Archivio del Tag ‘liberalizzazioni’
-
Mont Pélerin, il vivaio degli oligarchi che ci stanno uccidendo
Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”. Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa.Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali. Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la superiorità fuor di discussione del libero mercato; la categorica riduzione del ruolo dello Stato a costruttore e guardiano delle condizioni che permettono la massima diffusione dell’uno e dell’altro. Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi. Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine, ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe) quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori paesi. Ai tempi della presidenza Reagan (1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica, furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris. I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps, intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico. Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore), Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la prassi economico-politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero – specie in economia. Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky. Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica economica della Ue contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia – come ha dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi, poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino. La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia, in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni. I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com, glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare. Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno imposto alle popolazioni della Ue le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della Ue.Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare». Al fiume di pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti. Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica, civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici, basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento; dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della privatizzazioni? Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti, funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.(Luciano Gallino, “La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo, da “La Repubblica” del 27 luglio 2015, ripreso da “Micromega”).Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago. È una montagnola svizzera a pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa. Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think tank specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia, Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”. Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps, i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille, sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa.
-
Della Luna: con politici servi, non basterà uscire dall’euro
E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.Probabilmente la parte in buona fede, cioè la meno intelligente, di quelle persone, pur consapevole che la scarsità monetaria è un’illusione, ha collaborato ad affermarla come principio, ad introdurre i vincoli dell’austerità, la frusta dei mercati, il pungolo del rating e la minaccia dello spread, credendo che attraverso questi vincoli quantitativi sia possibile indurre i sistemi politici scadenti a usare bene la moneta, cioè a spendere in modo efficiente, produttivo, a fare riforme, ad ammodernarsi, a sopprimere gli sprechi e la corruzione. La prova dei fatti ha dimostrato che questa credenza era erronea, e che anzi i limiti quantitativi dell’austerità in diversi casi hanno prodotto un peggioramento qualitativo della spesa pubblica, oltre che a un peggioramento quantitativo del deficit, del debito, del Pil, del rating, dell’occupazione (i governi italiani del rigore, per esempio, hanno mantenuto e ampliato la spesa improduttiva destinata ai privilegi della casta, tagliando quella utile alla collettività, perché la casta, per conservare i suoi consensi e i suoi redditi mentre fa tagli della spesa sociale e aumenti di tasse, deve fare più clientelismo e più ruberie).Dire, con Tsipras e altri sedicenti di sinistra, che di fronte a questo fallimento dell’austerità, la soluzione sarebbe semplicemente più solidarietà, fare più spesa a deficit e comunitarizzare i debiti, significa voler restare entro il paradigma della scarsità monetaria. Specularmente, l’altro fronte del pensiero monetario sostiene che la soluzione del problema del rilancio economico sia l’approccio opposto, ossia smetterla coi mendaci dogmi della scarsità monetaria e con le relative, fallimentari ricette, e fare invece investimenti statali diretti mediante spesa pubblica a debito (che tanto lo Stato riesce sempre a sostenere, come dice la Modern Money Theory di Warren Mosler, stante che la moneta è un mero simbolo) oppure, meglio ancora, mediante una spesa sganciata dall’indebitamento (come raccomanda Antonino Galloni) attraverso l’emissione diretta di moneta da parte dello Stato. Ciò darebbe più benessere alla gente e slancio allo sviluppo, ma non migliorerebbe, anzi probabilmente peggiorerebbe, la qualità e l’efficienza della spesa, della produttività e della stessa società, incentivando atteggiamenti improduttivi, assistenzialisti e ristagnanti. Soprattutto nei paesi come l’Italia in cui la classe dominante è parassitaria e retriva, e la mentalità popolare è molto ideologica, e ampia parte della popolazione vive di redditi presi ad altra parte della popolazione. La storia insegna.La lezione da imparare e che la qualità e l’efficienza della spesa, cioè delle decisioni di spesa pubblica e privata, dipendono da fattori sociologici e politici inerenti ai differenti popoli, o ai differenti insiemi di popoli, e derivano dalle loro diverse storie. Lo dimostra il fatto che alcune nazioni vanno bene e altre male pur applicando o subendo tutte i medesimi erronei principi di economia monetaria. Cioè l’efficienza dipende dai fattori storici, sociologici, culturali; dai mores, dai meccanismi di produzione del consenso e della coesione di questo o quel popolo. I vincoli quantitativi esogeni non “correggono” questi fattori – semmai li accentuano. La Germania, il Veneto, la Lombardia hanno una spesa pubblica abbastanza efficiente; la Grecia, l’Italia, Roma, la Sicilia e la Campania no, perché hanno prassi, mores, mentalità diversi, che non correggi imponendo vincoli esterni di bilancio. I popoli efficienti non dovrebbero avere una moneta comune con i popoli inefficienti, né pagare per sostenerli. L’esperienza dell’euro mostra che imporre una moneta comune (anzi, un cambio fisso) a popoli con diverse efficienze non alza quella dei meno efficienti, ma li impoverisce; e l’esperienza dell’Italia unitaria, della Jugoslavia e di altri paesi simili mostra che non la alza nemmeno l’imporre l’unione di bilancio e la solidarietà.Tutti questi fattori, però, vengono oggi superati, sconvolti e travolti dal fatto che il grosso della spesa, dei movimenti monetari, cioè del business, avviene in mercati finanziari, apolidi, e secondo logiche aliene dalla produzione di beni e servizi e dal soddisfacimento dei bisogni reali. Se il 90% delle transazioni monetarie avviene in mercati speculativi liberalizzati, perlopiù opachi e non controllabili, il ruolo delle società, della politica e delle istituzioni nelle scelte di spesa, quindi lo stesso grado di efficienza specifica dei vari organismi nazionali, viene drasticamente ridotto. Le dinamiche e le richieste dei mercati speculativi cambiano continuamente le carte sui tavoli politici e schiacciano le decisioni degli attori del residuo 10% delle transazioni economiche, cioè dei popoli e dell’economia reale, pubblica e privata. Tendono a imporre loro i propri bisogni e le proprie decisioni, a fare di essi una loro colonia, una sorte di appendice, che serve essenzialmente ad assicurare al business speculativo riferimenti contabili stabili e un quadro legislativo-giudiziario di supporto. I bisogni della gente non devono interferire. Perciò lo Stato è divenuto rappresentante di interessi esterni e in conflitto con quelli del popolo, quindi ha perso la legittimazione rispetto a questo.(Marco Della Luna, “Dopo la scarsità monetaria”, dal blog di Della Luna del 5 luglio 2015).E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.
