Archivio del Tag ‘Irlanda’
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Bofinger: Btp a rischio, il piano-Schäuble devasterà l’Italia
Euro e Germania, ultimo capitolo della catastrofe: «Se fossi un politico italiano vorrei tornare alla mia moneta il più velocemente possibile: è questo l’unico modo per evitare la bancarotta». Parola di Peter Bofinger, uno dei cinque “saggi” del supremo consiglio economico del governo tedesco, secondo cui il nuovo piano di Berlino sul taglio dei debiti “sovrani” nell’Eurozona, con la fine delle garanzie pubbliche sui titoli di Stato, innescherà l’inarrestabile crisi delle obbligazioni europee e potrebbe costringere l’Italia e la Spagna a ripristinare le loro valute. «E’ il modo più veloce per porre fine all’Eurozona», dichiara al “Telegraph” il professor Bofinger, che spiega: «Potrebbe arrivare molto velocemente un attacco speculativo». Per questo, aggiunge, l’unica via d’uscita è il ritorno alla moneta nazionale. Tutto questo, dopo che il “German Council of Econonomic Advisers” ha chiesto l’introduzione di uno specifico meccanismo da attivare per eventuali “insolvenze sovrane”, anche a costo di sovvertire i principi finanziari dell’“ordine del dopoguerra’ in Europa. Stop ai bail-out, i salvataggi statali, proprio come previsto dal Trattato di Maastricht.Il piano tedesco ha il sostegno della Bundesbank e, più di recente, del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, «che di solito riesce a imporre la sua volontà, nell’Eurozona», scrive Ambrose Evans-Pritchard sul “Telegraph”, in un articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Colloqui molto delicati sono attualmente in corso nelle principali capitali europee e stanno provocando dei forti brividi a Roma, Madrid e Lisbona». Secondo questo schema, riassume Pritchard, ad ogni futura crisi del “debito sovrano”, gli obbligazionisti (cioè i detentori dei titoli di Stato) dovranno subire delle perdite (“haircut”), prima che ci possa essere un salvataggio da parte dell’Esm, il Fondo Salva-Stati europeo. «Questo piano provocherà dei guai», ha dichiarato Lorenzo Codogno, già capo-economista del Tesoro italiano. Il bail-in sui debiti sovrani (salvataggio interno, anche con preliveo forzoso) corrisponde a quello entrato in vigore lo scorso gennaio nei riguardi degli obbligazionisti delle banche, che ha contribuito alla drastica svendita delle azioni bancarie dell’Eurozona.In una nota, Bofinger avverte che il piano tedesco potrebbe auto-avverarsi molto in fretta, innescando «una corsa alla vendita delle obbligazioni da parte degli investitori, per liberarsi delle loro partecipazioni ed evitare l’’haircut». Italia, Portogallo e Spagna non potrebbero difendersi perché prive dei propri strumenti monetari: «Questi paesi rischierebbero di essere colpiti da una pericolosa crisi di fiducia», conclude. Il “German Council” ritiene che il primo passo sia quello di assegnare un più alto “rischio-ponderazione” al debito pubblico detenuto dalle banche, in termini di titoli di Stato, e anche un limite a quanto ne possono acquistare, «con l’esplicito obbiettivo di costringerle a cederne per 604 miliardi di euro: dovrebbero in alternativa raccogliere 35 miliardi di capitale fresco, perché la situazione possa essere ritenuta “gestibile”», scrive Evans-Pritchard. «Si tratta di un problema nevralgico, per l’Italia, dove le banche possiedono 400 miliardi di euro di debito pubblico e hanno effettivamente utilizzato i fondi della Banca Centrale Europea per sostenere il Tesoro italiano».Per ora, Mario Draghi ha aggirato la questione: «E’ un problema con cui abbiamo a che fare: è necessario un approccio ponderato e graduale». Ma il Portogallo è già nell’occhio del ciclone, sottolinea Pritchard: Lisbona deve affrontare sia un rallentamento dell’economia che uno scontro con Bruxelles sull’austerità. Lo spread portoghese è salito a 410 punti-base rispetto a quello tedesco, spingendo gli oneri finanziari a livelli insostenibili. Il debito pubblico del Portogallo è al 132% del Pil, mentre l’indebitamento totale è al 341%, il più alto d’Europa. Il paese è caduto nella trappola del debito-deflazione e, per poterne sfuggire, avrebbe bisogno di anni e anni di forte crescita. Il paese «potrebbe perdere l’accesso al mercato finanziario», ha dichiarato Mark Dowding, della “Blue Bay”. «Abbiamo visto una situazione molto brutta, la scorsa settimana. I grandi Fondi statunitensi che avevano investito nei titoli di Stato portoghesi stanno cercando di uscire da quelle posizioni. Con i riscatti che sono in corso, si tratta di una vera e propria ‘tempesta perfetta’». Se la crisi dovesse perdurare, aggiunge Evans-Pritchard, le preoccupazioni per un nuovo salvataggio della Troika – e per le condizioni che sarebbero imposte – potrebbero rapidamente prendere piede.Il “German Council” ritiene che lo speciale status normativo del “debito sovrano” posseduto dalle banche debba essere eliminato: chi detiene bond pubblici deve “rischiare” il proprio capitale. Peccato che – con l’euro – l’emissione di titoli è l’unico strumento di finanziamento dello Stato. Proprio la finanza pubblica, la sovranità nazionale democratica, è il grande obiettivo dell’operazione-Eurozona, che punta a demolire l’interesse pubblico sabotando la capacità finanziaria dello Stato per consegnare il sistema al pieno dominio dell’élite economico-finanziaria. Il piano-Schäuble vuole che i titoli di Stato non siano più “sicuri”, garantiti dal Tesoro, ma condizionati alle coperture bancarie, come qualsiasi obbligazione privata. Sicché, «i rischi maggiori sono per le banche di Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia». L’obiettivo dichiarato, naturalmente, è un altro: ridurre il legame fra “debito sovrano” e banche attraverso una separazione parziale, per prevenire che le crisi del debito pubblico possano diffondersi e “smontare” i sistemi bancari nazionali. Ma la verità è ben diversa: il piano mira proprio a indebolire i sistemi nazionali.Per Bofinger, il vero problema è che la Germania e i paesi-creditori dell’Eurozona si rifiutano di accettare le implicazioni di una vera unione monetaria, cioè la condivisione del debito e l’unione fiscale. A suo parere, la nozione di “meccanismo d’insolvenza sovrana” è interpretata in modo sbagliato: «Perpetua la bufala che la radice della crisi sia negli abusi fiscali dei governi». In realtà, annota Evans-Pritchard, il debito pubblico è esploso nel 2008 perché i paesi in crisi hanno dovuto prendere misure d’emergenza per evitare il collasso delle loro economie, dopo il crack Lehman a Wall Street. Ma quello era solo l’ultimo capitolo. Il problema è a monte, come spiega l’economista democratico e sovranista Nino Galloni: il dramma, per l’Italia (crisi e declino, deindustrializzazione) cominciò nel lontano 1981, quando – ben prima dell’adozione dell’euro – il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi tagliarono il cordone ombelicale tra Banca d’Italia e bilancio: da quel momento, la banca centrale smise di essere il “bancomat del governo”, a costo zero, e lo Stato dovette affidarsi alla finanza privata, cui vendere titoli di Stato, a beneficio esclusivo degli “investitori” e dei loro interessi.L’euro ha reso “sistemico” il quadro, sprofondando l’Europa in una crisi senza precedenti, con disoccupazione mai vista dal dopoguerra. Ora, il nuovo piano dei tedeschi consentirebbe inoltre agli investitori privati di agire come “giudici” della solvibilità degli Stati, sottolinea Evans-Pritchard. La pensa così anche Peter Bofinger, che avverte: «Non possiamo consentire un sistema in cui i mercati diventano padroni dei governi». Il “German Council” è «alquanto sprezzante nelle sue conclusioni», annota il giornalista economico inglese. «Ha schiacciato qualsiasi discorso relativo ad un Tesoro o ad un’Autorità Fiscale condivisa: l’unico modo per sostenere l’unione monetaria è di imporre un controllo rigoroso e di rafforzare le norme esistenti». Con buona pace dell’Europa che affonda, con il suo euro, e con politici che ancora evitano di denunciare apertamente la tragedia innescata dalla moneta europea a controllo tedesco.Euro e Germania, ultimo capitolo della catastrofe: «Se fossi un politico italiano vorrei tornare alla mia moneta il più velocemente possibile: è questo l’unico modo per evitare la bancarotta». Parola di Peter Bofinger, uno dei cinque “saggi” del supremo consiglio economico del governo tedesco, secondo cui il nuovo piano di Berlino sul taglio dei debiti “sovrani” nell’Eurozona, con la fine delle garanzie pubbliche sui titoli di Stato, innescherà l’inarrestabile crisi delle obbligazioni europee e potrebbe costringere l’Italia e la Spagna a ripristinare le loro valute. «E’ il modo più veloce per porre fine all’Eurozona», dichiara al “Telegraph” il professor Bofinger, che spiega: «Potrebbe arrivare molto velocemente un attacco speculativo». Per questo, aggiunge, l’unica via d’uscita è il ritorno alla moneta nazionale. Tutto questo, dopo che il “German Council of Econonomic Advisers” ha chiesto l’introduzione di uno specifico meccanismo da attivare per eventuali “insolvenze sovrane”, anche a costo di sovvertire i principi finanziari dell’“ordine del dopoguerra’ in Europa. Stop ai bail-out, i salvataggi statali, proprio come previsto dal Trattato di Maastricht.
