Archivio del Tag ‘Liverpool’
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Annullare la Brexit? Ora il divorzio mette in croce Corbyn
Un sondaggio riservato, commissionato dalla campagna pro-Ue “Best for Britain” (che vede tra i suoi finanziatori principali lo speculatore George Soros) suggerisce che gli elettori britannici sarebbero meno propensi a sostenere il Labour qualora il partito dovesse impegnarsi in maniera decisa a fermare la Brexit. Lo rivela il “Guardian”: quasi un terzo degli intervistati avrebbe dichiarato che, in questa circostanza, voterebbe con meno probabilità i laburisti. Un numero simile di cittadini ha affermato che la posizione sul tema non muterebbe l’atteggiamento verso la formazione guidata da Corbyn. Solo il 25% del campione, scrive Andrea Genovese su “Contropiano”, ha dichiarato che un impegno “europeista” del Labour costituirebbe una maggior motivazione per sostenere la compagine. “Best for Britain”, che sta spingendo per un secondo referendum Ue, ha commissionato il sondaggio prima che i parlamentari votassero sull’accordo negoziato da Theresa May con l’Ue (poi clamorosamente respinto dalla Camera dei Comuni). Quanto ai flussi elettorali, il sondaggio afferma che una svolta in favore del secondo referendum ad opera del Labour potrebbe far guadagnare al partito il 9% degli elettori conservatori, ma causerebbe la perdita dell’11% degli attuali sostenitori laburisti.Per la formazion di Corbyn sarebbe una perdita solo parzialmente compensata dal maggiore interesse con il quale guarderebbero al Labour i simpatizzanti dei piccoli partiti pro-Ue, cioè Verdi e Liberaldemocratici. Il leader Jeremy Corbyn, osserva Genovese, si trova in una situazione delicatissima, «stretto tra le smanie europeiste dei settori centristi del suo partito» (71 parlamentari del Labour sostengono apertamente la campagna per un secondo referendum) e la necessità di «rassicurare l’elettorato tradizionale laburista che, soprattutto nel Nord dell’Inghilterra, ha votato in maniera consistente per la Brexit». Fallita la mozione di sfiducia al governo May (che è rimasto in piedi) e incassata l’indisponibilità dei Liberal-Democratici a sostenere simili tentativi in futuro, l’obiettivo di portare il paese a elezioni anticipate appare lontano. La sua strategia, ricorda Genovese, Jeremy Corbyn l’aveva messa a punto lo scorso settembre a Liverpool: «Superare in avanti le divisioni causate dalla Brexit (da assumere come dato acquisito pur preservando l’accesso all’Unione Doganale), tramite un programma socialmente avanzato col quale parlare alla maggioranza della popolazione, provando a mettere in crisi, nel gioco parlamentare, Theresa May, e a guadagnare le urne anticipate».La strada di Corbyn si fa stretta, secondo “Contropiano”: l’inizio dei colloqui parlamentari ha anche segnalato l’avvio di grandi manovre per riunire Conservatori, Nazionalisti, Centristi e la destra interna laburista intorno ad un nuovo accordo sulla Brexit. Un accordo che, per gli oppositori interni del segretario del Labour, «potrebbe anche avere l’utilità di azzoppare un leader sgradito e del tutto eccentrico rispetto alla recente tradizione del partito, completamente genuflessa ai diktat neoliberisti». A Corbyn guarda anche il variegato panorama – piuttosto disperso – dei progressisti europei che avevano tifato per il “Remain”, nella speranza che proprio il partito laburista (radicalmente rinnovato da Corbyn in senso socialista) potesse fare da contrappeso, nell’ambito dell’Unione Europea, allo strapotere del patto mercantilista franco-tedesco, al quale si sono incresciosamente allineati sia i socialisti francesi che l’Spd tedesca e il Pd italiano. Con la Brexit, i progressisti europei hanno perso – in Corbyn – un alleato potenzialmente strategico. Che ora, come scrive il “Guardian”, dovrà provare a sopravvivere, politicamente, tra le mille insidie (anche interne) innescate dal tormentato divorzio da Bruxelles.Un sondaggio riservato, commissionato dalla campagna pro-Ue “Best for Britain” (che vede tra i suoi finanziatori principali lo speculatore George Soros) suggerisce che gli elettori britannici sarebbero meno propensi a sostenere il Labour qualora il partito dovesse impegnarsi in maniera decisa a fermare la Brexit. Lo rivela il “Guardian”: quasi un terzo degli intervistati avrebbe dichiarato che, in questa circostanza, voterebbe con meno probabilità i laburisti. Un numero simile di cittadini ha affermato che la posizione sul tema non muterebbe l’atteggiamento verso la formazione guidata da Corbyn. Solo il 25% del campione, scrive Andrea Genovese su “Contropiano”, ha dichiarato che un impegno “europeista” del Labour costituirebbe una maggior motivazione per sostenere la compagine. “Best for Britain”, che sta spingendo per un secondo referendum Ue, ha commissionato il sondaggio prima che i parlamentari votassero sull’accordo negoziato da Theresa May con l’Ue (poi clamorosamente respinto dalla Camera dei Comuni). Quanto ai flussi elettorali, il sondaggio afferma che una svolta in favore del secondo referendum ad opera del Labour potrebbe far guadagnare al partito il 9% degli elettori conservatori, ma causerebbe la perdita dell’11% degli attuali sostenitori laburisti.
