Archivio del Tag ‘legittimità’
-
Mea Shearim, l’altra Gerusalemme: ebrei contro Israele
Durante l’offensiva contro Gaza mi avevano stupita le fotografie di ebrei ortodossi che nelle grandi città protestavano a migliaia contro i bombardamenti sulla Striscia. Avendo letto che a guidare le manifestazioni erano esponenti di “Neturei Karta”, gruppo che si oppone con forza all’occupazione, mi ero ripromessa di approfondire l’argomento. La possibilità l’ho avuta in occasione di una mia recente visita a Mea Shearim, quartiere ebraico vicino alla città vecchia di Gerusalemme. Il quartiere, sconsigliato dalle guide turistiche e evitato anche dagli stessi israeliani, è popolato esclusivamente da ebrei ortodossi, fra i quali molte famiglie appartenenti al gruppo “Neturei Karta”. Visitare Mea Shearim è un’esperienza affascinante e straniante al tempo stesso; appena si mette piede nel quartiere si viene catapultati nel passato e avvolti da un’atmosfera che ricorda, a quanto pare, i villaggi ebraici di fine ottocento dell’est-europeo. Le vie sono affollate da uomini con lunghi riccioli ai lati del viso e abiti dalla foggia antica; pastrani neri, camicie bianche e cappelli a tesa larga o di pelliccia. Le donne vestono in modo dimesso, maglia a maniche lunghe e gonna lunga; quelle sposate hanno i capelli coperti da un foulard o una retina e sono seguite da stuoli di bambini ben vestiti.Per darvi un assaggio dell’atmosfera del quartiere vi propongo le fotografie scattate in occasione del Kaparot, cruento rituale che si tiene alla vigilia dello Yom Kippur, che quest’anno si è celebrato l’otto di ottobre. Gli ortodossi ritengono che facendo roteare un pollo vivo attorno alla testa di una persona, i peccati di quest’ultima vengano trasferiti all’animale. Quando il pollo viene macellato, lo sgorgare del suo sangue rappresenta simbolicamente l’espiazione dei peccati del fedele, che può così presentarsi puro davanti a Dio nelle 25 ore di digiuno e preghiera a cui si dedicherà durante il giorno di Yom Kippur. Nel quartiere di Mea Shearim bisogna muoversi con una certa cautela, attenti a non urtare la sensibilità degli abitanti, che hanno rinunciato a ogni forma di modernità e vivono seguendo le severe regole dettate dalle sacre scritture; regole che diventano ancor più restrittive durante lo Shabbat quando anche per i turisti vi è il divieto di scrivere, maneggiare soldi o usare un cellulare. I muri all’entrata sono tappezzati da manifesti che ricordano ai turisti che non sono i benvenuti e pregano di non disturbare la santità del quartiere e dello stile di vita di ebrei profondamente devoti a Dio e alla sua Torà.E’ capitato che gli abitanti abbiano aggredito verbalmente e addirittura anche fisicamente turisti che non erano vestiti in modo appropriato. In occasione della mia visita sono stata molto attenta al mio abbigliamento e ho potuto esplorare tranquillamente le vie di Mea Shearim, anche se non ho osato scattare fotografie. Il quartiere è molto povero; le facciate degli edifici sono vecchie e sporche, le botteghe sono anguste e espongono poca varietà di mercanzia eccettuati i negozi di “Judaica”, dove si vendono libri e oggettistica interamente dedicati alla cultura ebraica. Fra gli ebrei ultra-ortodossi c’è un altissimo tasso di disoccupazione e la maggior parte delle famiglie vive grazie ai sussidi; gli uomini sono principalmente dediti allo studio della Torà e del Talmud mentre le donne provvedono al sostentamento della famiglia e si occupano della prole, compito non da poco dal momento che a Mea Shearim la media è di sette bambini per nucleo famigliare.Purtroppo non sono stata in grado di distinguere gli appartenenti a Neturai Karta dagli altri ebrei ortodossi e mi sono resa conto che mi ci vorrebbero mesi per riuscire ad orientarmi nella vasta galassia dei gruppi religiosi che popolano Mea Shearim. Ad accomunarli è il rifiuto di prestare servizio militare. A marzo il Parlamento israeliano ha però reso il servizio di leva obbligatori anche per loro, malgrado la decisione sia sta ampiamente contestata. Qualche settimana prima, a Gerusalemme centinaia di migliaia di ebrei ortodossi erano scesi in piazza per manifestare. I ragazzi impugnavano cartelli che recitavano “Avete creato voi il problema fondando lo stato di Israele. Non chiedeteci di risolverlo facendoci arruolare nell’Idf!” La scritta è esemplare del forte sentimento anti-sionista che anima alcuni gruppi di ebrei ortodossi di Mea Shearim e nel quartiere si scorgono ovunque segni di anti-sionismo. Manifesti che richiamano al riconoscimento della città di Gerusalemme come capitale indivisibile della Palestina e parecchie bandiere palestinesi dipinte sui muri. Spicca inoltre la totale assenza di bandiere israeliane e non potrebbe essere altrimenti visto che gli abitanti del quartiere si rifiutano di riconoscere lo Stato di Israele.Anche i Neturei Karta, che in aramaico significa “I guardiani della città”, si oppongono decisamente all’esistenza stessa dello Stato e sono anche il gruppo più radicalmente anti-sionista. Le origini dei “Guardiani della città” risalgono ai primi del Novecento, quando una parte dei vecchi abitanti ebrei di Gerusalemme cominciò a organizzarsi per fronteggiare la minaccia dei nuovi immigrati sionisti, politicizzati e poco o nulla osservanti delle norme religiose. Nel tempo molti gruppi si sono avvicinati al sionismo, ma i “Guardiani della città” restano tenacemente impegnati nella contestazione dello Stato di Israele al punto che non si recano a pregare al Muro del pianto perché la ritengono terra occupata, così come Gerusalemme Est. Secondo la loro interpretazione delle scritture agli ebrei è proibito avere un proprio Stato fino alla venuta del Messia e ritengono che l’attuale stato di Israele rappresenti un affronto alla volontà divina. Ne chiedono quindi la dissoluzione e la restituzione della terra ai palestinesi.Questa solidarietà con i palestinesi ha attirato loro la persecuzione da parte di Israele al punto di spingere molti seguaci a lasciare il Paese. Altri hanno preferito emigrare per il rifiuto ideologico di vivere in uno Stato che ritengono illegittimo. Il mondo degli ebrei ortodossi è difficilmente accessibile, ma voglio tornare nel suggestivo quartiere di Mea Shearim in compagnia di una guida, per cercare di conoscere meglio la loro cultura e le loro usanze. E capire qualcosa in più anche dei “Guardiani della città”. Queste le parole che ho estrapolato da un loro proclama: “Noi vogliamo che tutta la terra palestinese sia restituita ad un governo palestinese. Noi vogliamo il ritorno di tutti i profughi umiliati, anziani e giovani, alla loro legittima patria. Noi vogliamo vivere nella terra della Palestina come ebrei anti-sionisti, risiedere qui come cittadini palestinesi leali e pacifici, così come i nostri avi che avevano vissuto in Palestina per secoli prima della tragica usurpazione di questo paese”.(“I guardiani della città”, dal blog “Dietro al Muro” del 16 ottobre 2014).Durante l’offensiva contro Gaza mi avevano stupita le fotografie di ebrei ortodossi che nelle grandi città protestavano a migliaia contro i bombardamenti sulla Striscia. Avendo letto che a guidare le manifestazioni erano esponenti di “Neturei Karta”, gruppo che si oppone con forza all’occupazione, mi ero ripromessa di approfondire l’argomento. La possibilità l’ho avuta in occasione di una mia recente visita a Mea Shearim, quartiere ebraico vicino alla città vecchia di Gerusalemme. Il quartiere, sconsigliato dalle guide turistiche e evitato anche dagli stessi israeliani, è popolato esclusivamente da ebrei ortodossi, fra i quali molte famiglie appartenenti al gruppo “Neturei Karta”. Visitare Mea Shearim è un’esperienza affascinante e straniante al tempo stesso; appena si mette piede nel quartiere si viene catapultati nel passato e avvolti da un’atmosfera che ricorda, a quanto pare, i villaggi ebraici di fine ottocento dell’est-europeo. Le vie sono affollate da uomini con lunghi riccioli ai lati del viso e abiti dalla foggia antica; pastrani neri, camicie bianche e cappelli a tesa larga o di pelliccia. Le donne vestono in modo dimesso, maglia a maniche lunghe e gonna lunga; quelle sposate hanno i capelli coperti da un foulard o una retina e sono seguite da stuoli di bambini ben vestiti.