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Trivelle e banditi alle Tremiti: a chi diamo il nostro mare?
Petroceltic, chi è costei? Se uno legge la lista delle ditte che vogliono, vorrebbero o hanno già trivellato l’Italia, ci si accorgerà che molte di queste hanno nomi sconosciuti, sono piccole, con pochi capitali sociali, e che pensano di venire in Italia a fare il salto di qualità perché abbiamo “regimi fiscali favorevoli”. Lo dicono loro. Fra queste la Petroceltic di Dublino, la ditta a cui il nostro governo ha deciso di affidare i mari attorno alle isole Tremiti con la concessione Br 274 El. A leggere i comunicati degli investitori emerge che questa Petroceltic è assolutamente piegata in due, da debiti, azionisti senza scrupoli, accuse di frode e corruzione, crollo dei prezzi del petrolio e non sanno più dove andare a parare. Hanno debiti per 200 milioni di dollari che non sono riusciti a ripagare. Basta solo dire che il 23 dicembre 2015, il giorno dopo la firma dei nostri decreti ministeriali, ha iniziato a cercare potenziali acquirenti. La liquidità finirà entro gennaio 2016. Cioè abbiamo dato il mare delle Tremiti a una ditta sul lastrico che sta quasi per fallire.Le banche che si occupano della messa in vendita della Petroceltic sono la Bank of America Merrill Lynch e la Davy Corporate Finance. Stanno vagliando tutte le opzioni: la vendita in toto dei vari permessi di ricerca al miglior offerente, la fusione con altre ditte, o anche l’infusione di capitale con altri debiti e offerte pubbliche. Il valore delle azioni nel solo 2015 è crollato del 77%. Ma come si è arrivati fin qui? Il principale investitore della Petroceltic si chiama Worldview Capital Management ed è una ditta di hedge funds. Detiene il 29% di azioni della Petroceltic ed è guidata da Angelo Moskov. A febbraio 2015 la Petroceltic, a causa dei troppi debiti, decide di vendere obbligazioni per 175 milioni di dollari usando come collaterale Ain Tsila, un campo di gas in Algeria e forse il suo progetto più ambizioso.Moskov si oppone: secondo la Worldview questo passo questo avrebbe lasciato gli azionisti con guadagni derisori. Disse: «Come previsto dalla Worldview nella sua circolare Emg emessa nel febbraio 2015, Petroceltic sembra essere ora a corto di soldi. Di conseguenza si propone di impegnare il fiore all’occhiello della società, vale a dire la sua partecipazione all’attività Ain Tsila, per $ 175.000.000 emissioni obbligazionarie come garanzia. A nostro avviso, questo si tradurrà in un valore sperperato per gli azionisti.Alla luce della storia passata della società fatta di gestione finanziaria molto scadente e false affermazioni, Worldview è estremamente preoccupata che tale emissione di obbligazioni sarà pericolosa per gli azionisti. A causa della costante incapacità della società di produrre flussi finanziari sufficienti, di procedere con l’emissione di obbligazioni nei termini annunciati sarebbe, a nostro avviso, probabilmente risultato in obbligazionisti infine garantire l’attività di classe mondiale per una somma irrisoria».La Petroceltic rinuncia. Le azioni crollano ancora. La Worldview denuncia la Petroceltic in tribunali d’Irlanda e d’Inghilterra per errori nelle revisioni interne. La causa è ancora aperta.Il 20 agosto 2015 la Worldview accusa la Petroceltic di frode e di corruzione in seguito alla creazione di schemi per defraudare la compagnia dall’interno, con fatture gonfiate a Ain Tsila in Algeria. La Petroceltic risponde accusando il suo principale investitore Worldview di una campagna di denigrazione e di sottrarsi al dialogo. Hanno paura che la Worldview possa accaparrarsi il 100% delle azioni e che questa sia una campagnia per l’acquisizione della Petroceltic a pochi spiccioli. Il 17 settembre 2015 la Worldview accusa ancora la Petroceltic di irregolarità in Bulgaria: dirigenti di medio livello avrebbero creato anche qui canali per il trasferimento illegale di fondi della compagnia in mano di terzi, tramite sussidiarie egiziane, bulgare e lussembughesi. E poi il 23 dicembre 2015 finiscono i soldi e si mettono in vendita.Ecco, questa è la Petroceltic d’Irlanda in questo momento. Perché le abbiamo affidato le isole Tremiti senza neanche indagare su che fondi avessero, che o chi fossero? Io non so chi abbia ragione in questa lotta fraticida fra la casa madre e Worldview, ma certo è che è assolutamente folle dare loro un pezzo del nostro mare. Caro Matteo Renzi, veramente vogliamo una ditta squattrinata, guidata da gente senza scrupoli a trivellare in uno dei mari più belli d’Italia?(Maria Rita d’Orsogna, “Trivellazioni alle Tremiti: debiti e accuse di frode per la Petrolceltic. A chi diamo il nostro mare?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 12 gennaio 2016).Petroceltic, chi è costei? Se uno legge la lista delle ditte che vogliono, vorrebbero o hanno già trivellato l’Italia, ci si accorgerà che molte di queste hanno nomi sconosciuti, sono piccole, con pochi capitali sociali, e che pensano di venire in Italia a fare il salto di qualità perché abbiamo “regimi fiscali favorevoli”. Lo dicono loro. Fra queste la Petroceltic di Dublino, la ditta a cui il nostro governo ha deciso di affidare i mari attorno alle isole Tremiti con la concessione Br 274 El. A leggere i comunicati degli investitori emerge che questa Petroceltic è assolutamente piegata in due, da debiti, azionisti senza scrupoli, accuse di frode e corruzione, crollo dei prezzi del petrolio e non sanno più dove andare a parare. Hanno debiti per 200 milioni di dollari che non sono riusciti a ripagare. Basta solo dire che il 23 dicembre 2015, il giorno dopo la firma dei nostri decreti ministeriali, ha iniziato a cercare potenziali acquirenti. La liquidità finirà entro gennaio 2016. Cioè abbiamo dato il mare delle Tremiti a una ditta sul lastrico che sta quasi per fallire.
