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Israele, uno Stato inventato (a insaputa degli ebrei)
La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.Oltre ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza, riunitosi il 22 luglio, l’Onu ha dato la parola ad altri 40 Stati che intendevano esprimere il loro sdegno per il comportamento di Tel Aviv e la sua «cultura dell’impunità». La sessione, anziché durare le solite 2 ore, si è protratta per 9 ore. Simbolicamente, la Bolivia ha dichiarato Israele uno «Stato terrorista» e ha abrogato l’accordo sulla libera circolazione che lo riguardava. Ma in generale, le dichiarazioni di protesta non sono state seguite da un aiuto militare, ad eccezione di quelle dell’Iran e simbolicamente della Siria. Entrambi sostengono la popolazione palestinese attraverso il Jihad islamico, l’ala militare di Hamas (ma non la sua ala politica, membro dei Fratelli Musulmani), e tramite il Fplp-Cg.A differenza dei casi precedenti (operazioni “Piombo fuso” nel 2008 e “Colonna di nuvola” nel 2012), i due Stati che proteggono Israele presso il Consiglio (Stati Uniti e Regno Unito) hanno favorito l’elaborazione di una dichiarazione del presidente del Consiglio di Sicurezza che sottolineava gli obblighi umanitari di Israele. In realtà, al di là della questione di fondo di un conflitto che dura dal 1948, si assiste a un consenso per condannare almeno il ricorso da parte di Israele di un uso sproporzionato della forza. Tuttavia, questo consenso apparente maschera analisi assai diverse: alcuni autori interpretano il conflitto come una guerra di religione tra ebrei e musulmani; altri lo vedono al contrario come una guerra politica secondo uno schema coloniale classico. Che cosa dobbiamo pensarne?SIONISMO Che cos’è il sionismo? A metà del XVII secolo, i calvinisti britannici si riunirono intorno a Oliver Cromwell e rimisero in questione la fede e la gerarchia del regime. Dopo aver rovesciato la monarchia anglicana, il “Lord Protettore” pretese di consentire al popolo inglese di raggiungere la purezza morale necessaria ad attraversare una tribolazione di sette anni, dare il benvenuto al ritorno del Cristo e vivere in pace con lui per mille anni (il “Millennium”). Per far ciò, secondo la sua interpretazione della Bibbia, gli ebrei dovevano essere dispersi fino agli estremi confini della terra, poi raggruppati in Palestina, dove ricostruire il tempio di Salomone. Su questa base, instaurò un regime puritano, levò nel 1656 il divieto che era stato fatto agli ebrei di stabilirsi in Inghilterra e annunciò che il suo paese s’impegnava a creare in Palestina lo Stato di Israele.Poiché la setta di Cromwell fu a sua volta rovesciata alla fine della “Prima Guerra civile inglese”, i suoi sostenitori uccisi o esiliati, e poiché la monarchia anglicana fu restaurata, il sionismo (cioè il progetto della creazione di uno Stato per gli ebrei) fu abbandonato. Riapparve nel XVIII secolo con la “Seconda guerra civile inglese” (secondo il nome dei manuali di storia delle scuole secondarie nel Regno Unito) che il resto del mondo conosce come la “Guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti” (1775-1783). Contrariamente alla credenza popolare, essa non fu intrapresa in nome degli ideali dell’Illuminismo che animarono pochi anni dopo la Rivoluzione Francese, ma fu finanziata dal re di Francia e condotta per motivi religiosi al grido di «Il nostro re è Gesù!». George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, per citarne alcuni, si sono presentati come i successori dei sostenitori esiliati di Oliver Cromwell. Gli Stati Uniti hanno dunque logicamente ripreso il suo progetto sionista.Nel 1868, in Inghilterra, la regina Victoria nominò primo ministro l’ebreo Benjamin Disraeli. Questi propose di concedere una parte di democrazia ai discendenti dei sostenitori di Cromwell, in modo da poter contare su tutto il popolo per estendere il potere della Corona nel mondo. Soprattutto, propose di allearsi alla diaspora ebraica per condurre una politica imperialista di cui essa sarebbe stata l’avanguardia. Nel 1878, fece iscrivere «la restaurazione di Israele» all’ordine del giorno del Congresso di Berlino sulla nuova spartizione del mondo. È su questa base sionista che il Regno Unito ristabilì i suoi buoni rapporti con le sue ex colonie, divenute nel frattempo gli Stati Uniti alla fine della “Terza guerra civile inglese” – nota negli Stati Uniti come la “guerra civile americana” e nell’Europa continentale come la “guerra di Secessione” (1861-1865) – che vide la vittoria dei successori dei sostenitori del Cromwell, gli Wasp (White Anglo-Saxon Puritans). Anche in questo caso, è del tutto sbagliato che si presenti questo conflitto come una lotta contro la schiavitù, intanto che cinque stati del nord la praticavano ancora.Fino quasi alla fine del XIX secolo, il sionismo è solo un progetto puritano anglo-sassone al quale solo un’élite ebraica aderisce. È fortemente condannato dai rabbini che interpretano la Torah come un’allegoria e non come un piano politico. Tra le conseguenze attuali di questi fatti storici, dobbiamo ammettere che se il sionismo mira alla creazione di uno Stato per gli ebrei, è anche il fondamento degli Stati Uniti. Pertanto, la questione se le decisioni politiche d’insieme siano prese a Washington o a Tel Aviv ha solo interesse relativo. È la stessa ideologia ad essere al potere in entrambi i paesi. Inoltre, poiché il sionismo ha permesso la riconciliazione tra Londra e Washington, il fatto di sfidarlo significa affrontare questa alleanza, la più potente del mondo.POPOLO EBRAICO L’adesione del popolo ebraico al sionismo anglosassone. Nella storia ufficiale attuale, è consuetudine ignorare il periodo dal XVII al XIX secolo e presentare Theodor Herzl come il fondatore del sionismo. Tuttavia, secondo le pubblicazioni interne dell’Organizzazione Sionista Mondiale, anche questo punto è falso. Il vero fondatore del sionismo contemporaneo non era ebreo, bensì cristiano dispenzionalista. Il reverendo William E. Blackstone era un predicatore americano per il quale i veri cristiani non avrebbero dovuto partecipare alle prove della fine del tempo. Basava l’insegnamento su coloro che sarebbero stati elevati al cielo durante la battaglia finale (il “rapimento della Chiesa”, in inglese “the rapture”). Nella sua visione, gli ebrei avrebbero combattuto questa battaglia e ne sarebbero usciti allo stesso tempo convertiti a Cristo e vittoriosi.