Archivio del Tag ‘liberaldemocratici’
-
Brexit straccia Corbyn, i poveri premiano il falso amico Boris
«I segnali di una sconfitta c’erano tutti, nonostante le illusioni dettate dalle piazze piene e dalle lunghe file di giovani ai seggi». Un analista come Nicola Melloni commenta così il trionfo annunciato di Boris Johnson nel Regno Unito: il consenso si sposta su posizioni estreme, e le classi sociali ignorate per decenni si sono sentite defraudate del referendum sulla Brexit. «Il fronte Brexit si è compattato intorno ai Conservatori (con l’aiuto decisivo del Brexit Party che ha eroso consensi ai Laburisti nel Nord); quello Remain si è affidato principalmente, ma non unicamente, al Labour). Corbyn? «Si è trovato in una situazione impossibile: sostenere un secondo referendum è costato una quarantina di seggi al Nord». Se non lo avesse fatto, «avrebbe dato il via libera ai Libdem come unico partito del Remain: senza poi tenere in considerazione che quasi il 70% dell’elettorato laburista è contrario alla Brexit». Quanto ai Libdem, «rappresentano interessi economici e politici ben definiti e una borghesia liberale spesso assolutamente indisponibile a votare Labour». Insomma, «qualsiasi scelta sarebbe stata perdente», come in effetti si è visto. E ora, la Gran Bretagna staccherà la spina da Bruxelles in modo drastico.«Corbyn ha provato a trasformare il “secondo referendum” sulla Brexit in una elezione normale in cui si parlasse di un programma vastamente apprezzato», per metter fine «a un drammatico decennio di governo conservatore», scrive Melloni su “Jacobin Italia”. «Non c’è riuscito, le carte le hanno date gli altri e il risultato è stato una sconfitta di proporzioni storiche». In molti, aggiunge l’analista, si domandano come sia possibile che le zone più povere del paese abbiano votato per un partito che le ha affamate e per un leader che considera la working class con disprezzo. «Il populismo attuale – spiega Melloni – non è altro che il frutto di una progressiva de-istituzionalizzazione della politica, iniziata con la stagione neoliberista». In questi decenni, «i partiti di cosiddetta sinistra hanno perso qualsiasi capacità tanto rappresentativa che di mobilitazione». Il “red wall” elettorale, dunque, «esisteva più come concetto geografico che politico – un po’ come le regioni rosse in Italia». Corbyn proponeva un programma che parlava soprattutto a quelle regioni, ma non è bastato. «Per gente e classi sociali che sono state ignorate per decenni, veder messo in discussione un voto inequivocabile come quello del referendum è stato uno schiaffo inaccettabile, l’ennesima controprova di come Westminster sia un mondo a parte rispetto ai bisogni del Nord».Johnson ha giocato proprio su questo: «Ha offerto il suo corpaccione come scudo contro il Parlamento, l’establishment, e in difesa del voto popolare», scrive Melloni. «Ha imposto la sua narrativa – d’altronde in Uk per tre anni si è parlato solo di Brexit – e ha vinto». Così, la capacità di attrazione «su una fetta di società frustrata e che si sentiva defraudata del suo potere decisionale», alla fine è risultata «molto più forte di quella nel fronte Remain (diviso e non altrettanto agguerrito)». A questo, aggiunge Melloni, si è aggiunta una campagna senza quartiere scatenata – quella sì dal vero establishment – contro Corbyn. Un uomo di specchiata onestà e rigore morale e politico «è stato dipinto come un antisemita razzista, mentre il razzismo conclamato di Johnson è stato completamente ignorato». La stessa Bbc «si è trasformata in una succursale di Rete4, con violazioni della legge elettorale, conduttori in veste di agit-prop e un coverage basato su falsità e parzialità». Il che non spiega la sconfitta, «ma spiega la bassissima popolarità di Corbyn a dispetto di un programma largamente apprezzato».Da questo, secondo Melloni, discendono inevitabilmente delle importanti lezioni per la sinistra tutta. «Da oggi, ovviamente, vorranno farvi credere che la sinistra radicale sia un inutile rottame della storia destinato inevitabilmente alla sconfitta. E che solo un programma che guarda al centro può fermare le destre». Ma questa «è una sciocchezza opportunista», protesta Melloni. «I risultati britannici dicono tutt’altro: al crollo dei laburisti è corrisposta una performance penosa dei liberaldemocratici, la cui leader non è stata neppure eletta». Non solo: «Nonostante tutta la stampa moderata dipingesse Corbyn come un novello Attila, i Libdem sono riusciti a intercettare solo una piccola percentuale dei voti laburisti in uscita». Di fatto, «non c’è nessuna voglia di centro o di ritorno al New Labour». I voti persi «sono andati tanto a destra più che al centro». E se Boris Johnson «è solo l’ennesimo estremista di destra eletto», il messaggio forte e chiaro è che «le partite non si giocano più al centro, ma sulle estreme: l’elettore mediano potrà forse ancora essere un “moderato”, ma lo schiacciamento della distribuzione porta a maggioranze radicali ed estreme, prendendo il voto degli sconfitti della globalizzazione neoliberale».La seconda lezione inglese, sempre secondo Melloni, è che non bastano programmi e candidati radicali: «Come si è visto, il programma economico e sociale più di sinistra in trent’anni non solo non è bastato ma ha perso le regioni più povere della Gran Bretagna». Da storico, Melloni cita Gramsci: il lavoro quotidiano nella società, la creazione di una “coscienza di classe”. Problema: «L’agenda è strettamente controllata dalla destra, così come i media. Ed è chiarissimo che il cosiddetto centro moderato preferisce la destra peggiore a un’alternativa di sinistra». In Italia, il “Corriere della Sera” ha rivaluto «quel simpatico mattacchione di Boris in funzione anti-socialista». E la campagna denigratoria riservata a Corbyn «sarà replicata contro qualsiasi altro candidato». Per contro, secondo Melloni, qualche segnale postivo viene dagli Usa, grazie all’attivismo di Bernie Sanders: «Le ondate di scioperi di questi anni hanno cominciato a costruire tanto una coscienza che una comunità politica di riferimento. E la sinistra è riuscita in parte a imporre una propria narrazione, dalla diseguaglianza alla critica di Wall Street fino alla sanità pubblica».Nel Regno Unito, invece, il Labour non è riuscito a fare nulla del genere: «I sindacati sono smobilitati da tre decenni, e lo slogan principale della campagna elettorale è stato la difesa della Nhs (il sistema sanitario nazionale) che, per quanto sacrosanta, è alla fine una difesa dello status quo, obiettivamente più debole della promessa di un grande cambio e del “take back control” della Brexit». Se non altro, dice Melloni, l’esperienza di Corbyn ha mostrato anche lati positivi: “Momentum”, con la sua struttura organizzativa, «ha dimostrato un’inaspettata capacità di mobilitazione, in netta controtendenza con la de-istituzionalizzazione della post-democracy». E lo stesso Corbyn ha riempito piazze, cercando di riannodare un filo con la nuova base del partito: studenti, lavoratori delle grandi città, ceto medio proletarizzato e frustrato. E’ un fatto: nonostante la batosta, il Labour rimane di gran lunga il partito di sinistra più votato in Occidente. Una rinascita della sinistra richiede trent’anni, secondo Melloni: bisogna prima «imporre una narrazione diversa», e quindi «resistere a un sistema di potere che non accetterà mai di giocare una partita regolare: hanno troppo da perdere per permetterlo». Dunque Corbyn ha stra-perso, «ma qualche cosa da insegnare ce l’ha ancora».«I segnali di una sconfitta c’erano tutti, nonostante le illusioni dettate dalle piazze piene e dalle lunghe file di giovani ai seggi». Un analista come Nicola Melloni commenta così il trionfo annunciato di Boris Johnson nel Regno Unito: il consenso si sposta su posizioni estreme, e le classi sociali ignorate per decenni si sono sentite defraudate del referendum sulla Brexit. «Il fronte Brexit si è compattato intorno ai Conservatori (con l’aiuto decisivo del Brexit Party che ha eroso consensi ai Laburisti nel Nord); quello Remain si è affidato principalmente, ma non unicamente, al Labour). Corbyn? «Si è trovato in una situazione impossibile: sostenere un secondo referendum è costato una quarantina di seggi al Nord». Se non lo avesse fatto, «avrebbe dato il via libera ai Libdem come unico partito del Remain: senza poi tenere in considerazione che quasi il 70% dell’elettorato laburista è contrario alla Brexit». Quanto ai Libdem, «rappresentano interessi economici e politici ben definiti e una borghesia liberale spesso assolutamente indisponibile a votare Labour». Insomma, «qualsiasi scelta sarebbe stata perdente», come in effetti si è visto. E ora, la Gran Bretagna staccherà la spina da Bruxelles in modo drastico.
