era più operativo e che il suo vero obiettivo era tornare ad un euro più equo, radicato nell’art. 3 del Trattato di Lisbona, che prevede crescita economica, creazione di posti di lavoro e solidarietà. Le sue argomentazioni legali erano impeccabili.Con un po’ di furbizia, i “poteri forti” e i “mandarini” italiani avrebbero potuto collaborare con il signor Savona e trovare un modo per attenuare le posizioni della Lega e dei grillini. La spinta ad escluderlo del tutto – per cercare di soffocare la ribellione euroscettica, come avevano già fatto con Syriza in Grecia – proveniva da Berlino, Bruxelles e dalla struttura di potere dell’Ue. Il tempo dirà se hanno preso una cantonata, cadendo in una trappola. «In un certo senso sono molto felice perché abbiamo finalmente sgombrato il tavolo dalle str…ate», ha dichiarato Claudio Borghi, portavoce per l’economia della Lega. «Ora sappiamo che si tratta di una scelta fra democrazia e spread. Devi giurare fedeltà al dio dell’euro per poter avere una vita politica, in Italia. E’ peggio di una religione. Quello che stiamo vedendo costituisce il problema fondamentale dell’Eurozona: non si può avere un governo che dispiaccia ai mercati o al ‘club dello spread’, la Bce e l’Eurogruppo li utilizzerebbero per annientare la vostra economia. Siete molto fortunati, nel Regno Unito, perché vivete ancora in un paese libero», ha aggiunto.Il presidente Mattarella ha scelto Carlo Cottarelli – veterano del Fmi e simbolo d’austerità – per formare un governo tecnico. Questo tentativo disperato non ha alcuna possibilità di ottenere un voto di fiducia nel Parlamento italiano. Sopravviverà in un limbo costituzionale. «È incredibile che stiano comunque cercando di farlo. Porterà a rivolte e a proteste politiche di massa. Alla stragrande maggioranza degli italiani non gliene frega niente dello spread», ha concluso Borghi. Il calcolo di coloro che circondano il presidente è che gli italiani da loro umiliati, davanti all’abisso finanziario e politico, possano cambiare idea e rinunciare all’insurrezione. La scommessa è che l’attrito politico possa ridisegnare il paesaggio entro ottobre, considerato il mese più probabile per un nuovo voto. Questo gioco può anche riuscire, ma è in ogni caso una supposizione pericolosa.La Lega di Matteo Salvini ha già guadagnato otto punti nei sondaggi, dopo le ultime elezioni. Si è impadronita degli eventi delle ultime 24 ore per capitalizzare l’umore nazionalista, come Gabriele d’Annunzio a Fiume nel 1919. «Non saremo mai servi e schiavi dell’Europa», ha detto Salvini. Ha già proclamato che il prossimo voto sarà un plebiscito sulla sovranità italiana e un atto di resistenza nazionale contro «Merkel, Macron e i mercati finanziari». Ma c’è un altro pericolo. La fuga di capitali ha una sua logica implacabile. È visibile nel crescente tasso di cambio con il franco svizzero. Esiste il rischio che i flussi in uscita accelerino e spingano gli squilibri interni Target2 della Bce verso il punto di rottura. I crediti Target2 della Bundesbank tedesca sono già a 923 miliardi di euro. È probabile che arriveranno ad 1 trilione di euro in breve tempo, provocando forti richieste da parte di Berlino perché siano congelati.L’Istituto Ifo, in Germania, ha già avvertito che devono esserci dei limiti. Ma qualsiasi mossa per limitare i flussi di liquidità significherebbe che la Germania è vicina a staccare la spina dell’Unione Monetaria e questo scatenerebbe un’inarrestabile reazione a catena. Il signor Mattarella affronterà un’estate estenuante. Rischia di andare a sbattere, fra quattro mesi, con la stessa alleanza Lega-Grillini, ma con una maggioranza ancora più ampia e un fragoroso mandato a favore del loro “governo del cambiamento”. Potrebbe seguire la strada del presidente legittimista francese Patrice de MacMahon che, sotto la Terza Repubblica, tentò d’imporre il suo “ordine morale” ad un’ostile Camera dei Deputati, negli anni ‘70 dell’Ottocento, invocando i suoi teorici poteri. Il tentativo fallì. Il Parlamento lo affrontò presentandogli un ultimatum: “Sottomettersi o dimettersi”. Prevalse la democrazia.(Ambrose Evans-Pritchard, “Il colpo di Stato europeo contro l’Italia segna uno spartiacque”, dal “Telegraph” del 28 maggio 2018; articolo tradotto da “Franco” per “Come Don Chisciotte”).Le élite italiane favorevoli all’euro si sono spinte troppo in avanti. Il presidente Sergio Mattarella ha creato lo straordinario precedente che nessun movimento politico, o coalizione di partiti, potrà mai prendere il potere se sfida l’ortodossia dell’Unione Monetaria. Senza rendersene conto, ha inquadrato gli eventi come se fossero una battaglia tra il popolo italiano e un’eterna “casta” fedele ad interessi stranieri, facendo il gioco dei ribelli grillini e dei nazionalisti antieuro della Lega. Per giustificare il suo veto all’euroscetticismo ha incautamente invocato lo spettro dei mercati finanziari ma, nell’insieme, le sue azioni hanno reso la situazione infinitamente peggiore. Lo spread sulle obbligazioni italiane a 10 anni è salito di quasi 30 punti base, fino al massimo di 235 (lunedì), quando gli investitori si sono resi conto delle terribili implicazioni dello spasmo costituzionale: una crisi che durerà tutta l’estate e che potrà concludersi solo con nuove elezioni, che non risolveranno nulla. Negli ultimi giorni si è fatto molto per ridurre il calo delle azioni bancarie, ma queste stanno ora cedendo in modo ancora più forte. Banca Generali è scesa del 7,2% e Unicredit del 5%.