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Corbyn e Mélenchon, prove tecniche di socialismo europeo
Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello di “France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.Aditya Chakrabortty, sul “Guardian”, domanda se qualcuno ha notato che il Labour ha appena dichiarato la “guerra di classe”, dopo che per decenni si è consentito al neoliberismo di fare quello che voleva. Nel 2015, il capo-economista della Bank of England, Andy Haldane, ha tracciato ciò che è accaduto al reddito nazionale dei lavoratori nel lungo periodo. E ha scoperto che il lavoro ha avuto fette sempre più piccole della torta: dal 70% negli anni ’70 al 55% di oggi. Secondo i suoi calcoli, «gli impiegati ottengono proporzionalmente meno ora di quanto ottenevano all’inizio della rivoluzione industriale, negli anni ‘70 del Settecento». Ovvero: «Se i salari degli operai fossero stati mantenuti in linea con l’aumento della loro produttività dal 1990, il lavoratore medio sarebbe oggi più ricco del 20%». Osserva Marchetti su “Contropiano”: «Non stupisce che, nel paese che in Europa, per primo, ha conosciuto l’applicazione delle ricette liberiste grazie alla Thatcher, e lo svuotamento tra le file laburiste di ogni istanza progressista con la parabola del “New Labour” di Tony Blair, abbia votato prima per uscire dalla Ue e poi per il Labour di Corbyn, che ora è “testa a testa” nei sondaggi con il 35% delle preferenze di voto e una non escludibile ipotesi di elezione anticipata a novembre».Tornando alla “strana coppia” formata da Corbyn e Mélenchon, continua Marchetti, «entrambi sono due “pellacce” che vengono da esperienze “di minoranza” nei propri ranghi, ma non hanno smesso di perseguire una politica “radicale” divenuta sempre più mainstream nei rispettivi paesi». Tra loro si parlano in spagnolo, data la comune passione per le lotte dei popoli latino-americani. «Entrambi sono stati oggetto, e lo sono tuttora, del linciaggio mediatico da parte dei media internazionali, cioè dei grandi gruppi della comunicazione che dominano il mercato: il partito unico dell’informazione e le sue propaggini nella sinistra “liberal”». Le solite trappole: «Le critiche alla politica israeliana da parte di Corbyn gli sono costate le accuse di antisemitismo, piattamente riprese anche dalla stampa nostrana». E al di là della Manica, un’identica “macchina del fango” si è attivata nella campagna elettorale per le ultime presidenziali francesi, man mano che Mélenchon cresceva nei sondaggi: più aumentava il numero di seguaci, specie giovani, e più crescevano «il “bashing” mediatico e le narrazioni tossiche», cosa che peraltro è avvenuta anche con Corbyn, «le cui copertine dedicategli in fase elettorale da alcuni tabloid rimangono un capolavoro di “fake news” da ammannire al popolo». Ora tutto è cambiato: Corbyn è quotato alla pari con i conservatori, mentre Mélenchon è il leader più popolare in Francia, dove Macron è crollato sotto il 20%.Nazionalizzare le ferrovie privatizzate, restituire allo Stato il settore energetico e le Poste. Patrimoniale selettiva: tasse sugli “immobili secondari” per finanziare gli alloggi per i senza-casa. E inoltre, l’obbligo per le imprese con più di 250 impiegati di riservare ai dipendenti un terzo dei seggi nei consigli di amministrazione. Sono i caposaldi del nuovo, possibile “socialismo europeo” secondo l’inglese Jeremy Corbyn e il francese Jean-Luc Mélenchon, accorso a Liverpool per il grande festival politico “The World Transformed”, con migliaia di partecipanti. «In Gran Bretagna c’è sete di un diverso tipo di politica e di una nuova società, che strappi il potere all’establishment e lo metta nelle mani dei più», dice uno degli organizzatori, Fergal O’Dwyer. Per Angus Satow, il leader laburista e quello de “La France Insoumise” rappresentano «la sinistra che si impadronisce del futuro». Un dirigente laburista come David Broder immagina la creazione di un vasto think-tank con partiti e movimenti della sinistra di tutto il mondo. Certo, annota Giacomo Marchetti su “Contropiano”, Corbyn e Mélenchon non sono esattamente giovanotti: ma, pur veleggiando verso i settanta, hanno entrambi hanno avuto un discreto successo tra i giovani, proprio il loro omologo statunitense Bernie Sanders, rendendo i “millenials” nuovamente protagonisti della politica.
