Archivio del Tag ‘imprese’
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Vale tutto, anche la mafia, tranne la vera storia del disastro
Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Fassone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccavava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.Oggi il presidente del Senato, il palermitano Pietro Grasso, già magistrato antimafia, è invocato da Pierluigi Bersani come possibile salvatore della patria – o meglio, della “ditta”, come Bersani è abituato a chiamare il partito in cui milita. Da capo del Pd non esitò a devastare e amputare la Costituzione “più bella del mondo” sfigurandola con il pareggio di bilancio imposto dai “mandanti” di Monti, salvo poi dare battaglia a Renzi che voleva semplicemente archiviare il Senato elettivo. Ora, Bersani sogna a occhi aperti una candidatura di Grasso, cioè di un simbolo dell’antimafia, come se la mafia – nel 2017 – fosse la vera emergenza nazionale, come lo era ai tempi di Pio La Torre, assassinato nel 1982. Allora, l’Italia aveva già perso buona parte della sua sovranità finanziaria, dopo il divorzio da Bankitalia. Ma non era ancora caduta nella trappola del Britannia, del Trattato di Maastricht e dell’Eurozona, dell’Unione Europea governata dai banchieri privati che dettano legge alla Bce, trasformando in diligenti kapò i governanti di interi paesi. Lo ha ripetuto fino alla noia lo spigoloso Paolo Barnard: prima dell’euro-regime il Pil italiano volava, nonostante la mafia, la corruzione della politica e un’evasione fiscale da record.Dimostrò coraggio, l’allora giovanissimo Saviano, nel denunciare il fenomeno criminale della nuova camorra imprenditrice, la sua insospettabile pervasività, ma poi – esplosa la grande crisi – lo stesso Saviano non ha usato la sua enorme visibilità per aggiornare l’analisi sulle cause del disastro italiano. Si infuria, Di Pietro, se qualcuno gli fa notare che il pool Mani Pulite ha azzerato una casta corrotta ma non così prona ai grandi poteri anti-italiani come quella che ne ha preso il posto, offrendo il collo dell’Italia a una sorta di sacrificio rituale da milioni di vittime e decine di migliaia di aziende chiuse. Analisi estranee alla narrativa politica di Di Pietro ma anche a quella di Grasso e della sua collega della Camera, Laura Boldrini, sempre severissima con i teppisti del web ma insensibile alla catastrofe socio-economica di un paese che ha smesso di andare a votare, nauseato dallo spettacolo elettorale. La scelta è solo apparente, ancora e sempre teatrale: la recita giovanilista di Renzi, il copione dei grillini duri e puri (ma senza un programma per l’Italia) e l’ennesima reincarnazione di nonno Silvio, altro grande attore, lieto di constatare quanto sia ancora valida, numeri alla mano, la sua sceneggiatura di cartapesta. Era già decrepita nel 1994 la rivoluzione para-neoliberista del Cavaliere: se oggi tiene ancora banco, significa che i suoi ipotetici antagonisti sono ancora peggio di nonno Silvio, perlomeno come attori.Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Faussone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.
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Ur-Lodges, gli uomini al comando: la mappa del vero potere
Mario Draghi (classe 1947, presidente della Banca centrale europea dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, alla “Three Eyes” e alla “Der Ring”). Giorgio Napolitano (classe 1925, già presidente della Repubblica italiana, affiliato alla “Three Eyes”). Massimo D’Alema, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. Mario Monti (classe 1943, economista, senatore a vita e presidente del Consiglio italiano dal 2011 al 2013, affiliato in forma più o meno coperta alla United Grand Lodge of England e alla Ur-Lodge “Babel Tower”). Fabrizio Saccomanni (classe 1942, banchiere, economista, già direttore generale della Banca d’Italia dal 2006 al 2013, dal 2013 al 2014 è stato ministro dell’economia del governo Letta, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Edmund Burke”). Pier Carlo Padoan (classe 1950, economista, dal 24 febbraio 2014 ministro dell’economia nel governo Renzi e nel governo Gentiloni, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).Gianfelice Rocca (classe 1948, tra i più importanti imprenditori italiani, presidente di Techint e di Assolombarda, affiliato alla “Three Eyes”). Domenico Siniscalco (classe 1954, economista, banchiere, già ministro dell’economia dal 2004 al 2005, affiliato alla “Edmund Burke”). Giuseppe Recchi (classe 1964, top manager, affiliato alla “Three Eyes”). Marta Dassù (classe 1955, saggista, già sottosegretaria e viceministra degli affari esteri, attualmente nel cda di Finmeccanica, affiliata alla “Three Eyes”). Corrado Passera (classe 1954, banchiere, manager, politico, già ministro dello sviluppo economico dal 2011 al 2013 nel governo Monti, affiliato alla “Atlantis-Aletheia”). Ignazio Visco (classe 1949, economista, governatore della Banca d’Italia dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”).Enrico Tommaso Cucchiani (classe 1950, banchiere e top manager, affiliato alla “Three Eyes”). Alfredo Ambrosetti (classe 1931, economista, fondatore e presidente emerito di The European House-Ambrosetti, affiliano alla “Pan-Europa”).Carlo Secchi (classe 1944, economista e politico, affiliato alla “Three Eyes”, alla “Pan-Europa” e alla “Babel Tower”). Emma Marcegaglia (classe 1965, imprenditrice e top manager, affiliata alla “Pan-Europa”). Matteo Arpe (classe 1964, banchiere e top manager, affiliato alla “Edmund Burke”). Vittorio Grilli (classe 1957, economista, direttore generale del ministero del Tesoro dal 2005 al 2011 e ministro dell’economia con il governo Monti, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Giampaolo Di Paola (classe 1944, ammiraglio, ministro della difesa dal 2011 al 2013 con il governo Monti, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Federica Guidi (classe 1969, imprenditrice, già ministro dello sviluppo economico del governo Renzi, affiliata alla “Three Eyes”).Angela Merkel (classe 1954, politica, cancelliera tedesca dal 2005, affiliata alla “Golden Eurasia”, alla “Valhalla” e alla “Parsifal”). Vladimir Putin (classe 1952, attuale presidente della Federazione Russa, affiliato alla “Golden Eurasia”). Christine Lagarde (classe 1956, avvocatessa e politica francese, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, affiliata alla “Three Eyes” e alla “Pan-Europa”). George W. Bush (classe 1949, presidente degli Stati Uniti dal 2001 al 2009, affiliato alla “Hathor Pentalpha”). Michael Ledeen (classe 1941, giornalista, intellettuale e politologo statunitense, affiliato alla “White Eagle” alla “Hathor Pentalpha”). Condoleezza Rice (classe 1954, politica, affiliata alla “Three Eyes” e alla “Hathor Pentalpha”, già esponente di punta dell’amministrazione Bush). Abu Bakr Al-Baghdadi (classe 1971, terrorista iracheno, leader dell’Isis e Califfo dell’autoproclamato Stato islamico, affiliato alla “Hathor Pentalpha”).José Manuel Durão Barroso (classe 1956, portoghese, docente universitario, politico, presidente della Commissione Europea dal 2004 al 2014, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Parsifal”). Olli Rehn (classe 1962, politico finlandese, già vicepresidente della Commissione Europea, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Babel Tower”). Tony Blair (classe 1953, premier britannico dal 1997 al 2007, affiliato alla “Edmund Burke” e poi alla “Hathor Pentalpha”). David Cameron (classe 1966, premier britannico dal 2010, affiliato alla “Edmund Burke” e alla “Geburah”). Pedro Passos Coelho (classe 1964, primo ministro del Portogallo dal 2011, affiliato alla “Three Eyes”, alla “Edmund Burke” e alla “White Eagle”). Mariano Rajoy (classe 1955, primo ministro della Spagna dal 2011, affiliato alla “Pan-Europa”, alla “Valhalla” e alla “Parsifal”). Antonis Samaras (classe 1951, politico, già primo ministro della Grecia, affiliato alla “Three Eyes”). Jean-Claude Trichet (classe 1942, economista e banchiere francese, presidente della Bce dal 2003 al 2011, affiliato alla “Pan-Europa”, alla “Babel Tower” e alla “Der Ring”.Bernard Arnault (classe 1949, imprenditore francese, dominus della Louis Vuitton Moët Hennessy, affiliato alla “Three Eyes” e alla “Edmund Burke”). Nicolas Sarkozy (classe 1955, politico, presidente della Repubblica francese dal 2007 al 2012, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Geburah”, alla “Atlantis-Aletheia”, alla “Pan-Europa” e alla “Hathor Pentelpha”). Manuel Valls (classe 1962, già primo ministro francese, iniziato a suo tempo nel Grand Orient de France e poi affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Der Ring”). Christian Noyer (classe 1950, banchiere, attuale governatore della Banca di Francia, affiliato alla “Pan-Europa”, e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Mark Rutte (classe 1967, primo ministro dei Paesi Bassi dal 2010, affiliato alla “Three Eyes” e alla “Pan-Europa”). Ben van Beurden (classe 1958, top manager olandese, ceo della Royal Dutch Shell, affiliato alla “Geburah” e alla “Der Ring”). Wolfgang Schäuble (classe 1942, politico, attuale ministro delle finanze tedesco, attuale maestro venerabile della “Der Ring”, affiliato alla “Joseph de Maistre”). Peter Voser (classe 1958, top manager olandese e ceo della Royal Dutch Shell, affiliato alla “Pan-Europa”). Bill Gates (classe 1955, imprenditore statunitense fondatore della Microsoft, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).(Elenco sintetico di eminenti personalità italiane e internazionali affiliate a superlogge neo-conservatrici e reazionarie, fornito dal libro di Gioele Magaldi “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”. Secondo Magaldi, già “venerabile” della loggia romana Monte Sion del Grande Oriente d’Italia e poi iniziato alla superloggia sovranazionale progressista “Thomas Paine”, le 36 logge madri di cui ha rivelato l’esistenza costituirebbero l’autentico “back-office” del potere mondiale. Nel dopoguerra e fino agli anni ‘70, sostiene Magaldi, la leadership internazionale è stata esercitata in questo ambito da strutture di orientamento progressista, rooseveltiano e keynesiano, con esiti misurabili in Europa dall’impegno di personaggi come l’inglese William Beveridge, “l’inventore” del welfare, e lo svedese Olof Palme, punta avanzata della miglior socialdemocrazia europea. Poi, dagli anni ‘80, anche gli esponenti della tradizione socialista – da Blair a D’Alema, da Manuel Valls allo stesso Napolitano – sarebbero stati affiliati a Ur-Lodge di segno neo-feudale e oligarchico, massime interpreti della globalizzazione più vorace e privatizzatrice).Mario Draghi (classe 1947, presidente della Banca centrale europea dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, alla “Three Eyes” e alla “Der Ring”). Giorgio Napolitano (classe 1925, già presidente della Repubblica italiana, affiliato alla “Three Eyes”). Massimo D’Alema, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. Mario Monti (classe 1943, economista, senatore a vita e presidente del Consiglio italiano dal 2011 al 2013, affiliato in forma più o meno coperta alla United Grand Lodge of England e alla Ur-Lodge “Babel Tower”). Fabrizio Saccomanni (classe 1942, banchiere, economista, già direttore generale della Banca d’Italia dal 2006 al 2013, dal 2013 al 2014 è stato ministro dell’economia del governo Letta, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Edmund Burke”). Pier Carlo Padoan (classe 1950, economista, dal 24 febbraio 2014 ministro dell’economia nel governo Renzi e nel governo Gentiloni, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).