È la teologia del reverendo Blackstone che è servita da base per il sostegno immancabile di Washington alla creazione di Israele. E questo, molto prima che l’Aipac (la lobby pro-Israele) venisse creata e prendesse il controllo del Congresso. In realtà, il potere della lobby non risiede tanto nel suo denaro e la sua capacità di finanziare le campagne elettorali, quanto in questa ideologia ancora presente negli Stati Uniti. La teologia del rapimento, per quanto stupida possa sembrare, è oggi molto potente negli Stati Uniti. Rappresenta un fenomeno nel mercato dei libri e nel cinema (si veda il film “Left Behind”, con Nicolas Cage, che uscirà ad ottobre). Theodor Herzl era un ammiratore del magnate dei diamanti Cecil Rhodes, teorico dell’imperialismo britannico e fondatore del Sudafrica, della Rhodesia (cui diede il suo nome) e dello Zambia (ex Rhodesia del Nord).Herzl non era israelita praticante né aveva circonciso suo figlio. Ateo come molti borghesi europei del suo tempo, si batté all’inizio per assimilare gli ebrei convertendoli al cristianesimo. Tuttavia, riprendendo la teoria di Benjamin Disraeli, giunse alla conclusione che la soluzione migliore fosse quella di farli partecipare al colonialismo britannico creando uno Stato ebraico, collocato nell’attuale Uganda o in Argentina. Seguì l’esempio di Rhodes nella maniera di acquistare terreni e di costruire l’Agenzia Ebraica. Blackstone riuscì a convincere Herzl a unire le preoccupazioni dei dispenzionalisti a quelle dei colonialisti. Era sufficiente per tutto questo considerare di stabilire Israele in Palestina e di moltiplicare i riferimenti biblici. Grazie a questa idea assai semplice, giunsero a far aderire la maggioranza degli ebrei europei al loro progetto. Oggi Herzl è sepolto in Israele (sul monte Herzl) e lo Stato ha posto nella sua bara la Bibbia annotata che Blackstone gli aveva offerto.Il sionismo non ha dunque mai avuto come obiettivo quello di «salvare il popolo ebraico dandogli una patria», bensì quello di far trionfare l’imperialismo anglosassone associandovi gli ebrei. Inoltre, non solo il sionismo non è un prodotto della cultura ebraica, ma la maggior parte dei sionisti non è mai stata ebrea, mentre la maggioranza dei sionisti ebrei non sono israeliti dal punto di vista religioso. I riferimenti biblici, onnipresenti nel discorso pubblico israeliano, rispecchiano il pensiero solo della parte credente del paese e sono destinati principalmente a convincere la popolazione statunitense.IL PATTO Il patto anglosassone per la creazione di Israele in Palestina. La decisione di creare uno Stato ebraico in Palestina è stata presa congiuntamente dai governi britannico e statunitense. È stata negoziata dal primo giudice ebreo della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, sotto gli auspici del reverendo Blackstone, e fu approvata sia dal presidente Woodrow Wilson sia dal primo ministro David Lloyd George, sulla scia degli accordi franco-britannici Sykes-Picot sulla spartizione del “Vicino Oriente”. Questo accordo fu progressivamente reso pubblico. Il futuro Segretario di Stato per le Colonie, Leo Amery, ebbe l’incarico di inquadrare gli anziani del “Corpo dei mulattieri di Sion” per creare, con i due agenti britannici Ze’ev Jabotinsky e Chaim Weizmann, la “Legione ebraica” in seno all’esercito britannico. Il ministro degli esteri Lord Balfour inviò una lettera aperta a Lord Walter Rothschild per impegnarsi a creare un «focolare nazionale ebraico» in Palestina (2 novembre 1917). Il presidente Wilson annoverò tra i suoi obiettivi di guerra ufficiali (il 12° dei 14 punti presentati al Congresso l’8 gennaio 1918) la creazione di Israele.Pertanto, la decisione di creare Israele non ha nulla a che fare con la distruzione degli ebrei d’Europa sopravvenuta due decenni più tardi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante la Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal (figlio dello Sharif della Mecca e futuro re dell’Iraq britannico) firmò, in data 3 gennaio 1919, un accordo con l’Organizzazione Sionista, impegnandosi a sostenere la decisione anglosassone. La creazione dello Stato di Israele, realizzata contro la popolazione della Palestina, era quindi fatta anche con l’accordo dei monarchi arabi. Inoltre, all’epoca, lo Sharif della Mecca, Hussein bin Ali, non interpretava il Corano alla maniera di Hamas. Non pensava che «una terra musulmana non può essere governata da non-musulmani»ISRAELE La creazione giuridica dello Stato d’Israele. Nel maggio 1942, le organizzazioni sioniste tennero il loro congresso al Biltmore Hotel di New York. I partecipanti decisero di trasformare il «focolare nazionale ebraico» della Palestina in «Commonwealth ebraico» (riferendosi al Commonwealth con cui Cromwell aveva brevemente sostituito la monarchia britannica) e di autorizzare l’immigrazione di massa degli ebrei verso la Palestina. In un documento segreto, venivano precisati tre obiettivi: «(1) lo Stato ebraico avrebbe abbracciato l’intera Palestina e probabilmente la Transgiordania; (2) il trasferimento delle popolazioni arabe in Iraq; (3) la presa in mano da parte degli ebrei dei settori dello sviluppo e del controllo dell’economia in tutto il Medio Oriente». Quasi tutti i partecipanti ignoravano allora che la «soluzione finale della questione ebraica» (die Endlösung der Judenfrage) aveva appena preso inizio segretamente in Europa.In definitiva, mentre i britannici non sapevano più come soddisfare sia gli ebrei sia gli arabi, le Nazioni Unite (che a quel tempo annoveravano appena 46 Stati membri) proposero un piano per spartire la Palestina a partire dalle indicazioni che gli fornirono i britannici. Uno Stato bi-nazionale doveva essere creato, comprendente uno Stato ebraico, uno Stato arabo e una zona soggetta a un “regime internazionale speciale” per amministrare i luoghi santi (Gerusalemme e Betlemme). Questo progetto fu adottato attraverso la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale. Senza attendere il seguito dei negoziati, il presidente dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion, proclamò unilateralmente lo Stato di Israele, subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Gli arabi del territorio israeliano furono sottoposti alla legge marziale, i loro movimenti furono limitati, i loro passaporti confiscati. I paesi arabi di recente indipendenza intervennero. Ma senza eserciti ancora costituiti, furono rapidamente sconfitti. Durante questa guerra, Israele procedette a una pulizia etnica e costrinse almeno 