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Mafia nigeriana? Gli 007: è solo politica, xenofobia elettorale
Se la prenderanno coi migranti, perché “conviene”: serve a sfogare su falsi bersagli la rabbia di strati sociali sempre più vasti, colpiti dalla crisi economica. Parola dei servizi segreti italiani: previsione datata 2016. Lo ricorda Stefania Nicoletti, sul blog “Petali di Loto”, a proposito dell’atroce fine di Pamela Mastropietro, omicidio rituale subito trasformato in caso politico. L’impresa di Luca Traini, che a Macerata ha sparato su migranti africani, «ha innescato una vera e propria campagna di odio, basata su assunti completamente falsi». Il più assurdo? «Quello che vede tra i protagonisti del fatto la cosiddetta mafia nigeriana», su cui i media si sono gettati: un’organizzazione crimimale «addirittura più potente della mafia cinese», stando a un noto criminologo. Immediata l’eco sui media, con pagine su vudù e cannibalismo. «La questione è stata cavalcata da una parte della destra, ed è quindi diventata l’occasione per farne un cavallo di battaglia elettorale». Peccato che non esista nessuna “mafia nigeriana”, stando al codice penale: l’associazione è di tipo mafioso – recita l’articolo 416 bis – quando chi ne fa parte «si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti».E’ mafia, dice il codice, se ostacola il libero esercizio del voto, condizioando le elezioni. E’ mafia se è armata, se dispone di arsenali ed esplosivi. E’ mafia «se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti». Sintetizzando, dice Stefania Nicoletti, per poter parlare di “mafia” occorrono vari requisiti, tra cui il controllo del territorio, delle attività economiche, degli appalti e dei servizi pubblici: «Non risulta che la criminalità nigeriana sia infiltrata negli appalti o nell’economia italiana». Controllo del voto e quindi della politica? «Non risulta da inchieste, giornalistiche o giudiziarie: nessun controllo della criminalità nigeriana sulla nostra politica». Armi o esplosivi? «Anche su questo punto, non risulta che la “mafia nigeriana” disponga di questi arsenali da far tremare i polsi alla società italiana». Più in generale, per parlare di mafia «occorre un controllo capillare del territorio, con il potere di condizionare la politica, la magistratura e la società civile; tutte caratteristiche che, per quanto riguarda la criminalità nigeriana, non ci risultano».«Sorvoliamo poi sull’assurdità dell’affermazione che la mafia nigeriana sarebbe più potente di quella cinese», aggiunge Nicoletti: «Ricordiamo che la Cina ha acquistato parte della Pirelli, parte della Banca d’Italia, parte delle aziende che producono il Chianti, il Milan, ha acquisito partecipazioni in Eni, Generali, Telecom». Il peso delle Triadi, poi, è fuori discussione: «La mafia cinese in realtà è la più potente del mondo, perché ha un’origine millenaria, e si avvale anche di poteri esoterici, psichici e materiali, sconosciuti anche all’esoterismo occidentale». La criminalità nigeriana, tutt’al più, «gestisce un traffico di prostitute, sotto il controllo delle nostre mafie, che devono dare l’assenso per permettere ai nigeriani di operare. E le nostre mafie, lo sappiamo da tempo, viaggiano a braccetto con la politica». In realtà, rileva Stefania Nicoletti, lo scontro sociale (in funzione elettorale) tra immigrati e società civile, era stato previsto in un rapporto dei servizi segreti, che lo avevano preannunciato da tempo. Il testo della relazione del Sisr è disponibile in rete. E parla da solo: l’emergenza migratoria «è ritenuta tra i temi più remunerativi in termini di visibilità e consensi». Infatti, annota la fonte di intelligence, la questione migranti è sempre più centrale «nelle strategie politiche delle principali organizzazioni».I partiti, «nel tentativo di cavalcare in modo strumentale il fenomeno, facendo leva sul malessere della popolazione maggiormente colpita dalla congiuntura economica e dalla contrazione del welfare», hanno ormai «sviluppato un’articolata campagna propagandistica e contestativa (manifestazioni, presidi, attacchinaggi, flash mob) contro migranti e strutture pubbliche e private destinate all’accoglienza, influenzando indirettamente anche la costituzione di “comitati cittadini” di protesta”». In generale, continua la fonte governativa, «il diffondersi in ambito europeo di istanze populiste e nazionaliste, nonché di sempre