-
Giannuli: ha stravinto l’élite, non esiste alternativa politica
Espropriati di ogni diritto, privati del lavoro, rasi al suolo come cittadini. E’ il nuovo ordine neoliberista, e non abbiamo scampo. Lo sostiene lo storico Aldo Giannuli, che analizza l’eclissi epocale della sinistra in ogni sua forma, da quella storica – assorbita nella socialdemocrazia – a quella “radicale”, che voleva cambiare il sistema ed è in via di completa estinzione. Peggio ancora: nessuna, delle nuove formazioni politiche che si affacciano tra le macerie dell’Europa, ha le carte in regola per progettare una via d’uscita. Siamo in trappola, schiacciati dal primo comandamento della “rivoluzione neoliberista”: lo Stato dei cittadini deve morire, per lasciar posto al primato della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica. Fine delle trasmissioni. Con tanti saluti alle illusioni del riformismo, che nei decenni del dopoguerra riuscì a convertire l’aspirazione rivoluzionaria in correzioni sociali all’interno del sistema, estensione del benessere relativo, ascensore sociale, garanzie, welfare. Tempo scaduto: i nuovi padroni del mondo non hanno più tempo per la democrazia, fabbricano leader-servi, impongono leggi, sbaraccano Costituzioni.La rivoluzione neoliberista, scrive Giannuli nel suo blog, si è imposta costruendo un ordine gerarchico mondiale tendenzialmente monopolare (oggi in crisi) che riduce la sovranità degli Stati nazionali. Poi ha sottratto i grandi capitali finanziari al fisco, attraverso la mobilità mondiale dei capitali, che consente al “grande contribuente” di scegliere il fisco cui pagare le sue tasse. Fondamentale, poi, la delocalizzazione produttiva, insieme alla liberalizzazione degli scambi commerciali: questa globalizzazione «inevitabilmente premia i paesi a costo del lavoro più basso, agendo quindi come attrattore verso il basso dei livelli salariali». Quindi, la moneta: il sistema valutario sganciato dalla base aurea, o comunque da parametri oggettivi, e basato solo sull’apprezzamento reciproco delle monete, «fa dipendere la stabilità monetaria di ciascuno dalla dittatura del rating e dalle decisioni dei mercati finanziari (in realtà da Wall Street) di fatto, riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria dei singoli paesi».In più, c’è la fittissima ragnatela del Wto e degli accordi e trattati internazionali, dagli storici accordi di Marrakech del 1993 al mostruoso Ttip in gestazione: rapporti economici a livello mondiale, «che precludono ogni politica diversa da quella neoliberista e proibiscono esplicitamente l’intervento statale in economia». Non solo: «Impedendo ogni politica industriale nazionale, privatizzando le imprese pubbliche e promuovendo grandi fusioni internazionali a guida finanziaria», i grandi predoni neo-feudali hanno sostanzialmente imposto un cambio di sistema: non viviamo più in un regime controllabile dalle popolazioni, sempre più in sofferenza anche grazie alla liquidazione dei presupposti stessi dello Stato sociale – scuola, sanità, assistenza, pensioni, tutele civili. «Di conseguenza – continua Giannuli – l’ordine neoliberista ha carattere politicamente monistico e non ha spazio per una sinistra interna», né per «politiche keynesiane, compromessi welfaristi e, di conseguenza, per ogni politica riformista». L’ordine neoliberista «non prevede alcuna sinistra interna, è tutto e organicamente di destra». Così, a fronte dell’assolutismo neoliberista, «il riformismo, anche il più moderato, assume valenza antisistema al pari di qualsiasi indirizzo rivoluzionario».Ne consegue che occorre abbandonare la pratica istituzionale per passare a forme di lotta violente o addirittura armate? «Per nulla: sarebbe una risposta incongrua rispetto all’obiettivo». Anche perché, qualora si prendesse il potere in un paese «tanto per via pacifica e legale quanto per via violenta ed illegale», il problema non si sposterebbe di un centimetro, «perché il nuovo governo, comunque formatosi, avrebbe di fronte lo stesso problema di fare i conti con un ordine mondiale ostile, dove l’unica variabile decisiva sarebbe quella dei rapporti di forza». La Cina, come unica alternativa? Pechino «ha realizzato un sistema di capitalismo di Stato che si discosta per più versi dall’ordinamento neoliberista, ma può permetterselo perché i rapporti di forza economici, finanziari e, non ultimo, militari, glielo consentono». La Cina «rappresenta una torsione del sistema internazionale nella misura in cui i rapporti di forza glielo consentono». Il passaggio a politiche diverse, non liberiste? «E’ antisistema, nella misura in cui presuppone la rottura dell’ordine mondiale e della sua rete di trattati e accordi».Dunque, al di là della praticabilità di forme di lotta radicali, il problema si pone in termini diversi, ovvero: «Come maturare i rapporti di forza internazionali che consentano di aprire spazi a politiche sociali ed economiche non liberiste. Il che significa che l’asse dell’azione politica si sposta dall’arena nazionale a quella internazionale». Chi dunque potrebbe riaprire i giochi a livello globale? Non certo le sinistre riformiste (Spd, socialisti francesi e spagnoli, Labour party), che «perdono terreno e sono destinate all’estinzione o all’assorbimento organico nelle formazioni di destra, perché all’interno di questa cornice di sistema non possono avere altra sorte». Peggio ancora le sinistre “radicali” (Linke, Front de Gauche, Izquierda Unida, Rifondazione Comunista e Sel), che «stanno subendo lo stesso declino perché non hanno iniziativa politica e non possono averla, perché, incapaci di iniziativa internazionale (neppure a livello europeo), mancano di una proposta politica che non sia pura propaganda senza contenuto».Niente di buono neppure