700.000 arabi a fuggire.L’Onu inviò un mediatore, il conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese che aveva salvato migliaia di ebrei durante la guerra. Constatò che i dati demografici trasmessi dalle autorità britanniche erano falsi e pretese la piena attuazione del piano di spartizione della Palestina. Al dunque, la risoluzione 181 implica il ritorno dei 700.000 arabi espulsi, la creazione di uno Stato arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’inviato speciale delle Nazioni Unite fu assassinato, il 17 settembre 1948, su ordine del futuro primo ministro Yitzhak Shamir. Furibonda, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 194, che riafferma i principi della risoluzione 181 e, inoltre, proclama il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare alle loro case e ad essere risarciti per il danno che avevano appena subito. Tuttavia, poiché Israele aveva arrestato gli assassini di Bernadotte, e poi li processò e condannò, fu accolto in seno all’Onu con la promessa di onorare le risoluzioni. Ma erano nient’altro che bugie. Subito dopo gli assassini furono graziati e lo sparatore divenne la guardia del corpo personale del primo ministro David Ben Gurion.Fin dalla sua adesione all’Onu, Israele non ha mai smesso di violare le risoluzioni che si sono accumulate all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. I suoi legami organici con due membri del Consiglio che dispongono del diritto di veto lo hanno collocato di fuori del diritto internazionale. È diventato uno Stato off-shore che permette agli Stati Uniti e al Regno Unito di fingere di rispettare anche loro il diritto internazionale, mentre lo violano dietro questo pseudo-Stato. È assolutamente sbagliato ritenere che il problema posto da Israele riguardi solo il Medio Oriente. Oggi Israele agisce militarmente in tutto il mondo a copertura dell’imperialismo anglosassone. In America Latina, ci furono agenti israeliani che organizzarono la repressione durante il colpo di stato contro Hugo Chávez (2002) o il rovesciamento di Manuel Zelaya (2009). In Africa, erano ovunque presenti durante la guerra dei Grandi Laghi e hanno organizzato l’arresto di Muammar el-Gheddafi. In Asia, hanno condotto l’assalto e il massacro delle Tigri Tamil (2009), ecc. Ogni volta, Londra e Washington giurano che non c’entrano per nulla. Inoltre, Israele controlla numerose istituzioni mediatiche e finanziarie (come la Federal Reserve statunitense).IMPERIALISMO La lotta contro l’imperialismo. Fino alla dissoluzione dell’Urss, era evidente a tutti che la questione israeliana scaturisse dalla lotta contro l’imperialismo. I palestinesi erano sostenuti da tutti gli anti-imperialisti del mondo – perfino dai membri dell’Armata Rossa giapponese – che venivano a combattere al loro fianco. Oggi, la globalizzazione della società dei consumi e la perdita di valori che ne è seguita hanno fatto perdere coscienza del carattere coloniale dello Stato ebraico. Solo arabi e musulmani si sentono coinvolti. Essi mostrano empatia per la condizione dei palestinesi, ma ignorano i crimini israeliani nel resto del mondo e non reagiscono ad altri crimini imperialisti. Tuttavia, nel 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeini spiegò ai suoi fedeli iraniani che Israele era solo una bambola nelle mani degli imperialisti e che l’unico vero nemico era l’alleanza degli Stati Uniti e del Regno Unito. Per il fatto di affermare questa semplice verità, Khomeini fu caricaturizzato in Occidente e gli sciiti furono presentati come eretici in Oriente. Oggi l’Iran è l’unico paese al mondo ad inviare grandi quantità di armi e consiglieri per aiutare la Resistenza palestinese, mentre i regimi sionisti arabi se ne stanno a discutere amabilmente in videoconferenza con il presidente israeliano durante le riunioni del Consiglio di sicurezza del Golfo.(Thierry Meyssan, “Chi è il nemico?”, articolo apparso il 3 agosto 2014 su diversi giornali internazionali e tradotto da “Megachip”).La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Paghiamo lavori inutili e sfruttiamo chi è davvero utile
Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.«Dagli anni Venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose», scrive Graeber in un post ripreso da “Megachip”. «Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori?». Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, «le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio» sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. «In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione», anche calcolando gli operai cinesi e indiani. «Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo».Sono nate nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, mentre c’è stata un’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Senza contare le aziende che a queste industrie forniscono assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, così come «l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre». Sono mestieri che Graeber propone di definire “lavori stupidi”: «È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere». Infatti, «l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso».È vero, «le grandi aziende operano spesso tagli spietati», ma attenzione: «Licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose». Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, continua Graeber, «ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano – un po’ come i sovietici di una volta – a lavorare in teoria 40 se non 50 ore alla settimana, ma lavorandone di fatto 15 proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili Facebook o scaricare roba». Per Graeber, la spiegazione non è economica: è morale e politica. «La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale: pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni Sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa». E l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, al punto da pensare che «chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente», torna straordinariamente comoda a molti.Un amico poeta e musicista, racconta Graeber, dopo un paio di dischi che avevano «migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo», è stato costretto – parole sue – a «imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza». Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. «Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere». Domanda: che razza di società è la nostra, che genera «una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi», a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? Risposta: se «la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1% della popolazione», allora quello che definiamo “mercato” rigetterà «ciò che loro, e nessun altro», non considerano utile o importante. Peggio ancora: chi fa lavori “stupidi” se ne rende perfettamente conto. «Credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido».Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie: «Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro», continua Graeber. «Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere?». Tuttavia, «il talento tutto particolare della nostra società» sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo per garantire che la frustrazione e la rabbia vengano indirizzate contro chi invece fa un lavoro sensato. Strana regola: «Più il lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato».Si domanda Graeber: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? «Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore». Al contrario, «non è del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare)». Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni, come ad esempio i medici, «la regola resiste sorprendentemente bene». E, «cosa ancor più perversa, sembra circolare la diffusa convinzione che sia giusto così».Questo, aggiunge Graeber, è «uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra», quelli che «fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto», perché «il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo». Cosa ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani «stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile», a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: voi, che a quanto pare fate lavori veri, necessari, avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?«Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio», conclude Graeber. «I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente», mentre gli altri «si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla». Queste persone «ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori)», ma al tempo stesso «covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale». Non è un sistema progettato in modo conscio, è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. «Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno».Nel lontano 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia in Occidente sarebbe progredita al punto di regalarci una settimana lavorativa di appena 15 ore. Invece, è accaduto il contrario: «La tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più», scrive l’antropologo David Graeber. E a tale scopo «sono stati creati lavori che sono di fatto inutili». Enormi schiere di persone, in Europa e Nord America, lavorano in ufficio, dove «trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili». Graeber parla di «danni morali e spirituali», praticamente «una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva», anche se non ne parla nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? «La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo», ma per l’antropologo la verità è un’altra: l’élite capitalista sa benissimo che, una volta liberate dall’incombenza del lavoro full time, le masse cominciano a “pensare”, e a reclamare diritti per una vita diversa, specie se le macchine faticano al posto dell’uomo.
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Human Rights Watch: dietro quei terroristi c’era l’Fbi
Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.«Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», dice Andrea Prasow, vicedirettore di “Human Rights Watch” a Washington. «Ma se si osserva da vicino, si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagati». Secondo “Hrw”, l’Fbi spesso individua soggetti vulnerabili, con problemi mentali o dalla scarsa intelligenza, come Rezwan Ferdaus, un 27enne condannato a 17 anni di carcere perché accusato di voler attaccare il Pentagono e il Congresso con piccoli droni carichi di esplosivo, in un falso complotto organizzato dagli stessi agenti americani. Strategia della tensione, dunque, nonostante la prevedibile smentita del ministro della giustizia Eric Holder, cui l’Fbi risponde. Peccato che i media mainstream se ne “accorgano” solo ora, aggiunge Pino Cabras su “Megachip”: all’epoca degli “attentati” di cui si è occupata “Human Rights Watch”, infatti, la Rai e i giornali «ripetevano le veline dell’Fbi: fanno così molto spesso, senza correggersi mai», o comunque fuori tempo massimo.La notizia rende finalmente giustizia ai reporter che fanno «semplice giornalismo d’inchiesta» ma vengono regolarmente tacciati di “complottismo”. Disinformazione criminale, dunque, che ogni giorno “ruba” «un pezzo di libertà, di sovranità», fino ad imporre «lo spionaggio totalitario della Nsa». Attenti, sottolinea Cabras: «Non stiamo parlando di un generico sottofondo di notizie: si tratta dei modi con cui si è lanciato un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio onnipervasivo e reintrodotto gli arresti extralegali e la tortura». In questo quadro, «emerge chiaramente che il terrorismo in Usa è un’interminabile catena di azioni “false flag” (sotto falsa bandiera), in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’Fbi, che li manipola per i propri fini. Era così già dal primo attentato alle Torri Gemelle di New York, nel 1993, fu così per una parte dei soggetti implicati nei mega-attentati dell’11 settembre 2001, è stato così per Mutanda Bomber e per la maratona di Boston».«L’indagine di Human Rights Watch – continua Cabras – sarebbe già sufficiente da sola per dire che questo è un metodo di governo e che il cosiddetto terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei grandi organi di informazione che sono adibiti a organizzare l’isteria collettiva a comando». Con ogni probabilità, aggiunge l’analista di “Megachip”, la realtà è invece «ancora più vasta e incancrenita», tanto che l’indagine «sarebbe da estendere anche oltre gli Usa (pensiamo agli attentati di Londra del 2005), oltre l’Fbi (pensiamo al terrorismo internazionale segnato e finanziato da un intreccio di servizi segreti di vari paesi), e oltre i piccoli episodi (pensiamo anche all’11 Settembre e all’allarme antrace del 2001)».Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive “Hrw”. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.