più estesi timori ed insofferenze verso la presenza extracomunitaria, tende ad essere percepito tra i gruppi della destra radicale come un’opportunità per accrescere il proprio spazio politico, determinando pertanto un incremento della correlata attività di mobilitazione». Una previsione precisa: «Continueranno a verificarsi episodi di contrapposizione (provocazioni, aggressioni e danneggiamenti di sedi) con frange dell’estrema sinistra, per effetto sia della mobilitazione concorrenziale su tematiche sociali, da parte di entrambi gli schieramenti, sia delle visioni contrapposte in tema di immigrazione». E poi: tanto baccano sulla “mafia nigeriana” e sugli “omicidi rituali vudù” – chiosa Stefania Nicoletti «e mai un accenno, nei vari media mainstream, ai delitti rituali nostrani (quelli sì, diffusi e comuni)». Di colpo, i giornali scoprono che i delitti rituali esistono? Certo: ma solo quelli nigeriani.Se la prenderanno coi migranti, perché “conviene”: serve a sfogare su falsi bersagli la rabbia di strati sociali sempre più vasti, colpiti dalla crisi economica. Parola dei servizi segreti italiani: previsione datata 2016. Lo ricorda Paolo Franceschetti, sul blog “Petali di Loto”, a proposito dell’atroce fine di Pamela Mastropietro, omicidio rituale subito trasformato in caso politico. L’impresa di Luca Traini, che a Macerata ha sparato su migranti africani, «ha innescato una vera e propria campagna di odio, basata su assunti completamente falsi». Il più assurdo? «Quello che vede tra i protagonisti del fatto la cosiddetta mafia nigeriana», su cui i media si sono gettati: un’organizzazione criminale «addirittura più potente della mafia cinese», stando a un noto criminologo. Immediata l’eco sui media, con pagine su vudù e cannibalismo. «La questione è stata cavalcata da una parte della destra, ed è quindi diventata l’occasione per farne un cavallo di battaglia elettorale». Peccato che non esista nessuna “mafia nigeriana”, stando al codice penale: l’associazione è di tipo mafioso – recita l’articolo 416 bis – quando chi ne fa parte «si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti».
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Ci svendono alla Francia, perché ci salvi da Berlino: illusi
La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania. «Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania». Lo sostiene Federico Dezzani, secondo il quale «gli europeisti sognano un futuro da satellite francese». Lo scenario: la liquidità immessa dalla Bce ha “sedato” i mercati finanziari, senza però risolvere nessun problema di fondo. E così, per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, l’Italia «sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”». Se l’Ue è ormai prossima al capolinea, emerge il Piano-B: l’Europa “a due velocità”, «che contempla una maggiore integrazione fiscale e politica tra Francia e Germania, con rispettivi satelliti».Un’unione a due, argomenta Dezzani sul suo blog, significherebbe che Berlino si faccia carico di Parigi, trasferendo un ammontare di risorse tale da consentirle di “vivere al di sopra dei propri mezzi”: ipotesi piuttosto remota, visto l’assetto politico tedesco. In compenso, «la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di un arsenale atomico: per Berlino, “l’acquisto della Francia” sarebbe un buon affare e le consentirebbe di evitare la sindrome di isolamento/accerchiamento di cui ha sofferto dal 1870 in avanti». Al di là di una maggiore integrazione con Parigi, però, Berlino però non andrà: e sicuramente «non è nell’interesse della Germania creare le condizioni perché anche l’Italia possa partecipare “al nocciolo duro”». Tutte le iniziative tedesche di questi ultimi mesi, osserva l’analista, «vanno infatti nella direzione di un’espulsione forzata dell’Europa mediterranea dall’area euro: dall’ipotesi di “default controllati” avanzata da Wolfgang Schaeuble alla stretta sui crediti deteriorati, passando per nuovi criteri per la valutazione dei Btp iscritti nei bilanci delle banche, è chiaro che la Germania sta facendo di tutto per spingere l’Italia e l’euro-periferia fuori dall’euro».Da qui la tentazione, tutta italiana, di aggrapparsi alla Francia. Si considerino gli investimenti, scrive Dezzani: se le acquisizioni tedesche in Italia sono piuttosto limitate dal 2011 in avanti (il marchio Ducati, l’Italcementi della famiglia Pesenti), quelle francesi esplodono