da Grecia e Spagna: secondo Giannuli, “Syriza” è destinata al fallimento «perché non trova supporto internazionale e perché non ha il coraggio di utilizzare l’unica arma (a doppio taglio) in suo possesso: il ricatto del debitore». Quanto a “Podemos”, che lo storico dell’ateneo milanese considera «una variante intermedia fra Sel ed il M5S», è destinata ad analogo insuccesso, «perché non pensa neppure di mettere in discussione la cornice europeista». E in Italia? «Il M5S temo sia destinato a schiantarsi contro le resistenze del sistema perché, pur avendo intuito che il nodo è quello dell’ordine internazionale (come dimostra la posizione sull’euro), non riesce ad articolare questa intuizione in un progetto politico adeguatamente articolato». Per Giannuli, il Movimento 5 Stelle «non svolge alcuna azione internazionale e, quando tenta qualcosa, sbaglia (leggi Ukip), perché non ha costruito uno strumento organizzativamente adeguato allo scontro».Come si vede siamo in un cul de sac, conclude Giannuli. Un vicolo cielo, «dal quale non usciremo né con improbabili referendum e colpi di testa, né con le solite alchimie di orrendi cartelli elettorali costruiti sul nulla». Il politologo vede solo una possibilità, in termini di avvicinamento preliminare alla soluzione, nella costruzione di una piattaforma europea delle opposizioni, ancorché debolissime e divise. «Sarebbe già un passo avanti una convenzione europea, nella quale “Podemos”, “Syriza”, M5S, la “sinistra radicale”, i restanti partiti comunisti e le sinistre socialdemocratiche concordino una o più campagne europee sulla ristrutturazione del debito, sull’uscita concertata dall’euro, la revisione dei principali accordi internazionali». Certo, ammette il professore, «non sarebbe la soluzione dei nostri problemi, ma un possibile inizio». L’unica opportunità da mettere in campo, perché «il resto è già votato al fallimento».Espropriati di ogni diritto, privati del lavoro, rasi al suolo come cittadini. E’ il nuovo ordine neoliberista, e non abbiamo scampo. Lo sostiene lo storico Aldo Giannuli, che analizza l’eclissi epocale della sinistra in ogni sua forma, da quella storica – assorbita nella socialdemocrazia – a quella “radicale”, che voleva cambiare il sistema ed è in via di completa estinzione. Peggio ancora: nessuna, delle nuove formazioni politiche che si affacciano tra le macerie dell’Europa, ha le carte in regola per progettare una via d’uscita. Siamo in trappola, schiacciati dal primo comandamento della “rivoluzione neoliberista”: lo Stato dei cittadini deve morire, per lasciar posto al primato della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica. Fine delle trasmissioni. Con tanti saluti alle illusioni del riformismo, che nei decenni del dopoguerra riuscì a convertire l’aspirazione rivoluzionaria in correzioni sociali all’interno del sistema, estensione del benessere relativo, ascensore sociale, garanzie, welfare. Tempo scaduto: i nuovi padroni del mondo non hanno più tempo per la democrazia, fabbricano leader-servi, impongono leggi, sbaraccano Costituzioni.
-
Mentono e vi derubano ogni giorno, e voi gli credete ancora?
I dati forniti dall’Istat smentiscono l’interessato ottimismo sparso a piene mani dal premier Matteo Renzi e dal suo ministro del lavoro Giuliano Poletti. La disoccupazione, con buona pace del Jobs Act, continua ad aumentare, mentre la crescita resta un miraggio. Da quasi quattro anni, dall’arrivo cioè di Mario Monti sul trono d’Italia, i grandi media annunciano senza sosta l’imminente ripresa di un’Italia sempre più povera, stanca e sfiduciata. Chi di voi ricorda le promesse del professore di Varese, ridicolo fino al punto da ipotizzare un aumento del Pil prossimo al 10% in virtù delle famose liberalizzazioni riguardanti quattro tassisti e qualche farmacista? E chi di voi ha dimenticato il “piano giovani” varato da Enrichetto Letta, approvato in teoria per dare un futuro a generazioni intere senza speranze né prospettive? E come sarà possibile scordare in fretta le tante menzogne veicolate dell’attuale premier Matteo Renzi, degno successore dei vari Monti e Letta? Il gioco è semplice e scoperto: mentire, mentire e poi mentire ancora. Anche di fronte all’evidenza, anche a costo di sfidare la logica e di umiliare la verità e il buon senso.Mentire ad oltranza. Questo fanno i nostri governanti, etero-diretti dall’esterno dal ghigno malefico del Venerabile Maestro Mario Draghi, osannato dai servi di regime per avere varato un quantitative easing che serve solo per prolungare il più possibile l’agonia di questo mostro di Europa a trazione tecnocratica. Quando, e se, la cosiddetta pubblica opinione capirà di essere stata per anni raggirata e truffata, sarà oramai troppo tardi. Ma come può un uomo sano di mente credere che l’abolizione dei diritti possa avere un qualche effetto benefico sull’occupazione? Ma dove sono vissuti gli italiani negli ultimi venti anni, caratterizzati da un contestuale aumento di precarietà e disoccupazione? Ma come si fa a credere ancora che l’austerità serva per abbattere il debito, quando il debito di tutti i paesi dell’area euro è esploso proprio in virtù dell’applicazione cieca delle famose politiche del rigore? Come si fa a non capire che è in atto un progetto politico (definito “complotto” dai meno lucidi), gestito e supervisionato da una manipolo di burocrati illuminati, volto a regolare i conti una volta per tutte con le “masse plebee”?Non siete stanchi di sentire che la ripresa arriverà l’anno prossimo, e poi l’anno prossimo ancora? A nessuno sorge il dubbio che le famigerate “riforme strutturali” rappresentino poco più che un espediente retorico per giustificare la prosecuzione di una crisi in realtà voluta ed indotta? Non è dai tempi di