-
Fassina: solo la destra sa che la politica deve proteggerci
Penso che il Ddl firmato da 5 Stelle e Lega sulla Banca d’Italia sia parte della ricostruzione del primato della politica sull’economia. La politica monetaria è uno degli strumenti politici più importanti. E ritenere che la politica debba rimanere fuori dalla politica monetaria è stato un errore, frutto di un pensiero unico che si è affermato in modo assolutamente trasversale. Il disegno di legge che hanno presentato i capigruppo di Lega e 5 Stelle al Senato è sostanzialmente un passo avanti; non è che finisca l’indipendenza di Bankitalia, c’è un richiamo esplicito ai trattati europei. Si introduce il meccanismo previsto per la Bundesbank, quindi non una misura nord-coreana. E cioè: il governo nomina presidente e direttore generale, un membro del direttorio (vicepresidente), e altri due membri del direttorio (anch’essi vicepresidenti) vengono nominati uno dalla Camera e l’altro dal Senato. E’ esattamente il modello vigente in Germania. E solo una sinistra che ha completamente smarrito un minimo di autonomia culturale può considerare eversivo e inaccettabile questa proposizione, che a mio avviso invece fa fare un passettino avanti, alla politica, nel governo di uno strumento fondamentale come quello della politica monetaria.
-
Formica: il M5S non fa politica, l’onestà pubblica è religione
Quando in politica si ricorre alla questione morale vuol dire che non si hanno più soluzioni politiche. Anzi, la semplice posizione della questione morale è già aver attraversato la soglia tra ideologia e religione. Vuol dire che siamo allo Stato religioso. Cosa sono in definitiva i sistemi teocratici? Sono sistemi non politici, dove le ragioni politiche non contano, contano gli atti di fede. Quando si ricorre agli atti di fede andiamo indietro nella storia europea di molti secoli. Ma la fede non c’è più. Ci sono altre strade per smantellare la ricerca di soluzioni politiche: i luoghi comuni. Uno dei più frequenti è la mancanza di alternative. Come si fa a produrre l’alternativa? Abbandonando il totem della continuità. La crisi di sistema richiede di ragionare in termini di rottura. Il sistema politico e istituzionale del paese si sta disgregando. Si badi: è un processo di lungo periodo, che occupa gli ultimi 25 anni. Accade quando le istituzioni non svolgono più il loro ruolo, quello di essere contenitori democratici della dialettica degli interessi, generali e particolari. Una seconda Tangentopoli, con i Pm che fanno politica? Non direi così. Il M5S nasce come espressione organizzata del dissenso diffuso e contraddittorio che c’è nella società. Qui emerge però il suo peccato d’origine.Le mille proteste muovono la piazza, ma non creano di per sé una struttura istituzionalmente capace di portare un equilibrio, un ordine, una visione realizzabile. Movimento 5 Stelle e magistratura sono simili, nella limitazione del fine politico. La magistratura non può non svolgere il suo ruolo, che è quello di colpire quelle che dal punto di vista penale sono responsabilità personali. Non ha come obiettivo quello di risolvere crisi di sistema. E infatti ad ogni sospetto o accusa di agire con finalità politiche ogni magistrato risponderà, senza paura di essere smentito, di avere fatto solamente il suo lavoro. Chi esiste per mantenere o correggere il sistema sono i partiti politici. Ma il M5S è sprovvisto di fine politico, perché il fine politico è la gestione dell’interesse generale nella ricomposizione dei conflitti di parte. Un paradosso: un partito come il Movimento 5 Stelle, con 221 deputati e 122 senatori, non ha un fine politico? Non ce l’ha. E quando dichiara di non essere né di destra né di sinistra dice, senza saperlo, di non essere una forza politica. Essere di destra o di sinistra significa avere la capacità di decidere scegliendo. Anzi, di esistere solamente in virtù di tale scelta. Se dico “non sono né di destra né di sinistra” dico implicitamente “io non scelgo”, ovvero “non sono un politico”.Esiste la possibilità che il M5S, come organizzazione a-politica, non decidente sulle questioni sostanziali, faccia gli interessi di qualcun altro? Certo. Lo fa indirettamente: creando il vuoto, consente a forze esterne di inserirsi. Nel caso italiano, sono forze che disgregano la funzione dell’Italia all’interno di un sistema attualmente in fase di scomposizione e alla ricerca di una ricomposizione, il sistema-Europa. Meglio: sono interessate ad utilizzare il caos italiano per creare una condizione di caos europeo. L’America di Trump? Non solo. Le forze interessate alla disgregazione europea sono in tutto il mondo. Quando è finita la gestione bipolare del mondo Usa-Urss, a farla da padrone è stato l’unilateralismo americano. Ma la globalizzazione ha imposto nuovi centri di aggregazione degli interessi geopolitici di vaste dimensioni. Bisognerebbe che il socialismo europeo non fosse sconfitto e che il Ppe non fosse costretto ad un’alleanza con la destra. C’è un problema: la vecchia coalizione Pse-Ppe ha fallito. Questa Ue è il suo prodotto. Quel patto va riformato. Non attraverso una ricomposizione statica dell’alleanza tradizionale, ma mediante un rinnovamento delle culture democratiche europee, quella dei popolari, dei socialisti, dei liberaldemocratici e dei Verdi. Se queste forze si troveranno a non avere delle maggioranze precostituite già assegnate, vedranno un forte riformismo di cultura politica. Allora l’Europa potrà entrare in Italia. Altrimenti sarà il caos italiano a entrare in Europa.(Rino Formica, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Tangenti e Pm, Formica: ecco chi manovra il M5S”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 17 maggio 2019. Formica, 92 anni, a lungo ministro socialista, è una memoria vivente della Prima Repubblica. Ebbe a dire: «Se fai il puro, c’è sempre qualcuno più puro di te, che poi ti epura»).Quando in politica si ricorre alla questione morale vuol dire che non si hanno più soluzioni politiche. Anzi, la semplice posizione della questione morale è già aver attraversato la soglia tra ideologia e religione. Vuol dire che siamo allo Stato religioso. Cosa sono in definitiva i sistemi teocratici? Sono sistemi non politici, dove le ragioni politiche non contano, contano gli atti di fede. Quando si ricorre agli atti di fede andiamo indietro nella storia europea di molti secoli. Ma la fede non c’è più. Ci sono altre strade per smantellare la ricerca di soluzioni politiche: i luoghi comuni. Uno dei più frequenti è la mancanza di alternative. Come si fa a produrre l’alternativa? Abbandonando il totem della continuità. La crisi di sistema richiede di ragionare in termini di rottura. Il sistema politico e istituzionale del paese si sta disgregando. Si badi: è un processo di lungo periodo, che occupa gli ultimi 25 anni. Accade quando le istituzioni non svolgono più il loro ruolo, quello di essere contenitori democratici della dialettica degli interessi, generali e particolari. Una seconda Tangentopoli, con i Pm che fanno politica? Non direi così. Il M5S nasce come espressione organizzata del dissenso diffuso e contraddittorio che c’è nella società. Qui emerge però il suo peccato d’origine.