letteralmente e, concentrandosi in settori strategici come l’energia, la finanza e le telecomunicazioni, godono dell’esplicita approvazione dei governi Monti-Letta-Renzi. Nel 2011, ricorda l’analista, Parmalat è acquistata da Lactalis, mentre Bulgari è passata a Lvmh. L’anno seguente, Edison ha lasciato l’orbita Acea per entrare nel mondo Gdf Suez. Ancora: nel 2016, Pioneer è stata comprata da Amundi e Telecom è stata scalata da Vivendi. Nel 2017 Luxottica è stata inglobata da Essilor. Saltuariamente, aggiunge Dezzani, circolano voci di un acquisto di Unicredit da parte di Société Générale, mentre le Assicurazioni Generali sarebbero nel mirino di Axa. «Quel che è certo è la finanza italiana è ormai dominata dal trio francese Jean Pierre Mustier (ad di Unicredit), Philippe Donnet (ad di Generali) e Vincent Bolloré (azionista di Mediobanca e padrone di Telecom), a loro volta espressione della finanza Rothschild che occupa attualmente l’Eliseo con Emmanuel Macron».Negli ultimi sette anni, rileva Dezzani, «l’Italia è diventata un sotto-sistema dell’economia francese, con l’avvallo dei governi “europeisti” nostrani: il governo Gentiloni ha persino inviato i nostri militari a presidiare i fortini della Legione Straniera in Niger». Qualsiasi acquisto italiano in Francia è stato bloccato, dal passato interesse di Enel per Suez alle più recenti mire di Fincantieri su Stx Saint-Nazaire. «In quest’integrazione a senso unico si può facilmente scorgere il grande disegno geopolitico della Francia: ridurre l’Italia, acquisendo il controllo di tutti i gangli dell’economia, alla condizione di Stato-vassallo, così da raggiungere una massa tale da confrontarsi con la Germania che, al contrario, sta coagulando attorno a sé i paesi dell’Europa nordica e centrale (Olanda, Austria, Slovenia, Paesi Baltici)». L’Italia, che ha la “stazza” economica e una popolazione sufficiente per restare un attore autonomo, «guadagna invece da questo scivolamento nell’orbita francese soltanto la promessa di rimanere agganciata al processo di integrazione europea: come satellite di Parigi». Secondo Dezzani, «la fallimentare classe dirigente sta, in sostanza, vendendo il paese alla Francia per salvare se stessa, sperando che l’assoggettamento a Parigi eviti la nostra espulsione “dall’Europa”».Anche lo schema dei trattati bilaterali, osserva l’analista, è un indice della gerarchia che si sta creando in Europa: la proposta di un nuovo Trattato dell’Eliseo, presentata il 22 gennaio 20182, dovrebbe rafforzare l’integrazione tra la Germania (contraente forte) e la Francia (contraente debole). «Nessun accordo simile è previsto tra Germania e Italia». Il nostro paese dovrebbe invece siglare entro il 2018 il cosiddetto “Trattato del Quirinale”, presentato dal premier Gentiloni lo scorso 10 gennaio, in occasione della visita a Roma di Emmenuel Macron: «Si tratterebbe del corrispettivo del Trattato dell’Eliseo, dove però la Francia è il contraente forte e l’Italia quello debole». Di fatto, «accantonata qualsiasi pretesa di parità tra i diversi Stati», “l’Europa a due velocità” sarebbe quindi «una struttura gerarchica, dove l’Italia è un sotto-sistema della Francia, a sua volta dipendente dalla Germania». Secondo Dezzani, i prossimi mesi saranno decisivi per le sorti dell’Ue: collasso accelerato o precario asse Merkel-Macron? «In qualsiasi caso, non è interesse dell’Italia rimanere in “serie A” come satellite della Francia». Se una classe dirigente «fallita ed esautorata» sogna di stipulare il “Trattato del Quirinale” e assoggettarci alla Francia, «una nuova classe dirigente dovrebbe studiare come ricollocare l’Italia al centro del Mediterraneo e rimettere in sesto l’economia con un’accurata programmazione industriale».La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania. «Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania». Lo sostiene Federico Dezzani, secondo il quale «gli europeisti sognano un futuro da satellite francese». Lo scenario: la liquidità immessa dalla Bce ha “sedato” i mercati finanziari, senza però risolvere nessun problema di fondo. E così, per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, l’Italia «sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”». Se l’Ue è ormai prossima al capolinea, emerge il Piano-B: l’Europa “a due velocità”, «che contempla una maggiore integrazione fiscale e politica tra Francia e Germania, con rispettivi satelliti».