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Tasse: maxi-sconto a Apple (tanto, il resto lo paghiamo noi)
La propaganda di regime presenta come un grande successo del governo il fatto che la Apple si sia accordata con il fisco italiano per pagare una parte delle tasse finora eluse. Vediamo i conti. Con il trucco della sede fiscale all’estero, pare in Irlanda, la casa della mela morsa non ha pagato allo stato italiano 880 milioni di euro. Ora l’accordo raggiunto prevede il saldo di 318 milioni di euro. Cioè la Apple risparmia definitivamente 562 milioni di euro di tasse dovute che non pagherà mai… Sono una montagna di soldi con cui si potrebbero sostenere un bel po’ di servizi pubblici che invece dovranno subire altri tagli. Quello della Apple non è un caso isolato, la Fca di Marchionne ha trasferito sede fiscale in Gran Bretagna, anche se promette di pagare le tasse in Italia per la produzione locale. Tutte le imprese multinazionali produttive e finanziarie fanno così e sia chiaro che l’evasione fiscale in Europa non avviene trasferendo le sedi alle Isole Cayman, ma giocando tra i paesi della stessa Unione.L’Ikea, con un semplice meccanismo di sedi legali e scatole cinesi tra le sue società tutte dentro la Ue è riuscita a pagare su alcuni miliardi di profitti lo 0,08 % di tasse. Il presidente della commissione Ue Juncker è stato capo del governo in quel Lussemburgo sotto inchiesta per la colossale evasione multinazionale che ha fatto del Granducato la sua patria. Insomma il grande capitale non paga le tasse, e quando proprio gli tocca, lo fa sempre a condizioni di favore. Come del resto succede a tutti i ricchi evasori che portano i soldi a Montecarlo o in Svizzera e che, se scoperti o se si pentono e decidono di tornare alla legalità, se la cavano come la Apple versando un terzo del dovuto. Pensiamo ora invece a Giuseppe Pintossi, operaio metalmeccanico a cui per varie ragioni Equitalia abbia inviato una cartella con la richiesta di 880 euro di tasse arretrate e non pagate. Pintossi vorrebbe anche lui fare come la Apple e quindi vorrebbe chiedere all’agenzia di chiuderla con 318 euro. Anche perché quei 562 euro di tasse risparmiate, alla sua famiglia servirebbero proprio per vivere.Invece sappiamo benissimo come andrà a finire. L’operaio metalmeccanico se fortunato se la caverà pagando 1000 euro di tasse e multe. Se poi dovesse ostinarsi a tirarla in lungo, finirebbe per pagare molto, molto di più delle tasse che gli vengono contestate. Il nostro fisco oggi opera secondo un regime di classe brutale, che ha lo stesso metro di misura dello sceriffo di Nottingham. L’Unione Europea, contrariamente a quanto afferma la propaganda di regime, ha accentuato, razionalizzato e generalizzato quella regola: rubare ai poveri per donare ai ricchi. E così le tasse diventano sempre di più il costosissimo lusso imposto a chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese.(Giorgio Cremaschi, “Le tasse sono il lusso dei poveri”, da “Micromega” dell’8 gennaio 2016).La propaganda di regime presenta come un grande successo del governo il fatto che la Apple si sia accordata con il fisco italiano per pagare una parte delle tasse finora eluse. Vediamo i conti. Con il trucco della sede fiscale all’estero, pare in Irlanda, la casa della mela morsa non ha pagato allo stato italiano 880 milioni di euro. Ora l’accordo raggiunto prevede il saldo di 318 milioni di euro. Cioè la Apple risparmia definitivamente 562 milioni di euro di tasse dovute che non pagherà mai… Sono una montagna di soldi con cui si potrebbero sostenere un bel po’ di servizi pubblici che invece dovranno subire altri tagli. Quello della Apple non è un caso isolato, la Fca di Marchionne ha trasferito sede fiscale in Gran Bretagna, anche se promette di pagare le tasse in Italia per la produzione locale. Tutte le imprese multinazionali produttive e finanziarie fanno così e sia chiaro che l’evasione fiscale in Europa non avviene trasferendo le sedi alle Isole Cayman, ma giocando tra i paesi della stessa Unione.
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Berlino: guerra alle nostre banche (le loro, salvate da noi)
La Germania non vuole che l’Italia salvi le sue banche traballanti, anche se il nostro paese ha contribuito al salvataggio di Grecia, Irlanda, Islanda e Portogallo, mettendo al sicuro la finanza tedesca. E’ una dichiarazione di guerra, quella che ha raccolto Federico Fubini sul “Corriere della Sera”, da parte di Lars Feld, uno dei “cinque saggi” che consigliano il governo tedesco e probabilmente il più vicino al ministro delle finanze Wolfgang Schäuble. Feld pretende che l’Italia ricorra al bail-in, senza misericordia. Bail-in, spiega il “Foglio”, significa «azzerare o tagliare il valore delle azioni, di tutte le obbligazioni e dei saldi di conto corrente per la parte sopra i 100.000 euro, fino a ridurre del 12% le passività di qualunque banca che riceva un aiuto di Stato». È la nuova legislazione europea, voluta dalla Germania, che entra in vigore il 1° gennaio. Fubini domanda: «Lei prevede che in Italia ci sarà bail-in dei conti correnti, quindi contagio e poi una richiesta di aiuto al fondo salvataggi, con l’arrivo della Troika?». Feld risponde: «Prevedo un pieno bail-in. I tagli alle obbligazioni e ai conti correnti sopra i 100.000 euro dovranno aiutare a ristrutturare le banche, perché la Commissione Ue impedirà salvataggi da parte del governo o sussidi nascosti agli istituti. Non saranno permessi».
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Gallino: con l’euro ci stanno facendo tornare al medioevo
«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».È possibile che il capitalismo attuale sia in una stagnazione senza fine, dichiara Gallino a Giacomo Russo Spena in un’intervista pubblicata da “Micromega”. Difficile che il sistema riprenda una marcia espansiva come se nulla fosse successo in questi anni: «Con la finanziarizzazione dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la distruzione del nostro sistema ecologico». Ovvero: «Per ottemperare alla crisi, il capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento. Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il surriscaldamento del pianeta». I progressi intrapresi con il Protocollo di Kyoto? «I paesi sono lontani dal mantenere gli obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti: l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni».Gallino narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a questo punto? «Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super-ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato totalmente in crisi». In gioco, aggiunge il sociologo, non c’è soltanto la demolizione del welfare, ma «la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante, soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l’ordoliberalismo», regolato da una ferra disciplina sociale a vantaggio dei più ricchi.A proposito delle ricette economiche adottate per affrontare la crisi, nel libro scrive che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità. «I governi dei paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno utilizzato modelli vecchi e superati». Un esempio italiano? «Nella nuova riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni ’90». Un’altra follia, continua Gallino, è l’aver avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile. «In questa lunga discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi».Con il terremoto finanziario ha “perso” l’idea di uguaglianza. Un dato su tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà in Europa. Sempre il 28, scrive Russo Speana, è la crescita del fatturato delle aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non per tutti? «Nei maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato che l’enorme diseguaglianza non è la causa ma l’effetto delle politiche di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi». Vie d’uscita? Una sola, ovvero «il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico».Nulla che sia all’orizzonte, però. Anche se, recentemente, si stanno sviluppando «esempi di resistenza» e “pensatoi” di studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità. Ma, appunto, «siamo lontani da un effettivo cambiamento dello status quo». In realtà, servirebbe «un segnale di rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni, hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione: l’intero sistema doveva essere ristrutturato come un’impresa che crea e accumula “capitale umano”». La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia? «Sicuramente, basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell’euro».La moneta unica, aggiunge lo studioso, «si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente contribuito a ridurre gli scarti tra un’economia e l’altra in termini di ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale». Gallino si dichiara apertamente no-euro: «Decisamente sì, lo sono da anni». E spiega: «Ci vuole un intervento radicale», anche se sa benissimo che l’uscita dalla moneta unica è «complessa e difficile», quindi «va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles». Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea? Questo no: «Uscire dall’Europa sarebbe, per l’Italia, un disastro economico per via dei cambi che si scatenerebbero contro di noi». Gallino è «favorevole ad una graduale uscita dall’euro, rimanendo però nell’Unione Europea». Sottolienea come sia «tecnicamente possibile», e si impegna a dimostrarlo in un “paper” che presenterà a breve.Russo Spena si domanda se «una sinistra degna di questo nome» non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale. Già, ma quale sinistra? «Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?». Anche in Italia «ci sono dei segmenti», però «sono ininfluenti, soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste», chiarisce Gallino. E Syriza, Podemos, il Sinn Fein e le altre forze della sinistra europea? Nient’altro che «segnali di incoraggiamento», verso i quali Gallino resta cauto: «Bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche d’austerity. Tifo per loro senza illusioni». Poco allegro, dunque, l’orizzonte per i giovani. «Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità». Un messaggio ai ragazzi? «Se volete avere qualche speranza… studiate, studiate, studiate».«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».