-
Comodo vincere come i 5 Stelle, senza democrazia interna
Comodo, concorrere ad elezioni democratiche senza però avere il fastidio fisiologico della democrazia interna: «E’ come far aprire i negozi di parrucchiere ai cinesi, che non pagano nulla». Troppo facile: «Devi pagare il tuo dazio alla democrazia, se vuoi partecipare al governo di un sistema democratico». Non fa sconti, Gianfranco Carpeoro, al Movimento 5 Stelle che mette regolamente alla porta chi osa contestare il vertice, per poi magari puntare a un’intesa con gli ex avvesari, senza l’onestà politica di chiamarla con suo nome. «La cosa peggiore, nella costruzione di linguaggio del Movimento 5 Stelle è l’aspetto tautologico, per il quale basta cambiare il termine e si cambia il concetto», sostiene Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Fare un governo è sempre un contratto», ma i grillini fingono di non saperlo: «A loro ripugna la parola “alleanza”, mentre gli piace la parola “contratto”. Ma se formano un governo col Pd, fanno il contrario di quello che hanno detto in campagna elettorale». E’ l’effetto magico della tautologia: «Se lo chiami “contratto” va bene, se lo chiami “alleanza di governo” va male». Per loro sembra che il problema siano «i termini, non la sostanza», che infatti è sgradevole: «La sostanza è che fai un governo con qualcosa che, secondo te, ha sbagliato tutto ed è inaccettabile – gliene hanno dette di tutti i colori, al Pd. E quindi adesso ci fai un governo?».Saggista e simbologo, nella sua “ginnastica mentale” settimanalmente offerta ogni domenica mattina, Carpeoro mostra di amare i paradossi. I grillini dicono che si limiterebbero a firmare un contratto? «Beh, prova a firmarlo con Totò Riina, un contratto: se lo chiami “contratto” e non “associazione per delinquere di stampo mafioso”, allora diventa legittimo?». Questo aspetto tautologico, aggiunge, i 5 Stelle l’avevano già mostrato quando comminavano sanzioni contro i propri esponenti che ricevevano anche solo un avviso di garanzia. «Poi hanno cambiato i termini, e adesso chi riceve un avviso di garanzia basta che avvisi il partito di averlo ricevuto». Altro paradosso: «Come se io domani scrivessi al partito: guardate, sto per fare una rapina in banca. Nessun problema, quando poi l’avviso di garanzia mi arriva?». I 5 Stelle sono ormai al centro della scena politica nazionale dopo il quasi 33% incassato il 4 marzo. «Siccome sono cose più grandi di loro, cosa fanno? Giocano sul linguaggio, per non accettare il fatto che la politica, per autodefinizione, è compromissione. In politica si fanno i compromessi: alcuni vanno meglio e alcuni vanno peggio, alcuni sono presentabili e alcuni sono impresentabili. Come la mettiamo, se per anni hai seguito per anni la strada in base alla quale sei “duro e puro”, va bene se comandi da solo senza parlare con nessuno? Non erano quelli che non volevano andare in televisione? Ma adesso li vedo, in televisione».La verità, conclude Carpeoro, è che ormai il Movimento 5 Stelle «sta diventando un partito come gli altri, tranne che per l’assenza di democrazia interna – ma non sono i soli: partiti come Forza Italia non ce l’hanno mai avuta». Evidentemente, c’è da dedurre, non è una condizione così necessaria, se poi agli elettori va bene anche così. Ma è giusto che un partito, a casa sua, faccia quello che vuole? «No: un partito vive sulla stessa illegittimità derivante dalla non-applicazione dello spirito della Costituzione, che risulta anche dalle riunioni dell’Assemblea Costituente». Cos’era successo? Partiti, sindacati non sono mai stati regolamentati, sottolinea Carpeoro. E’ accaduto anche quelle associazioni, tra cui la massoneria, considerate talmente “sensibili” da essere citate nella Costituzione. I padri costituenti sorvolarno sulla loro natura giudirica: «Uscendo dalla guerra, si è ritenne di lasciarle nel patrimonio costituzionale da regolamentare in seguito». Un discorso rimasto in sospeso, rinviato, e mai chiuso. Una sorta di limbo, nel quale ha prosperato l’assoluta mancanza di trasparenza, dai finanziamenti illeciti alla gestione degli stessi sindacati: «Dovrebbero presentare bilanci e non lo fanno, e non dovrebbero riscuotere i contributi degli iscritti in maniera automatica, come invece avviene attualmente».Democrazia interna: «Se vuoi fare parte di un sistema, devi condividerlo», ribadisce Carpeoro. «Certo non la puoi imporre, la democrazia interna. Ma, se ti vuoi candidare alle elezioni, devi superare un certo standard: perché le elezioni sono democrazia, e sarebbe un ossimoro far candidare, a un qualcosa di democratico, un soggetto che non vive democraticamente». In altre parole: «Nel momento in cui concorri secondo regole democratiche per ottenere voti, devi avere delle regole democratiche al tuo interno». Per carpeoro è un fatto elementare di coerenza, di omogeneità: «Non puoi avere una vita interna dittatoriale e poi candidarti, perché così hai un vantaggio rispetto agli altri partiti, che si fanno “rompere i coglioni” dalle loro minoranze, mentre tu no». Beninteso, «la realtà è sempre complessa, la perfezione non esiste. Però intanto cominciamo a introdurre delle regole, là dove mancano». Né si può dire che i 5 Stelle siano privi di presupposti ideali: «Il problema è che non sono riusciti a evitare di diventare un po’ settari, perché hanno una classe dirigente che secondo me è inadeguata». Fico che va a piedi o un pullman? «Appunto: è le sempre la tautologia di cui sopra».Comodo, concorrere ad elezioni democratiche senza però avere il fastidio fisiologico della democrazia interna: «E’ come far aprire i negozi di parrucchiere ai cinesi, che non pagano nulla». Troppo facile: «Devi pagare il tuo dazio alla democrazia, se vuoi partecipare al governo di un sistema democratico». Non fa sconti, Gianfranco Carpeoro, al Movimento 5 Stelle che mette regolamente alla porta chi osa contestare il vertice, per poi magari puntare a un’intesa con gli ex avversari, senza l’onestà politica di chiamarla con il suo nome. «La cosa peggiore, nella costruzione di linguaggio del Movimento 5 Stelle è l’aspetto tautologico, per il quale basta cambiare il termine e si cambia il concetto», sostiene Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Fare un governo è sempre un contratto», ma i grillini fingono di non saperlo: «A loro ripugna la parola “alleanza”, mentre gli piace la parola “contratto”. Ma se formano un governo col Pd, fanno il contrario di quello che hanno detto in campagna elettorale». E’ l’effetto magico della tautologia: «Se lo chiami “contratto” va bene, se lo chiami “alleanza di governo” va male». Per loro sembra che il problema siano «i termini, non la sostanza», che infatti è sgradevole: «La sostanza è che fai un governo con qualcosa che, secondo te, ha sbagliato tutto ed è inaccettabile – gliene hanno dette di tutti i colori, al Pd. E quindi adesso ci fai un governo?».