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“Caro Stakeholder, le leggi dell’Ue le facciamo solo per te”
«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».La risposta di Prodi? Lunare: «Qui a Bruxelles abbiamo un sistema che si chiama Sis, attraverso cui tutti gli attori, dalla mega-banca al cittadino, vengono informati delle leggi che proponiamo e votiamo». Al che, Barnard torna in Italia e interpella sindacati, Ong, operai, associazioni di categoria. «Sis? Non ci risulta: che roba è?». Aggiunge oggi lo stesso Barnard, sul suo blog: «Quell’inchiesta rivelava poi molto di peggio, e cioè quali erano le lobby delle corporations che addirittura ordinavano alla Commissione quali leggi fare». Passati 17 anni, fatto l’euro, sfornate milioni di info sul “mostro” chiamato Unione Germanica Europea, nascono in Europa i movimenti anti-Bruxelles e anti-euro, come se la Commissione fosse ormai sotto assedio. Davvero? Nemmeno per idea: al posto del Sis ora ci sono l’Inception Impact Assessment e la Roadmap. «Sono la versione moderna del Sis. Ma molto più con la faccia come il culo del Sis, che almeno su carta citava per nome chi avrebbe (falsamente) consultato: parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria».Oggi, invece, l’Inception Impact Assessment e la Roadmap che precedono la promulgazione delle leggi sovranazionali che contano, varate dalla Commissione – quelle che hanno demolito la nostra economia europea e fatto scappare la Gran Bretagna – citano una sola entità che viene consultata prima di approvare una di quelle super-leggi: gli Stakeholder. «Cosa sono? Sono poteri finanziari e industriali, pari pari. Esempio: Mediobanca è uno Stakeholder del “Corriere della Sera”. Il mostro d’investimento BalckRock è uno Stakeholder delle Poste Italiane. Caltagirone, Warren Buffett, le Generali, Eni, Exor-Fiat, Vivendi sono Stakeholders. Poi, siccome la cosa era banalmente troppo spudorata per esistere, la Commissione Ue ha aggiunto in una nota anni fa che Stakeholders sono anche gli Stati e… chiunque abbia un interesse nelle leggi che fanno». Fantastico, no? E allora «mandiamo cartoline a casa dalle gente, alle piccole medie imprese, alle Ong, ai contadini, ai medici e infermieri, negozianti, baristi, metalmeccanici e gli chiediamo se hanno mai ricevuto questo tipo di comunicazione: “Caro Stakeholder…”».Barnard cita, ad esempio, una delle lettere inviate agli Stakeholder, quelli veri. Il testo: «Caro Stakeholder, questa valutazione preliminare d’impatto ha lo scopo di informare le parti interessate circa il lavoro della Commissione, al fine di consentire loro di fornire un feedback sulle iniziative previste e di partecipare in modo efficace nelle future attività di consultazione». Non solo: «I soggetti interessati sono in particolare invitati a fornire opinioni sulla comprensione da parte della Commissione del problema e le possibili soluzioni, mettendo a disposizione tutte le informazioni pertinenti che possono avere, anche per quanto riguarda i possibili effetti delle diverse opzioni». E ancora: «La valutazione preliminare d’impatto è fornita solo a scopo informativo e il suo contenuto potrebbe cambiare». Beninteso: «Questa valutazione non pregiudica la decisione finale della Commissione sul fatto che questa iniziativa sarà perseguita o sul suo contenuto finale».A seguire, un testo di 3.182 parole. «“I bet you my fat ass”, direbbe un texano appoggiato al suo trattore, cioè: ci scommetto il culo che però gli Ad di Unicredit, Exor, Luxottica, Eni, Goldman Sachs, Hsbc, Siemes, Telefonica, Ubs, Amazon e soci le hanno ricevute eccome, e non solo», quelle sollecite e tempestive comunuicazioni preliminari. D’altro canto, aggiunge Barnard, «uno stuolo di 30 avvocati pagati 5.000 euro per ogni giorno di consulenza glieli hanno tradotti in ogni dettaglio e fatti capire. E non solo: così come faceva Prodi ai miei tempi, oggi Juncker aspetta il loro Ok, per poi sparare la legge sulla testa di tutti noi sfigati. Questa è la democrazia in Unione Europea. Magari vi serve saperlo». Morale della favola: i garbati distinguo dei nostri politici ma anche le sporadiche invettive verso Bruxelles «fanno venire il mal di pancia forse a un termosifone, se va bene», a fronte di un regime che è istituzionalmente “complice” degli Stakeholder, sulla testa di cittadini che ancora stentano a capire sotto che razza di super-dittatura sono finiti, e perché.«Ripetiamo tutti insieme alla lavagna: nell’Unione Europea le leggi che contano le fa la Commissione di Bruxelles. I Parlamenti degli Stati dell’Unione non possono farci nulla, ma solo adottarle supini. Se si rifiutano, Bruxelles ha ogni possibile via legale e monetaria per bastonarli al punto di sottomissione». Le leggi che contano davvero, per cittadini e imprese, vengono scritte dalla Commissione su parere degli “stakeholders”, sottolinea Paolo Barnard. «E tutto si gioca qui. Ti chiedo: tu sei uno Stakeholder che dà il suo parere sulle leggi Ue che ti fanno? Ti risulta di esserlo?». La storia, ricorda il giornalista, inizia nell’anno Duemila, quando l’allora giovane inviato di “Report”, Rai Tre, mette insieme l’inchiesta ‘I globalizzatori”, che – ormai 17 anni fa – raccontava «tutto quello che oggi scoprono Sgarbi, Minzolini, Salvini, Borghi, Sapelli, Savona, Farage, alcuni “grullini” e codazzo cantante». La notizia principale era questa: «Era la Commissione Europea di Prodi a fare le leggi che contano per noi, ma noi ne sapevamo qualcosa? Ci veniva chiesto di leggerle o di farle leggere ai nostri parlamentari, sindacati, Ong, associazioni di categoria?».