-
Magaldi: 5 Stelle, bugie sul Venezuela e fallimenti in Italia
Mascalzoni: o siete ignoranti, all’oscuro dei fatti, o siete addirittura in malafede. E non si sa cosa sia peggio, visto che sedete addirittura al governo. Pazienza, se si trattasse dei soliti “leoni da tastiera”, che sui social diffondono falsità e distribuiscono insulti in modo sleale, protetti dall’anonimato, convinti di restare impuniti in eterno. Ma se si rivestono cariche istituzionali, non si può scadere fino a questo punto. Specie se, come in Venezuela, è in gioco la sicurezza di quasi 30 milioni di persone, ormai alle prese con un’emergenza umanitaria. Sono tantissimi i venezuelani di origine italiana, ieri vicini al governo socialista di Hugo Chavez e ora spaventati e mortificati: dall’invereconda autocrazia dell’indegno Nicolas Maduro, e dal silenzio ufficiale dell’Italia, il cui governo non prende posizione in modo netto sulla crisi in corso. E’ esasperato, Gioele Magaldi, di fronte all’opaca neutralità dei 5 Stelle: non riconoscendo Juan Guaidò come “presidente ad interim”, i pentastellati finiscono per supportare Maduro, cioè il politico fallimentare di cui la stragrande maggioranza dei venezuelani vorrebbe liberarsi. «Avevo dato del cialtrone ad Alessandro Di Battista – tuona Magaldi, in web-streaming su YouTube – ma ora allo stesso giudizio associo anche il vicepremier Luigi Di Maio, allineatosi a Di Battista, esattamente come il presidente della Camera, Roberto Fico».L’accusa: è semplicemente folle dare del “golpista” a Guaidò, solo perché è sostenuto dagli Usa. «L’autoproclamato presidente non ha fatto nulla che non fosse previsto dalla Costituzione del Venezuela: e il governo italiano non può fingere di non saperlo, come invece fanno i 5 Stelle». Scandisce i termini della questione, il presidente del Movimento Roosevelt: per chi non l’avesse ancora capito, ribadisce, Guaidò non è un “signor nessuno” messo lì dalla perfida America per rovesciare un governo legittimo. E’ il presidente del Parlamento. E la Costituzione del suo paese – in circostanze straordinarie, come queste – gli conferisce il potere, legale, di disconoscere il presidente in carica, sostituendolo in via strettamente provvisoria. Con un unico obiettivo: indire elezioni. Dove starebbe il golpismo? Per colpo di Stato si intende: presa del potere con metodi violenti, mediante l’uso della forza. Guaidò vuole forse cacciare Maduro per insediarsi stabilmente alla presidenza? No: si limita a compiere un passaggio costituzionale necessario, per imporre a Maduro il ripristino della legalità democratica. Vuole che i venezuenali possano tornare a votare. L’ultima volta che l’hanno fatto, lo scorso anno, il partito di Maduro ha praticamente vinto da solo: l’opposizione incarnata da Guaidò non si era neppure candidata, non ravvisando l’agibilità democratica della consultazione. Come si può parlare, seriamente, di golpe?Certo, il Venezuela è ricchissimo di petrolio: ha la prima riserva petrolifera del mondo, e ora è boicottato dagli Stati Uniti. Come ricorda Eugenio Benetazzo, c’è proprio il petrolio nel destino di Caracas, nel bene e nel male: usando i proventi del greggio, Hugo Chavez riuscì a condurre uno spettacolare programma di welfare, di stampo socialista. Maduro avrebbe voluto imitarlo, ma il crollo del prezzo del barile gliel’ha impedito. E quando il paese è scivolato nella crisi, l’erede di Chavez – a differenza del suo precedessore – non ha esitato a ricorrere alla repressione, di fronte alle proteste popolari. Maduro ha forzato ripetutamente la Costituzione, cosa che invece Chavez s’era ben guardato dal fare: aveva proposto una modifica costituzionale in senso presidenziale, ma aveva accettato (democraticamente) il verdetto contrario dei venezuelani. «Maduro – sintetizza Magaldi – ha letteralmente rovinato il gran lavoro svolto da Chavez». Non ci credete? E allora, suggerisce il presidente del Movimento Roosevelt, magari leggetevi su “L’Intellettuale Dissidente” le illuminanti analisi di un osservatore privilegiato come Giuseppe Angiuli, grande estimatore di Chavez e oggi rassegnato a descrivere “la triste parabola del socialismo bolivariano”, con ormai quasi 3 milioni di venezuali in fuga – per fame – nei paesi vicini.Lo fa notare lo stesso Benetazzo: è vero, il regime di Maduro si è trovato ad affrontare difficoltà serissime ed è stato progressivamente “accerchiato”. Ma la sua evidente incapacità è ormai diventata un problema insormontabile: al di là dell’avversione ideologica per il governo di Caracas, paesi come Brasile, Argentina ed Ecuador percepiscono Maduro come un ostacolo da rimuovere, non essendo in grado di impedire che il Venezuela si trasformi in una bomba sociale, nel teatro regionale di una catastrofe umanitaria. Alle Sette Sorelle – fa notare Gianni Minà – fa gola il petrolio venezuelano: il loro grande obiettivo è appropriarsi della Pdvsa, la compagnia petrolifera nazionale, tuttora statale. Tutto sembra congiurare contro Maduro: l’Ue lo ha scaricato, e la Banca d’Inghilterra rifiuta di restituire al Venezuela l’ingente riserva aurea di cui il paese virtualmente dispone, nei forzieri di Londra. Ma in tutto questo – insorge Magaldi – come si fa a non vedere da che parte sta, Juan Guaidò? Non agisce a nome delle perfide multinazionali, bensì del popolo venezuelano mortificato e affamato dalla crisi che Maduro non ha saputo affrontare, preferendo silenziare l’opposizione e reprimere ferocemente le proteste, anche calpestando la Costituzione che Hugo Chavez aveva sempre rispettato.Magaldi considera Guaidò un patriota, un vero sindacalista civile del suo paese. Un uomo coraggioso, pronto a rischiare la pelle in nome della democrazia. Il suo partito, “Voluntad Popular”, non è affatto neoliberista: è di ispirazione dichiaratamente liberaldemocratica. Magadi è trasparente: lui stesso, precisa, milita nello stesso network massonico internazionale di Guaidò, quello che si dichiara progressista e si oppone al dominio neo-oligarchico che ha confiscato la democrazia in tutto il pianeta. Come dire: di Guaidò potete fidarvi. In Venezuela, antichi supporter di Chavez masticano amaro, di fronte a quello che interpretano come un tradimento, e vedono in Guaidò un leale traghettatore. Ipotesi: un nuovo Venezuela, non più affamato né “normalizzato”, non ridotto a colonia neoliberale. Un paese senza più il carisma del