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Ishiguro: amate i miei robot, state diventando come loro
È possibile innamorarsi di un oggetto? Può l’intelligenza artificiale simulare la coscienza al punto tale da far sembrare davvero umano un androide? Domande sempre più rilevanti nella crescente robotizzazione della società. Il paese all’avanguardia nel campo è da sempre il Giappone, costantemente proiettato nell’indagine di cos’è davvero un robot e, di riflesso, cos’è un umano. Uno degli scienziati più affascinanti in quest’ambito è da più di 15 anni Hiroshi Ishiguro, che nei suoi laboratori di Osaka ha creato una fabbrica di androidi in costante evoluzione. Nel 2002 iniziò con la replica di sua figlia Risa, 9 anni: un pupazzo di gomma dalle movenze rigide e troppo meccaniche che faceva scattare l’effetto “Uncanny Valley”, la repulsione nel vedere qualcosa di smaccatamente verosimile all’umano. Un po’ come i manichini nei film horror. Così Ishiguro affinò il progetto Geminoid, gemello-androide, nel tentativo di creare copie da un calco originale umano, basandosi sull’idea che poiché gli umani riescono ad avere intimità con altri esseri umani, la strada giusta è quella dell’imitazione e dei replicanti alla “Blade Runner”.Così s’ispirò, nel 2005, a una conduttrice di tg giapponese per creare Repliee Q1. Ancora troppo rigida e surreale. Allora ebbe l’intuizione geniale che gli regalò la fama: un’autoritratto robotico. Nacque Geminoid HI-1, dalle sue iniziali. Uguale in tutto e per tutto al professor Ishiguro, con ciuffo cotonato da rockabilly, espressione torva, mani curate, camicia e pantaloni attillati neri. Il tutto sfocia dal suo convincimento che le emozioni umane non sono null’altro che risposte a stimoli. E quindi manipolabili. Il suo obiettivo, come quello dello scienziato pazzo nel film “Ex machina”, è creare l’androide perfetto che non solo diventerà una badante efficace, o una funzionaria credibile, ma anche, e molto a breve, un’amante perfetta e forse anche una moglie. Dopotutto, per rispondere alla domanda se sia possibile innamorarsi di un oggetto, basta pensare alla passione dilagante per gadget elettronici, macchine da corsa, gioielli. Si può amare un involucro di cavi, acciaio e microchip ricoperto di gomma riscaldata per farla somigliare a carne e pelle umana? Ishiguro ne è convinto e con lui molti altri scienziati e imprenditori.Il passo successivo, per vincere la repulsione per un manichino animato è stato andare in tutt’altra direzione creando, nel 2011, il fantasmino Telenoid, un incrocio tra un robot-bambino e un elfo, con braccia a moncherino e al posto delle gambe un inquietante sedere a 360° gradi. Eppure, portandolo nelle case di riposo, Telenoid fece scattare emozioni immediate e gli anziani lo vollero tenere in braccio e parlargli. Ora Ishiguro è tornato all’attacco con la vera sfida della somiglianza, creando Erica. Non più un pupazzo animato a distanza da una sala di regia come se ne trovano nei musei di Tokyo, ma il primo androide pienamente autonomo. Erica può sostenere autonomamente una vera conversazione che dura fino a 10 minuti. Ha la possibilità di riconoscere la voce, i raggi infrarossi per seguire i movimenti degli umani, un sintetizzatore vocale e un generatore di movimento naturale.Fin dal 17esimo secolo, in Giappone costruivano le “karakuri”, bambole meccanizzate per servire il tè e per cerimonie religiose. Cent’anni dopo, il cecoslovacco Karel Capek scrisse l’opera teatrale che per prima utilizzò il nome robot, che in ceco significa “schiavo”. Ma questi schiavi tecnologici sono già usati nella roboterapia e come “chat bot” da compagnia per vincere il senso d’isolamento che continua a crescere nel nostro rapporto di dipendenza con la tecnologia. Un toccasana tecnologico a un male accresciuto dalla tecnologia stessa: medicina omeopatica, insomma. Non è un caso che finora l’androide di Ishiguro che ha avuto più credibilità sia una ragazza-robot messa in vetrina in un grande magazzino. Non parla con nessuno, sta lì seduta a fare il solletico a uno smartphone. Ogni tanto alza lo sguardo e sorride. Il robot sembra più umano quando interagisce con Internet. Proprio come l’umano sembra sempre di più un robot con lo smartphone saldato alla mano.(Carlo Pizzati, “Giappone, il signore dei robot: vi innamorerete di loro”, da “La Stampa” del 24 ottobre 2017).È possibile innamorarsi di un oggetto? Può l’intelligenza artificiale simulare la coscienza al punto tale da far sembrare davvero umano un androide? Domande sempre più rilevanti nella crescente robotizzazione della società. Il paese all’avanguardia nel campo è da sempre il Giappone, costantemente proiettato nell’indagine di cos’è davvero un robot e, di riflesso, cos’è un umano. Uno degli scienziati più affascinanti in quest’ambito è da più di 15 anni Hiroshi Ishiguro, che nei suoi laboratori di Osaka ha creato una fabbrica di androidi in costante evoluzione. Nel 2002 iniziò con la replica di sua figlia Risa, 9 anni: un pupazzo di gomma dalle movenze rigide e troppo meccaniche che faceva scattare l’effetto “Uncanny Valley”, la repulsione nel vedere qualcosa di smaccatamente verosimile all’umano. Un po’ come i manichini nei film horror. Così Ishiguro affinò il progetto Geminoid, gemello-androide, nel tentativo di creare copie da un calco originale umano, basandosi sull’idea che poiché gli umani riescono ad avere intimità con altri esseri umani, la strada giusta è quella dell’imitazione e dei replicanti alla “Blade Runner”.
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Lavoro a tutti, per legge: e se lo garantisse la Costituzione?