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Barnard: leggete a chi vanno i miliardi della Bce. E vomitate
Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.La Banca Centrale Europea crea tutti gli euro che esistono. E’ una specie di governo di questa Ue. Dopo appena 13 anni la moneta unica aveva letteralmente fatto a pezzi ogni singolo paese dell’Eurozona, Germania inclusa (diedi i dati in Tv 3.000 volte). Tutto il mondo finanziario extra europeo sapeva (e sa) che l’euro è fallito. A quel punto l’unico modo perché l’unione monetaria non crollasse in una catastrofe economica da libri di storia era se il creatore dell’euro, la Bce, si metteva a comprare una gran massa dei beni finanziari emessi dagli Stati-euro che ormai erano visti come semi-spazzatura dal mondo. Questo per artificialmente tenerne i prezzi e gli interessi a un livello di decenza. Draghi con la Bce lo fece: l’operazione si chiama Quantitative Easing (Qe). Ma non bastò, anzi, le cose andarono anche peggio per motivi che già scrissi 3 milioni di volte. Il problema era che anche le aziende private nell’Eurozona andavano da vomitare.Dovete sapere che anche le aziende emettono beni finanziari, cioè titoli. E allora Draghi alla disperazione si presentò l’anno scorso a giugno e annunciò un altro Qe, però questa volta per le aziende, col nome di Cspp. E si mise a comprare miliardi in titoli di aziende per puntellarle anche se semidecomposte. Dovete capire che un’azienda ha in pratica due modi di finanziarsi con prestiti: chiedere in banca o emettere titoli. E Draghi annuncia che ora la Bce gli compra i titoli. Ok. Uno dice: be’, se serve a salvare il mobilificio di Ancona con 80 operai, perché no? La risposta è tragica e ci apre sulle porte dell’infamia della Bce. Le piccole aziende non possono emettere titoli, sono condannate alla gogna del prestito da banche, fine. Infatti la Bce di Draghi precisò che avrebbe acquistato titoli di aziende “corporate”. Che significa? Che avrebbe comprato i titoli dei cani grossi, come Telecom, o Vw. Ops! Ma per noi italiani già questa è una sciagura, perché da noi le piccole medie aziende sono il 98% delle imprese e creano il 78% della ricchezza dell’Italia. Sfiga. Crepate. Titoli Benetton? Certo che li compriamo, dice Draghi.E allora uno apre il pdf che mi arrivò a fine ottobre per mail, e scopre, transazioni bancarie alla mano, a chi stanno andando i 125 miliardi che Draghi ha programmato di sborsare per ‘puntellare’ le aziende. E uno vomita. Petrolieri, mega imprese di servizi, industrie di armi, auto di stralusso, nucleare, colossi delle privatizzazioni, giganti dal fashion o del farmaco, persino casinò e produttori di champagne. Centoventicinque miliardi di regali a ’sti tizi. Operaio, commessa, crepate in Liguria, Marche, Puglia… L’ipotermico di Teramo? Ma scherziamo? Mille eurooooo? Ma cosa pretende? Palate di miliardi di euro invece a Shell, Eni, Repsol, Total, una trentina di aziende spagnole di servizi del gas, produttori di centrali nucleari come Teollisuuden, come Siemens, e Urenco. Poi gli Agnelli con la finanziaria Fiat Exor (Ferrari), Renault, Mercedes, Vw. Poi criminali di guerra come Thales, che hanno venduto armi in Africa sulla puzza di milioni di cadaveri. Poi i nemici giurati dell’acqua pubblica, cioè i colossi francesi Vivendi e Suèz. E ancora i super-colossi: Solvay, Nestlé, Coca Cola, Unilever, Novartis, Michelin, Ryanair, Luis Vuitton, Danone, assicurazioni Allianz, Deutsche Telekom, Bayer, Telefonica, Moët & Chandon, e il mostro delle scommesse Novomatic…Soldiiiiiiiiiiiiii yes! La Bce fa proprio l’interesse del pubblico, con qualcosa come 17.900 piccole medie aziende europee che sono il cuore dell’impiego in Ue totalmente fuori dal festino. Ecco cosa dovete rispondere a chi vi rampogna “Ci vuole più Europa”. Basterebbe questo articolo per tagliargli la gola, a ’sti assassini. In Italia ’sta porcata vede fiumi di soldi versati in prima fila ai super big dell’energia, ma nessuno becca palate di liquidi come l’Eni; seguono Snam, Enel, Terna, Hera, e altri minori. Poi: Atlantia (Mediobanca, Goldman Sachs, BlackRock e Cassa Risp. Torino), le Generali, Telecom Italia, Luxottica, e i soliti Agnelli con Exor. E tu che cazzo vuoi? Tu chi sei, cittadino? Chi sei, sfigato piccolo imprenditore? Chi siamo noi, eh?, da quando Jaques Attali, uno dei padri della Bce, ci definì «la plebaglia europea»? Eccovi una notizia. Anche se, mi si perdoni, non sono immani tragedie come i 104 indagati del Pd di Travaglio-Gomez, la Raggi e la Cgil che fa i ruttini sul Job Act. Good luck Italians, good luck piccoli imprenditori e dipendenti che mai avete capito un cazzo.(Paolo Barnard, “A chi vanno i miliardi della Bce – zitta centrItalia, crepa”, dal blog di Barnard del 30 gennaio 2017).Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.
