Archivio del Tag ‘giovani’
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La grande truffa della storia, scritta dai vincitori
Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti, elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto, da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial, che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori della nuova Repubblica.Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra” che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania, avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole, nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante: venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna cicuta, l’isotopo Polonio 210. La legge di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma questa è un’altra storia.E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica. Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti patrioti italiani.Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra, compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo, antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri, che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio. Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani, come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti “da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui «mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?Si può davvero scrivere la storia con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano l’opportunità di modificare il corso della storia come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al 2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il “politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’ come la Procura di Milano punta a Berlusconi.Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America, dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est. L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte geneticamente mafioso? I conti con la storia non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.(Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
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Maggiani: rimpiango i piccoli negozi, uccisi dall’avidità
Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.(Maurizio Maggiani, “Quei piccoli negozi uccisi dall’avidità”, da “Il Secolo XIX” del 24 giugno 2012).Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere
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Mujica: non sono povero, sono sobrio (quindi felice)
Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.Ha detto nei suoi discorsi più famosi, primo fra tutti quello davanti alla platea dell’Onu: «Si parla di sviluppo sostenibile, ma che cosa ci frulla in testa? Il modello di sviluppo e di consumo è quello attuale delle società ricche? Di nuovo mi sono chiesto cosa succederebbe a questo pianeta se gli indiani avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi. Quanto ossigeno ci resterebbe da respirare? Il mondo ha forse oggi risorse sufficienti per far sì che 7-8 miliardi di persone possano avere lo stesso livello di consumo e spreco che hanno le più opulente società occidentali? O dovremo forse fare un altro tipo di ragionamento? Abbiamo creato una civiltà figlia del mercato, della concorrenza che ha portato a un progresso materiale esplosivo. Siamo in una società di mercato e questo ci ha portato alla globalizzazione cui assistiamo. Ma noi stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione a governarci? E’ possibile parlare di solidarietà in una società basata sulla concorrenza spietata? Fin dove arriva la nostra fratellanza?».«La sfida che abbiamo davanti è grandissima, colossale, e la grande crisi non è ecologica, è politica. L’essere umano non governa oggi; sono le forze che l’uomo ha scatenato a governarlo. Non veniamo al mondo per svilupparci in termini generali; veniamo al mondo per cercare di essere felici, perché la vita è breve e ci sfugge. E nessun bene vale quanto la vita, è elementare. Ma se consumo la mia vita lavorando senza sosta per consumare sempre di più, aggredisco il pianeta e per mantenere quel consumo dovrò produrre sempre di più cose che durano sempre meno. Siamo in un circolo vizioso, ci sentiamo costretti a mantenere una civiltà usa e getta. Questi sono problemi di carattere politico e ci stanno dicendo che bisogna iniziare a lottare per un’altra cultura».Mujica profeta, dunque, ma anche leader, più di moltissimi altri. Ultima sua mossa, ai primi di dicembre, quella di spiazzare i cartelli della droga legalizzando e nazionalizzando in Uruguay la coltivazione e la vendita della marjuana. Qualcosa di eclatante che forse può rinvigorire altre e decisive azioni volte a erodere il mito perverso del consumo senza freni e l’utilizzo senza limiti delle sempre più scarse riserve del pianeta. L’Uruguay non è certo l’America, ha tre milioni di abitanti, è uno dei paesi sudamericani con storie di dittature, di persecuzioni. E prima ancora una storia ancor più tragica, quella della colonizzazione ispanica, di vessazioni, di massacri. Una piccola nazione, dunque, ma ciò che sta facendo Mujica è grande, così grande e potente che i media convenzionali ne parlano pochissimo, perché questo agire fa tremare certuni nelle altissime sfere.Pepe Mujica era, da giovane, un convinto oppositore della dittatura; si era convertito ai Tupamaros, il movimento armato che si rifaceva al leggendario Tupac Amaru, un cacique che aveva capeggiato una lunga e sanguinosa lotta contro i conquistadores spagnoli. Mujica ha pagato, assieme a molti compagni, la sua ribellione con quattordici anni di carcere e torture. Oggi Il suo vivere spartanamente da presidente della sua nazione gli appare cosa scontata: «Yo no soy pobre, Yo soy sobrio», usa dire d’abitudine. Una formidabile coerenza con lo stato del mondo costituito più di poveri che di ricchi. I fasti della sua carica altrove dispiegati (basti pensare all’enormità delle spese per la presidenza della Repubblica che Napolitano si ostina a voler mantenere) Mujica li ritiene un semplice e incongruo retaggio del Medio Evo. Filosofo di formazione, cita volentieri Seneca, Diogene – colui che ricevette Alessandro Magno e i suoi dignitari sulla soglia del suo poverissimo ricovero, pare fosse una botte. Alessandro che gli veniva promettendo tutto e di più, una personalità così grande. Al gentile rifiuto di Diogene sul presupposto che nessuno fa niente per niente, per cui lui non si sarebbe più sentito libero, Alessandro deluso rispose: «Ma allora non possiamo proprio fare niente per te». «Certamente, Alessandro, ero qui seduto al sole per scaldarmi un poco dal freddo della notte, basta che vi facciate un poco più in là».(Carlo Carlucci, “Io non sono povero, sono sobrio – quindi felice”, da “Il Cambiamento” del 17 dicembre 2013).Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.