Tutti al lavoro: per legge. Lo garantisce la Costituzione. Quale? Quella del 1948, largamente inattuata, o – meglio ancora – quella che andrebbe in parte riscritta e aggiornata al 2017, per trasformarla in uno strumento capace di fronteggiare la vera piaga dei nostri tempi? Il mostro ha le sembianze della disoccupazione di massa, alimentata dal neoliberismo sfrenato della globalizzazione più selvaggia e predatoria, privatizzatrice. E’ la peste che ha delocalizzato il lavoro e importato “neo-schiavi” migranti, mettendo ancora più in crisi i lavoratori europei, costretti a salari al ribasso, nell’eclissi generale dei diritti conquistati nei decenni ruggenti del welfare e del benessere. Vogliamo finirla con le chiacchiere e cominciare a fare sul serio? Allora bisogna ripartire proprio da lì, dalla Carta costituzionale. Deve diventare la norma fondamentale attorno a cui rifondare, dalle radici, la comunità nazionale: «Si tratta di costituzionalizzare il diritto al lavoro: cioè fare in modo che la piena occupazione sia garantita, e che quindi nessuno abbia più, costituzionalmente, la possibilità di rimanere senza lavoro, senza reddito e senza dignità».E’ la sfida che lancia il Movimento Roosevelt, impegnato a Roma con un convegno su come rimettere in moto l’anima progressista della Costituzione italiana, sempre celebrata con vuote formule rituali ma di fatto largamente inattuata, ingessata come un totem intoccabile o magari «surrettiziamente insidiata da riforme involutive come quelle proposte da Renzi», e bocciate dal referendum del 2016. «Dobbiamo ragionare in termini di Costituzione come del fulcro della vita civile e politica di un paese», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. E non vale solo per l’Italia: «Se noi avessimo avuto una Costituzione Europea passata attraverso il vaglio dei cittadini, quindi non imposta dall’alto ma condivisa, se cioè avessimo una Costituzione politica, l’Europa non sarebbe quella che è: non sarebbe questa cosa matrigna e tecnocratica di pochi burocrati al servizio di interessi privati, con cancellerie europee altrettanto asservite e un Parlamento Europeo che non conta nulla, incapace di farsi carico degli ideali di giustizia sociale e di diffusione della properità e della piena occupazione, nonché della rigenerazione dei territori».La riflessione sulla Costituzione, aggiunge Magaldi, «deve farci capire che in Italia, senza Costituzione democratica pienamente attuata o perfezionata per adempiere a certi bisogni, non si va da nessuna parte». L’affronto più grave alla Costituzione antifascista? L’avervi inserito l’obbligo del pareggio di bilancio – governo Monti, appoggiato da Berlusconi e Bersani. Pareggio di bilancio? Una bestemmia, per un economista come Nino Galloni, dirigente del Movimento Roosevelt, di scuola keynesiana: il debito pubblico (deficit positivo) è esattamente lo strumento-chiave attraverso il quale rilanciare l’economia privata, come dimostra la storia italiana dei decenni del boom, sorretti da un sistema economico misto, pubblico-privato, e dalla sovranità monetaria, quindi con capacità di fare investimenti strategici – quelli che oggi mancano, sanguinosamente, a causa del divieto imposto da Bruxelles. Risultato: il declino evidente del paese, nell’ultimo quarto di secolo. Agitare retoricamente la Costituzione? Così com’è, «in questi 25 anni la Costituzione non è stata capace di garantire l’arresto del declino dell’Italia sul piano economico, civile e politico», dice Magaldi. «E quindi serve una scossa».«Già il solo parlare di riforme, in senso opposto a quello renziano, significa magari galvanizzare la possibile attuazione di quelle parti della Costituzione che sono state sin qui dimenticate», aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, che auspica di poterne discutere con personaggi come Paolo Maddalena e Gustavo Zagrebelsky, ma anche Giorgio Cremaschi e Alfredo D’Attorre, Antonio Ingroia e Ferdinando Imposimato. «Pensiamo che la Costituzione del 2018 possa essere più adatta a calare nel nuovo secolo lo spirito originario di quella del 1948, che a sua volta riprendeva lo spirito di quella della Repubblica Romana». Correva l’anno 1849: sulle barricate c’era un certo Garibaldi, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, alla testa di un’avanguardia di massoni progressisti. Obiettivo, oggi: recuperare quello spirito originario, di cui abbiamo un bisogno estremo. Soprattutto di questi tempi, con una politica completamente allo sbando e un Parlamento che, grazie al Rosatellum, dopo le elezioni del 2018 sarà letteralmente ingovernabile, preda di larghe intese e governi di bassissimo profilo.Inutile sperare in quel che resta della sinistra ufficiale, avverte Magaldi, ridotta a «piccolo circolo di nostalgici di una sinistra che non c’è più e che non ci sarà mai più». Le spoglie di Sel, Mdp e Articolo 1, il gruppo del Teatro Brancaccio, Sinistra Italiana, Campo Progressista di Pisapia? «Consiglierei loro di ragionare in termini di rigenerazione della democrazia, non della sinistra – dice Magaldi – perché la democrazia e il progresso non sono né di destra né di sinistra». Vero, alcuni partiti di sinistra hanno fatto grandi battaglie in questo senso, «ma è anche vero che, per sinistra, in Italia si intende tutto quel mondo comunista e post-comunista che nella versione comunista avversava la democrazia e propugnava ideologicamente un mondo post-democratico, mentre nella versione Pds-Ds-Pd è diventata asservita a quella stessa ideologia neoliberista declinata da tutti i partiti di centrodestra», come nel caso del famigerato inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. Destra e sinistra? Conviene «superare questa tassonomia obsoleta». Contrastare il Jobs Act renziano? «Va bene difendere l’articolo 18, ma ancora meglio sarebbe liberare gli imprenditori da lacci e laccioli, e al tempo stesso garantire, per legge, la piena occupazione». Onestamente: «L’Italia è cambiata, servono categorie diverse. E il popolo è afflitto da una decadenza che il ceto politico non è in grado di arrestare».Tutti al lavoro: per legge. Lo garantisce la Costituzione. Quale? Quella del 1948, largamente inattuata, o – meglio ancora – quella che andrebbe in parte riscritta e aggiornata al 2017, per trasformarla in uno strumento capace di fronteggiare la vera piaga dei nostri tempi? Il mostro ha le sembianze della disoccupazione di massa, alimentata dal neoliberismo sfrenato della globalizzazione più selvaggia e predatoria, privatizzatrice. E’ la peste che ha delocalizzato il lavoro e importato “neo-schiavi” migranti, mettendo ancora più in crisi i lavoratori europei, costretti a salari al ribasso, nell’eclissi generale dei diritti conquistati nei decenni ruggenti del welfare e del benessere. Vogliamo finirla con le chiacchiere e cominciare a fare sul serio? Allora bisogna ripartire proprio da lì, dalla Carta costituzionale. Deve diventare la norma fondamentale attorno a cui rifondare, dalle radici, la comunità nazionale: «Si tratta di costituzionalizzare il diritto al lavoro: cioè fare in modo che la piena occupazione sia garantita, e che quindi nessuno abbia più, costituzionalmente, la possibilità di rimanere senza lavoro, senza reddito e senza dignità».
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Altro che Bankitalia: comandano i boss del Casinò-Europa
Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.«Possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano», è l’accusa. «Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia», dissero i parlamentari europei. Questo “pericolo per la democrazia”, osserva Baranes, diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto del Ceo. «In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1». Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento Europeo su una direttiva comunitaria riguardante gli “hedge fund” e le “private equity”, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario. Al Parlamento Europeo, continua Baranes, sono attivi gruppi come l’Epfsf (European Parliamentary Financial Services Forum), che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento Europeo e l’industria dei servizi finanziari”.«Questo “dialogo” – scrive Baranes – comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali Jp Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri». E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in sede Ue nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. «Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili». Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.«Analogamente – aggiunge Baranes – il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 2 milioni per Ong, società civile e sindacati. Un rapporto di 60 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, Ong e sindacati». Uno squilibrio «ancora più impressionante» quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti”, ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, Bce o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche: «In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo». Nel “De Larosière Group on financial supervision in the European Union”, figurano ben 62 membri del mondo finanziario, e nessuno da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse. «Sulla Mifid, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5». La musica non cambia nel gruppo di esperti sui derivati: 86 provengono dal mondo finanziario, e nessuno da Ong, consumatori o sindacati.Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione Europea ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati. «Se possibile va ancora peggio alla Bce, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”». La parola stakeholder, precisa Baranes, viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. «Il gruppo presso la Bce prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei». I risultati? Ovvi: «Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci». Sicché, il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi «continua a lavorare indisturbato», mentre – al culmine del paradosso – sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita «a ritrovarsi con il cerino in mano e a dover accettare sacrifici e austerità».Osserva sempre Baranes: «La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati». Altro capitolo cruciale: «La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto». A settembre 2013 il commissario europeo Michel Barnier annunciava tranquillamente in un comunicato stampa: «Dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra». Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, «per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo», a dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della crisi, «la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse».Era il 2014, ma da allora non si è andati oltre le parole: nessuno osa rievocare il Glass-Steagall Act creato da Roosevelt per mettere l’economia al riparo dalla finanza speculativa: quella provvidenziale diga, che separava il credito ordinario dalle banche d’affari, fu abbattuta da Bill Clinton. E non un partito, in Europa, che oggi metta in agenda la questione: si preferisce restare al riparo di piccole polemiche, come quelle che investono la presunta omessa vigilanza di Bankitalia (Ignazio Visco), in realtà – come tutti sanno e fingono di non sapere – messo lì apposta, come i predecessori, per chiudere un occhio sul “grande gioco” deciso lontano da Roma. «Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio», conclude Andrea Baranes, che cita il compianto sociologio Luciano Gallino. «Il paradosso – disse – è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli Stati».Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.