Mani Pulite che il sistema di potere promuove senza sosta (destra o sinistra poco cambia) riforme destinate a colpire le pensioni, la rappresentanza democratica, i diritti dei lavoratori, il welfare e i salari? Non vi sono bastati venti anni di sbornia neoliberista, caratterizzati da una colossale svendita di Stato, per smascherare i trucchi usati da uomini senza scrupoli né morale? Resto sbigottito, incredulo e allibito. Noi del Movimento Roosevelt non ci stancheremo di dirvi che dalla crisi non usciremo mai fino a quando il popolo, per mezzo di rappresentanti democraticamente eletti, non intenderà riappropriarsi della sovranità che gli spetta.Bisogna riportare la Banca centrale sotto il controllo del potere politico per rifuggire dal continuo ricatto dei “fantomatici mercati”; bisogna varare su scala europea un piano per la piena occupazione al fine di rilanciare i consumi e ridare fiato alle imprese; bisogna rafforzare il welfare ed investire nella ricerca, e bisogna infine favorire la partecipazione dei cittadini nella formazione dei processi decisionali allargando e non comprimendo il perimetro democratico. Questo bisogna fare, avendo cura di coniugare libertà economica e interesse generale, giustizia sociale e meritocrazia. Ma bisogna farlo al più presto. Perché ogni giorno che passa i vari Draghi, Schaeuble, Hollande, Renzi e Merkel sradicano impunemente un albero dal nostro giardino. E se nessuno riuscirà a fermarli, in berve tempo il Vecchio Continente si trasformerà in un deserto di malinconia, rimpianto, cattiveria e depressione.(Francesco Maria Toscano, “Mentire sempre, comunque e a qualsiasi costo”, dal blog “Il Moralista” del 31 marzo 2015. Toscano è segretario del Movimento Roosevelt, co-fondato con Gioele Magaldi).I dati forniti dall’Istat smentiscono l’interessato ottimismo sparso a piene mani dal premier Matteo Renzi e dal suo ministro del lavoro Giuliano Poletti. La disoccupazione, con buona pace del Jobs Act, continua ad aumentare, mentre la crescita resta un miraggio. Da quasi quattro anni, dall’arrivo cioè di Mario Monti sul trono d’Italia, i grandi media annunciano senza sosta l’imminente ripresa di un’Italia sempre più povera, stanca e sfiduciata. Chi di voi ricorda le promesse del professore di Varese, ridicolo fino al punto da ipotizzare un aumento del Pil prossimo al 10% in virtù delle famose liberalizzazioni riguardanti quattro tassisti e qualche farmacista? E chi di voi ha dimenticato il “piano giovani” varato da Enrichetto Letta, approvato in teoria per dare un futuro a generazioni intere senza speranze né prospettive? E come sarà possibile scordare in fretta le tante menzogne veicolate dell’attuale premier Matteo Renzi, degno successore dei vari Monti e Letta? Il gioco è semplice e scoperto: mentire, mentire e poi mentire ancora. Anche di fronte all’evidenza, anche a costo di sfidare la logica e di umiliare la verità e il buon senso.
-
Privatizzazioni, tariffe alle stelle. Indovina chi ci guadagna
Mentre il mantra delle privatizzazioni continua ad essere il faro delle elites politico-finanziarie che governano il paese (Legge di stabilità, Sblocca Italia, spinta sui trattati Ttip e Tisa), restano relegati in un angolo gli studi che, a 20 anni di distanza dall’avvio delle liberalizzazioni, ne dimostrano il totale flop, non solo in riferimento agli impatti sociali – la progressiva perdita di ogni funzione pubblica e sociale – bensì anche nel merito delle promesse fatte, ovvero la drastica riduzione delle tariffe come risultato del libero agire della concorrenza. Lo studio recentemente pubblicato dalla Cgia di Mestre è da questo punto di vista inequivocabile: solo i prezzi dei medicinali e delle tariffe dei servizi telefonici hanno subito una diminuzione. E si tratta di settori per i quali la diminuzione dei costi si spiega più con la continua evoluzione, per l’alto tasso d’innovazione tecnologica (telefonia) e di ricerca scientifica (farmacia) che non con motivazioni intrinsecamente legate alla “bontà” della concorrenza.
-
Da Moro a Renzi, la democrazia italiana chiude i battenti
Forse qualcuno non si è ancora accorto che il diritto rappresentativo democratico, affermatosi nell’Italia repubblicana dal dopoguerra, si sta polverizzando sotto i nostri occhi, frantumato dal revisionismo costituzionale «in atto da diverso tempo, ma ora arrivato tragicamente alle ultime battute d’arresto», grazie al «golpe finanziario euroatlantico». E’ appena accaduto «qualcosa di assolutamente inedito negli ultimi 70 anni di storia repubblicana», scrive Rosanna Spadini: nella notte del 13 febbraio 2015 «un governo ha modificato la Costituzione unilateralmente». Ovvero: un gruppo di parlamentari “nominati”, «pur non avendo avuto la maggioranza alle ultime elezioni, ma avendola ottenuta solo in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale», ha modificato la Costituzione «asfaltando in un solo colpo la democrazia». Il “golpe notturno” è stato eseguito «in apnea di democrazia», da un Parlamento eletto in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte. La Costituzione? Ormai «obsoleta e superflua», un intralcio al profitto dei bankster. Con Renzi, va a segno il piano antidemocratico nato trent’anni fa.Il “Porcellum”, osserva la Spadini su “Come Don Chisciotte”, è una legge ancor più devastante dei diritti di rappresentanza democratica della Legge Acerbo imposta da Mussolini. «Infatti non c’è nemmeno bisogno del 25% dei voti per ottenere il premio di maggioranza: chi arriva primo fra le varie liste e coalizioni, quale che sia la percentuale, ottiene la maggioranza di 340 seggi a Montecitorio». Di qui la tendenza alla formazione di “larghe intese”, «sottoposte al ricatto». La riforma del Senato promossa dal governo