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Giannuli: il cretino di sinistra e la permanenza del Pd
«Non capisco, ma mi adeguo». Era l’esilarante refrain di Giorgio Ferrini, nei panni di caricatura del militante comunista romagnolo nello zoo televisivo di Renzo Arbore. La cattiva notizia è che, dopo tanti anni, il “cretino di sinistra” – avvistato da Leonardo Sciascia già nel remoto 1963 – ancora oggi vive e lotta accanto a noi, ma non insieme a noi: lotta soprattutto perché nulla cambi, avvinghiato alle sue piccole certezze economiche e alla nomenklatura di partito che le tutela. Questo, sostiene Aldo Giannuli, è il vero motivo per cui un elettorato largamente di sinistra come quello del Pd riesce regolarmente a digerire una leadership imbarazzante e “di destra” come quella di D’Alema, fino al “nuovismo” palesemente neoliberista di Renzi. La base dovrebbe sfiduciare un gruppo dirigente che fa l’opposto di quello che predica? Troppo facile. «Ovviamente non è escluso che una porzione di deficienti giochi un ruolo di supporto alle burocrazie dominanti e senza alcun vantaggio per sé (altrimenti che deficienti sarebbero?)». Ma i “deficienti” non sono la maggioranza.Ben più decisiva, continua Giannuli nel suo blog, è la porzione di persone direttamente legata da rapporti di interesse con il gruppo dirigente: funzionari, consulenti, personale amministrativo, cui si aggiungono i membri di corporazioni garantite e comitati d’affari. «A sinistra questa coda clientelare e burocratica è particolarmente fitta: si pensi agli apparati di partito, al personale politico degli enti locali, alle cooperative, alle corporazioni di accademici, sindacalisti, magistrati, notai, architetti». Beninteso: «Non è affatto detto che questo gruppo di persone condivida o meno gli indirizzi politici del gruppo dirigente che sostiene». Nella maggior parte dei casi «vi è indifferente», eppure «continuerà a votarlo, per il prevalere degli interessi particolaristici o anche solo personali». E familiari: «Queste persone hanno parenti, amici, clienti, dipendenti, che sono spesso interessati indirettamente al mantenimento di quegli stessi assetti di potere».Esempio: «Se un architetto vive della committenza degli enti locali in cui ha amici politici, è interessato alla loro permanenza alla guida dell’ente locale e del partito, ma altrettanto interessati al permanere di quegli equilibri saranno i suoi familiari, la segretaria ed anche il giovane precario del suo studio che vivono di quello stipendio, pur magro». Così come a votare per lo stesso assessore saranno i clientes che hanno ricevuto qualche favore, anche piccolo. Per cui, in questo modo si arriva facilmente a una quota del 15-20% di voti congressuali, che riflettono una quota rilevante dell’elettorato. E anche se oggi l’apparato del Pd è più debole rispetto a quello del Pci, il funzionario di partito resta un dipendente privilegiato. Il suo handicap? E’ licenziabile, per cui «deve assicurarsi un solido ancoraggio nei livelli superiori dell’organizzazione», aderendo a una cordata, di cui si metterà al servizio. Come? Selezionando dirigenti a livello provinciale e regionale, membri di commissioni, candidati negli enti locali. Così nasce un «seguito organizzato», che determina «una catena di consenso che prescinde totalmente dall’adesione ad una determinata linea politica».Succede ovunque. Per esempio: «Il segretario della sezione “Gramsci” è un vecchio militante del Pci, totalmente estraneo alla cultura liberista del gruppo dirigente e che non ama affatto Renzi, ma è stabilmente collegato al gruppo che nella federazione provinciale fa riferimento al signor Bianchi, ex sindacalista Cgil, a sua volta collegato al gruppo regionale dell’on. Neri, che deve la sua candidatura al membro della direzione Rossi che, a sua volta, ha scelto di stare con Renzi. Quel segretario di sezione, dunque, voterà Renzi. E siccome ha un nutrito gruppo di amici ed estimatori, molti di essi, pur pensando cose totalmente diverse, voterà seguendo le indicazioni del segretario del circolo». Facile, no? «Al pari di quanto accade nei mercati finanziari – continua Giannuli – giocano un ruolo molto importante le “asimmetrie informative”», in base alle quali «chi vende sa ciò che vende, ma chi acquista non sa quel che compra». E’ la piramide della “gerarchia informativa”: il capo-cordata avrà il massimo di informazioni, i suoi immediati subordinati ne conosceranno solo una parte, e così via. Alla fine, alla base arriverà una quota minima di informazioni, «in un crescendo di opacità» anche pericoloso: se infatti il capo-corrente «ha stabilito un’ intesa coperta con altro capo-corrente», probabilmente «lo dirà solo ai collaboratori più stretti». Risultato: «La base compie le sue scelte in condizioni di ignoranza più o meno parziale, per cui la scelta basata sulla fiducia personale spesso sopperirà ad una scelta consapevole».Ma perché la base non giudica mai il gruppo dirigente sulla base dei risultati effettivamente