chavismo, certo, ma senza neppure «gli eccessi statalistici che, in altri tempi, in Cile, prepararono le condizioni del golpe Usa che costò la vita ad Allende, altro massone progressista». Ma, a parte l’orientamento politico di Guaidò, «socialdemocratico, non certo reazionario», l’oppositore di Maduro – insiste Magaldi – riveste oggi un profilo istituzionale perfettamente legale, che solo un cieco potrebbe non vedere. Per questo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la vacuità bugiarda e cialtrona dei 5 Stelle, di fronte alla tragedia venezuelana, è pari alla fellonia parolaia del “governo del cambiamento”, che in Italia non sta cambiando proprio niente.Sparare proclami a vanvera su uno scenario lontano come il Venezuela, fa notare Magaldi, serve anche a distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sulle miserie domestiche dell’infimo governo gialloverde. Nelle parole dei leader pentastellati risuonano echi terzomondisti e vetero-antiamericanisti? Male, dice Magaldi (atlantista dichiarato), perché è facile giocare con gli slogan, come fanno gli anonimi “eroi” del web complottista. L’imperialismo yankee è brutto? «Tutte le potenze del mondo, da sempre, attuano politiche di quel tipo». L’egemonia Usa è stata determinante per l’Italia? Eccome: «Ma chi demonizza gli Stati Uniti dimentica cos’era, l’Italia feroce di Mussolini con le sue leggi razziali. Dimentica che, senza il Piano Marshall, il paese – in macerie – non sarebbe mai diventato quello del boom economico. I detrattori degli Usa avrebbero preferito l’egemonia dell’Urss? Volevano che l’Italia diventasse come l’Albania? La Cecoslovacchia? L’Unghieria?». Ovvio, non c’è rosa senza spine: e l’Italia ne ha assaggiate parecchie. Bombe nelle piazze, stragismo, strategia della tensione, tentativi di golpe. Tutta roba americana, anche quella. Chi lo dice? Sempre Magaldi, nel saggio “Massoni”.Col piglio dello storico e del politologo, l’autore ha svelato retroscena mai prima chiariti: erano massoni statunitensi i burattinai della Loggia P2 di Licio Gelli, con la sua rete di servizi deviati e terroristi pilotati. Ma erano massoni statunitensi – di segno opposto, progressista – gli uomini come Arthur Schlesinger Jr., capaci di manovrare dietro le quinte per sventare tutti e tre i tentativi di colpo di Stato organizzati dai signori della “Three Eyes” capitanata da Kissinger, l’ispiratore del golpe in Cile, dall’onnipresente David Rockefeller (grande padrino della Trilaterale) e dal raffinato stratega Zbigniew Brzezinski, l’uomo che arruolò Osama Bin Laden in Afghanistan. Poi però, annota Magaldi, lo stesso Brzezinski ci riomase male, quando Bin Laden lasciò la “Three Eyes” per approdare alla “Hathor Pentalpha” dei Bush, cupola eversiva e terroristica, capace di progettare (con l’11 Settembre) la strategia della tensione internazionale che stiamo ancora scontando, per imporre – a mano armata – la peggior forma di globalizzazione. Uno schema a cui il pavido Obama non ha osato opporsi, e che oggi vede come il fumo negli occhi l’outsider assoluto che siede alla Casa Bianca, Donald Trump, l’uomo che oggi vorrebbe liberarsi di Maduro. Come dire: niente è come sembra, l’apparenza inganna. Più che gli Stati, la geopolitica la dettano gruppi ristretti, in lotta fra loro. Ma appena sale la tensione, ricompaiono le bandiere: e il derby lo vince l’emotività. Peccato veniale, prendere lucciole per lanterne, a patto che non si sieda al governo di un paese come l’Italia.Magaldi è stato un franco sostenitore del governo Conte, come unico possibile esecutivo “eretico” rispetto al dogma finto-europeista. Aveva scommesso sulla freschezza dei 5 Stelle e sulla conversione nazionale di Salvini, a capo di una Lega non più nordista. Sperava che l’esecutivo avesse il coraggio di resistere alle pressioni internazionali, esercitate prima ancora che il governo nascesse, con il “niet” su Paolo Savona all’economia. Ad ogni sconfitta, leghisti e grillini hanno alzato la voce: grandi proclami, per nascondere l’imbarazante verità. L’ipotesi di deficit al 2,4%? Troppo debole, per aiutare l’economia. Ma si sono dovuti rimangiare pure quella, piegandosi agli oligarchi di Bruxelles. Non hanno osato tener duro, i gialloverdi, neppure di fronte al clamoroso assist offerto in Francia, contro l’establishment eurocratico, dai Gilet Gialli. L’ultima cosa che oggi possono permettersi di fare, i 5 Stelle, è di dire stupidaggini su Juan Guaidò, insiste Magaldi: prima di parlare, si leggano la Costituzione del Venezuela. E smettano di essere ipocriti: «Il governo è pieno di massoni, anche se nel “contratto” (in modo discriminatorio, ledendo un diritto democratico) avevano scritto che non avrebbero dato spazio a esponenti della massoneria». Peggio: «Qualche settimana fa, esponenti della maggioranza erano venuti a chiedere la mia personale intercessione per essere aiutati, a livello europeo, dai circuiti massonici progressisti». E adesso vogliono farci la lenzioncina sul Venezuela?O siete ignoranti, all’oscuro dei fatti, o siete addirittura in malafede. E non si sa cosa sia peggio, visto che sedete addirittura al governo. Pazienza, se si trattasse dei soliti “leoni da tastiera”, che sui social diffondono falsità e distribuiscono insulti in modo sleale, protetti dall’anonimato, convinti di restare impuniti in eterno. Ma se si rivestono cariche istituzionali, non si può scadere fino a questo punto. Specie se, come in Venezuela, è in gioco la sicurezza di quasi 30 milioni di persone, ormai alle prese con un’emergenza umanitaria. Sono tantissimi i venezuelani di origine italiana, ieri vicini al governo socialista di Hugo Chavez e ora spaventati e mortificati: dall’invereconda autocrazia dell’indegno Nicolas Maduro, e dal silenzio ufficiale dell’Italia, il cui governo non prende posizione in modo netto sulla crisi in corso. E’ esasperato, Gioele Magaldi, di fronte all’opaca neutralità dei 5 Stelle: non riconoscendo Juan Guaidò come “presidente ad interim”, i pentastellati finiscono per supportare Maduro, cioè il politico fallimentare di cui la stragrande maggioranza dei venezuelani vorrebbe liberarsi. «Avevo dato del cialtrone ad Alessandro Di Battista – tuona Magaldi, in web-streaming su YouTube – ma ora allo stesso giudizio associo anche il vicepremier Luigi Di Maio, allineatosi a Di Battista, esattamente come il presidente della Camera, Roberto Fico».