Renzi, poi, «prevede la fine del bicameralismo perfetto e l’abolizione del Senato elettivo, sostituito con una Camera composta da consiglieri regionali e sindaci e ridotta da 315 a 100 membri». Il nuovo Senato non voterà più la fiducia al governo, né gli sarà consentito di legiferare (tranne che su alcuni temi: riforme costituzionali e trattati internazionali). Di fatto, l’abolizione del Senato elettivo «sospende il diritto repubblicano e si inserisce in una fase di “anomalia legislativa”», inaugurando la transizione «da un regime rappresentativo, espressione dialettica tra i vari gruppi sociali e politici, a uno autocratico, che tende ad semplificare i metodi deliberativi, per imporre la volontà esclusiva di gruppi di potere oligarchico».La logica, sintetizza Spadini, non è più quella della collaborazione e del compromesso, di conciliazione delle diverse istanze, ma espressione della richiesta di più spedita efficienza del processo deliberativo, inteso come mera applicazione di una volontà autocratica. «Le ultime riforme previste dunque prevedono una riduzione ulteriore dei poteri democratici del Parlamento attraverso la trasformazione di un ramo delle Camere, da organo legislativo a pieno titolo a mera funzione di collegamento tra Stato ed enti locali». Questo, assieme alla nuova legge elettorale (con ampio premio di maggioranza al partito più votato), «assegnerà più potere alle maggioranze e ai governi, indebolendo invece il Parlamento e le opposizioni». Un uomo solo comando, non eletto da nessuno: Renzi, il maggiordomo dei poteri forti che «sta rottamando la democrazia», in una situazione «molto vicina al colpo di Stato». Il problema? Salvare la Costituzione, prima che gli italiani diventino definitivamente sudditi senza più diritti. «Eroe del populismo postmoderno», Renzi finora è stato «un abile impresario politico della virtualità rassicurante, un valido affabulatore della narrazione neoliberista blairiana», idolatrato da elettori raggirati e destinati «a un’esistenza di precariato professionale perpetuo».Certo, ammette Spadini, il “golpe” viene da lontano, «e fu segnato da passaggi chiave nella storia economico-politica italiana». L’assassinio di Moro, nel maggio 1978, «serviva per impedire la partecipazione dei comunisti al governo, evento traumatico per gli Usa», ma «giovò anche al progetto dell’area valutaria europea». Infatti, «nel marzo del ’79 ci fu l’incriminazione del governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il quale poi, benché prosciolto da tutte le accuse, dovette dimettersi». Subito dopo, il capo del governo Giulio Andreotti ufficializzerà l’entrata dell’Italia nello Sme. «Nel 1981, con l’accordo Ciampi-Andreatta, verrà sancito il cosiddetto “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro, dando inizio così all’impennata dell’aumento degli interessi sul debito pubblico». Nel ’92 poi si aprì la stagione di Mani Pulite, una “rivoluzione mediatico-giudiziaria” che avrebbe provocato la demonizzazione della classe politica dirigente della Prima Repubblica, «ovvero quella casta che, pur tra episodi di corruzione, aveva permesso la crescita economica e l’aumento dei salari». A seguire, il primo processo di liberalizzazioni e privatizzazioni. «Infine le dimissioni di Berlusconi nel 2011, pilotate dalla Bundesbank, provocarono il succedersi dei governi Monti, Letta e Renzi, non votati da nessuno, e il via libera per la strategia Usa di destabilizzazione del Medio Oriente, in un’ottica ostile alla Russia».Ora, continua Spadini, le famigerate e sbandierate “riforme” «transiteranno la società italiana verso un assetto sociale darwininiano, dove la distanza tra le classi si farà sempre più marcata», difendendo privilegi e «demolendo quel sistema di welfare che ha salvaguardato il benessere dei cittadini fino ad ora». Privatizzazioni, abbattimento dei diritti del lavoro, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali e della pubblica amministrazione, limitazione della democrazia. «Renzi – scrive il “Daily Mirror”– è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La Jp Morgan». Riforma della Costituzione, del Senato, della Rai, del lavoro (Jobs Act), della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola, del sistema elettorale. «Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi, su suggerimento della banca d’affari Jp Morgan, che ha arruolato proprio Blair tra i suoi consiglieri strategici», conclude Spadini. «Benvenuti nel nuovo mondo dei licantropi, che praticano quotidianamente l’equilibrio funambolesco del potere, oscillante tra virtualità rassicuranti e rovine sociali».Forse qualcuno non si è ancora accorto che il diritto rappresentativo democratico, affermatosi nell’Italia repubblicana dal dopoguerra, si sta polverizzando sotto i nostri occhi, frantumato dal revisionismo costituzionale «in atto da diverso tempo, ma ora arrivato tragicamente alle ultime battute d’arresto», grazie al «golpe finanziario euroatlantico». E’ appena accaduto «qualcosa di assolutamente inedito negli ultimi 70 anni di storia repubblicana», scrive Rosanna Spadini: nella notte del 13 febbraio 2015 «un governo ha modificato la Costituzione unilateralmente». Ovvero: un gruppo di parlamentari “nominati”, «pur non avendo avuto la maggioranza alle ultime elezioni, ma avendola ottenuta solo in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale», ha modificato la Costituzione «asfaltando in un solo colpo la democrazia». Il “golpe notturno” è stato eseguito «in apnea di democrazia», da un Parlamento eletto in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte. La Costituzione? Ormai «obsoleta e superflua», un intralcio al profitto dei bankster. Con Renzi, va a segno il piano antidemocratico nato trent’anni fa.