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L’Ue: guerra alle porte? L’esercito contro chi sciopera
Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».«Nel quadro coordinato delle politiche di sicurezza – si legge – si stanno fondendo le responsabilità delle forze di polizia con quelle delle forze armate, e si stanno creando delle capacità comuni per affrontare le proteste sociali». La radio tedesca “Deutschlandfunk” ha appena parlato di questo studio, precisando che ufficialmente questo “progetto” dovrebbe riguardare solo interventi in paesi al di fuori della Ue. «Ma ai sensi dell’articolo 222 del Trattato di Lisbona, esiste una base giuridica, creata appositamente per il dispiegamento di unità militari e paramilitari all’interno di Stati membri della Ue, in crisi». Il trattato, spiega Krassnin in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato scritto da un gruppo di docenti universitari ed esperti nel settore della sicurezza europea, per la difesa e la politica estera. Nella prefazione, redatta dal “ministro degli esteri” dell’Ue, Catherine Ashton – sono definiti quali saranno i parametri a lungo termine che seguirà la politica di sicurezza dell’Unione Europea.Il contributo più ampio, dal titolo “L’Unione Europea e l’ambiente di sicurezza globalizzato”, riassume l’indirizzo del progetto: Tomas Ries, direttore dell’Istituto Svedese per gli Affari Internazionali, indica che la Ue dovrebbe sempre «combattere i problemi sociali con mezzi militari». Durante la guerra fredda, racconta Krassnin, il professor Ries svolgeva mansioni di esperto di organizzazione per le forze armate del nord Europa. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha rivolto le sue attenzioni allo studio della politica di sicurezza globale. Secondo Ries, la principale minaccia per la “sicurezza” europea si annida nella violenza di un prevedibile «conflitto provocato dalle disuguaglianze tra le classi socio-economiche che esistono nella società globale». Conflitti frutto di «asimmetriche tensioni verticali nel villaggio globale». In parole povere, conclude Krassnin, il principale “problema per la sicurezza” nell’economia mondiale globalizzata è la lotta di classe.Per illustrare queste “tensioni verticali asimmetriche”, Ries ha rappresentato le disuguaglianze sociali in un grafico. Nella parte superiore ci sono le multinazionali, il “Fortune Global 1000”, o le mille aziende che incassano la maggior parte del fatturato del mondo. Ha calcolato che, tutte insieme, queste multinazionali rappresentino in percentuale lo 0,001% della popolazione, cioè appena 7 milioni di persone. E ha evidenziato che tra loro e la grande massa della popolazione mondiale, quasi 7 miliardi di individui, esiste una distanza enorme, incolmabile. «Visivamente – aggiunge Krassnin, sempre citando Ries – appare evidente che saranno inevitabili conflitti sociali, economici e politici che scaturiranno da questa disuguaglianza». La ricetta di Ries? Semplice: il tecnocrate svedese «raccomanda di mettere la Ue “in simbiosi” con le multinazionali». Il potere di queste aziende «è in costante crescita nei settori della tecnologia e dell’economia», ma ormai «stanno acquisendo una forte influenza anche in altre aree». Dettaglio fondamentale: «Queste multinazionali hanno bisogno dello Stato e lo Stato ha bisogno di loro».Con la crisi finanziaria, osserva Krassnin, gli Stati hanno già fatto la loro parte per entrare “in simbiosi” coi super-poteri, facendo «pagare alla popolazione i debiti delle banche» e quindi peggiorando ulteriormente le condizioni di quella che un tempo si sarebbe chiamata “classe operaia”. «Come conseguenza di questi attacchi contro i fondamentali diritti sociali», aggiunge Krassnin, secondo Ries si svilupperanno inevitabilmente dei conflitti sociali che colpiranno importanti aree delle infrastrutture. Esempi: «Uno sciopero dei netturbini a Napoli, in Italia, uno sciopero dei vigili del fuoco a Liverpool, in Inghilterra, e dei controllori del traffico aereo negli Stati Uniti». In tutte queste situazioni, «l’esercito è già stato utilizzato per mantenere in funzione le infrastrutture». Anche se questo non era in realtà un lavoro di competenza dei militari, Ries avverte che nei prossimi anni l’esercito dovrebbe essere utilizzato a livello nazionale con sempre maggiore frequenza: il «lavoro di polizia» che dovranno svolgere le truppe sarà necessario sempre più frequentemente a causa di queste tensioni, si legge nel testo.