conseguiti? Primo problema: «Non tutti i militanti di un partito seguono la vita politica con l’attenzione necessaria», magari anche solo perché non hanno il tempo di documentarsi. Sull’economia, poi, la nebbia è totale: «L’uomo della strada percepisce che l’economia non va, che occupazione e consumi calano e che la pressione fiscale è poco sopportabile». Ma finisce per accontentarsi di spiegazioni del tipo: “E’ l’eredità dei governi precedenti”, “E’ l’effetto della crisi mondiale che sarebbe ancora peggiore se il governo non avesse fatto questo o quello”, “E’ quello che si può fare entro i vincoli dei trattati internazionali”, “E’ colpa della Germania”, oppure “Gli altri avrebbero fatto di peggio”. Nella maggior parte dei casi, il militante del Pd «si fiderà di quello che legge sul giornale», o al massimo «si rivolgerà al suo opinion leader di riferimento (un amico insegnante o professionista o giornalista) che spesso sarà un militante o simpatizzante del partito».Ad aggravare la cecità della base Pd di fronte alla crisi, pesano anche «riflessi psicologici» storici: la tendenza a «confondere i desideri con la realtà, scacciare le notizie sgradite, cercare di giustificare sempre la parte politica per cui si tiene». In più, «la resistenza ad accettare i mutamenti storici in corso» e, ovviamente, «a leggere quel che accade con le lenti del passato». E’ un fatto: a sinistra «il radicamento ideologico è maggiore e con una più spiccata propensione acritica», dal momento che il “patriottismo di partito” ha ragioni antiche. Conta – e parecchio – anche l’anagrafe: «La densità di anziani a sinistra è particolarmente alta: una grossa fetta degli elettori del Pd sono i pensionati. I giovani si astengono o votano il M5S, pochi la destra, ma solo pochissimi Pd». Inoltre, anche là dove la cecità è superata dall’impegno critico, anche i migliori militanti si trovano di fronte a un muro invalicabile: la mancanza di alternative.L’assenza di alternativa, sostiene Giannuli, è prodotta dallo stesso ceto politico al potere. «Quando chiedi a un militante di sinistra perché vota per una certa corrente o perché non reclama le dimissioni immediate di un segretario sconfitto alle elezioni, novanta volte su cento la risposta è: “E chi ci metti al suo posto?”. Ed è vero, perché non c’è un’ offerta alternativa. Ma non c’è perché il ceto politico al potere ha accuratamente fatto in modo che non ci fosse. E un gruppo dirigente alternativo non cade dalle nuvole come un dono del Cielo». E’ evidente: «All’interno dei partiti è la totale assenza di democrazia interna ad impedire qualsiasi ricambio». Vero, «non mancano le liturgie congressuali o le primarie», ma alla linea di partenza «arrivano solo già quanti sono dentro la casta». Così, «la scelta è sempre fra diverse frazioni della stessa burocrazia».Male oscuro: «C’è una viscosità interna che penalizza le novità e punisce le innovazioni», per cui un outsider come Civati non avrà scampo, dopo esser stato preso in considerazione, al massimo, «come una curiosa e divertente anomalia». Poi, «quando si arriverà al congresso o alle primarie, i giochi saranno già fatti: il regolamento provvederà a rendere quasi impossibile ai nuovi arrivati anche solo di presentare una loro mozione e loro candidati». Tutto questo, naturalmente, si rifletterà anche alle urne, dove l’elettore si troverà sempre a scegliere fra le solite offerte politiche. «A scoraggiare la formazione di nuove liste influirà anche la legge elettorale maggioritaria che, con il richiamo al “voto utile” e le soglie di sbarramento, mette fuori gioco eventuali nuovi arrivati». Ecco spiegato, dunque, perché l’impresentabile Pd contini a esistere. E abbia messo in campo – con un’investitura di tipo bulgaro – l’ultimo vero neoliberista italiano, Matteo Renzi. Uno che, sulla crisi, non ha ancora detto una parola: non uno straccio di analisi, e dunque nessuna soluzione.«Non capisco, ma mi adeguo». Era l’esilarante refrain di Giorgio Ferrini, nei panni di caricatura del militante comunista romagnolo nello zoo televisivo di Renzo Arbore. La cattiva notizia è che, dopo tanti anni, il “cretino di sinistra” – avvistato da Leonardo Sciascia già nel remoto 1963 – ancora oggi vive e lotta accanto a noi, ma non insieme a noi: lotta soprattutto perché nulla cambi, avvinghiato alle sue piccole certezze economiche e alla nomenklatura di partito che le tutela. Questo, sostiene Aldo Giannuli, è il vero motivo per cui un elettorato largamente di sinistra come quello del Pd riesce regolarmente a digerire una leadership imbarazzante e “di destra” come quella di D’Alema, fino al “nuovismo” palesemente neoliberista di Renzi. La base dovrebbe sfiduciare un gruppo dirigente che fa l’opposto di quello che predica? Troppo facile. «Ovviamente non è escluso che una porzione di deficienti giochi un ruolo di supporto alle burocrazie dominanti e senza alcun vantaggio per sé (altrimenti che deficienti sarebbero?)». Ma i “deficienti” non sono la maggioranza.
