Archivio del Tag ‘Giuseppe Pennisi’
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Salvini ringrazia il suo maggiore alleato involontario: Renzi
Un governicchio solo in chiave anti-Lega? Così i renziani aiutano il ritorno di Salvini al governo, sostiene Giuseppe Pennisi in un’analisi sul “Sussidiario”. Corsi e ricorsi storici: nel 1996 venne formato L’Ulivo e nel 2006 l’Unione, sempre contro il percepito pericolo che la coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi preludesse a una “svolta autoritaria”. Nel giro di cinque anni, ricorda Pennisi, l’Ulivo dovette formare ben quattro differenti governi a causa delle litigiosità interne, e l’Unione si liquefece appena due anni dopo essersi insediata a Palazzo Chigi. E oggi? Il Pd «è un coacervo di partiti con differenti visioni del mondo», Liberi e Uguali e Sinistra e Libertà «sono coesi ma piccoli». In più, il tentativo di ricostruire un assetto politico bipolare, con un centrosinistra più e meno unito, «mal si concilia con +Europa, per anni di casa nel centrodestra, e soprattutto con il Movimento 5 Stelle, che specificatamente si considera, a ragione, come espressione di una politica in cui il bipolarismo è finito e i temi sono differenti da quelli del passato». In questo quadro «è azzardato pensare a una coalizione di lunga durata, anche se il potere è un collante tale che il M5S sta rinunciando a uno dei cardini del suo Statuto (il limite di due mandati per le cariche elettive)».E qui entra in ballo, prepotentemente, l’economia: si sta avvicinando una recessione e frena anche la Germania, essenziale per l’export del “made in Italy”. Il 15 agosto è stato diramato un rapporto allarmante del Wto: «I nuvoloni sono tanti che il temporale è vicino», scrive Pennisi. E in questa situazione, «i volenterosi collaboratori» di Matteo Renzi stanno facendo sì che «l’edizione rinnovata (e ristretta) dell’Ulivo e dell’Unione si trovino, con i parlamentari M5S che paiono temere le elezioni come la peste bubbonica, a gestire la legge di bilancio per l’anno prossimo». Per quanto possano essere “simpatici” ad alcuni alti dirigenti della Commissione Europea, «dovranno trovare l’equilibrio tra stabilizzazione di finanza pubblica e risposta alla recessione». Operazione possibile solo dolorosamente, cioè «con una profonda ristrutturazione della spesa», il cui disegno però «non è ancora iniziato». Se l’operazione-tagli scattasse, «toccherebbe mostri sacri e clientes tanto del nuovo Ulivo/Unione, quanto del M5S», fino a «causare profonde fratture». Secondo Pennisi, è verosimile che, per evitare di essere commissariato dalla Bce, dal Fmi e dalla Commissione Ue, l’eventuale governo sponsorizzato da Renzi «sia costretto ad aumenti delle imposte indirette (Iva) e dal posporre investimenti».Di fatto non si combatterebbe la recessione, ma si intonerebbe un coretto sul tema “siamo arrivati troppo tardi”: «Proprio ciò che gli italiani non amano ascoltare». Si aggraverebbero le ineguaglianze. Da Bankitalia, Emanuele Ciani e Roberto Torrini confermano: si stanno acuendo le diseguaglianze «all’interno di aree, e non tra aree», e a livello nazionale «il differenziale si ridurrebbe del 15% se la distribuzione delle ore di lavoro per famiglia nel Sud fosse simile a quella del Centro-Nord». Quindi, osserva Pennisi, «misure come il reddito di cittadinanza, tanto care al M5S ma poco apprezzate dal Pd, se non valutate e ritarate potrebbero, nel contesto di una recessione, aggravare la diseguaglianze». La pressione anche europea è tale, comunque, che il “governo Renzi” «riuscirebbe a togliere alcune castagne dal fuoco al futuro governo di Matteo Salvini», che verrebbe «aiutato anche da una linea maggiormente “buonista” nei confronti dei migranti che sono (a torto o ragione) anatema per il suo elettorato». Quindi, conclude Pennisi, «chi crede di lavorare per un Matteo, lavora sostanzialmente per l’altro. O fa il doppio gioco».Un governicchio solo in chiave anti-Lega? Così i renziani aiutano il ritorno di Salvini al governo, sostiene Giuseppe Pennisi in un’analisi sul “Sussidiario”. Corsi e ricorsi storici: nel 1996 venne formato L’Ulivo e nel 2006 l’Unione, sempre contro il percepito pericolo che la coalizione di centrodestra guidata da Berlusconi preludesse a una “svolta autoritaria”. Nel giro di cinque anni, ricorda Pennisi, l’Ulivo dovette formare ben quattro differenti governi a causa delle litigiosità interne, e l’Unione si liquefece appena due anni dopo essersi insediata a Palazzo Chigi. E oggi? Il Pd «è un coacervo di partiti con differenti visioni del mondo», Liberi e Uguali e Sinistra e Libertà «sono coesi ma piccoli». In più, il tentativo di ricostruire un assetto politico bipolare, con un centrosinistra più e meno unito, «mal si concilia con +Europa, per anni di casa nel centrodestra, e soprattutto con il Movimento 5 Stelle, che specificatamente si considera, a ragione, come espressione di una politica in cui il bipolarismo è finito e i temi sono differenti da quelli del passato». In questo quadro «è azzardato pensare a una coalizione di lunga durata, anche se il potere è un collante tale che il M5S sta rinunciando a uno dei cardini del suo Statuto (il limite di due mandati per le cariche elettive)».