«Dal momento in cui queste righe sono state scritte, i soldati sono già stati schierati contro i lavoratori in sciopero in Spagna e in Grecia ed è stata dichiarata la legge marziale per costringerli a tornare di nuovo al lavoro». Questo è “inevitabile”, perché «i ricchi dovevano essere protetti dai poveri», sostiene il professore. Dal momento che «la percentuale della popolazione povera e frustrata dovrà continuare ad essere molto elevata, le tensioni tra questo mondo e il mondo dei ricchi è destinata ad aumentare, con tutte le prevedibili relative conseguenze». E visto che «difficilmente entro il 2020 saremo in grado di superare il gap che causa questo problema», cioè i «difetti funzionali della società», ecco che «dovremo proteggere maggiormente la nostra incolumità». Chiaro? «Quando scrive “difetti funzionali”, Ries intende le conseguenze sociali del sistema di profitto globale, come anche le guerre che servono per garantire la funzionalità del sistema». Per Krassnin, «queste sono solo due delle componenti fondamentali del sistema capitalistico, che obbligano un numero sempre maggiore di persone alla povertà o a dover scappare dal proprio paese e diventare dei rifugiati».Proteggere i ricchi dai poveri? Ries la descrive come «una strategia contro i perdenti del sistema». Benché ammetta che sul piano morale tutto questo sia «estremamente discutibile», secondo Ries non ci sarà nessun’altra via d’uscita «se non saremo capaci di superare le origini di questo problema». La visione del professore è quella dell’élite, «disposta a tutto pur di difendere i propri privilegi e le ricchezze contro l’opposizione del resto della popolazione», annota Krassnin. E attenzione: «Ries non propone solo un regime militare europeo per reprimere gli scioperi, ma anche un rafforzamento massiccio dei singoli Stati membri dell’Ue», in vista di una guerra. «Entro il 2020, al più tardi, la Ue dovrà espandere significativamente le proprie capacità militari», per affrontare «combattimenti ad alta intensità». La pace tra le grandi potenze, infatti, «dipende interamente dal funzionamento dell’economia mondiale: se il sistema dovesse rompersi, anche il tranquillo ordine politico andrebbe distrutto». Questo è dunque lo scenario a cui si prepara l’Unione Europea. Un ottimo modello operativo? Il golpe in Ucraina contro Mosca, che ha consegnato «poteri forti ai politici». Ulteriori sviluppi? Uno su tutti: «La guerra, all’estero e in patria».Gli esperti dei think-tank stanno chiedendo all’Unione Europea che si prepari a combattere scioperi e proteste sociali con la forza militare. A causa dell’ aggravarsi delle disuguaglianze provocate dall’economia globalizzata e dai crescenti conflitti militari all’interno delle frontiere della Ue, questo tipo di manifestazioni inevitabilmente dovranno aumentare. Lo conferma uno studio dell’Istituto per la Sicurezza dell’Unione Europea: gli autori, senza mezzi termini, affermano che di fronte a questi sviluppi l’esercito dovrà essere utilizzato sempre più per compiti di polizia, in modo da poter proteggere i ricchi dalla collera dei poveri, riferisce Denis Krassnin. La ricerca, “Prospettive per la difesa europea 2020”, pubblicata già nel 2008, cioè un anno dopo il quasi-collasso del sistema finanziario globale, rende chiaro (fin dal titolo) che gli accademici e i politici sono perfettamente consapevoli delle possibili implicazioni “rivoluzionarie” della crisi. Ecco perché «stanno lavorando sui diversi scenari sociali che potranno essere utilizzati per opporsi alle prossime prevedibili reazioni della vasta maggioranza della popolazione».