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Cripto-rublo a tasso zero: Mosca, rivoluzione trasparente
Il cripto-rublo confonde molte persone. Non dovrebbe. Putin ha appena preso il comando della cripto-tecnologia. Sono settimane che dal governo russo riceviamo segnali confusi sulle criptovalute. Da una parte lo vediamo abbracciare questa nuova tecnologia, dall’altra dichiararle guerra. Per questo non si capiscono bene le intenzioni di Mosca in materia. Cercherò di eliminare questa confusione basandomi sui dati a disposizione. Basta dire che questa è una buona notizia sia per i Bitcoin che per l’economia russa. Datemi qualche minuto e vi spiegherò perché. Putin crede fermamente nelle leggi. Nell’arena pubblica opera sempre in loro conformità. E le criptovalute, nonostante la loro flessibilità, operano al limite della legalità, il che lo mette a disagio. La posizione dei russi sulle criptovalute è dunque quella di eliminare le attività illegali – riciclaggio di denaro, finanziamento del terrorismo, traffico di esseri umani, ecc. – e allo stesso tempo sfruttare questa tecnologia per modernizzare le capacità di gestione dei capitali interni. Il cripto-rublo è un ponte tra il cripto-mondo e il mondo reale. Garantisce che questa nuova forma di rubli rispetti correttamente il flusso di capitali.Tassando i cripto-rubli a chi non è in grado di fornire una documentazione della proprietà, Putin sta incentivando lo sviluppo di sistemi di cripto-pagamento a basso costo. L’obiettivo è quello di scambiare rubli per merci solo in criptovalute che traccino anche la proprietà, come Ethereum ed altri che hanno una cronologia dei propri Blockchain trasparente. Putin sta apertamente invitando investimenti legali e alla luce del sole. A prescindere dalla moneta, la Russia vuole sul proprio suolo solo imprese legittime. Il cripto-rublo fornisce i mezzi per convertire, senza spese di transazione, nuovamente nella moneta nazionale ‘fiat’, per pagare bollette, tasse e simili. Questo in opposizione diretta al modo con cui gli Stati Uniti, ad esempio, trattano le criptovalute. Il regolamento Irs del 2014 che ha classificato i Bitcoin come “proprietà” implica che ogni transazione Bitcoin, non importa quanto piccola, crea un potenziale utile. Ciò significa che prendere un caffè da Starbucks via Bitcoin è imponibile sia per l’acquirente che per Starbucks quando andrà a vendere tali Bitcoin e li convertirà in dollari per pagare salari, ordini di consegna, ecc.È per questo che il capitale che si è spostato sulle criptovalute non tornerà indietro. È per questo che è esploso il mercato delle Ico. Miliardi di profitti, non tassati, pronti per essere reinvestiti. È anche il motivo principale per cui Amazon, ad esempio, non accetta Bitcoin. Chi vorrebbe questa seccatura? La struttura del cripto-rublo aggira l’ostacolo per chi dimostra la proprietà dal Blockchain. Bitcoin consente la trasparenza delle transazioni, così come Ethereum, Litecoin e molti altri. Ora, le due valute possono convivere senza doversi preoccupare della doppia tassazione, a meno che uno non guadagni in modo oscuro, nel qual caso Mosca vuole il 13% degli utili. Questo nuovo sistema non riporterà il capitale nell’economia russa, ma tanto non sarebbe tornato comunque. Definendo i Bitcoin come uno schema Ponzi e un modo per riciclare denaro, Putin e la Banca di Russia stanno semplicemente attaccando tecnologie non autoctone. Putin preferirebbe che si usassero piattaforme russe. Ricordate, è un nazionalista, e vuole portare il proprio paese in questo mercato che sarà molto importante in futuro.Ethereum e Waves sono entrambe piattaforme progettate e costruite per la Russia. Notate che Vlad non ha mai parlato male di Ethereum. Waves continua ad essere poco considerato, ma è potente come Ethereum. Entrambi forniscono una piattaforma per agire come “Infrastructure as a service” (Iaas) per la prossima generazione di applicazioni basate su Internet. Ethereum è un sistema operativo per Internet 3.0 mentre Waves è un mercato valutario di prossima generazione, che fornisce una piattaforma semplice per investimenti in private e public equity. Waves sosterrà la mossa di Mosca di scambiare criptovalute e relativi derivati. Agirà sulla soglia di ogni scambio di valuta. Per cui, se avete dollari, Bitcoin, rubli o Ethereum alla fine potrete acquistare e vendere titoli presso la Borsa di Mosca. Tutto pulito e legale. E alla luce del sole. Il cattivo Putin, vedendo che i titoli russi vendono oltre il 7%, cerca investitori in fondi pensione: attraverso la via cripto, ha appena dato ai manager di tali fondi un modo per entrare. Non pensate neanche per un attimo che a Putin non piacciano i Bitcoin come mezzo per attirare investimenti.Questa è l’essenza del Russian Miner Coin. Vuole solo che il settore venga regolamentato, così da massimizzare i profitti per la sfera pubblica. Il capitale va dove viene trattato meglio. Data la fragile situazione dei sistemi finanziari e politici globali, lo stabile governo russo è un asset. Ciò di cui gli investitori hanno bisogno è esser sicuri di trarci un guadagno. Lo schema del cripto-rublo fa parte di questo processo di costruzione della fiducia. Da investitore americano, ora so di poter, ad esempio, investire direttamente in un’offerta di stock o bond di un’azienda russa. Posso veder convertiti i miei dividendi o cedole in cripto-rubli, scambiarli immediatamente con Bitcoin o qualsiasi valuta di mia scelta. E posso non pagarci le tasse fino a che non li riconverto in dollari. Al momento non è tecnicamente possibile, specialmente con le sanzioni. Dove è possibile, è costoso ed è una grossa lungaggine. Putin è intelligente, e ha ottimi consiglieri. Mosse come questa sono una risposta a quelle fatte dagli americani per privare la Russia di capitali (vedasi le sanzioni decise da McCain).Fornire una piattaforma con cui il capitale possa entrare in Russia senza essere bloccato è ora fondamentale per sopravvivere nei prossimi due anni. Non è sua responsabilità controllare gli investitori statunitensi, solo verificare che rispettino la legge russa. Il vantaggio della prima mossa qui è importante. Se la Russia continua a sviluppare la tecnologia Blockchain e ad abbracciarla in modo relativamente privo di imposte, non importa che stia “regolamentando” il meraviglioso mercato decentrato delle criptovalute. Quel che importa è che la Russia tratti i cripto-investitori meglio degli altri. Nella lotta per i flussi globali di capitali, non devi essere perfetto, solo essere leggermente meglio degli altri. L’arbitraggio si prenderà cura del resto. E lo scambio rublo/cripto-rublo, esente da tasse, è l’applicazione che il cripto-mercato cercava per portarlo al livello successivo. La Russia ci è arrivata per prima.(Tom Luongo, “Il cripto-rublo ha appena cambiato le carte in tavola”, dal blog di Luongo del 16 ottobre 2017, ripreso da “Come Don Chisciotte” con traduzione di Hmg).Il cripto-rublo confonde molte persone. Non dovrebbe. Putin ha appena preso il comando della cripto-tecnologia. Sono settimane che dal governo russo riceviamo segnali confusi sulle criptovalute. Da una parte lo vediamo abbracciare questa nuova tecnologia, dall’altra dichiararle guerra. Per questo non si capiscono bene le intenzioni di Mosca in materia. Cercherò di eliminare questa confusione basandomi sui dati a disposizione. Basta dire che questa è una buona notizia sia per i Bitcoin che per l’economia russa. Datemi qualche minuto e vi spiegherò perché. Putin crede fermamente nelle leggi. Nell’arena pubblica opera sempre in loro conformità. E le criptovalute, nonostante la loro flessibilità, operano al limite della legalità, il che lo mette a disagio. La posizione dei russi sulle criptovalute è dunque quella di eliminare le attività illegali – riciclaggio di denaro, finanziamento del terrorismo, traffico di esseri umani, ecc. – e allo stesso tempo sfruttare questa tecnologia per modernizzare le capacità di gestione dei capitali interni. Il cripto-rublo è un ponte tra il cripto-mondo e il mondo reale. Garantisce che questa nuova forma di rubli rispetti correttamente il flusso di capitali.