-
Questa sinistra che spara (sui bambini siriani e sulla verità)
In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.Ma che la televisione fosse una cattiva maestra ce lo aveva già detto Popper anni fa, che però riponeva fiducia nella classe dirigente e nell’intellighenzia del governo per arginare i danni della Tv. In Italia invece, dove ogni problema pare sempre più grave, l’intellighenzia che per antonomasia si batte per i più deboli, che tenta di annullare le ingiustizie sociali causate dallo sfruttamento del lavoro ed è convintamente contro la guerra (leggasi: la sinistra) è la prima ad essere pronta e sull’attenti quando c’è bisogno di bombardare o, come si dice adesso, “portar democrazia” un paese che gravita fuori dalla nauseabonda ombra dello zio Sam. Intendiamoci: diversi partiti minoritari (relegati per giochi elettorali a non più del 1,5%) della sinistra hanno preso convintamente le distanze dall’atto di aggressione atlantica in Medio Oriente ma ahinoi, qui, per ora, l’intellighenzia che guida la sinistra maggioritaria non è questa, bensì quella di Renzi, della Bonino, della Boldrini, di Riotta e di tutti quelli che prima si fanno foto dove si tappano la bocca per denunciare presunti attacchi chimici (non ancora dimostrati) e preparare l’opinione pubblica a legittimare l’intervento nazionale, ma poi tra qualche mese lanceranno l’ennesima campagna per denunciare i crimini di guerra a Damasco o ad Aleppo provocati dalla guerra che loro stessi, sornioni e convinti di essere sempre dalla parte della ragione, hanno cercato di legittimare e mistificare.In questo paradossale panorama politico l’unica frangia della politica che si è in massa imposta contro l’intervento in Siria è stata la destra, la brutta e cattiva destra, quella che “i buoni” ci dicono essere razzista, populista, fascio-leghista, xenofoba e quant’altro. Questi signori dal selfie facile hanno legittimato tutto, hanno creduto alla farsa di Colin Powell che sventolava finte boccette di veleno per convincere il consiglio dell’Onu ad attaccare Saddam, non hanno fiatato quando abbiamo bombardato la Libia e deposto Gheddafi – ma poi hanno voluto renderci edotti di quanto fosse drammatica la situazione sociale da quando non c’era più un governo –, non hanno detto nulla quando i loro beniamini europei che dovevano arginare i populismi euroscettici hanno varcato i nostri confini, preso i nostri mari e bombardato la Siria. Amano definirsi contro la guerra e contrari ad avere un arsenale militare ma nella loro ipocrisia riescono pure ad essere atlantisti e non fiatano se ci sono delle testate militari made in Usa depositate nel nostro mezzogiorno o se centinaia di unità aero-navali partono per ordine di Washington e vanno a bombardare i paesi mediorientali. Abbiamo concesso alla open society tutto e abbiamo perso tutto, ora siamo senza terra, senza identità e senza spina dorsale, in balia degli eventi che si decidono altrove ma che colpiscono le nostre coste, i nostri habitat naturali per diritto storico, l’Europa è in mano a degli scellerati e noi, italiani e ed europei siamo caduti in un torpore dal quale par impossibile svegliarsi.(Daniele Ruffino, “La sinistra che spara”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 20 aprile 2018).In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.
-
Siria, risposta russa: bombe sui terroristi armati dagli Usa
Vincere definitivamente la guerra in Siria, sradicando dalla regione l’opaca ragnatela di alleanze (leggasi: terrorismo) su cui si basa la presenza statunitense, inglese e francese. Potrebbe essere questa la risposta, sul campo, che Russia e Iran – con all’apoggio della Cina in sede Onu – potrebbero mettere in atto, dopo il raid missilistico dimostrativo del 14 aprile contro le installazioni di Damasco. «L’attacco contro le basi in Siria compiuto da Francia, Regno Unito e Stati Uniti crea uno spartiacque, l’ennesimo, in questa guerra», scrive Lorenzo Vita sul “Giornale”. «Russia e Iran, alleati della Siria, hanno già detto di ritenere completamente illegittimi gli “strike” promossi dalla coalizione occidentale. E hanno parlato di “gravi conseguenze”», anche sul piano regionale. «E il fatto che Israele abbia appena chiuso lo spazio aereo sulle alture del Golan, fa comprendere che queste conseguenze regionali potrebbero rivolgersi direttamente allo Stato ebraico, colpevole di aver bombardato la base T4 in Siria e ucciso sette soldati iraniani». Le risposte di Russia e Iran saranno sicuramente su più livelli. Le potenze occidentali hanno colpito con un “one shot”, come sostenuto dal capo del Pentagono, James Mattis. «Ma adesso la palla è passata nelle mani di Mosca e Teheran che, al contrario, non avevano mai definito apertamente il ventaglio di pozioni in caso di risposta».Quello che è certo, continua il “Giornale”, è che i due alleati della Siria erano consapevoli dell’attacco. E le risposte erano pronte già da diversi giorni. «Ora potrebbero semplicemente essere messe in atto, portando anche a un’evoluzione del conflitto in senso positivo verso l’esercito siriano: se infatti l’attacco è stato limitato, e sostanzialmente innocuo, Damasco ora può rimodulare l’offensiva per la riconquista del paese». Secondo sito israeliano “Debkafile”, una forza congiunta siriana e libanese (Hezbollah) ha ripreso l’offensiva verso il fiume Eufrate. Obiettivo: strappare dal controllo degli Stati Uniti il gas di Konok e i giacimenti petroliferi di Al-Umar. L’iraniano Ali Akbar Velyati, in conferenza stampa a Damasco, avverte: «La parte orientale dell’Eufrate è un’area molto importante. Speriamo di fare grandi passi per liberare questa zona ed espellere gli americani». Un secondo livello dell’offensiva, spiega Vita, nasce dal rafforzamento della sinergia militare fra Russia e Iran. Come riporta il sito “Al Masdar news”, Teheran rivela che i bombardieri pesanti russi sono stati di nuovo autorizzati a operare negli aeroporti militari iraniani: hanno il permesso di utilizzare basi iraniane per rifornirsi di carburante.