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Mini: è tutto falso, in questa guerra (mondiale) per bande
Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità”, tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla Seconda Guerra Mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga, più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”.Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile.Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo: «Ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no».Le basi degli Usa in Italia non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare. Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.La guerra si è evoluta nel corso dei secoli; adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo? Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo Stato.Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: «E’ una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa». Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione Europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili.Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della Voa (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, Internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma “Confucio”, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctor del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo).Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario, pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale, è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: «Stiamo perdendo la guerra della narrativa». Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno Stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese.La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito ( e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Iraq e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno, tra trent’anni i segreti di Stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.(Fabio Mini, dichiarazioni rilasciate a Enzo Pennetta per l’intervista pubblicata su “Critica Scientifica” del 6 agosto 2015. Generale di Corpo d’Armata, già capo di stato maggiore della Nato, capo del comando interforze delle operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo, Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari. Il libro: Fabio Mini, “La guerra spiegata a.”, Einaudi, 171 pagine, 12 euro).Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.
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Casa, tasse, debiti: ecco come l’euro ha spolpato gli italiani
Beniamino Andreatta spiegava nel 1995 perchè bisognava liberarsi della lira e affidare la politica monetaria a qualcuno “a duemila chilometri dal Parlamento italiano”, cioè a Francoforte. Il discorso di Andreatta è lineare, semplice che lo capisce anche la casalinga e ha una sua logica che convince. E’ sostanzialmente quello a cui aderiscono ancora oggi la maggioranza dei professori di economia italiani, da Monti a Draghi (che una volta era professore) a Gianpaolo Galli, a Rainer Masera, a Riccardo Puglisi, a Tommaso Monacelli a Michele Boldrin, Alberto Bisin, Salvatore Brusco. Il succo del discorso è che la lira è una moneta soggetta a svalutazione e inflazione e quindi comporta un costo del denaro molto elevato, perchè appunto chi presta soldi in lire sa che poi queste si svaluteranno e quindi chiede tassi di interesse alti. Andreatta dice che, liberandosi della lira, i tassi di interesse si ridurranno del 4% e questo costo del denaro più basso consentirà più spesa e investimenti.Ora che sono passati venti anni è più facile vedere l’errore di Andreatta. Nel 1995 i tassi di interesse erano in effetti alti sui Btp, e gli interessi sul debito pubblico si mangiavano il 10% del Pil e il 18% della spesa pubblica. Ma questi alti tassi venivano pagati per il 90% a famiglie (e imprese) italiane. Con l’euro, la maggioranza degli interessi sono andati a investitori esteri (che sono arrivati a detenere la maggioranza dei Btp). Oggi la maggioranza dei titoli di Stato sono in mano a banche, banche centrali e investitori esteri. E gli italiani che avevano Btp nel 1995 dove hanno messo i soldi? In maggioranza negli immobili, che sono raddoppiati di prezzo in termini reali da allora. Semplificando un poco, prima dell’euro, una casa costava 200 milioni di lire e i Btp pagavano un 10%, per cui le famiglie incassavano queste cedole e quando compravano casa avevano i soldi anche senza fare mutui all’80%. Con l’euro le famiglie hanno venduto i Btp e comprato case che costavano 200.000 euro (il doppio) facendo mutui all’80%, case che poi si sono deprezzate e su cui ora pagano l’Imu.Con l’euro il debito di famiglie e imprese è aumentato di più del 100%, da 900 a 2.000 miliardi, e come si sa il grosso dell’aumento è stato dovuto ai mutui per la casa. Tenendo conto dell’inflazione annuale, il debito privato è aumentato dal 90% circa al 130% circa del Pil. Questo è successo in praticamente tutti i paesi europei, dalla Finlandia alla Spagna, dalla Grecia all’Irlanda alla Francia (unica eccezione la Germania). Dal 1995, quando Andreatta parlava di liberarsi della lira, l’inflazione è scesa dal 6-7% al 2-3% negli anni dell’euro, quindi di un 3-4% (quasi come prevedeva Andreatta). Poi però l’inflazione è scesa anche sotto zero, e ora è circa uno 0%. I tassi sui Bot sono sprofondati allo 0% e quelli sui Btp all’1,8%. Il motivo però non è solo l’euro, ma anche e soprattutto il fatto che ora la Banca Centrale Europea e Bankitalia STANNO STAMPANDO MONETA PER COMPRARE BTP stanno stampando moneta per comprare Btp. Cioè stanno ora facendo esattamente quello che Andreatta diceva fosse la disgrazia della lira e che non sarebbe mai successo con l’euro. Se la banca centrale non stampasse moneta per comprare debito, il costo del Btp non sarebbe meno del 2%, ma probabilmente il 4 o 5% perchè incorporerebbe il rischio di default.Come mai? Perché con l’euro la produzione industriale è crollata in cinque anni del -25% e la spesa per consumi del -9% e così il Pil reale. Il motivo del crollo della produzione, del reddito e del Pil è che da quando è stato lanciato il progetto dell’euro, intorno al 1994-1995, la tassazione è diventata sempre più soffocante e ha costretto famiglie e imprese a indebitarsi. La tassazione è stata aumentata costantemente dai governi Amato, Ciampi, Dini e poi Prodi e anche Berlusconi, per finire con Monti per rientrare nei parametri dell’euro e poi per rassicurare gli investitori che il debito pubblico in euro sarebbe stato ripagato. Le cose sono andate in senso quasi opposto a quello che prevedeva Andreatta. Innanzitutto nel suo discorso non menzionava il costo REALE DEL DENARO reale del denaro, cioè il tasso d’interesse meno l’inflazione. Nel 1995 il costo reale era sul 4% perchè appunto i tassi d’interesse erano alti (intorno al 10%), ma anche l’inflazione era alta (intorno al 6%). Oggi questo costo del denaro non è quasi cambiato; per lo Stato ad esempio il costo medio del debito è il 3,8% ma l’inflazione è zero, quindi il costo reale è sempre intorno al 4%.Che il costo del denaro sia sceso con l’euro è un illusione, perchè se l’inflazione va da 6% a 0% ovviamente il costo reale non cala. Intanto però come si è visto si è accumulato molto più debito in percentuale del reddito, perchè senza crescita e senza inflazione il reddito o prodotto nazionale in euro è sempre lo stesso ormai da 10 anni. Il debito però ha un costo annuale reale appunto del 4% anche adesso che lo fa salire come percentuale del reddito. Per cui il risultato finale è che il peso reale del debito rispetto al