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Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?
Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o vendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. «Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. «E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. «Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Morgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
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Giannini: capitalismo italiano, piccola oligarchia cialtrona
Sono passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica “di tipo leninista”: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada – come spiega l’ultimo saggio di Massimo Giannini – in un panorama di macerie: “L’anno zero del capitalismo italiano”. Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, osserva Gad Lerner, il vicedirettore di “Repubblica” descrive l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia.Fuggono dalle loro responsabilità degli azionisti Telecom riuniti nella Galassia del Nord che cedono il controllo agli spagnoli pur di limitare le perdite, e se ne infischiano se il 78% degli altri azionisti comuni mortali che hanno comprato in Borsa non vedranno un centesimo. E il plenipotenziario Paolo Scaroni all’Eni «riesce a scansare lo scandalo del crollo di valore della controllata Saipem, perché lui appartiene a una consorteria imprescindibile». Fa impressione, scrive Lerner in un intervento ripreso nel suo blog, la sintesi che Giannini ci propone dei maggiori gruppi imprenditoriali pubblici e privati del nostro paese: «Quando fanno profitti, li fanno all’estero. Qui da noi hanno contribuito a una desertificazione percepibile non solo nella grande industria ma anche nella finanza». Ritorno all’anno zero del capitalismo, appunto, dove vengono meno anche i polmoni del credito, se è vero che «Montepaschi resta una bomba a orologeria» destinata quasi inevitabilmente alla nazionalizzazione, mentre Intesa Sanpaolo, «concepita con l’ambigua e non meglio precisata funzione pseudopolitica di “banca di sistema”, oggi si ritrova acefala, logorata nei suoi vertici e oppressa da troppe grandi operazioni finite in perdita».L’angusto orizzonte del capitalismo di relazione, passando il vaglio della prolungata depressione economica, rivela scenari imbarazzanti, «perché i protagonisti di spoliazioni aziendali o di raggiri contabili, in tale consesso, non possono essere liquidati come corpi estranei da cui prendere le distanze». Giannini fa due nomi per tutti: Giuseppe Mussari e Salvatore Ligresti. «Mele marce? Davvero Mussari che ancor oggi si fa fotografare a cavallo nella campagna senese ha potuto turlupinare l’intero mondo bancario italiano godendo di protezioni politiche trasversali, senza che i colleghi ne avessero percezione? E quanto a Ligresti, di cui solo ora tutti pronunciano a voce alta il soprannome “coppoletta”, siamo sicuri che integrarlo nel salotto buono servisse solo al vecchio compaesano Cuccia, o invece ha fatto comodo a tanti altri banchieri contemporanei?».Massimo Giannini considera il 2013 l’anno cruciale del disfacimento di questa economia di relazione minata nelle sue fondamenta. E’ l’anno che precede, non a caso, il definitivo espatrio della Fiat trasformata da Marchionne in multinazionale svincolata dagli impianti italiani, con grande beneficio per l’accomandita Agnelli e grave danno per il sistema paese. Ma già nel 2011 «era saltato un perno decisivo di questo sistema collusivo in cui varie debolezze si sostenevano a vicenda», scrive Lerner, alludendo alla presidenza delle Generali bruscamente sottratta a Cesare Geronzi, «e con lui a uno scivoloso baricentro in cui si ritrovano sottogoverno e Vaticano, immobiliaristi e concessionari pubblici, ex industriali passati alla rendita e lobbisti millantatori in cerca di nuovo lustro». Chi ha fatto saltare quel vecchio equilibrio?Secondo Giannini, è stata «una miscellanea rivoltasi al Tremonti di turno che attraverso l’ancora giovane manager di Mediobanca, Alberto Nagel, coalizzava i nuovi potenti, diversissimi fra loro: ormai cosmopoliti come Luxottica e De Agostini, piuttosto che arcitaliani come Caltagirone e Della Valle. Uniti nel guardare dall’alto in basso gli ambienti sbrindellati di prima, senza accorgersi di quanto gli somigliano». Giannini si pone domande radicali di fronte a questo scenario desolante: «Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche. Se altrove, cioè, si pone un problema di “tosatura” del sovrappiù di un’economia cartacea che rischia di soffocare l’economia reale, in Italia l’anno zero del capitalismo rischia di lasciare in braghe di tela gli uni e gli altri».(Il libro: Massimo Giannini, “L’anno zero del capitalismo italiano”, Editori Laterza / La Repubblica, 136 pagine, euro 5,90).Sono passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica “di tipo leninista”: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada – come spiega l’ultimo saggio di Massimo Giannini – in un panorama di macerie: “L’anno zero del capitalismo italiano”. Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, osserva Gad Lerner, il vicedirettore di “Repubblica” descrive l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia.