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Giacché: l’Europa ha un nemico, si chiama Unione Europea
Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.L’operazione politica che ha dato vita al Pd si rivela per quello che era: un’operazione trasformistica priva di respiro. Oggi è il bersaglio di tutti coloro che ritengono socialmente regressiva ed economicamente sbagliata la politica seguita dal 2011 in poi. Mi riesce difficile dar loro torto. In Germania, malgrado la vittoria di Merkel, dal voto si evincerebbe una crisi di sistema? Oggi viene letto tutto in termini di instabilità, ma non credo che sia la lettura corretta: semplicemente, l’elettorato ha votato contro la gestione di questi partiti nei 10 anni che ci separano dall’inizio della Grande Recessione. Può essere sorprendente che questo avvenga anche in un paese come la Germania, che è considerato da molti il vero vincitore di questa crisi. Ma il punto è che non tutta la Germania ha vinto, anzi. Proviamo a dirlo in “economese”. La Germania in questi anni ha coerentemente praticato una politica mercantilistica, basata sulle esportazioni, sacrificando la domanda interna e gli investimenti. La capacità esportativa tedesca si è avvalsa per un verso della costruzione di una rete di subfornitori con manodopera a basso prezzo nei paesi dell’Est (che perlopiù non hanno adottato l’euro, e quindi hanno potuto beneficiare di svalutazioni rispetto ad esso), per l’altro di una vera e propria compressione dei salari.I salari tedeschi, nei settori esposti alla concorrenza internazionale, sono scesi in termini reali, tra il 1999 e il 2008, di qualcosa come il 9% (sono dati forniti da Bofinger, uno degli esperti economici che assistono il governo tedesco). Con l’Agenda 2010 del socialdemocratico Schröder sono stati precarizzati i rapporti di lavoro (i minijobs), riducendo al contempo fortemente le indennità di disoccupazione. Nel frattempo, le tasse alle imprese e alla parte più ricca dei cittadini venivano diminuite. Ecco spiegata l’ampliarsi della disuguaglianza, e anche il mistero di una Germania che “va bene”, ma in cui tanti cittadini sono scontenti. E votano di conseguenza. Il tema dell’immigrazione ha fatto da detonatore a un disagio sociale presente già da tempo. All’Est le sue motivazioni si possono sintetizzare in due dati: una disoccupazione doppia che all’Ovest, e stipendi inferiori di un quarto. Si tratta di una situazione che affonda le sue radici nelle modalità dell’unificazione tedesca, e in particolare – come ho spiegato anni fa nel mio libro sull’unificazione, “Anschluss” – in un’unione monetaria affrettata e realizzata con un tasso di cambio assurdo (parità tra marco ovest e marco est nonostante che il tasso di cambio reale fosse all’epoca di 1 a 4,4), che ha distrutto l’economia della ex Germania Est.A questo punto tutti gli asset industriali dell’Est furono svenduti attraverso la Treuhandanstalt (curiosamente riproposta come modello durante questa crisi, da Juncker e da altri, alla Grecia). Il risultato furono milioni di disoccupati, emigrazione di massa e la distruzione dell’industria dell’Est. Una distruzione cui non hanno potuto porre rimedio i massicci trasferimenti statali successivi: molto semplicemente, al di là di poche isole felici, l’Est del Paese non è a tutt’oggi autosufficiente. Alternative für Deutschland prende i voti delle classi popolari e dei ceti meno abbienti? L’Afd non vince soltanto all’Est, ma anche in zone certamente tutt’altro che povere come la Baviera, dove la motivazione anti-immigrati è senz’altro prevalente. La Linke, la sinistra radicale tedesca, ha preso quasi il 10 per cento. Il vento di protesta si muove anche a sinistra? La Linke prende mezzo milione di voti dalla Spd, ma cede poco meno alla Afd. In questi numeri sta scritto tutto quanto ci è necessario sapere, e quanto del resto confermano le evidenze sulle zone di maggiore radicamento della Linke stessa: che guadagna voti all’Ovest ma li perde ad Est; che conquista consensi nei quartieri della borghesia riflessiva, ma li perde nelle zone operaie.Non ha pagato la linea sull’immigrazione (“refugees welcome” non è una politica), e questo ha neutralizzato il fatto (importante) che una parte dell’elettorato deluso dalla Grosse Koalition si è rivolto a sinistra, preferendo la Linke alla Spd. A questo proposito va detto che all’interno della stessa Linke chi aveva avanzato idee sensate sulla necessità di un’immigrazione regolata (Sahra Wagenknecht) è stata attaccata violentemente: i risultati si sono visti nelle elezioni. E la Francia? Era a un bivio: accodarsi all’Agenda 2010 della Germania e proseguire sulla linea dell’austerity o far cambiare marcia all’Europa opponendosi al dominio della locomotiva tedesca. Macron ha imboccato la prima strada, in questa direzione vanno senza alcun dubbio le (cosiddette) riforme del lavoro annunciate. È una pessima notizia per la Francia e per l’Europa. Se Macron riuscirà a realizzare queste misure proseguirà e si rafforzerà la tendenza alla deflazione salariale e alla compressione della domanda interna in Europa.L’Europa a due velocità ha imboccato un vicolo cieco, e il vento populista ha terreno fertile? Direi che più importante della velocità qui è la direzione: che è quella sbagliata. Si è troppo spesso confuso l’internazionalismo con l’europeismo, e l’Europa con l’Unione Europea. Per contro, si è data troppo poca importanza al tema della democrazia e a quello, connesso, della sovranità popolare: la verità è che l’Europa di Maastricht è profondamente antidemocratica. Lo è per essenza, e non per accidente. È un’architettura disegnata nel periodo trionfale del neoliberismo, quello immediatamente successivo al crollo dell’Urss. Il suo impianto non è soltanto antisocialista, ma antikeynesiano. Quando Tietmeyer (presidente della Bundesbank) nel 1998 si compiacque per il fatto che i politici europei, spogliandosi della sovranità monetaria – conferita a un’unica banca centrale indipendente – avevano avuto la saggezza di sostituire il “plebiscito quotidiano dei mercati” al “plebiscito delle urne”, sapeva cosa diceva. Per di più durante la crisi, una classe politica e tecnocratica assai poco lungimirante ha deciso di dare un ulteriore giro di vite a questa macchina neoliberale con il Fiscal Compact. Quel Fiscal Compact che oggi si vorrebbe includere nei Trattati. Faccio fatica a trovare un’idea più miope e regressiva.Come uscirne? Capendo fino in fondo che l’assetto attuale dell’Unione Europea è il problema, e non la soluzione. Sinceramente non sono ottimista. Mi sembra che la consapevolezza dei problemi a livello politico sia assolutamente inadeguata. Si continua a perdere tempo con problemi nella migliore delle ipotesi secondari, non si ha alcuna strategia, e quindi si soggiace a quelle altrui. È quello che emerge dall’esame di tutti i principali dossier degli ultimi anni: dall’Unione bancaria al problema dell’immigrazione, alla politica energetica. Non conosco un solo caso in cui la soluzione adottata non sia stata svantaggiosa per il nostro paese, e favorevole ad altri. L’Italia dovrebbe maggiormente battere i pugni sul tavolo a Bruxelles? Non si tratta soltanto né soprattutto di incapacità negoziale, che sarebbe comunque sconfortante. C’è un pregiudizio ideologico: ogni passo avanti dell’integrazione europea è considerato positivo a priori. E c’è la convinzione – contraria a ogni evidenza – che solo il “vincolo esterno” ci possa salvare. Quasi che, per qualche tara genetica, fossimo incapaci di governarci da soli. In genere la storia non è stata tenera nei confronti delle classi dirigenti e dei popoli dominati da questo tipo di convinzioni.(Vladimiro Giacché, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “In Germania ha vinto la protesta e l’Ue è irriformabile, come non capirlo?”, pubblicata su “Micromega” il 28 settembre 2017. Eminente economista, Giacché è presidente del centro studi Europa Ricerche).Se l’Europa vira a destra è per precise responsabilità della sinistra, che è stata in buona parte corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove non lo è stata, non ha saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht. Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell’estrema destra dell’Afd sono stati predominanti del voto tedesco. Aggiungo il crollo della Cdu e della Csu, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca. Il voto sancisce la fine della socialdemocrazia europea come l’abbiamo conosciuta, confermando un trend già visto in opera in Grecia, in Francia, in Spagna, in Olanda – e che credo sarà confermato in Italia. Ma più in generale quella delle “famiglie” politiche tradizionali un tempo egemoni a livello europeo: la popolare/cristiano-democratica e quella socialdemocratica. Credo che il Pd perderà la centralità politica; tenterà di mantenerla al prezzo di un’ulteriore deriva a destra, ma senza successo.
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Nel segno di Olof Palme: le sue idee salverebbero l’Italia
Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca, o almeno le loro caricature firmate Crozza. Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.Dunque chi era Olof Palme? Bisognerebbe chiederlo a Gianfranco Carpeoro (Pecoraro, in una vita precedente), avvocato e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che accusa un’élite occulta, super-massonica, di pilotare settori dell’intelligence Nato per costruire il terrore dell’Isis, dietro il paravento dell’alibi islamista. Obiettivo: manipolare l’opinione pubblica, spaventarla, imporle leggi speciali e distrarla, impedendole di individuare i veri responsabili del disastro economico e sociale in corso, accuratamente progettato da un’oligarchia paramassonica internazionale. Gioele Magaldi, amico di Carpeoro e suo sodale nel Movimento Roosevelt, nel quale milita lo stesso Bellisario, ricorda che il catastrofico 11 settembre del 2001 fu soltanto la seconda fase di un piano di svuotamento della democrazia avviato all’alba di un altro 11 settembre, quello del 1973, quando fu abbattuto il governo cileno di Salvador Allende per instaurare la dittatura di Pinochet. Troppa democrazia rischiava di frenare il grande business? Nel suo libro, Carpeoro ricorda il telegramma con cui Licio Gelli, proprio dal Sudamerica, informava un parlamentare statunitense, Philip Guarino, che anche “la palma svedese” stava per essere abbattuta.La “palma svedese” sarebbe caduta il 28 febbraio 1986, in un agguato a colpi di pistola all’uscita di un cinema nel centro di Stoccolma. «Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito», afferma il criminologo svedese Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, il criminale di strada inizialmente fermato, e poi a sua volta deceduto all’improvviso dopo aver contattato per telefono il figlio di Palme, annunciandogli di avere notizie sulla fine del padre. Si sospetta anche di un altro anomalo decesso, quello del romanziere Stieg Larsson, morto esattamente come il protagonista della sua triologia, “Millennium”, dopo aver condotto indagini riservate sul caso Palme e aver consegnato alla polizia, inutilmente, svariati scatoloni pieni di documenti. Ma chi era, quindi, Olof Palme? Un socialista, un democratico. Il massimo interprete del welfare europeo: pari opportunità per tutti, nessuno deve essere lasciato idietro. Chi paga? Lo Stato: per il bene di tutti, ricchi e poveri. Pur di evitare licenziamenti, Palme arrivò a far rilevare quote di aziende traballanti. Messaggio: il salario dei cittadini-lavoratori viene prima del profitto d’impresa, perché ne va della coesione sociale del sistema-paese.Era pericoloso, Palme? Eccome. Mai e poi mai avrebbe dato il via libera alla nascita di un mostro giuridico come l’Unione Europea, di fatto governata da poche famiglie di oligarchi, proprietari dalle grandi banche cui appartiene la stessa Bce. Olof Palme era convinto di dover «tagliare le unghie al capitalismo», frenandone gli eccessi e gli abusi partendo dal ruolo democratico dello Stato come fattore di equilibrio: proprio quello Stato che l’Ue ha letteralmente demolito e svuotato. Era famoso, Palme: denunciava l’apartheid del Sudafrica e quello di Israele, le malefatte degli Usa nell’America Latina e la dittatura “rossa” dell’Unione Sovietica. Una figura prestigiosa, scomoda. Stava addirittura per essere eletto segretario generale delle Nazioni Unite: una volta all’Onu, sarebbe stato più difficile abbatterla, la “palma svedese”. Andava tolta di mezzo prima. E non è un caso, probabilmente, che tuttora non si sappia nulla di preciso né del killer né dei mandanti, anche se Carpeoro – nel rievocare il famoso telegramma di Gelli rivolto a Guarino – fa il nome di un eminente politologo Usa, Michael Ledeen, all’epoca legato a Guarino. Secondo Carpeoro, l’onnipresente Ledeen («consigliere occulto di Craxi e Di Pietro, Renzi e Grillo») è un tipico esponente dell’élite supermassonica “reazionaria”, protagonista della storica svolta antidemocratica che ha ridotto l’Occidente al deserto attuale, quello della privatizzazione globalizzata e universale, imposta a mano armata, anche con guerre e attentati.«L’Italia è ormai arrivata ad uno stato di coma profondo ed ovviamente irreversibile per almeno una persona su due», scrive Vincenzo Bellisario nell’introduzione al suo volume su Olof Palme, di prossima uscita per le Edizioni Sì (140 pagine, 11 euro). «E se continua su questa strada non c’è alcuna speranza: non c’è un modo per venirne fuori, al momento, considerando gli attuali trattati Ue e l’euro». Ragiona Bellisario: «Le persone ancora “salve” in questo paese sono coloro che hanno avuto la fortuna di essere nati e cresciuti all’interno di famiglie benestanti che gli hanno permesso di studiare con “calma”», magari per poi ottenere “la spinta giusta”. Gli altri che si sono “salvati”? Sono quelli «che hanno avuto la “fortuna” di essere stati assunti anni fa con i cosiddetti “contratti vecchi”», e quelli che sono andati in pensione «ad un’età giusta e con una pensione dignitosa». Per tutti gli altri, oggi, non c’è più storia: «Sono spacciati». Parole che ricordano quelle rievocate dallo stesso Carpeoro, autore di una prefazione al volume: «Oggi è morta la speranza», disse l’avvocato, all’indomani dell’assassinio di Palme in un’assise culturale di area liberal-socialista. Lo corressero: non è vero, possono morire i grandi uomini ma non le loro idee. E’ per questo che all’inizio del 2018, a Milano, Carpeoro sarà tra i promotori di un singolare convegno internazionale del Movimento Roosevelt sulla figura del compianto statista svedese. Se da qualche parte bisogna pur ripartire, per rimettere in piedi la nostra disastrata democrazia, sarebbe un onore ricominciare proprio da Olof Palme: una bandiera da tenere alta, nell’Europa degli oligarchi e degli orchi che ammazzano i paladini della giustizia sociale.Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca (o almeno le loro caricature firmate Crozza). Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.