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L’ultimo neoliberista: Renzi è solo l’avanzo del nuovo
Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del Pd rappresenti l’ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo. Il suo staff sta preparando un altro attacco all’articolo 18, quello che nell’Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre, con un accordo con il governo Monti, Cgil Cisl e Uil hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più.Il progetto per il lavoro annunciato dal suo staff prevede la cancellazione dell’articolo 18 per tutti i nuovi assunti. In cambio verrebbero diminuiti i contratti formalmente precari. Questo per la ovvia ragione che essendo possibile il licenziamento a discrezione, il contratto precario perderebbe ragione d’essere. Se posso cacciarti quando voglio perché devo scervellarmi a trovare il contratto capestro più adeguato, semplicissimo no? È ovvio che questo è solo un passaggio intermedio verso l’abolizione totale della tutela contro i licenziamenti ingiusti. Infatti se tutti i nuovi assunti saranno privi di quella tutela per un bel po’ di tempo, le aziende saranno interessate a chiudere e licenziare per riassumere senza diritti. E chi li dovesse mantenere sarebbe considerato un privilegiato da combattere. Il renziano Pietro Ichino sostiene da anni che nel mondo del lavoro vige l’apartheid come nel Sudafrica prima della vittoria di Mandela. Peccato che così si faccia l’eguaglianza a rovescio. Come se in quel paese, invece che estendere ai neri i diritti dei bianchi, si fosse deciso di rendere tutti eguali togliendo quei diritti a tutti.La soppressione dell’articolo 18 non è certo una novità. Da sempre in Italia è rivendicata dalle organizzazioni delle imprese quando non sanno che dire e fu tentata dal governo Berlusconi nel 2002. La Cgil di allora però riuscì a impedirla. In Spagna i governi hanno da tempo liberalizzato i licenziamenti, e quel paese oggi è l’unico grande Stato europeo con un tasso di disoccupazione superiore al nostro. In Francia ci provò il presidente Sarkozy a introdurre una misura simile a quella che piace oggi a Renzi. Fu fermato da una gigantesca protesta giovanile e popolare. La seconda iniziativa del neoeletto leader è stata quella di mettersi di traverso rispetto a quella che è stata chiamata la Google Tax. Cioè un tenuissimo provvedimento di tassazione sugli affari delle grandi multinazionali che operano nella rete e che hanno sede legale in paradisi fiscali.Queste società guadagnano miliardi da noi e non pagano un centesimo, come ha ricordato quel comunista di Carlo De Benedetti. E come soprattutto ricorda la Corte dei Conti, che da tempo afferma che la quota più rilevante dei tanti miliardi che mancano al fisco viene dalla elusione fiscale delle grandi società che giocano con le sedi legali all’estero. Il progressista Renzi ha subito detto a Letta che questa tassa non s’ha da fare, e così è stato. Viene da chiedersi, ma dove sta il nuovo in tutto questo? Sviluppare l’economia con la flessibilità del lavoro e la detassazione dei ricchi e delle multinazionali, è il principio guida delle politiche liberiste che hanno dominato negli ultimi trenta anni. Siamo ancora qui, sono queste le “riforme”? Se è così, il progetto di Matteo Renzi più che essere il nuovo che avanza, è l’avanzo di quel nuovo che ci ha portato al disastro attuale.Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del Pd rappresenti l’ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo. Il suo staff sta preparando un altro attacco all’articolo 18, quello che nell’Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre, con un accordo con il governo Monti, Cgil Cisl e Uil hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più.