-
Annullare la Brexit? Ora il divorzio mette in croce Corbyn
Un sondaggio riservato, commissionato dalla campagna pro-Ue “Best for Britain” (che vede tra i suoi finanziatori principali lo speculatore George Soros) suggerisce che gli elettori britannici sarebbero meno propensi a sostenere il Labour qualora il partito dovesse impegnarsi in maniera decisa a fermare la Brexit. Lo rivela il “Guardian”: quasi un terzo degli intervistati avrebbe dichiarato che, in questa circostanza, voterebbe con meno probabilità i laburisti. Un numero simile di cittadini ha affermato che la posizione sul tema non muterebbe l’atteggiamento verso la formazione guidata da Corbyn. Solo il 25% del campione, scrive Andrea Genovese su “Contropiano”, ha dichiarato che un impegno “europeista” del Labour costituirebbe una maggior motivazione per sostenere la compagine. “Best for Britain”, che sta spingendo per un secondo referendum Ue, ha commissionato il sondaggio prima che i parlamentari votassero sull’accordo negoziato da Theresa May con l’Ue (poi clamorosamente respinto dalla Camera dei Comuni). Quanto ai flussi elettorali, il sondaggio afferma che una svolta in favore del secondo referendum ad opera del Labour potrebbe far guadagnare al partito il 9% degli elettori conservatori, ma causerebbe la perdita dell’11% degli attuali sostenitori laburisti.Per la formazion di Corbyn sarebbe una perdita solo parzialmente compensata dal maggiore interesse con il quale guarderebbero al Labour i simpatizzanti dei piccoli partiti pro-Ue, cioè Verdi e Liberaldemocratici. Il leader Jeremy Corbyn, osserva Genovese, si trova in una situazione delicatissima, «stretto tra le smanie europeiste dei settori centristi del suo partito» (71 parlamentari del Labour sostengono apertamente la campagna per un secondo referendum) e la necessità di «rassicurare l’elettorato tradizionale laburista che, soprattutto nel Nord dell’Inghilterra, ha votato in maniera consistente per la Brexit». Fallita la mozione di sfiducia al governo May (che è rimasto in piedi) e incassata l’indisponibilità dei Liberal-Democratici a sostenere simili tentativi in futuro, l’obiettivo di portare il paese a elezioni anticipate appare lontano. La sua strategia, ricorda Genovese, Jeremy Corbyn l’aveva messa a punto lo scorso settembre a Liverpool: «Superare in avanti le divisioni causate dalla Brexit (da assumere come dato acquisito pur preservando l’accesso all’Unione Doganale), tramite un programma socialmente avanzato col quale parlare alla maggioranza della popolazione, provando a mettere in crisi, nel gioco parlamentare, Theresa May, e a guadagnare le urne anticipate».La strada di Corbyn si fa stretta, secondo “Contropiano”: l’inizio dei colloqui parlamentari ha anche segnalato l’avvio di grandi manovre per riunire Conservatori, Nazionalisti, Centristi e la destra interna laburista intorno ad un nuovo accordo sulla Brexit. Un accordo che, per gli oppositori interni del segretario del Labour, «potrebbe anche avere l’utilità di azzoppare un leader sgradito e del tutto eccentrico rispetto alla recente tradizione del partito, completamente genuflessa ai diktat neoliberisti». A Corbyn guarda anche il variegato panorama – piuttosto disperso – dei progressisti europei che avevano tifato per il “Remain”, nella speranza che proprio il partito laburista (radicalmente rinnovato da Corbyn in senso socialista) potesse fare da contrappeso, nell’ambito dell’Unione Europea, allo strapotere del patto mercantilista franco-tedesco, al quale si sono incresciosamente allineati sia i socialisti francesi che l’Spd tedesca e il Pd italiano. Con la Brexit, i progressisti europei hanno perso – in Corbyn – un alleato potenzialmente strategico. Che ora, come scrive il “Guardian”, dovrà provare a sopravvivere, politicamente, tra le mille insidie (anche interne) innescate dal tormentato divorzio da Bruxelles.Un sondaggio riservato, commissionato dalla campagna pro-Ue “Best for Britain” (che vede tra i suoi finanziatori principali lo speculatore George Soros) suggerisce che gli elettori britannici sarebbero meno propensi a sostenere il Labour qualora il partito dovesse impegnarsi in maniera decisa a fermare la Brexit. Lo rivela il “Guardian”: quasi un terzo degli intervistati avrebbe dichiarato che, in questa circostanza, voterebbe con meno probabilità i laburisti. Un numero simile di cittadini ha affermato che la posizione sul tema non muterebbe l’atteggiamento verso la formazione guidata da Corbyn. Solo il 25% del campione, scrive Andrea Genovese su “Contropiano”, ha dichiarato che un impegno “europeista” del Labour costituirebbe una maggior motivazione per sostenere la compagine. “Best for Britain”, che sta spingendo per un secondo referendum Ue, ha commissionato il sondaggio prima che i parlamentari votassero sull’accordo negoziato da Theresa May con l’Ue (poi clamorosamente respinto dalla Camera dei Comuni). Quanto ai flussi elettorali, il sondaggio afferma che una svolta in favore del secondo referendum ad opera del Labour potrebbe far guadagnare al partito il 9% degli elettori conservatori, ma causerebbe la perdita dell’11% degli attuali sostenitori laburisti.
-
Formica: Italia, 25 anni anni di false rivoluzioni moralistiche
La destra europea, in tutte le sue espressioni, appare all’attacco ed unita, mentre la sinistra procede in ordine sparso ed è in ripiegamento. La destra nelle società moderne è sempre viva, la sinistra deve sempre rinascere. La destra è un elemento costitutivo della realtà esistente nella società. La sinistra è una manifestazione della volontà di gruppi e di forze della società per un cambio dell’esistente. La destra è sempre unita perché tutela l’esistente. La sinistra è divisa perché diverse sono le visioni per la costruzione di un futuro. Per la destra l’elemento unificante è nelle cose. Per la sinistra l’unità è ricerca e mediazione al suo interno. La forza attuale della destra è nella incapacità della sinistra a trovare il baricentro di una nuova costruzione delle comunità nazionali e sovranazionali. Renzi l’omologo di Berlusconi a sinistra? Tra Renzi e Berlusconi vi sono molti punti in comune. Tutti e due ritengono che siano superate le grandi culture che condizionarono il conflitto sociale e politico nella costruzione delle democrazie moderne.Tutti e due ritengono: 1) che il potere sia indivisibile e quindi unificabile sotto una guida illuminata; 2) che le istituzioni rappresentative debbano essere funzionali all’esercizio del potere esecutivo; 3) che le disuguaglianze sociali siano attenuate dalla carità pubblica. La differenza tra Berlusconi e Renzi riguarda invece la diversità delle platee a cui si rivolgono. Berlusconi parla al moderatismo di massa; Renzi, invece, guarda alle tradizionali forze popolari approfittando della stanchezza generata in loro, dalle grandi paure per l’incerto futuro. Paradossalmente Berlusconi è un conservatore con venature liberaldemocratiche, mentre Renzi è simile a de Maistre, massone monarchico, cattolico reazionario, negatore di ogni Costituzione dello Stato moderno e avversario dichiarato della Rivoluzione Francese.I rischi di questi referendum in Veneto e Lombardia? Per valutarli bisogna tenere d’occhio l’evoluzione/involuzione del sistema politico. Se la degenerazione istituzionale in atto dovesse proseguire, è fatale che l’autonomismo degeneri in secessionismo. Differenze e analogie fra la crisi del sistema politico del 1992-93 e quella attuale? La differenza tra il ’92 e il ’93 è notevole. Venticinque anni fa il sistema istituzionale politico era intaccato e non era imploso. Dopo venticinque anni di accettazione passiva di una falsa rivoluzione moralistica da parte dei partiti residuali della Prima Repubblica e dei partiti novisti, il sistema democratico-parlamentare si è disfatto. La discussione e le votazioni sulla legge elettorale in corso non segnano la fine del parlamentarismo democratico, ma provocano nella opinione pubblica una pericolosa convinzione: il Parlamento è un ente inutile.(Rino Formica, dichiarazioni rilasciate ad Aldo Giannuli nell’intervista pubblicata sul blog di Giannuli il 27 ottobre 2017).La destra europea, in tutte le sue espressioni, appare all’attacco ed unita, mentre la sinistra procede in ordine sparso ed è in ripiegamento. La destra nelle società moderne è sempre viva, la sinistra deve sempre rinascere. La destra è un elemento costitutivo della realtà esistente nella società. La sinistra è una manifestazione della volontà di gruppi e di forze della società per un cambio dell’esistente. La destra è sempre unita perché tutela l’esistente. La sinistra è divisa perché diverse sono le visioni per la costruzione di un futuro. Per la destra l’elemento unificante è nelle cose. Per la sinistra l’unità è ricerca e mediazione al suo interno. La forza attuale della destra è nella incapacità della sinistra a trovare il baricentro di una nuova costruzione delle comunità nazionali e sovranazionali. Renzi l’omologo di Berlusconi a sinistra? Tra Renzi e Berlusconi vi sono molti punti in comune. Tutti e due ritengono che siano superate le grandi culture che condizionarono il conflitto sociale e politico nella costruzione delle democrazie moderne.