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Ricca Germania e poveri tedeschi, divario record in Europa
«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstly sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.La disoccupazione, un problema cruciale per gli altri paesi Ue, per il sondaggio è solo al quinto posto. Marcel Fratzscher, capo del centro di ricerca economica Diw e consigliere dell’Spd, dice: «L’economia sta andando bene. La grande preoccupazione è per quelli che vengono lasciati indietro». I conservatori che sostengono la Merkel non sono d’accordo su questo punto, scrive Wagstly, nell’articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. Ma in una recente intervista su YouTube, la stessa Merkel ha ammesso che la disuguaglianza sta diventando un problema politico: «Veramente – ha detto – molte persone ne sono preoccupate», Ma quanta disuguaglianza c’è in Germania, dopo 12 anni di governo Merkel? Dal 1990 (anno della riunificazione) ad oggi, le disparità sono realmente aumentate, anche se negli ultimi cinque anni sono state in parte attutite grazie alla crescita della produzione, dei posti di lavoro e dei salari. In termini di redditi delle famiglie, la Germania è vicina alla media europea. «Ma in termini di ricchezza – scrive Wagstly – la Germania è significativamente più disuguale rispetto agli altri paesi, con le famiglie più ricche che controllano una quota della ricchezza più ampia rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale».Il 40% dei tedeschi più poveri non possiede praticamente alcun bene patrimoniale, nemmeno dei risparmi in banca. Per quanto riguarda i redditi, il divario tra il 10% dei più poveri e quello dei più ricchi ha iniziato ad allargarsi dalla metà degli anni ’90. «Accade in larga misura per le stesse ragioni degli altri paesi del mondo sviluppato: globalizzazione e perdita di posti di lavoro tramite cambiamenti tecnologici». Dopo un periodo di iniziale stagnazione dopo la riunificazione, la Germania è tornata a crescere grazie a un boom delle esportazioni (“dopate” dall’euro), combinato con una moderazione salariale da parte dei sindacati, e col pacchetto Hartz IV per il mercato del lavoro (flessibilità) e le riforme dell’assistenza sociale, che hanno spinto sempre più disoccupati al lavoro. «Gli effetti economici complessivi sono stati molto ampi, riportando la Germania alla testa della Ue e cementando il sostegno a favore della Merkel», al potere dal 2005. Le riforme Hartz IV erano state comunque ereditate dal governo precedente del socialdemocratico Gerhard Schröder. «Ma se la disoccupazione è diminuita, le persone a reddito basso guadagnano comparativamente sempre meno rispetto ai lavoratori ben pagati».Un ruolo importante nel ridurre la disoccupazione e aumentare il numero degli occupati al livello record di 44 milioni ha avuto l’espansione dei mini-job, posti di lavoro part-time deregolamentati, che sono passati da 4,1 milioni nel 2002 a oltre 7,5 milioni quest’anno. «I loro sostenitori dicono che hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, ad esempio per madri con figli piccoli, studenti e pensionati. Ma i critici affermano che questi mini-job hanno spesso rimpiazzato posti di lavoro a tempo pieno, specialmente nei settori della ristorazione e della vendita al dettaglio», scrive il “Financial Times”. E il sindacato Dgb aggiunge che, anziché aprire la strada a posti di lavoro permanenti, i mini-job sono diventati per i lavoratori un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un cambiamento molto più drastico sui redditi per contrastare una causa ancora più grande di disuguaglianza in Germania, ossia la distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri, che è straordinariamente iniqua».Il paese non ha quell’abbondanza di miliardari che si trovano, ad esempio, nel Regno Unito, ha però una pletora di milionari, spesso concentrati nelle famiglie che possiedono industrie medio-grandi. Intanto, solo il 45% dei tedeschi possiede la casa nella quale vive. Tutti gli altri sono in affitto, specie nelle grandi città, dove i prezzi si sono rapidamente alzati dopo la crisi finanziaria del 2008. «Questo ha ulteriormente ampliato il divario tra gli abbienti e i nullatenenti». Secondo punto, le pensioni: sono generose più che altro con gli ex lavoratori a tempo pieno. «I ricchi si garantiscono una pensione con i fondi privati, ma il tedesco medio non se lo può permettere. In teoria le pensioni pubbliche dovrebbero essere un modo altrettanto sicuro delle pensioni private per garantirsi un reddito in età avanzata, al pari delle pensioni private negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ma l’investimento manca di flessibilità. Per esempio, è impossibile andare in pensione prima e ottenere un riscatto dell’intera somma, che potrebbe essere usata per avviare un’attività produttiva». Infine, l’imposta di successione in Germania favorisce i proprietari di impresa.La disuguaglianza nella distribuzione di ricchezza e redditi aumenta la disuguaglianza sociale, prosegue Wagstly nella sua analisi. Le scuole tedesche reggono bene il confronto con gli altri paesi Ocse, ma «fanno peggio» se solo «si considera il divario tra i bambini di famiglie ricche e quelli di famiglie povere». Nel 2015 la condizione economica di uno studente spiegava il 16% delle differenze nel successo scolastico in Germania, rispetto al 13% della media Ocse. «Allo stesso modo, nella salute c’è un profondo divario tra i ricchi e i poveri, che sembra essere più ampio in Germania che nella media dei paesi Ue». A queste disuguaglianze, conclude il “Financial Times”, si somma un divario regionale che persiste tuttora: «Sebbene dopo la riunificazione del 1990 la Germania Est abbia fatto progressi, i redditi rimangono più bassi di un terzo rispetto ai livelli della Germania Ovest». I giovani hanno smesso di emigrare a frotte, ma il resto della popolazione sta invecchiando più rapidamente: se fosse uno Stato autonomo, con il 24% della popolazione over-65, la Germania Est sarebbe il paese «più anziano del mondo». Ma le sacche di povertà non si limitano alle regioni dell’Est. «I ricchi se ne vanno dai quartieri poveri, e persone povere affluiscono», dice Dieter Heisig, pastore protestante che ha prestato servizio nella città per più di 30 anni. «Non vorrei dover dire che abbiamo dei ghetti, qui in Germania, però li abbiamo».«Sopravvivo, ma non vivo», dice Doris, infermiera 71enne in pensione nell’ex città mineraria di Gelsenkirchen in Germania. «Non ho soldi per andare a vedere un balletto, nemmeno 10 euro per il cinema. Ma quello che mi rode di più è non potermi permettere di fare regali ai miei nipoti». Sebbene Angela Merkel affermi che oggi si vive “nella migliore Germania che sia mai esistita”, molti poveri nel suo paese la pensano diversamente. E dire che il resto del mondo industrializzato guarda con invidia alla performance economica tedesca: la Germania è un paese ricco, con il più elevato reddito pro-capite tra i grandi paesi della Ue, davanti a Gran Bretagna, Francia e Italia. La disoccupazione è ai livelli più bassi della Ue: il maggior grattacapo degli industriali tedeschi è trovare lavoratori, scrive Stefan Wagstyl sul “Financial Times”, in un reportage sulle (enormi) disuguaglianze che minano la Germania. «Queste preoccupazioni sono particolarmente forti perché molti tedeschi hanno a lungo creduto di vivere in una società equa come poche altre, dopo che la Seconda Guerra Mondiale aveva spazzato via le vecchie élite e lasciato un paese con meno disparità». In un recente sondaggio della televisione “Ard”, i votanti hanno indicato la disuguaglianza sociale come il più grande problema del paese, dopo la politica di Berlino sui rifugiati.