reddito aumenta ora sempre. Al tempo in cui parlava Andreatta (1995) il peso reale del debito non aumentava, perchè sia il reddito reale che l’inflazione aumentavano, il Pil nominale dell’Italia aumentava in media negli anni ‘90 dell’8-10% l’anno, in cui per 3/4 era effetto dell’inflazione, ma questo impediva al debito di aumentare in proporzione.Il discorso di Andreatta è errato essenzialmente perchè per lui è come se il debito e le banche non esistessero e la moneta la creasse lo Stato quando spende troppo. In realtà, con l’euro si vieta allo Stato di creare moneta tramite i deficit, per cui le banche creano quasi tutto il denaro sotto forma di debito. Con Andreatta (e gli altri come lui) si è impedito allo Stato di fare deficit finanziati con moneta, qualcosa che è stato implementato in Italia in due stadi, prima nel 1981 vietando a Bankitalia di comprare debito e poi appunto con il Trattato di Maastricht. Questo è il principio base dell’euro, ma significa che devi anche aumentare le tasse per pagare gli interessi sul debito in euro, e in secondo luogo che tutto il denaro lo creano le banche come debito. Questo fa aumentare il peso del debito, rallenta l’economia, crea anche deflazione, aumenta ancora il peso del debito, aumenta il rischio di default e poi inevitabilmente devi anche aumentare le tasse con l’austerità per garantire dal rischio di default.Con l’euro si è creato un meccanismo in cui il debito privato aumenta fino al punto in cui si ha una crisi, le banche hanno perdite e riducono il credito, l’economia si ferma, l’inflazione si azzera, aumenta il peso reale del debito, aumenta il rischio di default, si impone l’austerità. E questo circolo vizioso di aumento del peso reale del debito, aumento di tassazione, deflazione e crisi non si ferma più. Ora, nell’ultimo anno qualcosa è effettivamente migliorato, ma perchè? Perchè la Banca Centrale Europea e Bankitalia stanno stampando moneta per comprare debito, riducendone sia il costo che l’ammontare. Cioè stanno facendo ora, nel 2015, quello che Andreatta nel 1995 diceva fosse il male dell’Italia, per evitare il quale ci si doveva liberare della lira. La conclusione è che abbiamo perso 20 anni e subito una crisi devastante perchè si è cercato di impedire che lo Stato facesse quello che deve fare, cioè creare moneta in quantità sufficiente perchè l’economia funzioni.(“Beniamino Andreatta 1995, liberiamoci della lira”, da “MonetAzione” del 31 luglio 2015Beniamino Andreatta spiegava nel 1995 perchè bisognava liberarsi della lira e affidare la politica monetaria a qualcuno “a duemila chilometri dal Parlamento italiano”, cioè a Francoforte. Il discorso di Andreatta è lineare, semplice che lo capisce anche la casalinga e ha una sua logica che convince. E’ sostanzialmente quello a cui aderiscono ancora oggi la maggioranza dei professori di economia italiani, da Monti a Draghi (che una volta era professore) a Gianpaolo Galli, a Rainer Masera, a Riccardo Puglisi, a Tommaso Monacelli a Michele Boldrin, Alberto Bisin, Salvatore Brusco. Il succo del discorso è che la lira è una moneta soggetta a svalutazione e inflazione e quindi comporta un costo del denaro molto elevato, perchè appunto chi presta soldi in lire sa che poi queste si svaluteranno e quindi chiede tassi di interesse alti. Andreatta dice che, liberandosi della lira, i tassi di interesse si ridurranno del 4% e questo costo del denaro più basso consentirà più spesa e investimenti.
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La svolta di Grillo: basta euro, moneta sovrana o morte
«Il teatrino dell’euro proseguirà fino a quando lo vorranno gli americani, e cioè fino alla definitiva approvazione del Ttip con cui gli Usa assoggetteranno l’Europa in modo non dissimile da come l’euro ha assoggettato la periferia alla Germania». Otto anni dopo il crack di Wall Street, e a quattro anni di distanza dal funesto avvento di Monti, Beppe Grillo oltrepassa il Rubicone individuando finalmente il “nemico”, quello vero, cioè non la “casta dei ladri, della mafia e degli evasori” con cui il Movimento 5 Stelle ha finora intrattenuto il pubblico italiano. Il nemico è l’euro, l’Unione Europea che lo impone. Ma Bruxelles da sola non conta nulla. E nemmeno la Germania, che è solo il kapò del nuovo ordine europeo fondato sulla crisi, sulla paura e sulla rassegnazione punitiva. Il cervello della piovra è oltre oceano, dietro la maschera di quell’Obama che tanto preme, in ossequio ai suoi padroni, per imporre al vecchio continente la catastrofe del Trattato Transatlantico, grazie al quale gli Stati non saranno più liberi neppure di tutelare la salute dei loro cittadini: se la vedranno con tribunali di parte e avvocati d’affari, col potere di imporre micidiali sanzioni, nel caso avessero la malaugurata idea di proibire business velenosi e ostacolare industrie pericolose.Solo dopo lo schianto clamoroso della Grecia di Tispras, Beppe Grillo alza la testa, avendo a lungo ignorato ogni appello a costruire un’alternativa politica basata necessariamente su un’alternativa economica, partendo quindi dalla denuncia dell’euro come abominio monetario, puro strumento di dominazione congegnato da un’élite oligarchica che tutto privatizza, cominciando dalla moneta, per togliere allo Stato (e alla comunità pubblica dei cittadini) ogni residua ragion d’essere. In un post sul suo blog, il leader del M5S rompe gli indugi con un’analisi senza precedenti: dall’euro bisogna uscire di corsa, perché dentro la moneta unica europea non esiste possibilità di salvezza. Lo pensa anche Nigel Farage, il leader dell’Ukip, pronto a guidare la campagna referendaria del 2017 per spingere la Gran Bretagna fuori dall’Ue. Un altro referendum sarà indetto in Austria, sempre per chiedere l’uscita del paese dall’Unione Europea. Per non parlare della Francia, dove il Front National di Marine Le Pen minaccia l’uscita dall’Ue se a Parigi non sarà accordata l’uscita “morbida” dall’euro.Non da oggi, un economista di sinistra come Emiliano Brancaccio accusa l’Italia: non è stata mai neppure ventilata la minaccia di uscire dal mercato comune europeo, argomento che sarebbe fortissimo per costringere Germania e Ue ad accettare una revisione radicale dei terrificanti trattati europei. Se “Syriza” in Grecia e “Podemos” in Spagna continuano a fantasticare sulla possibilità di vivere nel benessere pur restando nell’Eurozona, in tutti questi anni il Movimento 5 Stelle è rimasto in silenzio, limitandosi a proporre il “reddito di cittadinanza” contro il rigore sociale imposto da Bruxelles e poi un referendum consultivo sulla moneta unica. Ora, di colpo, Grillo cambia marcia. Il premier greco? «Rifiutare a priori l’Euroexit è stata la sua condanna a morte: convinto, come il Pd, che si potesse spezzare il connubio “euro & austerità”, Tsipras ha finito per consegnare il suo paese, vassallo, nelle mani della Germania. Pensare di opporsi all’euro solo dall’interno presentandosi senza un esplicito piano-B di uscita ha infatti finito per privare la Grecia di ogni potere negoziale al tavolo dell’euro-debito».Aggiunge Grillo: solo Vendola, il Pd e i media ispirati da Scalfari e «dai nostalgici del manifesto di Ventotene», cioè il miraggio degli Stati Uniti d’Europa, «potevano credere ad un euro senza austerità». E oggi «sono costretti a continuare a far finta di crederci, pur di non dover ammettere l’opportunità di una uscita dopo sette anni di disastri economici». Lo stesso Grillo non brilla per tempismo: oggi, nel 2015, abbraccia le tesi sovraniste enunciate da Paolo Barnard a partire dal 2010. E lo fa dopo aver rifiutato – durante la nera stagione di Monti