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Soldi alle aziende? C’è Blackrock, futuro padrone d’Italia
I prestiti bancari ormai vengono sistematicamente negati e servono alternative per finanziare lo sviluppo delle imprese. La notizia: la Cassa Depositi e Prestiti vuole sfruttare l’enorme liquidità inutilizzata di Blackrock, il più grande fondo finanziario del mondo, per dare così un nuovo sostegno alle medie aziende del Belpaese. Il piano, riferisce “Libero”, sembra trovare il gradimento del colosso Usa che, proprio per studiare a fondo l’economia italiana, ha intensificato le visite dentro i nostri confini: dal quartier generale londinese, i “pellegrinaggi” di manager Blackrock in Italia si sarebbero intensificati da inizio anno. E forse non è un caso che quest’anno la convention dei 150 top manager Blackrock si terrà in Italia, a Milano. Dopo l’ingresso in Mps, Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre che in Telecom, Generali, Fiat Industrial e Mediaset, il gigante d’investimento americano starebbe preparando l’assalto alle medie imprese italiane.Il colosso guidato da Larry Fink – ebreo della California che in 20 anni ha creato un colosso da 4.300 miliardi di dollari di investimenti su scala globale – potrebbe far scattare l’operazione Pmi, scrive Francesco De Dominicis sul quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Il progetto, per ora a livelli embrionali, è allo studio con i vertici della Cdp. «Pochi giorni fa, secondo indiscrezioni, emissari di Blackrock arrivati dalla sede di Londra hanno incontrato a Roma Bernardo Bini Smaghi, responsabile progetti speciali di Cdp. Sul tavolo, la creazione di un “fondo dei fondi” volto a incentivare il mercato dei mini-bond. Si tratta di strumenti di indebitamento sostenuti, ma senza successo, dal decreto “Destinazione Italia” varato a febbraio dal governo di Enrico Letta». La Cdp, continua “Libero”, sta passando al setaccio varie soluzioni volte ad aiutare le aziende per utilizzare queste speciali obbligazioni, che hanno l’obiettivo di aggirare il “credit crunch”.«Comunque, non sarebbero solo i soldi dello “zio Sam” ad alimentare il fondo disegnato dalla Cdp», precisa De Dominicis. «I soldi americani potrebbero essere accompagnati da altre fonti di liquidità: la Cassa intenderebbe coinvolgere nel progetto enti di previdenza e fondi pensione». Il tutto, «sotto l’attenta regia del presidente della Spa controllata dal Tesoro, Franco Bassanini», il quale «sta progressivamente mutando la natura della Cdp». Senza dimenticare, che lo stesso esecutivo di Matteo Renzi scommette proprio sulla Cassa Depositi e Prestiti per sbloccare definitivamente il pagamento dello stock di debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. «La crescita del Pil italiano, insomma, passa da via Goito».I prestiti bancari ormai vengono sistematicamente negati e servono alternative per finanziare lo sviluppo delle imprese. La notizia: la Cassa Depositi e Prestiti vuole sfruttare l’enorme liquidità inutilizzata di Blackrock, il più grande fondo finanziario del mondo, per dare così un nuovo sostegno alle medie aziende del Belpaese. Il piano, riferisce “Libero”, sembra trovare il gradimento del colosso Usa che, proprio per studiare a fondo l’economia italiana, ha intensificato le visite dentro i nostri confini: dal quartier generale londinese, i “pellegrinaggi” di manager Blackrock in Italia si sarebbero intensificati da inizio anno. E forse non è un caso che quest’anno la convention dei 150 top manager Blackrock si terrà in Italia, a Milano. Dopo l’ingresso in Mps, Intesa Sanpaolo e Unicredit, oltre che in Telecom, Generali, Fiat Industrial e Mediaset, il gigante d’investimento americano starebbe preparando l’assalto alle medie imprese italiane.