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Catalogna? Dezzani: tremo per l’Italia, il Nord-Est scapperà
Come in Catalogna, così in Lombardia e Veneto: secessione? Dopo le aspirazioni di Barcellona, ecco i due referendum per l’autonomia regionale che si terranno il 22 ottobre nel lombardo-veneto: tra Milano e Venezia sarebbero in azione «gli stessi poteri che sferrarono l’assalto del 1992-1993», poteri stranieri «che hanno oggi condotto l’Italia al default e mirano a smembrare il paese». Lo afferma un analista geopolitico indipendente come Federico Dezzani, che attribuisce a potenze extra-italiane la vera regia del crollo della Prima Repubblica, con il ciclone Mani Pulite ma anche gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra tra Roma, Milano e Firenze, senza contare le stragi costate la vita a Falcone e Borsellino. «L’Italia deve osservare da vicino quanto accade in Spagna e prepararsi al peggio», ammonisce Dezzani. «Nell’autunno del 2017 è ufficialmente subentrata la penultima fase dell’eurocrisi: sovraccaricata l’Europa meridionale di tensioni economiche-sociali e portato l’indebitamento pubblico a livello critico grazie alla moneta unica, si fomentano le spinte secessionistiche in seno ai membri più deboli, in vista di un default più o meno ordinato e lo smembramento dei medesimi».
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Foa: visto? Anche i tedeschi, nel loro piccolo, s’incazzano
Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.I tedeschi chiedono una vera alternativa moderata e pretendono che si affrontino i veri problemi della società. Quali? L’immigrazione, innanzitutto. In Germania si conferma una verità che i progressisti e la maggior parte dei media si ostinano ad ignorare. L’immigrazione è fonte di ricchezza e non genera problemi quando i flussi sono regolati, quando l’integrazione è reale e quando non si formano comunità chiuse. Se invece diventa impetuosa, sregolata, massiccia, viene rifiutata perché vissuta come destabilizzante e, per l’ordine pubblico, pericolosa. E la propaganda “buonista”, alimentata anche dalla Cdu, responsabile di aver spalancato le frontiere sull’onda emotiva della foto del piccolo Aylan, non basta a convincere gli elettori. Risultato: milioni votano per Alternative für Deutschland, che vola al 13%. Ma non è solo l’immigrazione ad aver favorito la destra nazionalista. La Germania ha una bilancia commerciale record ma l’export non trascina l’economia interna, dove la disoccupazione è bassa ma a fronte di troppi posti di lavoro a stipendi ridicoli, i cosiddetti minijobs da 450 euro, con cui vengono pagati oltre 7 milioni di persone; un paese dove le tasse restano alte, dove i länder dell’Est continuano a languire.In teoria, alla luce dei risultati economici, il paese dovrebbe vivere un boom memorabile ma non è così, anche per l’effetto paralizzante dell’euro – che, come spiega da tempo Alberto Bagnai, impedisce la rivalutazione e la svalutazione delle monete nazionali e di conseguenza il più naturale fenomeno di compensazione fra economie forti e deboli. La Germania è sempre più ricca ma la sua ricchezza non si trasferisce alla società nel suo insieme. L’Afd ha saputo intercettare un malumore che fino ad oggi premiava i partiti di sinistra. Non è un caso che l’Spd sia crollata e che la Linke e i Verdi siano rimasti stabili. Così come non è un caso che il Partito liberale sia tornato in Parlamento, superando lo sbarramento del 5% e di gran carriera: raggiunge il 10,5%. Molti elettori della destra moderata, che credono nell’imprenditoria privata, che vogliono pagare meno tasse, hanno convogliato sull’Fpd i consensi riservati 4 anni fa alla Cdu di Angela Merkel, a conferma del forte desiderio di una vera alternativa. Sì, anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Con l’odioso Schulz e con la smunta Merkel, che rimarrà cancelliere, ma che dovrà faticare non poco per varare una nuova coalizione. Non fatevi ingannare dai titoli di queste ore sulla vittoria della Merkel. E’ arrivata prima questo sì, ma perdendo quasi un quarto del proprio elettorato. Che scoppola!(Marcello Foa, “Anche i tedeschi nel loro piccolo si arrabbiano. Vero Schulz? Vero Merkel, che in realtà crolla?”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 14 settembre 2017).Con ogni probabilità la Merkel rimarrà cancelliere, con una longevità straordinaria. Ma il risultato delle elezioni in Germania non rappresenta un trionfo per Angela. Al contrario. Quando la Cdu perde oltre l’8% dei voti, passando dal 41,5% al 32,7% e quando l’altro partito al governo, l’Spd, ne perde meno (“solo” il 5%) ma scendendo al 20%, il peggior risultato della sua storia, è difficile parlare di successo. Ed è difficile credere che la Germania sia un paese davvero in salute e soprattutto felice, come sembra da lontano. Queste elezioni sono dense di significati. Anche a Berlino, come nella maggior parte dei paesi europei, gli elettori credono sempre meno nei partiti moderati sia di destra sia di sinistra, che si differenziano per il colore delle bandiere ma non per l’azione politica. L’Spd e la Cdu alla fine dei conti sono troppo simili e rappresentano l’establishment. Assieme hanno perso il 13%, un’enormità. Quello di domenica va letto come un voto di protesta contro un sistema politico omologante e alla fine falso. Che senso ha distinguere fra destra e sinistra se poi sono quasi uguali? In Germania addirittura hanno governato assieme.
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Migranti, ora basta. Il super-potere: ci costano troppo
Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».Al netto della retorica, fa notare Camarota in premessa, il motto elettorale “America First” di Donald Trump coincide perfettamente con la storica posizione della democratica Barbara Jordan, icona dei diritti civili statunitensi e già stratega di Bill Clinton: «Nel dibattito sull’immigrazione c’è un solo tema fondamentale, ed è il benessere del popolo americano». Ovvero: «Gestire l’immigrazione in modo che serva l’interesse nazionale». Cosa che, secondo l’analista di “Foreign Affairs”, negli ultimi 50 anni non è avvenuta. Solo che «il dibattito sull’argomento è stato smorzato». Manipolazione politico-mediatica: «I decisori politici e gli opinionisti di entrambi i partiti hanno teso a sovrastimare i benefici e a sottovalutare o ignorare i costi dell’immigrazione», scrive Camarota. Trump ha sfruttato elettoralmente il disagio per l’immigrazione irregolare? Vero, ma il disastro non l’ha creato lui, ammette l’analista: negli Usa ci sono troppi immigrati irregolari e non. «Gli Stati Uniti attualmente garantiscono ogni anno un milione di permessi legali di residenza permanente agli immigrati (o “carta verde”), il che significa che possono rimanere fino a quando desiderano e diventano cittadini dopo cinque anni, o tre se sono sposati con un cittadino statunitense. Annualmente arrivano anche circa 700.000 visitatori a lungo termine, soprattutto lavoratori ospiti e studenti stranieri».Un così grande afflusso annuale, agiunge Camarota, si somma nel tempo: nel 2015 i dati del Census Bureau indicano che nel paese vivevano 43,3 milioni di immigrati – il doppio del numero del 1990. «I dati del censimento comprendono circa 10 milioni di immigranti clandestini, mentre circa un altro milione di persone non viene conteggiato». In più, ci sono gli effetti dello “ius soli”: «Contrariamente alla maggior parte dei paesi, gli Stati Uniti concedono la cittadinanza a chiunque nasca su suolo americano, inclusi i figli dei turisti o degli immigrati clandestini, per cui i dati sopra riportati non comprendono nessuno dei bambini di immigrati nati negli Stati Uniti». I sostenitori dell’immigrazione sostengono che l’America è una “nazione di immigrati”, e certamente «l’immigrazione ha svolto un ruolo importante nella storia americana». Tuttavia, osserva Camarota, «gli immigrati attualmente rappresentano il 13,5% della popolazione totale statunitense, la percentuale più alta in oltre 100 anni». Il Census Bureau prevede che entro il 2025 la percentuale di immigrati nella popolazione raggiungerà il 15%, superando il record del 14,8%, raggiunto nel 1890. «Senza una modifica della politica, questa percentuale continuerà ad aumentare per tutto il ventunesimo secolo».Conteggiando gli immigrati e i loro discendenti, il Pew Research Center stima che dal 1965, anno in cui gli Stati Uniti liberalizzarono le proprie leggi, l’immigrazione ha aggiunto 72 milioni di persone nel paese, «un numero maggiore della popolazione attuale della Francia». Tenuto conto di questi numeri, scrive Camarota, è sorprendente che i funzionari pubblici «si siano concentrati quasi esclusivamente sugli 11-12 milioni di immigrati clandestini del paese, che rappresentano solo un quarto della popolazione totale degli immigrati». L’immigrazione legale, infatti, «ha un impatto molto più grande sugli Stati Uniti». Ma i leader del paese «raramente si sono posti le grandi domande». Per esempio: qual è la capacità di assorbimento delle scuole e delle infrastrutture nazionali? Come se la caveranno gli americani meno