«Le informazioni su questi nuovi sviluppi – scriove Vita – arrivano anche dopo che due Tu-95 e due bombardieri pesanti Tu-22M hanno lasciato la loro base permanente in Russia per una destinazione sconosciuta. Si ritiene che siano proprio le basi iraniane dell’accordo». Il che non farà che potenziare la già dimostrata capacità di risposta degli alleati siriani: «Mentre le forze occidentali hanno comunque (anche se in maniera molto limitata) attuato un raid con i loro mezzi, la Russia in particolare non ha risposto. È stata la contraerea siriana, guidata dal supporto russo, ad abbattere decine di missili. Questo significa che, fondamentalmente, Damasco solo con il supporto russo “dietro le quinte” ha dimostrato di saper difendersi». L’idea, ora, è che la Russia e l’Iran possano «rispondere con un’offensiva che sradichi completamente gli alleati della coalizione occidentale, chiudendo il cerchio su una guerra in cui Mosca e Teheran sono coinvolte in maniera molto pesante, ma che rischia di diventare impossibile da concludere». In questo senso, il “Giornale” sottolinea che «mentre le forze occidentali necessitano di accuse su attacchi chimici per colpire l’esercito siriano, russi e iraniani non hanno alcuna condizione: loro sono lì per aiutare Bashar al Assad nella sua offensiva, e questo permette lordo di sostenere più attacchi, su più livelli».Lorenzo Vita sottolinea poi il profilo politico della situazione: «Non va dimenticato che gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere profondamente scissi al loro interno, cosa che invece non hanno dimostrato i loro nemici. La divisione fra Donald Trump e Jim Mattis può essere molto indicativa». Poi, naturalmente, c’è il ruolo della Cina: alle unità navali di Pechino già presenti nel Mediterraneo, per manovre congiunte con la flotta russa del Mar Nero, potrebbero aggiungersi altri vascelli cinesi da battaglia, nei giorni scorsi segnalati in prossimità del Canale di Suez con il presumibile obiettivo di aumentare il potere di deterrenza di fronte all’ipotesi di nuovi attacchi occidentali contro la Siria. «La Cina ha sostenuto con forza la contrarietà all’attacco in Siria compiuto da Usa, Gran Bretagna e Francia. E questo – osserva Vita – rende possibile una collaborazione ancora più forte in sede Onu fra Pechino e Mosca, tesa a creare un asse importante che si contrapponga a quello composto da Usa, Francia e Regno Unito». Una partita decisiva: si tratta di difendere Assad da chi lo bombarda per motivi “umanitari”, dopo aver armato, finanziato e protetto il peggior jihadismo di marca Isis, che ha gettato nel terrore la popolazione siriana producendo milioni di profughi. Un’emorragia, quella innescata dal terrorismo islamista (gestito dagli Usa, dalla Turchia, da Israele e dall’Arabia Saudita) che si è arrestata solo con l’intervento militare russo e iraniano che ha fatto “impazzire” i falchi della Casa Bianca.Vincere definitivamente la guerra in Siria, sradicando dalla regione l’opaca ragnatela di alleanze (leggasi: terrorismo) su cui si basa la presenza statunitense, inglese e francese. Potrebbe essere questa la risposta, sul campo, che Russia e Iran – con all’appoggio della Cina in sede Onu – potrebbero mettere in atto, dopo il raid missilistico dimostrativo del 14 aprile contro le installazioni di Damasco. «L’attacco contro le basi in Siria compiuto da Francia, Regno Unito e Stati Uniti crea uno spartiacque, l’ennesimo, in questa guerra», scrive Lorenzo Vita sul “Giornale”. «Russia e Iran, alleati della Siria, hanno già detto di ritenere completamente illegittimi gli “strike” promossi dalla coalizione occidentale. E hanno parlato di “gravi conseguenze”», anche sul piano regionale. «E il fatto che Israele abbia appena chiuso lo spazio aereo sulle alture del Golan, fa comprendere che queste conseguenze regionali potrebbero rivolgersi direttamente allo Stato ebraico, colpevole di aver bombardato la base T4 in Siria e ucciso sette soldati iraniani». Le risposte di Russia e Iran saranno sicuramente su più livelli. Le potenze occidentali hanno colpito con un “one shot”, come sostenuto dal capo del Pentagono, James Mattis. «Ma adesso la palla è passata nelle mani di Mosca e Teheran che, al contrario, non avevano mai definito apertamente il ventaglio di pozioni in caso di risposta».
-
L’Italia frana e il Pd le ha offerto solo la mistica del Jobs Act
«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.La cifra del tenore politico in casa Pd, dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, la offrono le meste esternazioni dei renziani Orfini, Lotti, Martina, «non a caso incolori e privi di qualsiasi carisma, come tutti quelli del Giglio Magico», assolutamente anonimi, fatta eccezione per la Boschi (che si fa notare per «la notevole avvenenza e l’astuzia nella cura del suo “particulare”») e per il misterioso Carrai, «personaggio scaltro, che appare e scompare». Sconfitti, i renziani ripetono: «Lasciateci perdere, per il governo vedetevela voi. Noi abbiamo perso, non vogliamo governare: lo faccia chi ha vinto, cioè 5 Stelle e Lega, con o senza Forza Italia al seguito». Peccato, si rammarica Magaldi: «E’ una posizione formalistica», sterile, ma certo non inaspettata. «In tutta questa storia del renzismo prevale sempre il lato formale», rileva Magaldi. «Hanno prevalso gli slogan, le propagande, le affermazioni altisonanti che dovevano sostituire la realtà: la mistica del Jobs Act, la mistica della crescita del paese. Ho ascoltato esterrefatto Alessandra Moretti, l’ex “lady like”, dire che loro pensavano che la ripresa avrebbe premiato il Pd, invece il paese reale ha una percezione diversa».«Non è questione di percezione», obietta Magaldi: «E’ che sono stronzate quelle che vengono dichiarate a reti unificate sulla ripresa: gli indicatori economici utilizzati sono fasulli (ma finiscono per convincere anche i loro propagatori), mentre il paese continua a essere in ginocchio da troppi anni, la disoccupazione galoppa e l’economia gira poco e male». E anziché aprire gli occhi e ammettere i suoi errori (evidentissimi agli elettori) il Pd «continua la sua triste narrativa renziana, dove quello che conta non è la sostanza». Ben diverso, aggiunge Magaldi, se Renzi dicesse: «Ho capito dove ho sbagliato, quindi offro un supporto al governo 5 Stelle (o a un altro governo) sulla base di alcuni progetti, che sono nostri. Non li vogliono? Pazienza, ma noi facciamo politica perché vogliamo fare delle cose, abbiamo questi progetti che avremmo attuato se avessimo vinto, e quindi se qualcuno li vuole sostenere andiamo avanti insieme». Questo, conclude Magaldi, «sarebbe un ragionamento di sostanzialità politica, e cioè: tu testimoni quello che è il tuo progetto politico – sia che perdi, sia che vinci. E invece siamo al tatticismo. Si dice: abbiamo perso, ci lecchiamo le ferite».In più, aggiunge, dopo la Caporetto del 4 marzo, «nel Pd prevale ancora un’identificazione fortissima con il sentire personale di Renzi», l’ex rottamatore arrivato al capolinea. In realtà, secondo Magaldi, dovrebbe essere rottamato l’intero centrosinistra italiano: di fatto, ha consegnato l’Italia a poteri oligarchici privati, coronando il sogno antidemocratico dell’ultimo Kalergi, adottato da Jean Monnet e dagli altri padrini storici di quest’Europa “antieuropeista”, che rema contro i propri popoli mettendoli l’uno contro l’altro a colpi di mercantilismo e culto del rigore. Finisce nei guai un paese come l’Italia, che oggi – tra le altre cose – si ritrova senza una politica all’altezza della situazione «e senza uno straccio di ideologia, tranne l’unica rimasta in piedi: quella neoliberista». Tatticismi, appunto: «Compreso il peggiore in assoluto, ipotesi di cui nessuno parla: la possibilità teorica che il centrodestra, in silenzio, possa “pescare” seggi tra i tanti grillini neo-eletti, come auspicato dallo stesso Berlusconi». Niente male, come inizio, per l’ipotetica Terza Repubblica fondata sugli equivoci, mentre il paese continua a crollare.«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.