-
Rischio rivoluzioni colorate, Soros al lavoro contro la Brexit
La popolazione della Gran Bretagna sta per diventare la prossima vittima della tattica delle “rivoluzioni colorate” usata da Washington e Bruxelles contro i governi democraticamente eletti dalla Serbia alla Siria, dall’Ucraina al Brasile. Pochi giorni dopo la totalmente imprevista (anche da quest’autore) decisione popolare di resistere al bullismo dell’establishment e alle ondate della propaganda dei mass media per votare la Brexit, la contromossa dei globalismi sta già diventando chiara. Innanzitutto, un duro attacco alla sterlina e ai maggiori titoli azionari per mettere pressione finanziaria e giustificare le autogratificanti profezie apocalittiche che provengono dal campo degli sconfitti che volevano rimanere. Secondo, una pressione psicologica di massa organizzata da organizzazioni della “società civile”, come Avaaz, camuffata da protesta dal basso, ma de facto fondata da Fondazioni foraggiate da George Soros. La testa d’ariete di questa propaganda è la petizione per un secondo referendum, che ha già superato i tre milioni di firme, nonostante decine di migliaia di firme false siano state scoperte e rimosse.Terzo, l’uso di altri gruppi della “società civile”, tra cui “SumOfUs” e “38 Degrees”, per promuovere banchetti di opinione pubblica “progressista” per spiegare quali temi ed attacchi contro il Brexit saranno maggiormente efficaci. È una tecnica-chiave insegnata nel corso di formazione delle “rivoluzioni colorate”, formata sulle teorie di Gene Sharp e perfezionata da John Carlane, un liberale globalista ex ufficiale dell’esercito britannico, ora a capo del “Peace Education and Training Repository”. Quarto, la mobilitazione di crocchi di manifestanti arrabbiati e inclini alla violenza, a Londra ed in altre città chiave. Nonostante molti rappresentanti dell’estrema sinistra fossero a favore del Brexit, gang con bandiere comuniste ed anarchiche infestano le strade. Dovrebbero difendere le minoranze etniche (molte di queste in effetti hanno votato per il Brexit insieme ai connazionali della classe operaia) ma sono già state coinvolte in attacchi contro riconosciuti o sospetti sostenitori del Brexit.Quinto, le truppe della propaganda di proprietà delle élite liberali e vicine alla Cia stanno mentendo e pontificando per sfruttare su quanto sopra scritto. L’obiettivo è spaventare i votanti pro-Brexit “morbidi”, per fargli cambiare parere e creare le condizioni per trasformare le elezioni generali in autunno in un secondo referendum. Il proposito di questa guerra politica ibrida sulla maggioranza della popolazione è di far deragliare l’intero processo del Brexit e mantenere la nazione all’interno dell’Ue (o perlomeno trasformare l’uscita in un casino tale dal disincentivare qualsiasi altra nazione a fare qualcosa di simile). Ciò spiega il perché il primo ministro Cameron ha già infranto la promessa fatta prima del referendum, secondo la quale, se avesse vinto l’uscita, si sarebbe immediatamente appellato all’Articolo 50 del Trattato di Lisbona per iniziare la procedura del Brexit. Ora è lapalissiano che le élite eurofile non hanno alcuna intenzione di permettere che un piccolo intoppo, come la volontà espressa democraticamente dalla popolazione, distrugga il processo di “un’unione ancora più stretta” o della “necessità” geopolitica di avere un’Ue unita per il confronto con la Russia.Prima del voto dello scorso giovedì, a Bruxelles si erano tentate tutte le carte disponibili, incluso l’inganno e lo sfruttamento senza pietà dell’omicidio di Jo Cox, per assicurarsi un voto per restare. Nonostante il fallimento della campagna, una sparuta minoranza di irriducibili eurofili, attualmente guidata dal potente “tory” Lord Heseltine e da membri del Parlamento “moderati” laburisti e liberaldemocratici come David Lammy e Tim Farron, non accetterà il verdetto del referendum. Al contrario, sta tentando disperatamente di dare alle élite liberali la sicurezza in loro per sfoggiare un atto di estrema arroganza – negare al popolo britannico il diritto di vedere il loro voto concretizzarsi. Se la caveranno? O la reazione della gente comune quando realizzerà cosa sta succedendo sarà di sdegno tale da convincere gli eurofili che, già sul fondo del baratro, forse dovrebbero smettere di scavare? Non lo so. Ma non c’è dubbio che questa sarà la loro strategia. Non aspettiamoci stabilità nel prossimo futuro.(Nick Griffin, “Il Regno Unito affronta rivoluzioni colorate, visto che Soros si sta muovendo per fermare il Brexit”, da “The Saker” del 27 giugno 2016, tradotto da Franco per “Come Don Chisciotte”).La popolazione della Gran Bretagna sta per diventare la prossima vittima della tattica delle “rivoluzioni colorate” usata da Washington e Bruxelles contro i governi democraticamente eletti dalla Serbia alla Siria, dall’Ucraina al Brasile. Pochi giorni dopo la totalmente imprevista (anche da quest’autore) decisione popolare di resistere al bullismo dell’establishment e alle ondate della propaganda dei mass media per votare la Brexit, la contromossa dei globalismi sta già diventando chiara. Innanzitutto, un duro attacco alla sterlina e ai maggiori titoli azionari per mettere pressione finanziaria e giustificare le autogratificanti profezie apocalittiche che provengono dal campo degli sconfitti che volevano rimanere. Secondo, una pressione psicologica di massa organizzata da organizzazioni della “società civile”, come Avaaz, camuffata da protesta dal basso, ma de facto fondata da Fondazioni foraggiate da George Soros. La testa d’ariete di questa propaganda è la petizione per un secondo referendum, che ha già superato i tre milioni di firme, nonostante decine di migliaia di firme false siano state scoperte e rimosse.