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Lerner: Mario Caniggia, l’Italia che disse no all’orrore
Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».Ho chiamato i miei figli perché lo ascoltassero e gli stringessero la mano, grati. Mario Caniggia era venuto da un paese vicino, Pozzengo, a testimoniarci la storia che nobilita il nostro territorio. Già sapevamo che le due case diroccate sul bricco della vigna, alle nostre spalle, erano il rifugio dei partigiani valcerrinesi. I vecchi le chiamano ancora così: le case dei partigiani. Un nome che la nostra famiglia s’impegna a mantenere vivo. Caniggia raccontava e gli si inumidivano gli occhi. Non aveva ancora compiuto diciotto anni quando fece la scelta del rischio e della coerenza, e gli toccò guardare in faccia la morte dei suoi compagni. Ma non solo: la morte per rappresaglia dei civili innocenti, come i capifamiglia e il parroco di Villadeati. Quella sua emozione si è trasmessa a noi stretti intorno a lui, ed è come se avesse permeato di sé le mura di cascina Bertana, gli ippocastani e il prato lì davanti, il ruscello, la collina… luoghi incantevoli che racchiudono una storia significativa, e dunque acquistano un valore da non disperdere.Dal giorno di quella visita indimenticabile, a ogni visitatore che viene anche da lontano io mi sento in dovere di raccontare quel che è stato. Per ricordare a me stesso e agli altri che il passaggio della libertà, la via stretta e dolorosa della lotta di liberazione dal nazifascismo, si sono realizzati solo grazie al fatto che tante persone semplici, perbene, hanno trovato in se stesse la forza di dire no all’indifferenza. Senza quel movimento dal basso, senza l’eroismo silenzioso di chi ha sentito come un dovere schierarsi contro un potere oppressivo, forse i nazifascisti sarebbero stati sconfitti lo stesso (ma chissà quando, dopo mesi o anni di ulteriori sofferenze). Senza i partigiani la società del dopoguerra non avrebbe potuto guardarsi allo specchio, digiuna di buoni esempi e di cultura democratica.Ogni tanto incontro ancora Mario Caniggia, magari la domenica mattina al mercato di Valle Cerrina. Delle volte par quasi che voglia scusarsi, con quel sorriso impacciato, del peso della storia di cui è portatore. Come se recasse fastidio a noi fortunati che siamo arrivati dopo, e percorriamo ignari lo stesso territorio. Come se noi avessimo il diritto di infischiarcene di quel che è stato, solo l’altro ieri, nel Monferrato Casalese così come in tante altre parti d’Italia. Dimenticare significherebbe ricadere nell’analfabetismo della coscienza. Insista, Mario Caniggia, finchè ne ha le forze. Faccia parlare questi luoghi per quel che di tragico hanno vissuto, perché altrimenti nulla potrà garantirci che l’oppressione liberticida, la discriminazione razziale, il terrore della rappresaglia, possano ripetersi.Quando Mario Caniggia mi ha consegnato il manoscritto della sua testimonianza sulla VII Divisione Autonoma “Monferrato”, insieme alla fotografia in cui si riconosce lui giovane partigiano Alì, l’ho letta d’un fiato. Sono rimasto colpito dalla sua sobrietà piemontese. Si trova qui un’interpretazione difficilmente contestabile a episodi tragici, come la strage di Villadeati, su cui di recente una storiografia scandalistica (Giampaolo Pansa) invano tenta di riaprire controversie. Sono lieto che l’Anpi di Alessandria abbia confermato il valore storico di questo memoriale, contributo prezioso a una storia del nostro territorio. E’ con orgoglio e gratitudine che ne raccomando ai giovani la lettura. Anche pensando al mio più caro amico, ebreo casalese, di vent’anni più anziano di me, che su queste colline ha trovato rifugio e salvezza grazie alla generosità di persone incapaci di voltare la testa dall’altra parte.(Gad Lerner, “In memoria del partigiano Mario Caniggia, Brigata Monferrato”, dal blog di Lerner del 15 dicembre 2013).Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».
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Chi è davvero Matteo Renzi: quello che Firenze insegna
Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».Nella vulgata renziana, continua Pardi in un intervento ripreso da “Micromega”, la sua candidatura a sindaco «passa come atto di coraggio: ingigantisce la difficoltà di sfidare una nomenclatura cittadina esausta per sopravvalutare il successo della sua parte di nomenclatura». Sulle sue gesta da sindaco è istruttiva la lettura di Tomaso Montanari, “Le pietre e il popolo” (Minimum Fax, 2013). «Voleva rivestire il San Lorenzo con una facciata posticcia; e bucare la Battaglia di Marciano per trovarvi sotto un improbabile Leonardo. La logica pubblicitaria domina: piazza della Signoria affittata per le nozze di un ricchissimo sultano, il Ponte Vecchio concesso alla festa della Ferrari. Ma questo è colore». La sostanza, continua Pardi, è l’assenza di una qualsiasi logica di governo del territorio. «Firenze è presentata come città a sviluppo edilizio zero, ma ci si dimentica di dire che il piano strutturale acquisisce come dato di partenza tutte le procedure insediative avviate in precedenza: una massa enorme di spazi è già impegnata».Secondo Pardi, anche il delicatissimo sottosuolo di Firenze è minacciato. «Si può sperare che i numerosi parcheggi sotterranei nel centro storico restino allo stadio di minaccia. Ma il sottopasso dell’alta velocità è un danno certo. Gli abitanti della striscia di città interessata stanno già preparando le cause civili. Qui il coraggio del sindaco tace». Eppure, la “tecnica del trampolino” sembra proprio funzionare: «Chi ha scelto il mestiere più bello del mondo dovrebbe portarlo a termine e sottoporsi al giudizio dei cittadini per il secondo mandato. Renzi invece vuole bruciare le tappe e prima di finirlo vuole già cominciare un altro lavoro che gli appare ancora più bello». Per fare cosa? «Basta sentirlo parlare. Presenta il responso delle primarie come il momento definitivo in cui comincia l’avvenire. L’egotismo forse supera perfino quello di Berlusconi».Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».