e Fornero – la consulenza di Warren Mosler e del team di ecomomisti della Modern Money Theory, gli stessi che permisero all’Argentina di liberarsi del cambio fisso col dollaro, che (esattamente come l’euro) condannava l’economia del paese. Ora, Grillo riconosce che «la conseguenza di questa catastrofe politica è davanti agli occhi di tutti». Ovvero: «Nazismo esplicito da parte di chi ha ridotto la periferia d’Europa a suo protettorato attraverso il debito, con ricorsi storici allarmanti». E poi: «Mutismo o esplicito supporto alla Germania da parte degli altri paesi europei vuoi per opportunismo (nord) o per subalternità (periferia)». E ancora: «Mercati finanziari che celebrano con nuovi massimi la fine della democrazia».La Grecia è tristemente eloquente: «Esproprio del patrimonio nazionale attraverso l’ipoteca di 50 miliardi di euro sui beni greci finiti nel fondo voluto da “Adolf” Schaeuble per passare all’incasso dei suoi crediti di guerra». Nessuna sorpresa: era tutto «studiato, previsto, pianificato nei minimi dettagli», perché «la Germania è sistematica nella sua strategia: prima crea un nuovo precedente e poi lo utilizza nella battaglia successiva imponendo decisioni via via più invasive della democrazia grazie al ‘chi tace acconsente’». Irlanda, Spagna e Portogallo «dovevano dimostrare che il rigore paga, sia in termini di riforme (tassazione per pagare gli interessi sul debito e svalutazione interna attraverso la compressione dei diritti dei lavoratori) che in termini di interessi sul debito riportati a casa e pagati col sangue dei paesi debitori». Per non parlare di Cipro, che «ha dimostrato che i depositi bancari, se serve, si possono attaccare, attingendo così non solo alle tasse sul reddito in nome dell’austerità, ma direttamente al patrimonio privato dei cittadini per ripagare il debito contratto».Con la Grecia, aggiunge il blog di Grillo, l’asticella è stata posta ancora più in alto, al punto di confiscare direttamente il patrimonio pubblico in un fondo la cui sede giuridica Schaeuble voleva inizialmente trasferire addirittura fuori dalla Grecia. «E’ l’Italia il destinatario finale di questi precedenti seminati lungo il percorso dell’euro-debito in nome della presunta irreversibilità dell’euro». E’ inutile far finta di non vederlo, aggiunge Grillo: «La Grecia offre dunque una nuova lezione per l’Italia, da cui faremmo bene ad imparare se vogliamo farci trovare pronti quando arriverà il nostro turno di debitori». Renzi? In questa fase storica è «una minaccia nazionale», perché è «un premier che argomenta bene contro l’austerity, ma che resta negazionista nei fatti sulla Euroexit, a digiuno di economia monetaria e con una strategia politica improvvisata». In altre parole: quello che è valso oggi per Tsipras «varrà domani per Renzi». Attenzione: «Un piano-B di uscita è essenziale per l’Italia, chiunque sia al governo», conclude Grillo. «Con un enorme debito pubblico e una economia manufatturiera orientata all’export è da irresponsabili non farsi trovare pronti ad una eventuale uscita, non necessariamente forzata da noi, ma eventualmente subita da decisioni altrui, visto che nessuno può prevedere il corso degli eventi».Ed è bene «non contare sugli altri», perché «quando arriverà il momento saremo soli». Proprio com’è successo a Tsipras, «che ha sbagliato i suoi conti sperando di trovare sostegno strada facendo dai cugini periferici, che invece si nascondevano nell’ombra del ‘questa volta non tocca a noi’». Secondo Grillo, il referendum proposto dal M5S tramite una legge di iniziativa popolare è «uno strumento essenziale», dal momento che «potrà servire a spiazzare l’avversario e a dare legittimità democratica all’Euroexit». Il leader dei 5 Stelle propone di «usare il nostro enorme debito come minaccia». Lo considera «un vantaggio che ci consente di attaccare al tavolo di ogni negoziazione futura», e non «uno spauracchio da subire per abbozzare alle richieste dei creditori». Questo, aggiunge Grillo, vuol dire «non consentire alcuna ingerenza tedesca nel nostro legittimo diritto di ridenominare il nostro debito in un’altra valuta, se e quando arriverà il momento». Grillo pensa sia anche necessario rafforzare, sa subito, gli istituti di credito italiani, perché «la minaccia di fallimento delle banche e la chiusura dei rubinetti della liquidità è ciò che alla fine ha fatto capitolare Tsipras».Grillo raccomanda addirittura di «prepararsi alla nazionalizzazione delle banche», oltre che «al passaggio ad un’altra moneta». Lo ritiene «il modo per non perdere la prima battaglia che dovremo affrontare quando arriverà il momento di staccarci dal bocchettone della Bce». Ogni piano-B, aggiunge, dovrà quindi prevedere l’introduzione di una moneta parallela, che all’evenienza potrà essere adottata per avviare il processo di uscita in maniera soft. Ancora più insolita l’analisi geopolitica di Grillo, che chiede di «tenere un occhio a Francoforte e l’altro a Washington», accusando direttamente l’élite statunitense di voler tenere in vita l’euro fino all’approvazione europea del Ttip, il trattato con gli Usa ridurranno in schiavitù l’Europa, così come ha finora fatto la Germania con l’arma della moneta unica creata su misura per Berlino. «L’euro e’ ormai una guerra esplicita tra creditori e debitori», chiosa Grillo, ormai allineato – meglio tardi che mai – alla lucida e solitaria denuncia di Barnard, rimasto inascoltato per molti anni.«E’ inutile che il nostro governo si sforzi di apparire schierato dalla parte virtuosa dei vincitori euristi e riformisti: l’euro – insiste il leader del Movimento 5 Stelle – non si può riformare dal suo interno e va invece combattuto dall’esterno, abbandonando questa camicia di forza anti-democratica». Il nostro debito è stato gonfiato dal ricorso alla finanza privata dopo il divorzio fra Tesoro e Bankitalia e poi è definitivamente esploso, restando fuori controllo, con l’adozione rovinosa della moneta “straniera”. La nostra assenza di crescita unita alla deflazione ci collocano a pieno titolo nella categoria degli sconfitti del debito? «Faremmo dunque bene a prepararci, con un governo esplicitamente anti-euro, all’assalto finale del patrimonio degli italiani», conclude Grillo. Patrimonio di famiglie e aziende ormai «sempre più a rischio, se non ci riprendiamo la nostra sovranità monetaria».«Il teatrino dell’euro proseguirà fino a quando lo vorranno gli americani, e cioè fino alla definitiva approvazione del Ttip con cui gli Usa assoggetteranno l’Europa in modo non dissimile da come l’euro ha assoggettato la periferia alla Germania». Otto anni dopo il crack di Wall Street, e a quattro anni di distanza dal funesto avvento di Monti, Beppe Grillo oltrepassa il Rubicone individuando finalmente il “nemico”, quello vero, cioè non la “casta dei ladri, della mafia e degli evasori” con cui il Movimento 5 Stelle ha finora intrattenuto il pubblico italiano. Il nemico è l’euro, l’Unione Europea che lo impone. Ma Bruxelles da sola non conta nulla. E nemmeno la Germania, che è solo il kapò del nuovo ordine europeo fondato sulla crisi, sulla paura e sulla rassegnazione punitiva. Il cervello della piovra è oltre oceano, dietro la maschera di quell’Obama che tanto preme, in ossequio ai suoi padroni, per imporre al vecchio continente la catastrofe del Trattato Transatlantico, grazie al quale gli Stati non saranno più liberi neppure di tutelare la salute dei loro cittadini: se la vedranno con tribunali di parte e avvocati d’affari, col potere di imporre micidiali sanzioni, nel caso avessero la malaugurata idea di proibire business velenosi e ostacolare industrie pericolose.