-
Colonia Italia: divisa e nata per esser governata da stranieri
Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.Il Movimento 5 Stelle, sostiene Della Luna, «ha raccolto soprattutto voti di meridionali desiderosi di assistenza pubblica, intervento statale, reddito di cittadinanza a spese del Nord», mentre la Lega ha mietuto «soprattutto voti di settentrionali desiderosi di meno tasse, meno Stato, meno trasferimenti dal Nord al Sud, e più autonomia (vedi i recenti referendum di Veneto e Lombardia)». Se i 5 Stelle andassero al governo con parte della sinistra, ipotesi «possibile», secondo Della Luna l’eventuale esecutivo Di Maio «dovrà aumentare le tasse patrimoniali e successorie per finanziare il “reddito di cittadinanza” e altre generosità promesse al suo elettorato – e ciò produrrà una fortissima, forse dirompente tensione con il Nord, e un ulteriore decrescita economica». Di fatto, «nell’attuale Parlamento non si può formare alcuna maggioranza che non sia frutto di un inciucio, in beffa alle promesse fatte agli elettori». Una coalizione «anomala e intrinsecamente instabile». Istituzioni fragili: lo stesso Mattarella, oggi nei panni poco inviadibili di arbitro, è stato incoronato al Quirinale «da un Parlamento a sua volta eletto con una legge che egli stesso, come giudice costituzionale, giudicò incostituzionale».In un corpo elettorale tanto profondamente diviso, sostiene Della Luna, un eventuale premio di maggioranza sarebbe addirittura un rimedio peggiore del male: «Porterebbe una forza minoritaria (rappresentante il 35-40% dell’elettorato) nonché illegittima agli occhi di almeno metà dell’elettorato, a una posizione di potere autosufficiente non solo per l’attività di governo e di ordinaria legislazione, fisco compreso, ma anche per cambiare le regole del gioco (legge elettorale, cittadinanza, Costituzione) e per fare le nomine degli organi di garanzia (presidenti della Repubblica, delle Camere, delle autorità garanti)». Divisi gli elettori, sulla base di aree geografiche «con interessi oggettivamente contrapposti» (il Nord e il Sud), e spaccate anche le forze politiche, le quali «si negano reciprocamente la legittimazione politica e morale: “Berlusconi è un mafioso”, “il M5S è una setta pericolosa”, “la Lega e FdI sono razzisti-fascisti”, “il Pd è servo di banchieri delinquenti”, eccetera. In questo caos, una forza “dopata” dal premio di maggioranza «dovrebbe gestire periodi duri per la popolazione», e quindi «avrebbe presto una forte maggioranza popolare contro di sé». Unica via di uscita? «Una riforma costituzionale, che affidasse le funzioni di garanzia e regole comuni a un Senato eletto col metodo proporzionale puro, e le funzioni di legislazione ordinaria (e fiducia al governo) a una Camera eletta con un premio di maggioranza al ballottaggio».Sempre secondo Della Luna, la nuova Costituzione dovrebbe inoltre stabilire che il Senato «non possa essere sciolto, ma si sciolga solo alla scadenza ogni 5 anni», mentre la Camera dovrebbe sciolgiersi ogni 4 anni, se non prima (con elezioni anticipate). «In tal modo, il premio di maggioranza non comporterebbe che il partito o la coalizione che lo ottiene possa cambiare le regole di fondo a sua convenienza e nominarsi alle cariche di garanzia i personaggi che gli fanno comodo per coprire le trame dei suoi interessi». Ma persino una riforma simile non risolverebbe «il difetto fondamentale del paese», ovvero «le divisioni e contrapposizioni storiche, consolidate, oggettive, soprattutto tra Nord e Sud». L’ideale? Tre Italie distinte, indipendenti, «corrispondenti ciascuna alle rispettive caratteristiche sia politiche che economiche (Aree Monetarie Ottimali)». Ancora più semplice, chiosa Della Luna, sarebbe se il M5S e il Pd si alleassero per governare: «Allora basterebbe fare due repubbliche e il confine potrebbe correre sul crinale appenninico, se non lungo il Po».Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.
-
Il potere vota Di Maio. Scalfari: è il nuovo leader, a sinistra
Per Marco Travaglio, a dare spettacolo è il noto sport nazionale: correre in soccorso dei vincitori. Sempre che i soccorritori, in questo caso, non siano i terminali italiani degli azionisti-ombra dei 5 Stelle, tranquillizzati in anticipo da Luigi Di Maio nei santuari del sommo potere, da Londra a Washington, prima ancora di presentare una lista iper-rassicurante di possibili ministri tecnici, a partire dal neoliberista Fioramonti, il cui curriculum contempla nomi come Rothschild, Rockefeller e Soros. «I poteri forti si riposizionano», titola il “Fatto Quotidiano”. O meglio: forse rendono palese ciò che prima era nascosto, e cioè che il successo firmato Di Maio fosse, fin dall’inizio, il loro Piano-B. Ovvero: non l’imbarazzante avanzata di una forza “antisistema”, ma il prevedibile boom di un’ala “populista” del sistema stesso, adatta a drenare il dissenso sociale di un’Italia in crisi. Da Marchionne a Confindustria, la convergenza su Di Maio si è fatta aperta e spettacolare, quasi quanto quella di Eugenio Scalfari, decano del “quarto potere” italico. Per il fondatore di “Repubblica”, che pochi mesi fa ai 5 Stelle avrebbe preferito persino l’odiato Berlusconi, oggi di Di Maio non è solo il legittimo capo del prossimo ipotetico governo, ma addirittura il leader del nuovo, grande partito unico della sinistra italiana, destinato a inglobare e assorbire lo stesso moribondo Pd. Questione di parole: sostituendo “sinistra” con “potere”, il cerchio si chiude.