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Guerra sui dazi Usa-Cina, tresette col morto (che è l’Europa)
I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).Ma torniamo ai tre contendenti al tavolo da gioco: Usa, Cina e Ue. Gli Usa hanno fatto saltare il branco e terminato il 10 maggio una partita a cui erano stati concessi diversi tempi supplementari: sarebbe dovuta terminare entro il termine perentorio del 30 marzo. Lo hanno fatto nonostante che, almeno nel breve termine, Washington rischi di essere il giocatore che perde di più. Da un lato, i consumatori di prodotti finiti di bassa fascia (giocattoli, abbigliamento) dovranno pagarli di più se non troveranno sostituti manufatti negli Usa o altrove. Da un altro, le aziende (numerose in certe categorie dell’elettronica) che assemblano per il mercato americano componenti manufatte in Cina avranno più alti costi di produzione. Da un terzo, la banca centrale cinese ha nelle sue riserve 1.13 trilioni di dollari Usa e, se vuole, può mettere in serie difficoltà gli americani, riversandone parte sul mercato finanziario.Perde, nel più lungo termine, anche Pechino. Come più volte sottolineato su questa testata, il principale nodo più che il commercio è il fatto che la Cina non ha ottemperato alla promessa, fatta quando è stata ammessa, nel lontano 2001, all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) di trasformarsi in una vera economia di mercato. È a tale trasformazione a cui, per il momento, Pechino si oppone in modo veemente. La bozza di accordo bilaterale prevedeva misure che avrebbero comportato mettere su un piede di parità con gli altri operatori le gigantesche imprese pubbliche cinesi e la revisione della normativa che impone alle aziende straniere che vogliono operare in Cina di dischiudere alle autorità cinesi le loro innovazioni di processo e prodotto. D’altro canto, per Pechino scardinare le imprese statali vuole dire scardinare gli assetti di potere: la Via della Seta è stata concepita come mezzo per mantenere in vita il sistema esistente. Sino a quanto regge.Gli Usa, però, hanno un asso nella manica. Uno studio a limitata circolazione degli uffici del Rappresentante speciale della Casa Bianca, firmato da Alexander Hamilton e Nabil Abbyad, (Executive Briefing on Trade Usitc 2018) documenta la crescita del debito interno della Cina, dovuto in gran misura all’uso inefficiente delle risorse da parte delle imprese statali, e come tale fardello rischia di pesare pesantemente sullo sviluppo del paese nei prossimi anni. Prima o poi, anche a causa di conflitti interni tra la gerarchie del Partito comunista cinese, arriverà il momento del rendiconto. L’Ue potrebbe essere il vincitore, soprattutto se gioca unita e se sa inserirsi astutamente nelle modifiche, ormai urgenti, delle imprese di Stato cinesi. Lo hanno ben compreso Francia e Germania, che hanno concluso accordi di vendita (in contanti) per aerei e macchine utensili. La Grecia, primo Stato a mettersi sulla Via della Seta quando era in brache di tela, rimpiange già la (s)vendita del porto del Pireo. E l’Italia? E’ stata ammaliata nel fascino orientale. Speriamo bene!(Giuseppe Pennisi, “Il tresette commerciale tra Usa e Cina – col morto, che è l’Europa”, da “Formiche.net” del 12 maggio 2019).I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).
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Integrazione, unica soluzione: lo dicono i numeri
Nei prossimi anni, la strategia in materia d’immigrazione sarà al centro del dibattito politico, economico e sociale «quale che sarà il colore della maggioranza o dell’opposizione». Lo afferma l’economista Giuseppe Pennisi dal magazine della fondazione “Farefuturo” promossa da Gianfranco Fini, che al tema dedica speciale attenzione e tra circa un mese organizzerà un seminario congiunto con la fondazione “Italianieuropei” che fa riferimento a Massimo D’Alema. «La determinante principale del problema – chiarisce Pennisi – risiede nel fatto che l’Italia è passata (nel giro di pochi decenni) da paese d’emigrazione netta a paese d’immigrazione netta».