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L’euro-oligarchia tortura i greci, senza più cibo né farmaci
Il 20 novembre il capo dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha chiesto che i greci «facciano altri sacrifici» per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Troika. Definire questa una richiesta di sacrifici di sangue non è un’iperbole. Il grosso dei tagli al bilancio greco avviene nel settore sanitario e sociale. Stando al rapporto appena pubblicato dall’Ocse, “Health at a Glance 2013”, la spesa pro capite per la sanità in Grecia è crollata dell’11,1% tra il 2010 ed il 2011, il crollo peggiore in tutti i 34 paesi membri dell’Ocse. È aumentata la mortalità infantile. Come c’era da aspettarsi, il secondo posto va ad un’altra vittima della Troika, l’Irlanda, dove la spesa per la sanità è diminuita del 6,6%. Negli anni successivi la situazione è peggiorata drammaticamente. Ad un incontro dell’Associazione Medica di Atene il 16 novembre, il ministro della sanità greco Andonis Georgiadis è stato accolto da urla di “assassino economico” dalle centinaia di medici e operatori sanitari presenti.Pochi giorni prima Georgiadis, confermando che l’ente sanitario nazionale avrebbe licenziato oltre 1.200 medici, si era preso tutto l’onore di questa decisione. Oltre 6.000 medici sono già emigrati in cerca di un impiego. La stessa settimana Georgiadis ha ammesso che i pazienti di oncologia hanno liste di attesa di un anno per le cure negli ospedali pubblici, inclusi quelli di Atene e Thessaloniki. Al Policlinico di Iraklio, a Creta, devono aspettare fino all’ottobre 2014! Tutto il sistema è stato gettato nel caos quando sono stati chiusi otto ospedali nell’area di Atene. Uno studio condotto dalla Scuola nazionale di sanità pubblica dimostra che un greco su tre ha ridotto il dosaggio dei propri farmaci per farli durare più a lungo. I pazienti cronici hanno ridotto del 30% le visite dal 2011 al 2013, perché non possono più permettersi di pagare il ticket.Questa politica uccide, come dimostra il fatto che negli ultimi 4 anni l’aspettativa di vita è scesa da 81 a 78 anni. E questo non vale solo per gli anziani e gli infermi. L’Unicef riferisce che 600.000 bambini e giovani in Grecia sono malnutriti e vivono al di sotto del livello di povertà, mentre un altro studio ha rilevato che il 60% degli scolari affronta «l’incertezza del cibo» mentre il 23% patisce la fame. Tre famiglie su cinque in aree «socialmente vulnerabili» non sono neanche in grado di offrire ai propri figli una fetta di pane a colazione prima di mandarli a scuola. Decine di migliaia di genitori si sono dovuti rivolgere ad enti per l’infanzia quali “Sos Children’s Villages”, perché non possono più permettersi di nutrirli. Nonostante questi effetti killer, l’intenzione del governo è di ridurre la spesa sociale di un altro 10%. La disoccupazione aumenterà così dal 28 al 34%, con la disoccupazione giovanile arrivata ad un incredibile 64%.(“L’oligarchia euro chiede altri sacrifici di sangue”, intervento pubblicato da “Movisol” e ripreso da “Megachip” il 3 dicembre 2013).Il 20 novembre il capo dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha chiesto che i greci «facciano altri sacrifici» per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Troika. Definire questa una richiesta di sacrifici di sangue non è un’iperbole. Il grosso dei tagli al bilancio greco avviene nel settore sanitario e sociale. Stando al rapporto appena pubblicato dall’Ocse, “Health at a Glance 2013”, la spesa pro capite per la sanità in Grecia è crollata dell’11,1% tra il 2010 ed il 2011, il crollo peggiore in tutti i 34 paesi membri dell’Ocse. È aumentata la mortalità infantile. Come c’era da aspettarsi, il secondo posto va ad un’altra vittima della Troika, l’Irlanda, dove la spesa per la sanità è diminuita del 6,6%. Negli anni successivi la situazione è peggiorata drammaticamente. Ad un incontro dell’Associazione Medica di Atene il 16 novembre, il ministro della sanità greco Andonis Georgiadis è stato accolto da urla di “assassino economico” dalle centinaia di medici e operatori sanitari presenti.