-
Che succede dopo le elezioni? Niente, e riderà la solita élite
Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.La necessità di formare alleanze improbabili è stata quindi da sempre la caratteristica della politica italiana. Le cose non cambiarono neanche con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica; nonostante fosse stato riformato il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, la verità è che la riforma elettorale servì unicamente a rendere meno ancorati al territorio i vari candidati, e a restringere le possibilità di scelta dell’elettore. Per il resto, la composizione politica del Parlamento rimase più o meno identica alla precedente, nell’impossibilità di formare una vera maggioranza, e quindi con alleanze che costringevano poi a non portare a termine nessuna vera riforma (eclatante fu la rottura del primo governo Berlusconi, ove quest’ultimo dichiarò che mai più avrebbe voluto avere a che fare con Bossi, mentre Bossi dal canto suo dichiarò “mai più con la porcilaia fascista”; e puntualmente dopo pochi mesi si riallearono di nuovo, nell’impossibilità di formare una maggioranza di governo).Le ultime riforme elettorali, dal Porcellum o al Rosatellum, non hanno avuto altri effetti se non di impedire agli elettori di scegliere i propri candidati, e complicare il meccanismo elettorale in modo da rendere possibili brogli e impedire ai partiti di minoranza di avere una loro rappresentanza, sia pure minima (questo fenomeno però non è nuovo; la prima legge elettorale per taroccare i risultati, infatti, fu approvata dalla Dc ai tempi della prima legislatura, tanto che tale legge fu denominata, appunto “legge-truffa”). Ma la più grossa assurdità di queste elezioni è che il Parlamento attuale, sorto a seguito di una legge dichiarata incostituzionale dalla stessa Corte Costituzionale, è da considerarsi giuridicamente illegittimo. Questo Parlamento illegittimo ha modificato a sua volta la legge elettorale (che quindi, per la proprietà transitiva, è da considerarsi anch’essa illegittima, come qualsiasi legge sia stata votata da questo Parlamento) e quindi avremo un Parlamento, quale che esso sia, a sua volta illegittimo. Un Parlamento instabile è infatti ciò che è necessario a chi detiene veramente il potere (cioè le élite economico-finanziarie internazionali) per garantirsi quell’instabilità politica, necessaria per continuare a perpetuare il proprio piano internazionale di globalizzazione del mondo e di accentramento di tutti i poteri politici e finanziari in un vertice unico.(Paolo Franceschetti, “Cosa succederà dopo le prossime elezioni?”, dal blog “Petali di Loto” del 28 febbraio 2018).Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.
-
Il vero guaio dei 5 Stelle? Il programma: sciatto e destrorso
«Io non mi fido di me stesso. Non ho mai fatto nessuna scorrettezza nelle rare occasioni in cui ho gestito briciole infinitesimali di denaro dello Stato (questo posso dirlo con serenità). Ma come mi comporterei di fronte a una tangente di decine di milioni? Spero che saprei resistere, ma come posso saperlo di sicuro?». La sincerità, innanzitutto: perché presentarsi come i “superman dell’onestà”, per poi rischiare la figuraccia di fronte allo scivolone della prima mela marcia? Da Aldo Giannuli, un consiglio ai 5 Stelle: meno ciance su aspetti davvero irrilevanti della politica, e più impegno sulla sostanza. Ovvero: il programma, «sciatto e destrorso» e le liste «da incubo». Una sonora lezione, quella dello scandalo dei mancati versamenti, che in realtà non sono un reato: nessuna appropriazione indebita di denaro pubblico. Certo, «c’è l’aspetto sgradevolissimo del bonifico poi revocato, fatto solo per esibire la fotocopia, che denota un animus incline alla frode». Un sotterfugio, che però tradisce solo «una regola interna al movimento, non una legge dello Stato». Che poi la stragrande maggioranza dei grillini siano stati ai patti, ai giornali non interessa: «Quel che conta è poter dire che sono tutti uguali: perché, se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. “Così fan tutti”. Il che è come mettere sullo stesso piano un ragazzino che ha falsificato la firma del padre su una giustificazione e quello che ha fatto una rapina in banca con il mitra».E a proposito di banche: «Il Pd non penserà di risolvere tutto scaricando su Bankitalia e Consob, vero? Certo è che se i guai giudiziari dei renziani fossero come la questione dei rimborsi dei 5 Stelle, si bacerebbero i gomiti», scrive Giannuli nel suo bog. « Ma questo ceffone in pieno viso, i pentastellati se lo meritano e può fargli bene: così magari imparano che fare la giusta battaglia per l’onestà nella gestione del denaro pubblico non significa fare questa grottesca esibizione di onestà per cui “noi siamo i più onesti del reame e gli altri sono tutti merde”. Anche perché, sin qui non hanno avuto occasione di governare e non sappiamo come si comporterebbero». Non ci indurre in tentazione, recita la preghiera: «La melma della corruzione non si risolve promuovendo un ceto politico sedicente più onesto, ma evitando che si formino troppe tentazioni». E questo «lo si fa con i controlli preventivi». I 5 Stelle? «Hanno mostrato di essere inadeguati: hanno gonfiato i petti in una grottesca esibizione di onestà, di spirito francescano, di eroico senso del sacrificio, ma non hanno proposto niente di efficace nel contrasto alla corruzione». Un appello diretto: «Cari amici, non è necessario che siate perfetti, ci basta che siate umani e mediamente corretti, che di questi tempi è già molto».Qualcuno li ha voluti colpire, alla vigilia delle elezioni: ovvio. «Però, cari amici, ve la siete andata a cercare», scrive Giannuli. «I controlli che Di Maio va facendo ora andavano fatti a suo tempo e, al massimo, un mese prima di fare le liste. E’ da imbecilli matricolati non aspettarsi che gli altri stiano con il fucile spianato per beccarti». Per fortuna, aggiunge il politologo, «la gente ha una sua intelligenza e non credo che questa vicenda peserà più di tanto sul risultato elettorale». Non è questo irritante episodio che danneggerà granché il M5S, quanto «altre cose più serie come il programma sciatto e destrorso, le liste da incubo che hanno fatto dopo aver promesso il “controllo di qualità” (e meno male che hanno fatto questo controllo, perché sennò ci trovavamo Messina Denaro in lista!)». E poi, aggiunge Giannuli, c’è da capire «che impatto avrà la freddezza di Grillo, la rinuncia di Di Battista, il mutamento del simbolo, la pessima e illegittima riforma statutaria, la scissione di Borrelli e le critiche di Colomban». Si vedrà il 5 marzo. «Per ora, il M5S ha il problema di “uscire vivo” da questa campagna elettorale (cioè non scendere sotto il 25%)». Poi, dopo le elezioni, «occorrerà aprire una profonda riflessione su tutto: leadership, modello organizzativo, linea politica, stile di lavoro».«Io non mi fido di me stesso. Non ho mai fatto nessuna scorrettezza nelle rare occasioni in cui ho gestito briciole infinitesimali di denaro dello Stato (questo posso dirlo con serenità). Ma come mi comporterei di fronte a una tangente di decine di milioni? Spero che saprei resistere, ma come posso saperlo di sicuro?». La sincerità, innanzitutto: perché presentarsi come i “superman dell’onestà”, per poi rischiare la figuraccia di fronte allo scivolone della prima mela marcia? Da Aldo Giannuli, un consiglio ai 5 Stelle: meno ciance su aspetti davvero irrilevanti della politica, e più impegno sulla sostanza. Ovvero: il programma, «sciatto e destrorso» e le liste «da incubo». Una sonora lezione, quella dello scandalo dei mancati versamenti, che in realtà non sono un reato: nessuna appropriazione indebita di denaro pubblico. Certo, «c’è l’aspetto sgradevolissimo del bonifico poi revocato, fatto solo per esibire la fotocopia, che denota un animus incline alla frode». Un sotterfugio, che però tradisce solo «una regola interna al movimento, non una legge dello Stato». Che poi la stragrande maggioranza dei grillini siano stati ai patti, ai giornali non interessa: «Quel che conta è poter dire che sono tutti uguali: perché, se tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. “Così fan tutti”. Il che è come mettere sullo stesso piano un ragazzino che ha falsificato la firma del padre su una giustificazione e quello che ha fatto una rapina in banca con il mitra».