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Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
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Granville: l’euro crollerà, ma il potere non lo ammette
Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.Credo che il principale problema con i partiti politici europei sia il fatto che non corrispondono più alla realtà della nostra epoca. La maggior parte non ascolta la voce del popolo e il loro comportamento è più rappresentativo dell’epoca feudale che della modernità. Il modo in cui quell’élite politica viene formata e poi “eletta” non ha nulla di democratico se non il nome, poiché la scelta è circoscritta ad un’élite che conosce tutti gli ingranaggi della politica ma ignora le necessità economiche attuali. In Francia, ad esempio, molta della classe politica si è formata all’Ena, il cui scopo iniziale era di selezionare alti funzionari di Stato, ossia persone in grado di eseguire e di mettere in atto le azioni decise da politici eletti e rappresentativi dell’opinione pubblica. Oggi questi alti funzionari si sono impadroniti del potere.Questa burocrazia dominante, composta da tecnocrati e centralizzata all’estremo, soffoca le popolazioni. Questa burocrazia di Stato degna di Courteline, Kafka e Orwell è una macchina infernale nella quale funzionari di Stato, non eletti, come ad esempio all’interno della Commissione Europea o del Fmi, prendono decisioni senza che nessun abbia mai conferito loro un mandato. Non potendo essere sentito, il popolo si sente escluso e questa frustrazione lo spinge a votare per i partiti estremisti. Di fronte a questa situazione, l’élite politica ripete che bisogna “educare” i popoli, considerando essenzialmente le persone come degli imbecilli e ignorando sistematicamente il loro voto, come è avvenuto in occasione del “No” olandese e francese alla Costituzione europea nel 2005. La conseguenza dell’arroganza di questa élite politica europea è, da una parte, l’ascesa dei partiti nazionalisti come il Front National e, dall’altra, il desiderio d’indipendenza di città o di regioni come nel caso della Catalogna, del Veneto e quant’altro.La gente è stanca che siano partiti di centro a prendere tutte le decisioni, con delle politiche che non solo non hanno alcuna comprensione della vita quotidiana del cittadino medio, ma che volutamente ignorano la loro voce. Questa élite politica è convinta di essere l’unica detentrice di ogni soluzione e ci conduce ciecamente verso una nuova crisi, che sarà non solo economica ma anche politica. La politica di svalutazione interna – la riduzione dei salari come unico mezzo per i paesi del sud per mantenere la competitività all’interno dell’Eurozona – non fa altro che rafforzare e aggravare tale situazione. In questo contesto si arriverà a un’inevitabile ristrutturazione dei debiti all’interno della zona euro, vale a dire a una modificazione unilaterale dei contratti, e questo equivale a un default. La crisi dell’Eurozona non si risolverà attraverso la cooperazione franco-tedesca e presto Berlino scoprirà il bluff di Parigi.La Germania e la Francia hanno due priorità fondamentalmente opposte: da un lato, la Germania, non potendo svalutare l’euro, favorisce il rigore fiscale e la svalutazione interna, una riduzione degli stipendi e dei prezzi. Ed è su questa logica che basa la sua competitività e crescita. In altre parole, i costi della manodopera unitari relativamente più bassi rispetto agli altri paesi dell’Eurozona spiegano il successo tedesco. Questo successo è stato possibile grazie alle “riforme Hartz” del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, ed è questo modello che si vuole esportare agli altri paesi tra cui la Francia. Il problema di questa politica è che richiede un lungo periodo di tempo prima di vedere i suoi frutti e presuppone una situazione in cui la traiettoria debito-Pil non aumenti.Dall’altro lato, in Francia, il peso del debito è elevato e aumenterà ulteriormente a causa della bassa inflazione e della crescita zero, dovuta all’aumento delle tasse e all’incertezza creata dal governo di François Hollande per ridurre il deficit. Il tasso di disoccupazione è arrivato a circa l’11 %. Al governo serve una crescita economica per rilanciare la propria immagine, ma le tensioni sociali stanno crescendo e rischiano di aggravare la crisi economica: l’ascesa del Front National esprime alla perfezione lo sbandamento dei francesi e il loro sentimento sempre più diffuso di non essere ascoltati dal governo al potere. L’intransigenza della Germania e l’impossibilità della Francia di attuare le riforme richieste, dovuta ai vincoli politici e temporali, determinano una situazione tale per cui quelli che costituivano i due pilastri della costruzione europea non procedono più nella stessa direzione.In questo contesto, la Francia può solo effettuare riforme che sa di non potere ultimare. Come ogni altro paese dell’Eurozona, la Francia deve conformarsi alle esigenze del Fiscal Compact e rispettarle. Qui non c’è spazio per la scelta, la Francia ha preso impegni. Purtroppo, le misure da prendere per rispettare gli impegni sono dolorose e dunque costose a livello politico. François Hollande è già il presidente più impopolare della Quinta Repubblica, dunque in un certo senso non ha più niente da perdere; ma politicamente, vista la sua mancanza di credibilità, se le riforme saranno imposte ai francesi, il suo governo rischia di destabilizzare le istituzioni della V Repubblica.L’euro è stata creato per una volontà politica, essenzialmente di François Mitterrand, e non c’era alcuna logica economica. Nello stesso modo l’euro sarà dissolto da una volontà politica. Se si presenterà questa volontà politica, potrà anche venire da paesi come la Francia o l’Italia e sarà il riflesso dell’impazienza di popoli che considerano che il costo delle riforme e delle misure economiche richieste sia troppo alto, rispetto a risultati mediocri. Una grande fetta della popolazione colpita da queste riforme è giovane, il tasso di disoccupazione che tocca i meno di 25 anni è elevato; questi giovani non hanno lo stesso senso storico di “preservare l’euro ad ogni costo” dei loro padri. A livello economico, il cataclisma potrebbe ad un tratto arrivare dal peso del debito per paesi come l’Italia o la Francia, soprattutto se la politica monetaria degli Stati Uniti divenisse ancora più restrittiva e i tassi d’interesse aumentassero. I mercati potrebbero essere in allerta. Ma finché i mercati troveranno una sicurezza nelle azioni della Banca Centrale europea, non accadrà nulla.(Brigitte Granville, dichiarazioni rilasciate ad Alessandro Bianchi per l’intervista “L’élite che ci governa si rifiuta di ammettere il fallimento e ci condurrà al caos”, pubblicata da “L’antidiplomatico” su “Voci dall’estero” nel giugno 2014 e ripresa da “Vox Populi”. La Granville è un’economista internazionale dell’università Queen Mary di Londra ed è tra i firmatari del Manifesto per la solidarietà europea).Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.