-
Jobs Act, fine del lavoro e di cent’anni di progresso in Italia
Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.In Italia non siamo così rigidi, ma il senso della regola è lo stesso. La 223 stabilisce che solo con un accordo sindacale controfirmato da una pubblica autorità si possa derogare ai criteri dell’anzianità e dei carichi familiari. Così son state definite con le aziende, da ultimo con Meridiana, le uscite dei più anziani, in grado di raggiungere la pensione con la indennità di mobilità. Se un’azienda prima del decreto Renzi avesse voluto fare licenziamenti indiscriminati di massa, avrebbe subìto un doppio danno. Avrebbe dovuto pagare consistenti penali e avrebbe rischiato la reintegra da parte di un giudice di tutti i dipendenti licenziati senza il rispetto di regole e procedure. Questo vincolo ha frenato i licenziamenti di massa, anche in una crisi senza precedenti come quella attuale. Ora viene tolto e le aziende potranno liberamente sbarazzarsi, per crisi e ragioni economiche, di lavoratrici e lavoratori che hanno l’articolo 18 e sostituirli con dipendenti precari a vita, pagati molto meno e per la cui assunzione riceveranno anche un consistente finanziamento pubblico.La portata reazionaria di questo decreto mostra tutta la malafede di un governo che sa perfettamente che la liberalizzazione dei licenziamenti non ha mai prodotto né mai produrrà un solo posto di lavoro aggiuntivo a quelli esistenti. Nessuno assume in più se non ha lavoro in più da far fare. Ma se viene offerta la possibilità di realizzare, a condizioni più che favorevoli, quello che le imprese chiamano il ricambio organico del personale, perché rifiutarla? Questo è lo scopo vero del Jobact: un gigantesco scambio di manodopera tra chi ha più e chi ha meno diritti e salario. Come più di cento anni fa, quando i braccianti venivano cacciati dalla terra che avevano coltivato, perché agrari e baroni reclutavano gente più povera disposta a subire condizioni peggiori. Non solo il Jobact non fa nulla contro la disoccupazione, ma anzi proprio per funzionare ha bisogno di una massa ricattabile di senza lavoro, senza i quali le sue norme resterebbero lettera morta.Alla fine l’occupazione complessiva sarà ancora minore, come già sapientemente prevede la Confindustria, ma quella rimasta somiglierà molto di più a quella che lavora oggi in Cina rispetto a quella che aveva conquistato diritti e dignità in Italia. Le imprese rimaste festeggeranno per i maggiori profitti, mentre il lavoro sarà sottoposto alla schiavitù di un Medio Evo tecnologico. A questo punto non serve aggiungere altre parole. Ogni atto del governo Renzi rappresenta una coerente azione di restaurazione sociale. Non si colpisce solo il lavoro, ma la scuola, la sanità, i servizi pubblici, mentre si rafforzano le spese militari. Quando si interviene, come all’Ilva, lo si fa per permettere alle multinazionali cui verrà ceduta di risparmiare i costi del risanamento e degli investimenti. Tutte le riforme politiche proposte stravolgono principi e libertà costituzionali.Ma a questo punto continuare a rimproverare a Renzi e a Giorgio Napolitano, che ne è il primo sostegno, di fare quello che dichiarano di voler fare non serve a niente. Il governo Renzi è la personalizzazione della distruzione della Costituzione Repubblicana, è nato e opera per questo. Rappresenta una classe dirigente italiana che ha deciso che il sistema sociale e democratico del dopoguerra non possa più essere mantenuto, di fronte ai vincoli della Troika e della finanza globale. O si contestano quei vincoli, euro compreso, o si insegue il modello del capitalismo selvaggio senza vincoli. Renzi e Napolitano hanno scelto di essere fino in fondo fedeli esecutori di quei vincoli, per questo oggi son avversari di tutto ciò che nella storia italiana ha significato progresso sociale e democratico. Renzi e Napolitano hanno scelto e chi si oppone a questa loro scelta deve essere altrettanto intransigente e rigoroso. Altrimenti la coerenza reazionaria del governo sarà la sola devastante forza in campo.(Giorgio Cremaschi, “Il Jobs Act e la coerenza reazionaria del governo Renzi”, da “Micromega” del 30 dicembre 2014).Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.
-
Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
-
Tasse, privatizzazioni e via il contante: Renzi, cioè Monti
Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.«La politica economica di Renzi – scrive Foa nel suo blog sul “Giornale” – non è volta a difendere e incentivare la piccola e media impresa italiana, ma è favorevole soprattutto alle multinazionali, smaniose di trasformare ancor di più l’Italia in una riserva di talenti e di professionisti a buon mercato». Non è un caso che Renzi prediliga le sedi delle multinazionali nelle sue uscite pubbliche, prodigandosi in elogi nei loro confronti. «Ed è significativo l’atteggiamento elusivo del suo governo sui licenziamenti alla Thyssen Krupp: premuroso con i grandi gruppi, retorico e inconcludente con le piccole e medie imprese italiane». La verità? Più tasse e meno mercato. «Scusate, ma io i tanto promessi alleggerimenti fiscali e burocratici proprio non li vedo. Semmai, come ai tempi di Monti, assistiamo al moltiplicarsi di balzelli indiretti e occulti», come «la riforma per far pagare il canone Rai a tutti attraverso la bolletta della luce», esteso ai proprietari di case sfitte o di seconde o terze case. Ancora una volta, «emerge la volontà centralista vessatoria che caratterizza l’operato dei governi dalla caduta di Berlusconi in poi».Quindi, le privatizzazioni. Renzi ha predisposto la riforma del Titolo V: «Se passasse, permetterebbe al premier di privatizzare tutte le municipalizzate del settore delle utilities, con la conseguenza che ben conosciamo: non di liberalizzare e mettere in concorrenza più fornitori, ma di sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato, com’è inevitabile quando per la tipologia del servizio la concorrenza è di fatto impossibile». Valga l’esempio delle autostrade cedute ai privati: da Roma a Milano ne esiste solo una, o prendi quella o percorri le statali. Il mercato dov’è? Per molte utilities la situazione è analoga. Infine, si aggiunge la mazzata dell’abolizione del contante, come spiega Enzo Pennetta sul blog “Critica Scientifica”. Primo passo, informatizzare il paese – e sin qui, ok. Poi viene annunciato che si procederà all’eliminazione dello scontrino per ottenere la “tracciabilità totale”, «notizia criptica ma vagamente liberatoria». Quello che non viene detto, sottolinea Pennetta, è che questo significa procedere all’eliminazione del contante.«La tracciabilità assoluta e il superamento della necessità dello scontrino – scrive “Critica Scientifica” – non si possono conseguire che eliminando la possibilità di pagare in contanti, cosa che avrebbe dovuto essere detta con chiarezza». E così, senza neanche nominare il contante, è stato dato l’annuncio della sua prossima eliminazione. Notizia sfuggita al “Corriere della Sera”, che ha pubblicato per primo l’annuncio di Renzi, ma anche ai 58 lettori del “Corriere” che hanno commentato l’articolo. Nessuno ha intuito qual è la vera posta in gioco. E chi aveva proposto l’abolizione del contante? Mario Monti, risponde Foa, osservando che l’eliminazione del cash equivale alla cancellazione definitiva di ogni forma di privacy: saranno millimetricamente tracciati tutti gli acquisti dei cittadini, come non accadeva nemmeno in Urss. «Domenico Idone, su “Twitter”, mi ha ricordato questo articolo. Era il 2012 e Renzi diceva: “Sarò il Monti bis”. Ancora dubbi?».Il monopolio delle multinazionali contro il sistema delle piccole e medie imprese, da caricare di tasse. Maxi-torta in arrivo: lo smantellamento dei servizi, da “regalare” ai grandi gruppi dopo aver smantellato il Titolo V della Costituzione, che ne tutela il controllo pubblico ancora affidato a Comuni e Regioni. E infine, la sparizione del denaro contante: fine della privacy nelle transazioni commerciali e «tracciabilità di tutti gli acquisti dei cittadini come nemmeno in Unione Sovietica accadeva». Sbucci Renzi e scopri Monti, sostiene Marcello Foa: il “bomba”, quello delle «promesse che non si realizzano mai», è stato piazzato a Palazzo Chigi al posto di Letta, troppo timido sul fronte della privatizzazione dello Stato, e ovviamente dopo Monti, penalizzato dall’immagine del rigore assoluto. Renzi? Fa la stessa politica di Monti, ma col sorriso. E, a differenza del predecessore, grazie al suo «ego ipertrofico» va avanti, distraendo gli italiani a suon di retorica e propaganda, in modo che nessuno capisca quello che sta avvenendo veramente, cioè il dominio definitivo dei poteri forti, a spese dei cittadini.