-
Caracciolo: perché i russi sono ben lieti di tenersi Putin
La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe. Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa. Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno. Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore. Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. In parole povere, il regime vigente.Certo, alcuni coraggiosi sfidano la storia e Putin, confidando nell’avvento finale della democrazia in Russia. Tre anni fa costoro riuscirono per qualche settimana a suscitare manifestazioni di massa anti-regime a Mosca e in altre città. Oggi si sono riaffacciati sulla scena pubblica, in occasione dei funerali di Boris Nemtsov, l’oppositore misteriosamente freddato alle porte del Cremlino. Ma nuotano controcorrente. Nel clima di mobilitazione patriottica eccitato dalla guerra in Ucraina, quattro russi su cinque dichiarano di apprezzare il presidente. Lo scambio proposto da Putin al suo popolo – io vi garantisco sicurezza, stabilità e relativo benessere, voi lasciate la politica a me – sembra ancora reggere. Malgrado le sanzioni, o grazie ad esse. E nonostante il crollo del rublo. Per quanto tempo, nessuno può stabilire. Nel profondo dello spirito imperiale russo, la democrazia è percepita come il cavallo di Troia dell’Occidente per spaccare la patria e rigettarla in una nuova età dei torbidi. Con i cinesi a Khabarovsk, la Nato a Kaliningrad, gli islamisti padroni del Caucaso e dilaganti nel Tatarstan, gli skinheads a scorrazzare per San Pietroburgo, come nel fosco video di propaganda diffuso dai sostenitori di Putin alla vigilia delle elezioni del 2012.Che cos’è allora questo putinismo che da quindici anni regge la Federazione Russa? I politologi potrebbero ricorrere forse al termine democratura, crasi di democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista Predrag Matvejevic descriveva i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici. Eppure il caso russo fa storia a sé. Sotto il profilo geopolitico l’impero di Mosca ama offrirsi, oggi più che mai, come un polo autonomo e sovrano del “mondo cristiano”. Agli esordi, la Russia di Putin anelava ad essere riconosciuta come soggetto indipendente dell’insieme occidentale – leggi: anti-cinese e anti-islamico. Dal 2007 però, offeso dal rifiuto americano a considerarlo un partner paritario, il leader ha portato la Russia a contrapporsi all’Occidente. La guerra in Ucraina, nella quale i russi si percepiscono aggrediti da americani ed europei, lo ha spinto infine verso un’intesa tattica con la Cina e con due potenze islamiche come Turchia e Iran: i nemici storici di ieri sono gli (infidi) alleati di oggi. Quanto al regime politico: in Russia si vota, certo, ma le elezioni sono “gestite”, ossia più o meno moderatamente manipolate.Al centro del sistema partitico sta “Russia Unita”, braccio politico del presidente. Il quale incarna il cuore del meccanismo decisionale, secondo il principio della “verticale del potere”. I comandi partono dal Cremlino e si diramano giù fino all’ultimo dei poteri locali. Governo e Parlamento hanno ruoli non paragonabili al rango formale. Putin preferisce infatti decidere radunando piccoli comitati informali. Appena giunto al potere ha stabilito che il lunedì avrebbe radunato al Cremlino alcuni ministri, mentre le questioni serie le avrebbe discusse il sabato in dacia, con i consiglieri fidati e gli esponenti dei “dicasteri della forza” – militari e capi dell’intelligence. L’ukaz che determinava l’annessione della Crimea, ad esempio, il presidente l’ha varato dopo aver consultato solo il segretario del Consiglio di sicurezza, Nikolaj Patrushev, già direttore dell’intelligence, e il ministro della difesa, Sergej Shojgu. Putin era e resta uomo dei servizi segreti, nei quali entrò nel lontano 1976. «Un agente del Kgb non è mai ex», ripete. La sua visione del mondo è quella visceralmente securitaria che segna ogni uomo di intelligence. I suoi pochi confidenti vengono quasi tutti dal medesimo ambiente. Ma il presidente non è un dittatore assoluto. È l’amministratore delegato scelto dalle élite russe – in specie dagli apparati della forza ma anche da una pattuglia di oligarchi fidati – per proteggere il sistema. Ad esse risponde.Putin è un capo certo potentissimo, ma revocabile, se al sistema servisse un uomo nuovo. Con la guerra alle porte e la recessione che incupisce le prospettive dell’economia nazionale, non ci stupiremmo se un giorno non troppo lontano qualcuno dei mandatari – magari un generale – lo invitasse a dichiararsi malato per il supremo bene della patria. Uno degli uomini che lo aiutarono a insediarsi come amministratore delegato della Federazione Russa per salvarla dalla disintegrazione, Gleb Pavlovsky, ha osservato: «È impossibile dire quando questo sistema cadrà, ma quando cadrà, cadrà in un giorno. E quello che gli succederà sarà la copia di questo». E i russi di buona volontà, altrettanto patriottici di Putin, ma che aspirano alla libertà e allo Stato di diritto? Visti dal Cremlino, per loro vale sempre il motto del vecchio ministro zarista delle Finanze, Sergej Witte: «I nostri intellettuali lamentano che non abbiamo un governo come in Inghilterra. Farebbero meglio a ringraziare Iddio che non abbiamo un governo come quello della Cina».(Lucio Caracciolo, “Democratura: democrazia e populismo, la terza via di Putin”, da “La Repubblica” del 7 marzo 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe. Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa. Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno. Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore. Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. In parole povere, il regime vigente.
-
Putin agli Usa: agite da nemici, sappiate che resisteremo
A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.La Russia è stata emarginata da numerosi momenti decisionali di rilievo internazionale, messa in secondo piano, scartata senza troppi complimenti. Era (anche) un modo per farle capire che non contava e che non si voleva che contasse. Espulsa dalla gestione dei conflitti africani, ignorata nel dibattito finanziario, messa in fila per il Wto. E duramente offesa nell’intera vicenda jugoslava, fino al bombardamento di Belgrado e all’indipendenza del Kosovo. Ammessa in sala riunioni solo là dove era indispensabile che ci fosse, nel negoziato con l’Iran e nella crisi siriana. Peggio ancora: con gli ultimi presidenti americani, da Clinton, via George Bush Junior, fino a tutto Obama compreso, gli Stati Uniti hanno manovrato su scala planetaria ignorando platealmente ogni riconoscimento delle zone d’influenza russa, passeggiandovi dentro senza alcun riguardo diplomatico. Tutta l’Asia centrale ex sovietica è stata praticamente occupata dalle loro iniziative: dall’Azerbaigian fino alla Kirghisia. Non dovunque con gli stessi successi. Ma quello che conta, è il significato: Washington semplicemente mandava a dire a Mosca che non avrebbe tenuto in alcun conto il peso della Russia in quelle aree.Per non parlare della Nato, la cui espansione a est – dopo la fine del patto di Varsavia – ha proceduto senza soste, alla pari con l’allargamento dell’Unione Europea su tutta l’Europa orientale, fin dentro alcuni territori che erano stati parte dell’Unione Sovietica, come le tre repubbliche baltiche. Il tutto violando gli accordi, verbali e scritti, che impegnavano la Nato a non portare basi e armamenti nelle nuove repubbliche che via via aderivano all’Unione Europea. Espansione accompagnata da dichiarazioni sempre più incongruenti con i fatti, secondo cui l’estensione della Nato non sarebbe stata indirizzata all’accerchiamento progressivo della Russia. Infine le operazioni degli ultimissimi anni, con l’inserimento della Georgia di Saakashvili nei meccanismi Nato e la promessa di un futuro ingresso a vele spiegate nella Nato della quarta repubblica ex sovietica; e con le analoghe pressioni e promesse nei confronti della Moldavia. Da ricordare la “guerra georgiana”, conclusasi con la secca sconfitta di Tbilisi dopo il massacro di Tzkhinvali e l’intervento delle forze armate russe per ricacciare indietro i georgiani dal territorio dell’Ossetia del Sud.Il riconoscimento russo delle due repubbliche di Abkhazia e Ossetia del Sud (che Putin non aveva concesso fino all’agosto 2008) fu il primo segnale che il Cremlino aveva deciso – sebbene non di propria iniziativa ma pressato dall’iniziativa avversaria – di alzare il segnale di