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Non solo calcio: Brasile, la caduta di una superpotenza
Lo so, Israele che bombarda civili a Gaza, Kiev che bombarda civili nell’Ucraina dell’Est, il Califfo fuori controllo in Medio Oriente, l’Impero del Caos che gioca a fare il prestigiatore. Ma prima vorrei parlare di qualcosa a cuore aperto. Ho conservato questa foto (vedi più sotto) per il momento più opportuno, che è arrivato. Vi presento un tipico paradiso tropicale – Santo Andre a Bahia, vicino a dove il Brasile è stato “scoperto” dai portoghesi nel 1500. Il campo di allenamento della nazionale tedesca è dietro a quegli alberi sulla sinistra. Io ero lì all’inizio della Coppa del Mondo, la mia meravigliosa ospite Anna Mariani è proprietaria di una stupenda casa sulla spiaggia proprio lì accanto. Il campo tedesco – in realtà un condominio sulla spiaggia – è stato isolato e customizzato a perfezione. I giocatori hanno potuto interagire con i villaggi vicini, visitato una scuola locale, fraternizzato con gli indiani Pataxo, fatto camminate mattutine sulla spiaggia.Si sono anche allenati davvero duramente: disciplina, impegno, etica del lavoro – mentre si godevano ogni minuto nel loro angolo di paradiso e apprendevano i rituali della cultura locale brasiliana. La nazionale brasiliana, nel frattempo, stava recitando uno psicodramma nazionale (nel senso letterale) che vede 200 milioni di persone coinvolte. Era come una spaventosa telenovela – senza alcun tipo di disciplina o duro lavoro, solo tintinnii (guarda il mio nuovo taglio di capelli!) appaiati ad un compiaciuto senso di superiorità. Alla fine avrebbero dovuto vincere perchè dopotutto, sfoderiamo il più grande mito nazionale, “Dio è brasiliano”. Passiamo ad una parabola della globalizzazione. Molto prima della Coppa, il Brasile – che una volta era una leggendaria superpotenza calcistica – è stato ridotto, a forza di cerchi concentrici di mala gestione, ad un ruolo secondario di esportatore di beni (calciatori di talento). Non c’è stata alcuna prospettiva di investimento sul futuro, tutto ciò che importava era trarre profitto dai diritti Tv assecondando il racket dei media.La Germania, d’altra parte, da quando è stata sconfitta in finale nel 2002 (dal Brasile) ha investito in una fitta rete di scuole calcio, parte di un sistema nazionale per allevare talenti, educarli e preparare allo stesso tempo anche gli allenatori. Tre ore prima dell’inizio dell’umiliazione dell’1-7 mi è stato chiesto dal mio barbiere cosa pensassi del risultato della partita. Ho risposto: «Germania 4-0». Tutti erano allibiti. Ho volato dall’Asia e poi dall’Europa per seguire la Coppa del Mondo in Brasile come se stessi facendo servizi di guerra, ciò che avevo sospettato fin dall’inizio si stava confermando come uno psicodramma in procinto di essere svelato. Tutti i segnali portavano ad una cricca di giovani milionari brasiliani psicologicamente instabili pronti ad implodere in maniera spettacolare – come avevano minacciato di fare prima contro il Cile e poi contro la Colombia. È successo nel lasso di soli 6 minuti quando la Germania ha fatto 4 gol – e al 29° i tedeschi stavano già vincendo 5-0. Sorpresa? Non proprio.Il Brasile ha smesso di giocare il jogo bonito molto tempo fa, dopo la fantastica nazionale del 1970 e poi la miglior nazionale che non abbia mai vinto nulla nel 1982. Dagli anni ’90 il Brasile come case del jogo bonito era solo un’altra leggenda – un elaborato trucco di marketing (con la complicità della Nike). I Brasiliani si sono presi in giro da soli fino in fondo, avvolti in un economico brand di nazionalismo che recitava “Noi siamo i campioni”.Finchè l’arroganza non ha prevalso. È toccato alla Germania ricordare quale fosse il vero jogo bonito, con i loro passaggi strabilianti, le conclusioni infallibili e triangoli di passaggio degni dei Chicago Bulls al loro apice. La nazionale brasiliana si è trasformata in un nervoso rottame principalmente per motivi tecnico/tattici: era una squadra senza centrocampo che giocava contro il miglior centrocampo del pianeta. Incolpate chi li guidava, la federazione calcistica brasiliana e la “commissione tecnica” che ha nominato: una modesta cricca arrogante, ignorante e senza talento, che rispecchiava perfettamente l’arroganza e l’ignoranza delle élite politico-economiche brasiliane, antiche e moderne.La polizia brasiliana, abbastanza ironicamente, ha smantellato un mercato nero di biglietti Fifa a Rio (nemmeno Scotland Yard ce l’aveva fatta), si è però persa un altro racket – uno spin-off in atto nei corridoi dei palazzi del calcio brasiliani. La commissione tecnica, nella sua conferenza stampa post-traumatica, lo stesso giorno che Argentina e Olanda hanno giocato come i bambini grandi per 120 interminabili minuti, terminati 0-0 (e poi risolti ai rigori), mi ha ricordato il Pentagono che scaricava Abu Ghraib: «Ah, è stato solo un bizzarro errore». No, non lo è stato. I brasiliani codardi al timone non hanno avuto lo stomaco di ammettere che il “blackout” è stato sistemico. Ci saranno ripercussioni politiche senza fine a questo 1-7. Va ben oltre la massa di ricchi brasiliani (bianchi) che si potevano permettere di comprare i biglietti Fifa mentre criticano le spese della presidente Rousseff per il welfare.Di sicuro va a braccetto con i mirabolanti profitti che la Fifa trae dalla sua festicciola personale (4 miliardi di dollari, esentasse), forniti della autorità locali, così come ha a che fare con il