-
“Non voto: non vi credo e non mi rassegno al meno peggio”
Li vedo ogni giorno, tutti. Li ascolto pure, li leggo, nonostante un forte istinto che mi spingerebbe a ignorali perché quello che dicono ce l’ho in memoria da anni. Sono prevedibili, anche se non mancano di fantasia. D’altra parte cosa mai possono dire se non quello che la gente vuole sentirsi dire? Cosa mai possono promettere se non quello che le persone desiderano? Adesso ci sono pure i mezzi per sondare meglio le aspettative, per misurare l’umore e per controllare il gradimento. Dunque è più che semplice impostare una campagna elettorale e presentare programmi per attirare preferenze ed è più che logico che l’unica maniera per sminuirsi a vicenda è promettere di più e più in fretta degli altri, anche se non è vero, anche se non sarà possibile, anche se ormai è talmente chiaro che, una volta seduti là, le promesse, e ci metto pure la buona fede di qualche raro purista, svanirà di fronte a qualcosa di più incisivo e determinante: il sistema. Quel sistema per il quale non possiamo esprimere né dissenso né consenso, quel sistema di cui siamo semplici ingranaggi e a cui non fa un baffo servirsi di questo o quell’altro per esprimere le sue potenzialità.
-
E bravo Di Maio, l’aspirante massone che spara sui massoni
Bella faccia di bronzo, Luigi Di Maio: spara contro la massoneria dopo aver bussato, ripetutamente, alle porte più esclusive dei peggiori club supermassonici internazionali, quelli reazionari dell’ultra-destra finanziaria. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela la geografia segreta del super-potere massonico mondiale. La frase “incriminata”, di Di Maio l’ha pronunciata in televisione, davanti alle telecamere de “La7”: «Chi urla odio razziale, chi usa espressioni omofobe, chi è iscritto alla massoneria, chi nella propria vita ha portato azioni indecenti non si può candidare col Movimento 5 Stelle». Immediata la replica di Stefano Bisi, leader del Grande Oriente d’Italia: «Mi sono chiesto innanzitutto come un politico che aspira a diventare il futuro presidente del Consiglio, e quindi a rappresentare democraticamente tutti gli italiani senza barriere precostituite, possa usare in maniera irresponsabile e violenta certe affermazioni gratuite». Disse Voltaire: «Disapprovo ciò che dici, ma difenderò sino alla morte il tuo diritto di dirlo». L’esatto contrario della “dottrina Di Maio”, che ricorda le infauste leggi fasciste che nel 1925 portarono alla persecuzione dei massoni. Ma peggio: magari Di Maio fosse solo fuori strada. E’ anche clamorosamente ipocrita, dice Magaldi, perché il primo a voler entrare in massoneria è proprio lui.«L’ipocrisia e la doppiezza di Luigi Di Maio si fanno addirittura iperboliche, perché il giovanotto ha bussato al gotha delle aristocrazie massoniche neoaristocratiche, non di quelle progressiste», scrive Magaldi su “Grande Oriente Democratico”. Il leader grillino «per poco non è stato preso a pernacchie», in quei salotti di Londra e di Washington, «ma la vicenda ha un carattere tristemente esemplare, perché illustra efficacemente il modus operandi del personaggio in questione e di certa massonofobia militante la quale, privatamente, anela proprio a ciò che in pubblico demonizza e discrimina». E poi c’è un diffuso meccanismo, aggiunge Magaldi, che «induce determinati soggetti politici a scagliarsi contro i massoni che si presentino ufficialmente come tali, senza paludamenti», per poi invece «accogliere a braccia aperte chi conservi un profilo massonico accuratamente segretato». Attenzione: la sortita anti-massonica di Di Maio non è stata casale, ma premeditata: «In quelle parole del candidato premier pentastellato c’è molta ambiguità e ambivalenza». Ovvero: «C’è un messaggio polivalente, rivolto a diversi interlocutori nazionali e internazionali». Un intervento «odioso e ipocrita, apparentemente massonofobico», rivolto – in codice – a soggetti ai quali Di Maio di sta probabilmente ancora rivolgendo. Morale: «Il Movimento 5 Stelle merita un leader migliore».«Una volta che sarà stato celebrato l’ingannevole rito elettorale del 4 marzo, Luigi Di Maio non solo non avrà vinto le elezioni, ma avrà dimostrato di essere stato la peggiore scelta possibile, come “frontman”», scrive Magaldi sul blog del Movimento Roosevelt. Il giorno dopo le elezioni, quindi, «sarà bene che l’intero Movimento 5 Stelle – garante e padre fondatore Beppe Grillo in testa – ripensi alcune modalità comunicative e strutturali dell’avventura pentastellata», anche perché «chi si candida a governare una grande nazione democratica e repubblicana come l’Italia non può permettersi il lusso di discriminare pregiudizialmente la partecipazione politica al proprio movimento di categorie di persone – i massoni – tra le fila dei quali si annoverano peraltro i maggiori eroi del Risorgimento e i più autorevoli padri della Costituzione del 1948». Più in generale, l’asserita interdizione ai liberi muratori («evidentemente a quelli che non fanno mistero di essere tali») di partecipare alla vita politica del M5S e/o di essere candidati tra le sua fila, «non solo viola il testo costituzionale italiano e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma favorisce semmai l’infiltrazione tra i pentastellati di massoni segreti e coperti, cui nessuno potrà contestare l’appartenenza latomistica ed escluderli da liste elettorali, proprio in quanto segreti e coperti».Perciò, conclude Magaldi, «lunga vita e in bocca al lupo ai tanti ottimi candidati sinceramente democratici e progressisti delle liste M5S (in primis a Pino Cabras, giornalista e intellettuale di grande pregio e spessore), ma qualcuno si prenda la briga di sottoporre Luigi Di Maio a un corso accelerato di etica costituzionale e di principi democratici, liberali e libertari, sottraendolo alle pessime figure e alla sicura débâcle cui lo condurrà la sua insipiente, pretestuosa e insincera massonofobia». Dalle parole di Di Maio, secondo Magaldi, emerge «un abisso di ipocrisia». Intanto, sparando contro “i massoni” come categoria, attenta ai diritti costituzionali degli aderenti alla massoneria. «E sarebbe lo stesso se costui avesse usato parole discriminatorie e liberticide contro altre categorie socio-antropologiche: cattolici, ebrei, musulmani, simpatizzanti di tale o talaltra dottrina filosofica, religiosa o sapienziale, inquadrati o meno in associazioni, come la massoneria, perfettamente legali, legittime e costituzionali, e anzi all’origine della nascita stessa delle Costituzioni democratiche moderne e contemporanee». Ma, appunto, il leader grillino non è neppure sincero: «Non si può trascurare il fatto che Luigi Di Maio (al pari di Matteo Renzi, che lo ha preceduto in termini quasi identici), da mesi, stia cercando di trovare a Londra e a Washington qualcuno che gli apra le porte di templi massonici prestigiosi».Bella faccia di bronzo, Luigi Di Maio: spara contro la massoneria dopo aver bussato, ripetutamente, alle porte più esclusive dei peggiori club supermassonici internazionali, quelli reazionari dell’ultra-destra finanziaria. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela la geografia segreta del super-potere massonico mondiale. La frase “incriminata”, Di Maio l’ha pronunciata in televisione, davanti alle telecamere de “La7”: «Chi urla odio razziale, chi usa espressioni omofobe, chi è iscritto alla massoneria, chi nella propria vita ha portato azioni indecenti non si può candidare col Movimento 5 Stelle». Immediata la replica di Stefano Bisi, leader del Grande Oriente d’Italia: «Mi sono chiesto innanzitutto come un politico che aspira a diventare il futuro presidente del Consiglio, e quindi a rappresentare democraticamente tutti gli italiani senza barriere precostituite, possa usare in maniera irresponsabile e violenta certe affermazioni gratuite». Disse Voltaire: «Disapprovo ciò che dici, ma difenderò sino alla morte il tuo diritto di dirlo». L’esatto contrario della “dottrina Di Maio”, che ricorda le infauste leggi fasciste che nel 1925 portarono alla persecuzione dei massoni. Ma peggio: magari Di Maio fosse solo fuori strada. E’ anche clamorosamente ipocrita, dice Magaldi, perché il primo a voler entrare nei grandi circuiti delle superlogge è proprio lui.