-
Addio Costituzione, l’Ue è fuorilegge e cospira contro di noi
Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.Nel 1992 Carli formalizzò la separazione della banca centrale dal Tesoro e consentì il processo di costituzione della Bce, banca centrale di uno “Stato che non c’è”. Questa rivoluzione è avvenuta, ed è fondamentale ricordarlo, non a causa dell’euro, ma ancor prima per responsabilità dei trattati dell’Ue: dagli anni ‘80, e poi definitivamente con Maastricht, i princìpi fondamentali delle costituzioni europee sono diventati feticci, la Costituzione italiana è stata presa di mira poiché in contrasto coi trattati, e conseguentemente disinnescata. Questo meccanismo perpetrato di disinnesto delle sovranità nazionali ci ha condotti verso l’impossibilità giuridica di disciplinare numerose materie di interesse pubblico. Un paese liberista, come l’Ue impone ai propri membri, è per forza globalista. Un paese che viceversa pianifica la propria economia, come ci imporrebbe il dettato costituzionale, è un paese dove il popolo, la legge e lo Stato controllano, disciplinano e dirigono la res publica in modo più o meno socialista.Una norma fondamentale contenuta nella nostra Costituzione, l’articolo 41, enuncia: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La parte più nobile del trattato costituzionale è dunque la parte che disciplina i rapporti economici: ristabilire la legalità costituzionale significa pertanto prevedere partecipazioni statali ed aiuti di Stato ad imprese in settori strategici (misura che portò la nostra industria pubblica ad essere avanguardia nel mondo). Oggi, all’interno dell’Unione Europea, tutto questo risulta essere inapplicabile. Inoltre, per imporre di nuovo un sistema progressivo di imposizione bisognerebbe limitare la circolazione dei capitali: non esiste nessun esperienza socialista o socialdemocratica che non abbia applicato questo principio come era applicato da noi prima della distruzione economica, ma soprattutto sociale, di questo nostro intero continente. L’unico internazionalismo (parola tanto abusata quanto ostica) accettabile è quello in cui si ha un rapporto di pace tra stati socialisti. E sovrani.(Martina Carletti, “Euro, Unione Europea o socialismo?”, da “Appello al Popolo” del 23 ottobre 2014).Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.
-
Foa: posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi
C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.C’è un vincolo sociale, o se preferite morale, che porta i dirigenti delle imprese a usare con buon senso e nelle giuste proporzioni un diritto in sé molto potente. La cultura prevalente tende a biasimare chi scade nell’abuso o nello sfruttamento e, sebbene ci siano dei casi disdicevoli, pochi violano questa legge non scritta. Inoltre, come noto, la Svizzera primeggia nelle classifiche mondiali sull’imprenditoria. La Svizzera è business friendly: le aziende nascono, crescono, si sviluppano e restano sul territorio. Risultato: la disoccupazione è bassissima e la Confederazione elvetica continua ad assumere lavoratori dall’estero, a riprova di un mercato dinamico. Ma in Italia? Purtroppo in Italia non si può dire lo stesso. La cultura sociale non è basata sul rispetto, ma sulla sfiducia sociale, sull’elusione della legge, sui rapporti di forza con le controparti sociali.A fronte di molti imprenditori seri che hanno un rapporto corretto, spesso esemplare, con i propri dipendenti, ne esistono altri – sovente nei servizi – che scadono nello sfruttamento; quegli imprenditori (ammesso che possano essere considerati tali) che assumono in nero o vanno avanti con contratti a tempo determinato senza mai trasformarli in contratti a tempo indeterminato, insomma che sfruttano i lavoratori, che speculano sulla loro disperazione sociale. Sono questi figuri che alla fine legittimano e rafforzano il sindacato. E c’è l’Italia di oggi: un’Italia ormai quasi deindustrializzata non per demerito dei suoi imprenditori ma a causa degli effetti delle politiche irresponsabili, vessatorie e ingiuste volute dall’establishment europeo e portate a termine con solerzia da Mario Monti ed Enrico Letta, con la benedizione del pontefice di Francoforte Mario Draghi.Nell’Italia di oggi il problema non è il posto fisso, bensì che il posto non c’è più. Coloro che hanno provocato questa desertificazione economica sono gli stessi che da 15 anni promettono di anno in anno riprese che non arrivano mai, paradisi che non si materializzano mai, vaticinano di economia di mercato e di flessibilità ma promuovono la burocratizzazione dell’economia europea, avallando rigidità strutturali insostenibili. E fino a quando Matteo Renzi non avrà affrontato questo problema, trovando il coraggio di distanziarsi dal pensiero unico dominante e di mettere di nuovo le aziende nelle condizioni di crescere in libertà, nulla verrà risolto. La riforma dell’articolo 18 rischia di non produrre gli effetti virtuosi sperati ma, paradossalmente, di far aumentare la disoccupazione o di comprimere ancor di più verso il basso i salari. Da sola non basta. Ci vorrebbero un progetto, un’idea del paese, fiducia nel genio imprenditoriale degli italiani e il coraggio di liberare le imprese e l’Italia dai vincoli burocratici ed esterni che ne inibiscono la creatività. Ci vorrebbe un leader concreto, coraggioso e lungimirante. Qualcuno di ben diverso da Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 ottobre 2014).C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.