salatissimo conto finale (13,6 miliardi di dollari). Paragoniamo ai minuscoli investimenti in educazione, pubblici servizi, “mobilità urbana”, strutture fatiscenti – mentre una corruzione endemica spadroneggia. La più grande umiliazione sportiva mondiale a memoria d’uomo è direttamente connessa all’ignoranza ed arroganza delle élite brasiliane (e al loro sentirsi in diritto di fare ciò che vogliono). Al contempo, non si può aspirare a diventare una superpotenza dei Brics mentre la tua identità nazionale è basata su uno sport – il calcio – svilito da un manipolo di truffatori.Gli dei del calcio hanno misericordiosamente dichiarato superato lo psicodramma di 200 milioni di persone. Mi spiace ancora molto per gli sconfitti – la stragrande maggioranza di tifosi tra questi 200 milioni: gente onesta e lavoratrice per la quale il calcio è un sollievo dalle proprie lotte quotidiane. Sono stati presi in giro e sono state loro costantemente propinate solo menzogne. Il Brasile godrà ancora del beneficio di avere molto soft power in giro per il mondo, ma deve affrontare i problemi di corruzione ed inefficienza. Se il calcio deve rimanere l’unico collante dell’aspirante superpotenza, meglio metterci la testa sopra, capire il perchè l’umiliazione è avvenuta, liberarsi di tutti i fannulloni, mostrare un po’ di umiltà e lavorare duro. Imparare dal modello sportivo tedesco – uno che di certo non ha a che fare con l’austerità dell’Ue. Per poi tornare in paradiso.(Pepe Escobar, “La caduta di una superpotenza”, da “Asia Times” del 10 luglio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Prestigioso giornalista internazionale, Escobar è autore di “Globalistan, how the Globalized World is dissolving into liquid war”, “Red Zone Blues, a snapshot of Baghdad during the surge” e “Obama does Globalistan”).Lo so, Israele che bombarda civili a Gaza, Kiev che bombarda civili nell’Ucraina dell’Est, il Califfo fuori controllo in Medio Oriente, l’Impero del Caos che gioca a fare il prestigiatore. Ma prima vorrei parlare di qualcosa a cuore aperto. Ho conservato questa foto (vedi più sotto) per il momento più opportuno, che è arrivato. Vi presento un tipico paradiso tropicale – Santo Andre a Bahia, vicino a dove il Brasile è stato “scoperto” dai portoghesi nel 1500. Il campo di allenamento della nazionale tedesca è dietro a quegli alberi sulla sinistra. Io ero lì all’inizio della Coppa del Mondo, la mia meravigliosa ospite Anna Mariani è proprietaria di una stupenda casa sulla spiaggia proprio lì accanto. Il campo tedesco – in realtà un condominio sulla spiaggia – è stato isolato e customizzato a perfezione. I giocatori hanno potuto interagire con i villaggi vicini, visitato una scuola locale, fraternizzato con gli indiani Pataxo, fatto camminate mattutine sulla spiaggia.
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Donbass: via i russi, a cannonate, per far posto alla Shell
Programmata a tavolino, la pulizia etnica nel Donbass, per sfrattare la popolazione e far posto agli 80-140.000 pozzi di estrazione del gas di scisto, “prenotati” già nel gennaio 2013 dalla Shell grazie all’accordo firmato con l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich. Secondo Olga Četverikova, la Royal Dutch Shell sta semplicemente attendendo l’esecusione del programma – cioè la strage nell’Est Ucraina – per poter mettere le mani sul sottosuolo, per la precisione i ricchissimi giacimenti di Yuzosk, al confine delle regioni di Donetsk e Kharkov nella zona petrolifera del Dnepr-Donets. Questo il motivo per cui avanza spedita la pulizia contro russi e russofoni, cioè gli abitanti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, dove vengono rasi al suolo interi quartieri con missili Grad senza che nessuna autorità internazionale intervenga. Liberare il terreno per l’estrazione del gas di scisto: questo il vero motivo delle violentissime operazioni belliche scatenate dal regime golpista insediato dagli Usa nella capitale ucraina.Con la Shell, ricorda la Četverikova in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, l’Ucraina ha firmato un contratto agevolato della durata di 50 anni, con obbligo di proroga. Oggi, la compagnia petrolifera che l’inizio dello sfruttamento del giacimento è previsto «dopo la de-escalation del conflitto e la stabilizzazione della situazione», cioè quando sarà stata sterminata o cacciata di casa a cannonate la popolazione che vive nell’area del giacimento. Un territorio immenso, che si espande su 7.886 chilometri quadrati, che comprende la città di Slavyansk (situata al centro del giacimento), Izyum, una grossa parte di Kramatorsk, così come centinaia di piccoli insediamenti: Krasnyj Liman, Seversk, Yasnogorka, Kamyševka. Sempre secondo l’accordo, «gli abitanti che risiedono su questo territorio, come da contratto, devono vendere la proprietà della loro terra». In caso di rifiuto, la terra «verrà loro tolta con la forza a favore di Shell». E tutte le spese della società per l’“appropriazione del territorio” verranno risarcite dallo Stato ucraino con il ricavato dell’estrazione del gas. Per questo, Kiev è tenuta a garantire il rispetto di tutte le clausole, imponendole alle autorità locali.Oltre alla Shell, a dividersi la torta ci sono la Eurogas Ucraina (di proprietà della britannica Mc Callan Oil & Gas, a sua volta acquistata dalla statunitense Euro Gas) e la Burisma Holdings, nella quale Hunter Biden, figlio del vicepresidente americano Joe Biden, è da poco diventato uno dei membri