-
La Costituzione senza sovranità? E’ come la birra analcolica
La Costituzione senza sovranità? «Dovrebbe essere illegale come la birra analcolica». Parola di Massimo Bordin, giornalista di razza, per vent’anni direttore di “Radio Radicale”.«Mi sorprende sempre scoprire che ci sono uomini di cultura, persino accademici, secondo i quali fu possibile limitare la sovranità italiana, perchè “lo prevede anche la nostra Costituzione”». Stiamo parlando di disgraziati in malafede o di ignoranti acefali? «Temo di entrambe le tipologie umane», scrive Bordin sul blog “Micidial”, prendendo di mira la presunta legittimità, anche costituzionale, del “ce lo chiede l’Europa”. Ipocrisia: tutti bravi a fingere di ergersi a paladini della Costituzione, dopo averla “tradita” cedendo all’Unione Europea le prerogative che, secondo la Carta, sarebbero invece esclusivo appanaggio dell’Italia: sovranità non negoziabile, né cedibile, tranne che (in via eccezionale) a un unico soggetto: le Nazioni Unite. Sul banco degli imputati, scrive Bordin, c’è il famigerato articolo 11, che effettivamente parla di cessioni di sovranità nazionale. Tuttavia, l’articolo «non limita la sovranità del popolo, ma solo quella dello Stato in rapporto agli altri Stati». L’articolo 11 fa quindi riferimento alla “sovranità esterna”, non a quella “interna”. Attenzione: non si tratta di “sfumature”, ma di sostanza: chi ha ceduto la sovranità italiana all’Ue ha piegato la Costituzione.Bordin cita giuristi preparati, come il magistrato Luciano Barra Caracciolo e gli avvocati Paola Musu e Marco Mori. «In sintesi: la Costituzione italiana si riferisce alla “sovranità” sia all’articolo 1 – stabilendo che essa “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” – che all’articolo 11, il quale consente le limitazioni di sovranità necessarie a garantire il funzionamento di un ordinamento internazionale che assicuri pace e giustizia nel mondo». Appare evidente come gli articoli 1 e 11 si riferiscano, in realtà, ai due differenti aspetti propri della “sovranità”, nel suo concetto classico: l’articolo 1 tutela la sovranità interna, «ossia al rapporto tra lo Stato e quanti risiedono sul proprio territorio», mentre l’articolo 11 vigila sulla sovranità esterna, ossia sui rapporti dello Stato con gli altri Stati o organizzazioni internazionali. «Varrebbe peraltro la pena di ricordare come, in sede di Commissione per la Costituente, si scelse di omettere, nella formulazione dell’articolo 11, ogni esplicito riferimento all’unità europea», come invece aveva chiesto l’onorevole Emilio Lussu, fondatore del Partito d’Azione e celebrato scrittore, autore di “Marcia su Roma e dintorni” e “Un anno sull’altipiano”.Le limitazioni di sovranità, sottolinea Bordin, «dovevano riferirsi unicamente allo Stato nei suoi rapporti internazionali (cioè all’Onu)». L’articolo 11 della Costituzione, pertanto, «non può essere interpretato nel senso voluto dalla Corte Costituzionale, ossia come “copertura” di rango costituzionale alle sempre più profonde cessioni di aspetti tipici della sovranità interna in favore dell’Unione Europea». Di fatto, l’articolo 11 «non limita la sovranità del popolo, ma solo quella dello Stato in rapporto agli altri Stati». Traduzione: «Il lavoro, la previdenza, la moneta, l’istruzione e la spesa pubblica sono scelte politiche di sovranità interna e non vengono affato contemplate dal famigerato articolo 11». Conclusione: «Stolti quegli uomini che invocano la Costituzione per difenderla nella sua parte ordinamentale – parte invece che potrebbe benissimo essere stravolta senza “troppissimi” problemi – mentre usano la zappa per interpretarne la prima, quella dei fondamenti e dei princìpi, che non può affatto essere né interpetata (essendo chiara) né modificata». Qualcuno ha barato, nel leggervi quello che non c’è: Costituzione e sovranità sotto tutt’uno, sul territorio nazionale. O almeno, dovrebbero esserlo. Invece si finge di difendere la Costituzione dopo averla calpestata, con la cessione – anticostituzionale – di ogni sovranità interna all’Unione Europa. «Birra analcolica», appunto.La Costituzione senza sovranità? «Dovrebbe essere illegale come la birra analcolica». Parola di Massimo Bordin, curatore del blog “Micidial”. «Mi sorprende sempre scoprire che ci sono uomini di cultura, persino accademici, secondo i quali fu possibile limitare la sovranità italiana, perchè “lo prevede anche la nostra Costituzione”». Stiamo parlando di disgraziati in malafede o di ignoranti acefali? «Temo di entrambe le tipologie umane», scrive Bordin, prendendo di mira la presunta legittimità, anche costituzionale, del “ce lo chiede l’Europa”. Ipocrisia: tutti bravi a fingere di ergersi a paladini della Costituzione, dopo averla “tradita” cedendo all’Unione Europea le prerogative che, secondo la Carta, sarebbero invece esclusivo appannaggio dell’Italia: sovranità non negoziabile, né cedibile, tranne che (in via eccezionale) a un unico soggetto: le Nazioni Unite. Sul banco degli imputati, scrive Bordin, c’è il famigerato articolo 11, che effettivamente parla di cessioni di sovranità nazionale. Tuttavia, l’articolo «non limita la sovranità del popolo, ma solo quella dello Stato in rapporto agli altri Stati». L’articolo 11 fa quindi riferimento alla “sovranità esterna”, non a quella “interna”. Attenzione: non si tratta di “sfumature”, ma di sostanza: chi ha ceduto la sovranità italiana all’Ue ha piegato la Costituzione.