qualificati nel mercato del lavoro, in concorrenza con gli immigrati? Oppure, forse la più importante: quanti immigrati gli Stati Uniti sono in grado di assimilare nella propria cultura? «Trump non sempre ha approcciato queste domande con attenzione, o con molta sensibilità, ma va a suo merito averle almeno sollevate».Secondo gli integrazionisti, visto che l’America riuscì ad assorbire l’ultima grande ondata del passato, quella dal 1880 al 1920, tutti gli immigrati si assimileranno, oggi e domani. Ma le condizioni di ieri non sono quelle attuali, obietta Camarota: negli ultimi decenni «la crescita marcata delle enclave di immigrati ha probabilmente rallentato il ritmo di assimilazione», e oggi «la moderna economia americana ha meno buoni posti di lavoro per i lavoratori non qualificati». Ecco perché «gli immigrati non migliorano nel tempo la loro situazione economica», come invece facevano in passato. Ma è cambiato anche l’atteggiamento degli americani verso gli immigrati, che ieri erano competamente soli, mentre oggi – grazie al web e alla telefonia mobile – sono in contatto permanente con la terra d’origine. «In passato c’era un consenso più vasto sulla desiderabilità dell’assimilazione», sostiene Camarota. Il giudice della Corte Suprema di Giustizia Louis Brandeis, figlio di immigrati ebrei, in un discorso sul “vero americanismo” nel 1915 dichiarò che gli immigrati, oltre a imparare l’inglese, dovevano «essere portati in completa armonia con i nostri ideali e le nostre aspirazioni». Oggi non è più così: il forte accento sull’assimilazione «è stato sostituito con il multiculturalismo, che sostiene che non esiste una singola cultura americana, che gli immigrati e i loro discendenti dovrebbero mantenere la loro identità, e che il paese dovrebbe adattarsi alla cultura dei nuovi arrivati anziché il contrario».Per Camarota, l’istruzione bilingue, i distretti legislativi disegnati lungo linee etniche e le schede elettorali in lingua straniera «incoraggiano gli immigrati a considerarsi separati dalla società e bisognosi di un trattamento speciale a causa dell’ostilità degli americani comuni». Per John Fonte, studioso dell’Hudson Institute, queste politiche – che spingono gli immigrati a mantenere la loro lingua e cultura – rendono meno probabile la loro assimilazione sociale. Un recente sondaggio “Associated Press”, aggiunge Camarota, ha scoperto che la maggior parte degli americani pensa ancora che il proprio paese dovrebbe avere una cultura fondamentale che gli immigrati adottino. Ma il tipo di assimilazione finora tentato «non ha più il sostegno dell’elite», osserva l’analista. Come sottolinea lo psicologo politico Stanley Renshon, molte organizzazioni incentrate sugli immigrati oggi aiutano gli immigrati a imparare l’inglese, ma lavorano duramente anche per rafforzare i legami con il vecchio paese. E questo evidenzia anche l’altra area di contesa nel dibattito sull’immigrazione, cioè il suo impatto economico e fiscale: «Molte famiglie immigrate prosperano negli Stati Uniti, ma una grande parte non ci riesce, aggiungendosi in modo significativo ai problemi sociali già esistenti».Numeri preoccupanti: «Quasi un terzo di tutti i bambini americani che vivono in povertà oggi hanno un padre immigrato, e gli immigrati e i loro figli rappresentano quasi un terzo dei residenti Usa senza un’assicurazione sanitaria», rileva “Foreign Affaris”. Nonostante alcune restrizioni alla capacità dei nuovi immigrati di utilizzare programmi di assistenza basati sul reddito, circa il 51% delle famiglie immigrate usa il sistema previdenziale, rispetto al 30% delle famiglie native. Delle famiglie con figli, i due terzi rientrano in programmi di assistenza alimentare. «Tagliare fuori gli immigrati da questi programmi sarebbe sciocco e politicamente impossibile – ragiona Camarota – ma è giusto mettere in discussione un sistema che accoglie immigrati così poveri da non poter nutrire i propri figli». La maggior parte degli immigrati arriva negli Stati Uniti per lavorare. «Ma poiché il sistema legale dell’immigrazione statunitense privilegia le relazioni familiari sulle competenze professionali – e poiché il governo ha generalmente tollerato l’immigrazione clandestina – gran parte degli immigrati non è qualificata. Infatti, metà degli immigrati adulti negli Stati Uniti non hanno alcuna istruzione oltre la scuola superiore. Questi lavoratori hanno generalmente guadagni bassi, il che significa che si appoggiano alla previdenza sociale anche se stanno lavorando».Recenti studi statistici dimostrano che gli immigrati e le loro famiglie «utilizzano servizi pubblici per un valore notevolmente più alto di quante tasse pagano», con un “drenaggio fiscale” di quasi 300 miliardi di dollari l’anno. Attualmente, il bilancio fiscale è pesantemente negativo. Enorme, poi, l’impatto sul mercato del lavoro. Uno dei principali economisti statunitensi dell’immigrazione, George Borjas di Harvard, ha recentemente scritto sul “New York Times” che, aumentando l’offerta di lavoratori, l’immigrazione riduce i salari per alcuni americani: sono immigrati «un terzo dei lavoratori edili». Sicché, «i perdenti dell’immigrazione sono gli americani meno istruiti, molti dei quali neri e ispanici, che lavorano in queste occupazioni». E se il multiculturalismo assicura che i migranti risolveranno il problema demografico dei paesi occidentali, la cui popolazione invecchia, l’economista Carl Schmertmann ha mostrato più di due decenni fa che «l’afflusso costante di immigrati, anche in età relativamente giovane, non necessariamente ringiovanisce una popolazione a bassa fertilità».Nel 2015, scrive Camarota, l’età media di un immigrato era di 40 anni, contro i 36 per i nativi. E il tasso di fertilità globale degli Stati Uniti, inclusi gli immigrati, è di 1,82 bambini per donna, che scende solo a 1,75 quando gli immigrati vengono esclusi dal conteggio. «In altre parole, gli immigrati aumentano il tasso di fertilità di appena il 4%». L’ultimo argomento a favore degli immigrati si concentra sui benefici per i profughi più poveri, diretti nel Primo Mondo. «Ma, data la portata della povertà del Terzo Mondo, l’immigrazione di massa non è la forma migliore di soccorso umanitario: più di tre miliardi di persone nel mondo vivono in povertà, guadagnando meno di 2,50 dollari al giorno», riferisce “Foreign Affaris”. «Anche se l’immigrazione legale triplicasse a tre milioni di persone all’anno, gli Stati Uniti farebbero comunque entrare solo l’un per cento dei poveri del mondo ogni decennio. Al contrario – avverte Camarota – l’assistenza allo sviluppo potrebbe aiutare molte altre persone nei paesi a basso reddito».L’ultima volta che gli Usa limitarono l’immigrazione fu a metà degli anni ’90, con Barbara Jordan. «Clinton inizialmente sembrava approvare le raccomandazioni, ma poi cambiò inclinazione dopo la morte della Jordan e il vento politico mutò direzione. Il tentativo di abbassare il livello di immigrazione è stato sconfitto nel Congresso dalla stessa strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che hanno dominato il dibattito pubblico sull’immigrazione da allora fino all’era Trump». Con l’elezione di “The Donald”, potrebbe essere possibile un compromesso politico negli Stati Uniti? L’analista di “Foreign Affaris”, voce ufficiale del Council on Foreign Relations, avanza possibili soluzioni alternative. Per esempio, legalizzare «alcuni immigrati clandestini», in cambio però «di una politica più restrittiva su chi entra». Inoltre, «dare precedenza all’immigrazione qualificata», istruita, più facile da assimilare. Realisticamente, in ogni caso, l’immigrazione rimarrà controversa: «Per il futuro prevedibile, il numero di persone che vorranno venire nei paesi sviluppati, come gli Stati Uniti, sarà molto più grande di quello che questi paesi sono disposti ad accettare o in grado di permettersi».Aprire, sempre e comunque, la porta ai migranti? Non è più così certo che sia giusto, ai piani alti del massimo potere, che forse si prepara ad archiviare la propaganda mondialista del politically correct. Lo rileva “Voci dall’Estero”, che segnala una riflessione di Steven Camarota, direttore del Cis, il centro ricerche di Washington sull’immigrazione. Attenzione: l’analisi è pubblicata su “Foreign Affairs”, storica rivista del Cfr, il Council on Foreign Relations, potentissimo organismo del supremo potere mondiale – think-tank di origine paramassonica, in cui maturano le grandi linee di indirizzo economiche e geopolitiche che da decenni “orientano” l’Occidente. «Tra il fallimento del multiculturalismo e i problemi di integrazione, il drenaggio fiscale causato dalle condizioni di indigenza degli immigrati (le loro scarse possibilità di miglioramento economico) e il risibile impulso demografico a una popolazione che invecchia», riassume “Voci dall’Estero”, da Camarota «viene smontato tutto l’armamentario argomentativo di quella strana ma formidabile coalizione tra imprese, gruppi etnici di pressione, progressisti e libertari che ha dominato il dibattito pubblico americano (e non solo) sull’immigrazione. I tempi sono pronti per un cambiamento?».