-
Francia sfinita dai diktat di Berlino, l’Eurozona crollerà
Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».Nell’ultimo mezzo secolo, scrive O’Brien sull’“Independent”, il superamento della sanguinosa storia di questi due paesi – ben tre guerre, tra il 1870 e il 1944 – è stato un imperativo per entrambe le nazioni. «L’attacco illustra lo stato terribile delle relazioni franco-tedesche, che sono state il rapporto bilaterale europeo più importante nell’era successiva alla Seconda Guerra Mondiale». Tutto questo, afferma il giornalista in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, preannuncia guai seri tutti i paesi nell’Eurozona: «Se Parigi e Berlino non riescono ad andare d’accordo, la moneta unica e l’intero progetto di integrazione europea sono in pericolo». Ironia della storia: «Una valuta che è stata progettata per riunire l’Europa e contenere il potere della Germania unita sta ottenendo esattamente l’opposto», dal momento che «l’inevitabile necessità di regole condivise nell’area valutaria porta a scambi di accuse che stanno avvelenando i rapporti fra i suoi membri». Tendenza già evidente da tempo nella periferia europea, ma ora estesa al centro franco-tedesco.«Queste recriminazioni potrebbero svanire se l’economia europea si riprendesse per proprio conto o se venissero implementate delle modifiche di politica economica sostenute da tutti i paesi», continua O’Brien. «Ma se non dovesse accadere nessuna di queste due cose, il centro franco-tedesco della zona euro si indebolirà ulteriormente e probabilmente aumenterà ancora in entrambi i paesi il consenso verso i partiti favorevoli all’uscita dall’euro – compreso il Front National francese, che ha già il consenso di un elettore su quattro». Una ragione ancora più fondamentale per essere pessimisti sul futuro dell’euro, aggiunge O’Brien, è la difficoltà di trovare un modo condiviso di gestione del progetto euro, data la divergenza tra i due paesi sulla maggior parte delle questioni economiche. Se Francia e Germania credono ancora nella gestione pubblica di sanità, istruzione e welfare, «ci sono molte più differenze che somiglianze». I francesi, notoriamente, non si fidano del mercato, e per i servizi preferiscono uno Stato forte.Vale anche per le relazioni economiche internazionali: «Mentre la Francia è sempre tra i paesi Ue più restii a liberalizzare il commercio con altri paesi (inclusi, attualmente, gli Stati Uniti), la Germania è tradizionalmente nel campo pro-liberalizzazione. I loro diversi punti di vista sull’importanza relativa del mercato e dello Stato nella vita economica si riflettono anche nelle opinioni sulla gestione macroeconomica. Nessun governo francese, come si ricorda di continuo, ha presentato un bilancio in pareggio da quasi 40 anni, e le proposte di tagliare la spesa pubblica quasi inevitabilmente portano a proteste». I tedeschi, invece, hanno quasi un’ossessione per la disciplina fiscale. Per loro, un bilancio in rosso (cioè basato su un sano deficit positivo per sostenere la spesa pubblica) significa “vivere al di sopra dei loro mezzi”: «La Germania è una rarità, in quanto i politici che promettono tagli possono aspettarsi applausi, piuttosto che proteste». Così, le tendenze sulla politica monetaria sono diverse tanto quanto quelle sulla politica fiscale. «La classe politica francese chiede frequentemente alla Banca Centrale Europea di fare questa o quell’azione, mentre la loro controparte a est del Reno ritiene sacrosanta l’indipendenza dell’autorità monetaria e crede che anche il solo cercare di influenzarla comprometta tale indipendenza». Un po’ ipocrita, visto che poi la Bce prende ordini dalla Merkel e della Bundesbank.«Anche se l’euro fosse stato un club di soli due paesi – Francia e Germania – una serie dettagliata di regole avrebbero dovuto essere concordate, prima o poi, sulla falsariga del “Two Pack” e del “Six Pack” che ora governano l’Eurozona, continua O’Brien. E visto che la Germania «è economicamente e politicamente più forte della Francia», ne consegue che «la sua filosofia economica è dominante: ciò è particolarmente difficile da digerire per i francesi». Le parole di Montebourg «sottolineano non solo quanto molti in Francia già pensano», e cioè «che le politiche vengono loro imposte», ma dicono anche che «lasciare che ciò accada significa subire un’umiliazione, per un paese non incline a sottovalutare la sua grandeur». Proprio questo senso di umiliazione, osserva il giornalista dell’“Independent”, ha svolto un ruolo considerevole nell’ascesa del «reazionario» Jean-Marie Le Pen, «la cui retorica anti-Bruxelles è perfino più estrema di quella della maggior parte dei membri dell’Ukip in Gran Bretagna».Lo sfogo di Montebourg, insieme ad altri due membri di sinistra del governo che si sono uniti alla sua rivolta, ha costretto l’Eliseo al secondo rimpasto in soli quattro mesi. «La parola “crisi” non riesce nemmeno a descrivere la condizione della presidenza ormai biennale di François Hollande, ridicola perfino per gli standard di un elettorato francese perennemente scontento», scrive O’Brien. «Nessun presidente francese ha mai sperimentato gli infimi livelli che Hollande sta attualmente registrando nelle valutazioni di soddisfazione dell’elettorato». E anche se lo stato dell’economia francese non è ancora così tremendo come molti commentatori anglofoni sostengono, è comunque stagnante, esacerbato dall’assenza di crescita indotta proprio dal rigore euro-tedesco. «Non è chiaro se l’élite politica dell’Eurozona abbia pienamente interiorizzato la dimensione del cambiamento avvenuto con l’adesione all’euro», conclude O’Brien. In compenso, «è molto chiaro che l’élite politica francese non l’ha fatto». E questo, «insieme a una serie di altri fattori, porterà – prima o poi – a una rottura dell’Eurozona».Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».