stop verso Washington. Tutto questo è stato superato, d’un colpo, dall’avventura spericolata del colpo di stato a Kiev, dal rovesciamento violento di Yanukovic e dal varo di una nuova Ucraina dichiaratamente ostile e bellicosa nei confronti di Mosca. Il tutto non solo con il consenso ma con il finanziamento, la direzione, il controllo americano delle operazioni sul territorio, e politiche e, infine, militari. Non si comprende la sintesi putiniana di Sochi se non tenendo conto della sommatoria di questi eventi. La conclusione è esplicita: la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali. Non ci sono più regole condivise. Esiste uno stato di caos, senza alcuna direzione. Putin prende atto – senza dirlo esplicitamente, ma facendo capire che ha ben compreso – che il bersaglio è lui in persona. Che le sanzioni non sono cominciate colpendo la Russia, ma colpendo il suo stesso entourage. Che negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni dei leader occidentali è riconoscibile l’idea che Putin non rappresenta la Russia e che, dunque, una volta eliminato lui, la Russia sarà ricondotta all’ovile. In altri termini: l’Occidente non intende negoziare con la Russia fino a che Putin sarà alla sua testa.La risposta di Sochi è ora nettissima, un vero e proprio punto di non ritorno. Poggiato su alcuni pilastri. Il primo è l’idea che l’unità dell’Occidente è precaria. L’Europa non è compatta dietro l’America. Resta un partner, anche se si trova sotto costrizione. Lo dicono i numeri delle relazioni economiche e commerciali, oltre che la storia del dopoguerra. Questo è il primo pilastro. Potrebbe essere una scommessa che non si verificherà. Ma è un modo per tenere aperto un campo di manovra. Putin mostra di sapere perfettamente che la Russia che si trova tra le mani è incastonata in mille modi nel sistema occidentale. Anche nei suoi quattordici anni di potere, non solo in quelli elstsiniani, la Russia si è legata mani e piedi ai destini dell’Occidente. Dunque è vulnerabile e dovrà pagare prezzi salati, forse salatissimi. Qui Putin è con le spalle al muro, e dovrà dimostrare ai suoi cittadini che riesce a svincolarsene. Lo spazio potrà forse aprirsi come effetto della crisi politica di questa Europa.Lo sfaldamento della tenuta dei partiti politici tradizionali, quasi dovunque, mostra che ci possono essere altri interlocutori, oltre ai conservatori tradizionali, ormai avvinghiati alle sinistre socialdemocratiche, tutte emigrate oltre Oceano. L’Europa popolare va a destra, si muove in senso antieuropeo, antiamericano e antiglobalista, e converge sull’altro pilastro su cui Putin si appoggia: quello del patriottismo, del conservatorismo etico, dei valori tradizionali della famiglia, dell’educazione, del rispetto della memoria. La “famiglia europea” potrebbe cambiare di segno nei prossimi anni. E c’è un altro pilastro, ormai evidente: l’Oriente, la Cina, l’Iran, il resto del mondo. Verso quella direzione – andassero male i tentativi verso l’Occidente – guarderà l’aquila bifronte. Le sanzioni – dice Putin – non fermeranno questa Russia, che nelle parole di Putin appare vicina, risvegliata, compatta come non lo era da molti decenni.È una specie di preludio a un governo di salvezza nazionale, in cui entreranno forse i comunisti di Ziuganov, i liberal-democratici di Zhirinovskij, i nazionalisti di destra e di sinistra, saltando a piè pari le distinzioni europee-occidentali che in Russia hanno sempre contato poco. L’America di Obama, l’America che Mosca vede come in preda a una crisi senza ritorno (perché dopo Obama potrebbe venire il peggio, con una Hillary Clinton che vince le elezioni con il programma dei repubblicani più forsennati), non è più un partner. L’orso russo – proprio questo ha detto Putin – non intende uscire dal suo habitat. Non ha ambizioni espansive. Ma non è disposto a farsi sloggiare. Putin a questa conclusione è giunto. Questo è il suo piano di resistenza. Si tratta ora di vedere se è in condizione di reggerlo. E con un’America che gioca alla “o la va o la spacca”, sarà una partita dura. È dura quando entrambi i contendenti hanno le spalle al muro.(Giulietto Chiesa, “Il reset di Putin”, da “Megachip” del 26 ottobre 2014).A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.
-
La lunga marcia dei no-euro, assedio all’Europarlamento
In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.Per il voto alla Camera dei Comuni i sondaggi sono diversi; certo se questo dato fosse confermato sarebbe comunque piuttosto clamoroso che un partito che combatte da sempre contro l’adesione della Gran Bretagna all’Unione Europea in pochi anni sia passato da una relativa marginalità al primato nazionale, per quanto in questa specifica consultazione. Il Regno Unito non è però l’unico paese Ue dove alle prossime europee sarà possibile un’affermazione dei no-euro. Il “Movimento 5 Stelle” è una formazione che nella stampa europea viene definita no-euro, anche se il M5S non è assimilabile ai partiti di destra populista che combattono contro Bruxelles. Alle europee il primato dei 5 Stelle è un’ipotesi al momento non così probabile, ma neppure impossibile. Il fronte no-euro al Parlamento di Strasburgo sarà guidato da Marine Le Pen, e il suo Front National potrebbe conseguire una prima posizione alle consultazioni del 25 maggio.Come mostra la media dei sondaggi realizzata da “Electionista” su Twitter, il partito della destra repubblicana Ump e la formazione di Marine Le Pen sono praticamente appaiate poco sopra il 20%. Per il Front National si tratterebbe di una crescita clamorosa, visto che 5 anni fa raccolse poco più del 6%. I Paesi Bassi, come la Francia e l’Italia, sono una delle sei nazioni fondatrici del processo di unificazione dell’Europa. Anche l’elettorato olandese potrebbe consegnare ai no-euro del “Partito della Libertà” di Geert Wilders il primato nazionale alle consultazioni per l’Europarlamento. Al momento il Pvv è terzo dietro i liberali progressisti, ora all’opposizione, e i liberali conservatori del premier Rutte, ma il margine di distacco è molto ridotto. La terza formazione assai rilevante che aderisce al blocco no euro della destra populista sono i liberali austriaci della Fpö di Heinz-Christian Strache. Anche in Austria le europee potrebbero essere vinte dai no -uro, ora al terzo posto nella media delle intenzioni di voto, dietro ai popolari e ai socialdemocratici.In Germania i no-euro di “Alternativa per la Germania”, che hanno recentemente rifiutato la proposta di alleanza offerta loro da Marine Le Pen, non vinceranno le elezioni europee ma sicuramente entreranno all’Europarlamento, con un risultato in costante crescita, che danneggia la Cdu della vera leader dell’Ue, Angela Merkel. Come si vede nell’ultimo sondaggio pubblicato su “Bild”, “Alternativa per la Germania”, Afd, è rilevata al 7,5%, in aumento rispetto al 4,9% conseguito alle ultime federali. E’ difficile definire “Syriza” un partito no-euro, visto che la formazione guidata da Tsipras è favorevole alla moneta unica. Le critiche radicali alle politiche di austerità hanno però tratti accomunabili al variegato fronte che combatte contro i governi dell’Ue, ed in questa prospettiva la possibile affermazione di “Syriza” in Grecia alle prossime europee rappresenterebbe uno scossone a Bruxelles non così dissimile dal primato nazionale del Front National della Le Pen o del Pvv di Wilders.(Andrea Mollica, “I paesi dove i no-euro hanno chance di vittoria alle europee”, dal blog di Gad Lerner del 28 aprile 2014).In Gran Bretagna il partito populista “United Kingdom Indipendence Party”, Ukip, il Partito per l’indipendenza del Regno Unito, è rilevato in prima posizione nelle intenzioni di voto per le elezioni europee in un sondaggio realizzato dall’istituto Yougov per il quotidiano “Sunday Times”. I dati registrano lo Ukip guidato da Nigel Farage al 31%, i laburisti al 28%, i Tory del premier Cameron al 19%, e i Liberaldemocratici al 9%. Lo Ukip sta realizzando per le europee una campagna molto vigorosa contro i posti di lavoro “rubati” dagli stranieri, definita razzista dagli altri partiti. Secondo l’opinione della maggioranza del campione di Yougov questo tipo di posizione non è razzista, ma un commento duro sulla realtà. Nei sondaggi realizzati da quest’istituto si nota come l’avvicinarsi del voto stia spingendo verso l’alto i consensi dello Ukip, cresciuto dal 23% di inizio marzo all’attuale 31%, con una contemporanea flessione dei laburisti così come dei conservatori.