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Maastricht? Non ci risulta: la rovina dell’Italia siamo noi
L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.I governi che si sono succeduti a partire dagli anni ottanta, scrive Davanzati su “Micromega”, hanno rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria, fidando nella filosofia del “piccolo è bello”. La costante riduzione della domanda interna, aggiunge l’analista, è derivata non solo dalla riduzione di consumi e investimenti privati, «ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale». Chi e perché ha indotto quelle politiche? Davanzati non lo spiega, preferendo concentrarsi sul loro esito disastroso: i tagli alla spesa hanno indebolito il sistema e il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, mettendo in crisi la maggioranza delle aziende (medio-piccole), fortemente dipendenti dal credito bancario. Poi, la crisi dei mutui subprime negli Usa è rimbalzata nella cosiddetta crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona, con caduta della domanda globale, riduzioni dell’export, austerity, esplosione paurosa della disoccupazione.Unica mossa tentata: detassare e precarizzare il lavoro. Misura ingiusta e comunque insufficiente: «Se le aspettative sono pessimistiche gli investimenti non vengono effettuati e il solo effetto che può verificarsi è un aumento dei profitti netti». Giocare al ribasso, inoltre, disincentiva l’innovazione delle imprese. Servirebbe il contrario del Jobs Act, e cioè regole rigide e tutele per i dipendenti. Davanzati cita Keynes: «Se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale». In altri termini, sostiene Davanzati, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione che aiuta le imprese a migliorare e crescere, puntando proprio sull’innovazione, senza contare che salari più alti «contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo virtuoso di alta domanda ed elevata produttività».E’ esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio, chiosa Davanzati. Già, ma perché è accaduto? Italiani pasticcioni o traviati da manovratori occulti? Nino Galloni, economista della Sapienza e già super-tecnico al ministero del bilancio, chiarisce: prima ancora del terremoto della globalizzazione, i guai veri per l’Italia sono cominciati nel 1981, quando la Banca d’Italia ha cessato di fare da “bancomat del governo”, costringendo l’esecutivo ad avvalersi dei titoli di Stato, acquistati dalla finanza internazionale, come fonte primaria di finanziamento pubblico. Immediata l’esplosione del debito, divenuta catastrofica con l’adozione dell’euro, moneta non più emessa dall’Italia. Galloni sintetizza: l’Italia non stava sulla luna, ma nell’Europa in cui la Francia di Mitterrand impose l’euro alla Germania che voleva la riunificazione tedesca del 1989. Kohl accettò a una condizione: che venisse sabotato il sistema industriale italiano, cioè il maggior concorrente dell’export di Berlino. A valle, quindi, gli inevitabili “errori” nella politica industriale, gli “incomprensibili” ritardi, i fallimenti a catena.Craxi fu il primo a profetizzare che, con Maastricht, l’Italia ci avrebbe rimesso le penne. Andreotti provò a resistere. E Galloni racconta che lo stesso Kohl fece pressioni, personalmente, per allontanare dal governo i funzionari come Galloni, che i “titoli di coda” per l’economia nazionale li avevano già visti alla fine degli anni ‘80. Fino a qualche anno fa, il fatidico meeting del Britannia per la svendita dell’Italia e la sua deindustrializzazione forzata era relegato tra le pieghe della letteratura “cospirazionista”, così come le pagine di libri usciti in questi anni, per esempio “Il golpe inglese”, di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino (Chiarelettere). A bordo del Britannia nel ‘92 c’era Draghi, allora al Tesoro, poi promosso governatore di Bankitalia e oggi alla guida della Bce. Ciampi, al vertice della Banca d’Italia all’epoca del divorzio dal governo, venne eletto addirittura al Quirinale. Nessi impossibili da ignorare, a proposito di “strano” declino del made in Italy.Un altro luogo comune, citato dallo stesso Davanzati che parla di “ipertrofia” dell’apparato pubblico (in linea con la retorica padronale di Renzi), riguarda il presunto peso della pubblica amministrazione: secondo l’Eurispes, in Italia si contano 58 impiegati pubblici ogni 1.000 abitanti contro i 135 della Svezia, i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito, i 65 della Spagna e i 54 della Germania. Inoltre, negli ultimi 10 anni l’Italia ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri hanno assunto: +36,1% in Irlanda, +29,6% in Spagna, +12,8% in Belgio e +9,5% nel Regno Unito. Il pubblico impiego da noi pesa per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche in questo caso, la vituperata burocrazia pubblica italiana si attesta in realtà su numeri tra i più bassi in Europa: in Danimarca il costo del pubblico impiego è pari al 19,2% del Pil, in Svezia e Finlandia al 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del Pil. Tutti, ma proprio tutti, più dell’Italia.Paolo Barnard ha spesso citato analoghe statistiche sul tasso di produttività: quello dei lavoratori italiani surclassa, storicamente, la capacità produttiva dei mitici lavoratori tedeschi. Com’è noto, Barnard si distingue per l’acutezza spietata dall’analisi: il sabotaggio dell’economia italiana a vantaggio dell’élite finanziaria straniera, con la necessaria complicità di “collaborazionisti” nostrani ricompensati con carriere d’oro, si sviluppa negli ultimi decenni in perfetta ottemperanza del famigerato “Memorandum” di Lewis Powell, l’avvocato di Wall Street incaricato già all’inizio degli anni ‘70 di stilare un vademecum per consentire agli oligarchi di liquidare la sinistra negli Usa e in Europa. Istruzioni eseguite alla lettera: “comprare” i leader di partiti e sindacati per indurli a varare norme contro i lavoratori, infiltrare università, giornali, televisioni e sistema editoriale per forgiare il dogma del pensiero unico neoliberista, cioè la fine dello Stato sovrano, la Costituzione democratica nata dalla Resistenza per tutelare i cittadini con pari diritti e pari opportunità.Con Renzi siamo all’atto finale, la privatizzazione universale definitiva. Non manca chi invoca una politica diversa e magari salari più alti. Già, ma con che soldi? Senza più moneta sovrana, lo Stato ora è in bolletta ed è costretto a super-tassare: lo Stato “risparmia”, quindi condanna aziende e famiglie. Siamo arrivati al puro delirio del pareggio di bilancio: lo Stato ridotto a colonia, impossibilitato a spendere, costretto a restituire ogni centesimo e con gli interessi, come se non fosse più un ente pubblico ma una semplice azienda privata, una normale famiglia alle prese con un debito contratto con la banca. Eppure, il mainstream continua a trascurare la portata termonucleare dell’euro-cataclisma, la fine dell’interesse pubblico, la morte clinica degli investimenti capaci di produrre occupazione. E in pieno 2015 preferisce continuare a parlare di errori, ataviche pigrizie e imperdonabili miopie nella piccola e provinciale Italietta, incapace – per tara genetica – di sviluppare una seria politica industriale.L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.
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Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?
Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o vendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. «Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. «E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. «Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Morgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
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Troppi dipendenti pubblici? E’ una leggenda metropolitana
I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.Pura fantascienza, in Svezia, i 135 lavoratori pubblici ogni mille abitanti. Ci batte solo la “risparmiosa” Germania: il paese europeo che più di ogni altro ha compresso i salari e danneggiato i lavoratori annovera 54 dipendenti statali ogni mille cittadini, 4 meno dell’Italia. Secondo l’Eurispes, negli ultimi dieci anni il nostro paese ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri partner europei hanno assunto forza lavoro nel pubblico impiego: un incremento del 36,1% in Irlanda, del 29,6% in Spagna, del 12,8% in Belgio e del 9,5% nel Regno Unito. In Italia, gli stipendi del pubblico impiego pesano sul bilancio statale per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche qui siamo il fanalino di coda: per i dipendenti pubblici la Danimarca spende il 19,2% del suo Pil, la Svezia e la Finlandia il 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del loro prodotto interno lordo. Altra bufala storica: la concentrazione del pubblico impiego al Sud: con 409.000 addetti, la Lombardia batte persino il Lazio, nonostante la selva di uffici della capitale. Segue la Campania, ma dopo Milano e Roma.Quanto alla vita quotidiana dietro agli sportelli, sono dolori: l’età media dei dipendenti pubblici è in costante crescita, per colpa del blocco del turnover e dell’aumento dell’età pensionabile. In Francia, circa il 30% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni, nel Regno Unito gli “under 35” sono il 25% (uno su quattro) mentre in Italia solo il 10%. La percentuale di addetti sotto i 25 anni, inoltre, è pari all’1,3%: una miseria, rileva “Lettera 43”, nonché il segno che il rapporto fra le università e la pubblica amministrazione è tutt’altro che lineare. Roberto Perotti, economista della Bocconi, confronta i nostri stipendi pubblici con quelli del Regno Unito: «Le remunerazioni medie degli insegnanti sono più basse in Italia, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil pro capite». Nel nostro paese lo stipendio di un docente delle scuole elementari, incluse le indennità e le spese accessorie, è di 24.849 euro contro i 37.400 (in media) degli inglesi. Idem per gli insegnanti delle superiori: 28.547 euro, contro i 41.930 euro dei britannici. In compenso, nei ministeri, un nostro capo di gabinetto guadagna 275.000 euro l’anno contro i 192.000 del collega inglese, una differenza del 43%. E’ la casta, bellezza: quella che serve ad affondare il sistema, sabotando la “concorrenza” pubblica che tanto infastidisce l’élite privatizzatrice.I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.