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Sawant: ora gli americani vogliono un partito di sinistra
I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.Il successo alle amministrative di Seattle è una conquista storica, dice l’attivista a Marco Orlando in un’intervista per “Micromega”. «Siamo stati gli unici senza finanziamenti delle grandi aziende ma abbiamo ricevuto più di 120.000 dollari, in gran parte piccole donazioni effettuate dalla gente comune». Campagna elettorale porta a porta, grazie a 300 volontari. L’estremo nord-ovest degli States come banco di prova: «La società americana esprime il desiderio di una politica alternativa ai due partiti che, secondo noi, sono entrambi rappresentativi degli interessi delle grandi imprese». Le crisi politiche come il recente “shutdown”, le pressioni di Obama per scatenare la guerra in Siria e le rivelazioni sul Datagate dell’Nsa «hanno minato il supporto sia per i democratici che per i repubblicani». Inoltre, «la grande recessione in corso ha rivelato che il capitalismo non funziona più per la maggior parte delle persone: molti, soprattutto tra i giovani, hanno maturato conclusioni radicali e sono alla ricerca di un’alternativa».Alcuni recenti sondaggi hanno rilevato che solo il 28% degli americani crede che democratici e repubblicani stiano governando in maniera soddisfacente, mentre il 60% riconosce la necessità di un terzo partito politico. «La nostra campagna, quindi, ha dato voce alla rabbia contro le politiche influenzate dalle grandi corporation», continua Kshama Sawant. «Siamo partiti dai bisogni di lavoratori, studenti e poveri di Seattle: un salario di sussistenza, il trasporto pubblico, alloggi a prezzi accessibili e finanziamenti per l’istruzione». Chiaro l’orizzonte intellettuale: «Abbiamo indicato il sistema capitalistico come la radice del problema e presentato il socialismo democratico come alternativa», del resto già presente all’interno di Occupy Wall Street. «Abbiamo conquistato la fiducia e il supporto necessari per dirigere i movimenti locali in direzioni efficaci».Seattle e Minneapolis – altra città dove i socialisti si sono affermati – faranno da apripista per seggi a Washington nelle elezioni di medio termine? «Uno dei principali obiettivi raggiunti era dimostrare l’esistenza di uno spazio a sinistra del Partito Democratico», spiega Sawant. «Abbiamo provato che i candidati indipendenti, non finanziati dalle grandi multinazionali, possono avere un grandissimo impatto sulla politica locale». Il gruppo è già al lavoro per «stringere coalizioni in tutto il paese, in modo da far correre insieme 100 candidati della sinistra indipendente alle elezioni politiche di medio termine: è il primo passo per costruire un partito politico che rappresenti milioni di cittadini americani e non i soliti ricchi».I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.
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Il Grillo no-euro pensa ai giovani: non emigrate, cospirate
Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».«Chi negli anni a venire porterà sulle spalle il peso dei disastri che questo sistema sta producendo – aggiunge Anna Lami nel suo reportage su “Megachip” – attualmente guarda ai 5 Stelle con speranza». E il V-Day di Genova segna un salto significativo nel profilo politico del movimento grillino: si riducono i meri attacchi alla casta politica e crescono quelli all’Europa dell’austerità e dell’euro. «Si tenta anche di delineare i primi tratti che dovrebbero caratterizzare in positivo la società del futuro (citati gli esempi di Correa, Morales e Maduro), in maniera a tratti confusa, ma indice di un significativo progresso che, probabilmente, Grillo e Casaleggio intendono innestare nella coscienza del “loro” popolo». Parole dirette, emergenze stringenti: povertà («ci sono 8 milioni di poveri, non possiamo continuare a far finta che non esistano»), precarietà occupazionale («c’è troppa gente costretta ad accettare qualsiasi ricatto per sopravvivere»), allargamento del divario tra ricchi e poveri. Napolitano? Merita l’impeachment: «Rimarrai solo», tuona Grillo, rivolto all’uomo del Colle. «La tradirai da solo, l’Italia».“Oltre”, la parola chiave del meeting, è soprattutto «andare oltre il concetto di quest’Europa, a cui non credono più neanche i bambini». In sette punti, ecco delineata la politica estera europea del “populista arrabbiato”. Innanzitutto un referendum sull’euro: «Siamo stati truffati quando siamo entrati, e ora ci troviamo a competere in un mercato schizofrenico». Deve pur esserci un piano-B, perché di questo passo c’è solo il collasso dell’Italia. Gli eurobond, per imporre alla Bce di sostenere i debiti sovrani? «Non li accetteranno mai, ma li chiederemo lo stesso». Come? Stringendo un’alleanza coi paesi mediterranei: «Non dobbiamo parlare con la Merkel, ma con i paesi simili a noi, con problemi simili ai nostri». Cioè Francia, Spagna, Grecia, Portogallo. «Gli economisti mi criticheranno? Sono loro la rovina di questo paese, in cinquant’anni non ne hanno azzeccata una». Il resto sono conseguenze, ben esplicitate. Come il no al pareggio di bilancio: «Vedremo noi se e come sforare, e non per diritto costituzionale. Abbiamo perso la sovranità monetaria, quella economica, quella dei nostri figli». Idem per il Fiscal Compact, da abolire: «Non possiamo accettare un contratto per il quale dovremo tagliare 50 miliardi l’anno per vent’anni». Ai giovani, protagonisti della piazza, un’esortazione forte: «Non dovete emigrare, dovete cospirare!».Non c’è ancora una ricetta precisa – sull’euro “solo” un referendum – ma il nemico è finalmente messo a fuoco: la vera casta, quella di Bruxelles, che emana i peggiori diktat (Fiscal Compact e pareggio di bilancio) per volontà della Commissione Europea, cioè di un governo-fantasma e onnipotente, che nessuno ha mai eletto. E’ la svolta genovese di Grillo, quella del terzo V-Day: la colpa principale della nomenklatura italiana non è più la sua endemica corruzione, ma l’accondiscendenza criminosa verso il potere “nemico” che ha usurpato l’orizzonte europeo per trasformare l’Unione in una sorta di dittatura, ben decisa a rovinare un paese come l’Italia. Balza agli occhi il dato generazionale della piazza grillina, osserva Anna Lami: il popolo di Grillo ha un’età media di trent’anni, è fatto di giovani coppie, studenti, famiglie con bambini. «A differenza delle primarie del Pd, delle convention berlusconiane e della gran parte dei ritrovi di quello che resta della sinistra anticapitalista, i pensionati nella piazza pentastellata sono una sparuta minoranza».