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Die Welt: un tedesco su 6 non arriva più alla fine del mese
L’ufficio federale di statistica tedesco ha pubblicato dati allarmanti. Il rischio di impoverimento non è mai stato così alto. Addirittura 3,1 milioni di lavoratori guadagnano così poco da scivolare al di sotto della soglia di povertà. Il rischio di povertà è sensibilmente maggiore tra le donne che tra gli uomini. Per circa la metà dei colpiti (1,5 milioni), già una vacanza di 1 settimana all’anno fuori casa non rientra nelle possibilità. Quasi 600.000 poveri hanno rinunciato ad una autovettura propria perché non se la possono permettere. Questi dati si basano sulle indagini delle famiglie. «Il numero di lavoratori che con il loro reddito stanno appena sotto o appena sopra la soglia per le prestazioni Hartz-IV è spaventosamente alta», ha detto al giornale la presidente della Vdk (Sozial Verband Vdk Deutschland), Ulrike Mascher. Per molte di queste famiglie il sussidio è evidentemente insufficiente per superare in un certo qual modo le difficoltà. La responsabile delle politiche sul mercato del lavoro dei Linke, Sabine Zimmermann, chiede un rapido aumento del salario minimo a 10 euro.Per combattere il trend negativo serve inoltre, secondo la Zimmermann, introdurre dei limiti nei rapporti di lavoro, come anche arginare o abolire il lavoro interinale e i Minijob. Un’occhiata alle statistiche svela anche come ci siano grosse differenze regionali. Nel 2013 il rischio povertà era chiaramente più alto della Germania Orientale che nella ex Repubblica Federale. Il numero delle persone a rischio è del 19,8% nei nuovi Land e del 14,4% nella Germania occidentale, chiaramente superiore rispetto al valore degli anni scorsi. L’ufficio di statistica presenta i dati sul rischio di povertà sulla base del censimento del 2005. Da allora gli indici di povertà dell’est e dell’ovest si sono certamente avvicinati, tuttavia la minaccia della povertà rimane sensibilmente più alta nella Germania orientale. Nel 2005 il 20,4% dei tedeschi dell’est e il 13,2% dei tedeschi dell’ovest era ritenuto a rischio di povertà.In Germania sempre più lavoratori riescono, a quanto pare, a vivere a malapena col loro reddito. Come riferisce il “Saarbrücker Zeitung”, secondo i dati dell’ufficio federale di statistica, alla fine del 2013 circa 3,1 milioni di lavoratori percepiscono un reddito al di sotto della soglia di povertà. Nel 2008 erano almeno 2,5 milioni. E’ un aumento del 25%. Soprattutto la cosiddetta quota a rischio di povertà raggiunge il livello record di 16,1%. E’ considerato a rischio di povertà chi, compresi tutti i sussidi statali come, per esempio, fondi per la casa o per i figli, raggiunge meno del 60% del reddito medio. Nel 2013 la soglia era di 939 euro netti al mese. Per le famiglie con 2 figli si parla di soglia di povertà quando il reddito familiare netto è inferiore a 2.056 euro. Molti non ce la fanno ad andare in vacanza. Una analisi dettagliata delle statistiche ci offre una visione più precisa della sgradevole situazione di molti cittadini. Svela che nel 2013, 370.000 lavoratori poveri non sono riusciti a pagare l’affitto entro la scadenza, 417.000 hanno rinunciato ad un riscaldamento adeguato, e 538.000 hanno risparmiato sul cibo e si sono preparati un pasto completo soltanto un giorno ogni due.Nel 2005 Il pericolo di povertà è al minimo sia nel Baden-Wurttemberg che nella Baviera, è il più alto a Brema e nel Mecleburgo – Pomerania Anteriore. Nel 2013 il rischio di povertà è all’11,4% in Baden-Wurttenberg, e all’11,3 % in Baviera. A Brema e nel Meclemburgo è circa il doppio (24,6% Brema, 23,6 % Meclemburgo). A confronto con l’inizio della rilevazione nel 2005, il rischio di povertà è sceso con più vigore in Turingia e in Sassonia-Anhalt. E’ salito di più nel Nordreno-Vestfalia e a Berlino. Osservando le 15 città più popolose, il rischio povertà è il più basso a Monaco (11,4%) e a Stoccarda (13,4 %). Il più alto a Dortmund (26,4%) e a Lipsia (25,9%). Nel confronto col 2005 il rischio povertà è sceso ad Amburgo, Norimberga e Dresda. Nelle restanti città esaminate, il pericolo di povertà è salito dal 2005: l’aumento maggiore si è verificato a Duisburg, Dortmund, Düsseldorf e Colonia. Deludente è anche riconoscere che la Germania, col suo tasso di povertà medio del 16.1%, non se la cava bene in confronto all’Europa. Per la maggiore economia sociale e simbolo economico del continente non è certamente motivo di gloria che paesi come l’Irlanda, scossa dalla crisi, e la malata Francia, mostrino un tasso di povertà inferiore. Per non parlare di nazioni come i Paesi Bassi, la Norvegia (entrambi al 10.1%) o la Repubblica Ceca (9.6%), che chiaramente hanno punteggi migliori. Solo nazioni veramente in crisi come la Grecia (23.1%), la Spagna (22.2%) o l’Italia (19.4%) battono di molto la Germania.(Nando Sommerfeldt, “La povertà minaccia un tedesco su sei”, da “Die Welt” del 24 genaio 2015, tradotto da “Voci dal Mondo” e ripreso da “Blog-VoxPopuli”).L’ufficio federale di statistica tedesco ha pubblicato dati allarmanti. Il rischio di impoverimento non è mai stato così alto. Addirittura 3,1 milioni di lavoratori guadagnano così poco da scivolare al di sotto della soglia di povertà. Il rischio di povertà è sensibilmente maggiore tra le donne che tra gli uomini. Per circa la metà dei colpiti (1,5 milioni), già una vacanza di 1 settimana all’anno fuori casa non rientra nelle possibilità. Quasi 600.000 poveri hanno rinunciato ad una autovettura propria perché non se la possono permettere. Questi dati si basano sulle indagini delle famiglie. «Il numero di lavoratori che con il loro reddito stanno appena sotto o appena sopra la soglia per le prestazioni Hartz-IV è spaventosamente alta», ha detto al giornale la presidente della Vdk (Sozial Verband Vdk Deutschland), Ulrike Mascher. Per molte di queste famiglie il sussidio è evidentemente insufficiente per superare in un certo qual modo le difficoltà. La responsabile delle politiche sul mercato del lavoro dei Linke, Sabine Zimmermann, chiede un rapido aumento del salario minimo a 10 euro.