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Contro la Troika solo Grillo è credibile: non è loro complice
E alla fine ci sono andato, anche perché la manifestazione distava ben 900 metri dal portone di casa mia. Non saprei dire se a radunarsi sono state più o meno di 100.000 persone, però è una certezza assoluta che, tranne Grillo, nessun leader politico oggi sarebbe capace di portare in piazza così tanti cittadini, e piazza della Vittoria è maledettamente grande, pare che neppure Papa Ratzinger fosse riuscito a stiparci tanti uomini e donne. Mi sono fermato a parlare con quante più persone possibile soprattutto per capire se fossero già elettori dell’M5S. Ovviamente perlopiù lo sono, ma ho trovato una consistente minoranza (diciamo 4 persone su 10) che mi hanno detto di non avere votato per nessuno alle ultime elezioni politiche oppure di avere votato per qualche partito del centrodestra. Solo uno ha fatto l’outing di essere un elettore di centrosinistra, e per un città rossa come Genova la cosa mi ha dato da pensare. Forse si è trattato solo di vergogna (interessante come cambiano le cose, una volta ci si vergognava di essere elettori di Berlusconi).
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Un Comitato di Liberazione Nazionale contro le euro-tasse
Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.«La tragedia dell’economia attuale, quella del tuo reddito, del tuo mutuo e del futuro di tuo figlio – scrive Barnard nel suo blog – è che una generazione di miserabili economisti prezzolati a suon di parcelle dal Potere ha fatto dimenticare a tutti il Dna dell’economia per l’Interesse Pubblico, quella che veramente creò la ricchezza moderna. Così ci hanno guadagnato quattro porci di speculatori, sulla pelle di milioni». Ed è successo. «Immaginate: è come se Maria De Filippi, il Gabibbo, Jovanotti e Mammuccari ci avessero fatto dimenticare che il Dna della lingua italiana sono Dante, Petrarca, Foscolo, Carducci o Pavese e Moravia – infatti è successo anche questo, e la lingua che parliamo è una cosa abominevole». Barnard cita un economista democratico di 70 anni fa, Michal Kalecki: «Basterebbe ricordare che razza di genio illuminato era costui e che cuore aveva per l’interesse della gente». Meglio si capirebbe che «la penicillina della salvezza delle nostre vite economiche è stata annientata, nascosta, con risultati orripilanti sulla vita di tutti noi».Nel 2013, l’Italia si ritrova un governo «illegittimo», sorretto da un uomo come Napolitano, accusato di “cestinare” la Costituzione. «Il potere deve tornare ai cittadini», dice Barnard, attraverso un nuovo Cln come quello sorto nel 1943. Obiettivo, abbattere il “fascismo finanziario” di Bruxelles. Come? Con una sorta di rivolta fiscale. «Azione numero 1: Il reato di evasione fiscale è abolito. Lo decidono gli italiani per legittima difesa. Evaderemo tasse fino al raggiungimento del 9% di deficit, poiché le identità macroeconomiche dimostrano oltre ogni dubbio che il deficit dello Stato è la ricchezza di cittadini e aziende per la salvezza nazionale. O l’alza il governo (unitamente a un taglio delle tasse), o l’alziamo noi con l’evasione. Vita o morte dell’Italia è in gioco». Un appello che Barnard considera patriottico: «Nel nome della patria e della Costituzione italiana, oggi la salvezza del paese passa per l’evasione fiscale delle tasse dell’Economicidio impostoci dal fascismo tecnocratico europeo».Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.