del consiglio direttivo. Vero obiettivo della “operazione antiterrorismo”, cioè la carneficina del Donbass, è «stabilire il pieno controllo delle regioni di Donetsk e Lugansk», scrive Olga Četverikova. Missione: «La totale “bonifica” della sua superficie totale per avviare, senza intoppi, il lavoro di estrazione dello “shale gas”: sul territorio, “ripulito” dalla popolazione, è prevista l’installazione di 80-140 mila pozzi)». Ciò significa «la distruzione della terra seminabile, la demolizione di impianti industriali, di edifici residenziali, di luoghi di culto, per il mantenimento delle infrastrutture del gas». Altra preda di guerra, le fertilissime “terre nere”, di cui l’Ucraina possiede il 27% del patrimonio mondiale: «In tempo di pace sarebbe difficile realizzare tutto ciò, ma la guerra copre tutto».Kiev punta dunque a «ottenere una brusca riduzione del numero della popolazione locale, e lasciare sul territorio dei giacimenti solo le persone necessarie per i lavori di estrazione del gas». I sindaci insediati dal governo golpista ucraino già promettono nuovi posti di lavoro, al posto del lavoro perso in seguito alla distruzione delle industrie. Per cui, «sopprimere la resistenza degli abitanti di Donetsk e Lugansk e ristabilire il controllo sul territorio» consentirà presto di «tagliar fuori la Russia da gran parte del mercato europeo del gas». Carte scoperte dall’autunno 2014: il segretario Nato, Rasmussen, il 20 giugno a Londra ha accusato Mosca di aver complottato per interrompere la produzione di gas di scisto, mentre già il 1° maggio al Congresso Usa è stato proposto un progetto di legge “prevenzione delle aggressioni dalla Russia – 2014”. «Proprio il desiderio di mantenere il controllo da parte delle grandi corporazioni transnazionali sui giacimenti petroliferi del Dnepr-Donets ha portato alla guerra contro il popolo di Donetsk e Lugansk, una guerra di sterminio», accusa la Četverikova.«Il massacro di civili e il clima di paura che costringe le persone a lasciare la loro patria per diventare profughi sono stati i principali strumenti per attuare gli interessi delle multinazionali, per le quali il potere installatosi a Kiev dopo il colpo di Stato è solo un abbellimento per coprire la grande pulizia etnica della popolazione russa e russofona del Donbass». In un drammatico video-messaggio diffuso il 4 luglio, il presidente della regione Donetsk, Igor Strelkov, è stato chiarissimo: «Se la Russia non otterrà un cessate il fuoco, o se non inizierà un’operazione di pace, Slavyansk con la sua popolazione di oltre 30.000 abitanti sarà distrutta in una settimana, al massimo due». Come da contratto con la Shell, nel silenzio totale dell’Europa e del resto del mondo.Programmata a tavolino, la pulizia etnica nel Donbass, per sfrattare la popolazione e far posto agli 80-140.000 pozzi di estrazione del gas di scisto, “prenotati” già nel gennaio 2013 dalla Shell grazie all’accordo firmato con l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich. Secondo Olga Četverikova, la Royal Dutch Shell sta semplicemente attendendo l’esecusione del programma – cioè la strage nell’Est Ucraina – per poter mettere le mani sul sottosuolo, per la precisione i ricchissimi giacimenti di Yuzosk, al confine delle regioni di Donetsk e Kharkov nella zona petrolifera del Dnepr-Donets. Questo il motivo per cui avanza spedita la pulizia contro russi e russofoni, cioè gli abitanti delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, dove vengono rasi al suolo interi quartieri con missili Grad senza che nessuna autorità internazionale intervenga. Liberare il terreno per l’estrazione del gas di scisto: questo il vero motivo delle violentissime operazioni belliche scatenate dal regime golpista insediato dagli Usa nella capitale ucraina.
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Non è stato un incidente: chiedetevi perché sono morti
Cos’hanno in comune Olof Palme, Patrice Lumumba, la principessa Diana, il dottor David Kelly, Robin Cook, Yasser Arafat, Slobodan Milosevic e Hugo Chavez? E i musicisti che si sono opposti alla macchina da guerra occidentale, come ad esempio Jimi Hendrix, Jim Morrison, Bob Marley, John Lennon e Michael Jackson? Potrebbero essere stati uccisi anche per le loro teste, oltre che per le loro voci troppo indipendenti? Nonostante le prove indichino che sì, sarebbe possibile, pochissime persone sono disposte ad avventurarsi da quelle parti, compresi i tanti professionisti il cui compito sarebbe invece quello di farlo. E questo gli assassini lo sanno benissimo. Le prove (sia forensi che confidenziali) che sono state accumulate nel corso dei decenni, indicano che le morti di decine di influenti figure pubbliche occidentali, che si credeva fossero naturali o frutto di sfortunati incidenti, erano invece degli omicidi politici.Senza quasi eccezione, questi omicidi erano stati progettati e realizzati da forze che si nascondevano nelle zone grigie dei servizi segreti militari dei paesi Nato, scrive Tony Gosling su “Rt” in un servizio ripreso da “Come Don Chisciotte”. Per secoli, le parti in conflitto erano ben consce di come “un’onesta carneficina” sul campo di battaglia fosse la cosa migliore da fare, «ma dopo due guerre mondiali e l’insediamento dei filo-nazisti fratelli Dulles al Dipartimento di Stato Usa e alla Cia, tutto questo è cambiato: il complesso militar-industriale che essi hanno contribuito a creare è stato reso pressoché inattaccabile», grazie al mondo «colossale e segreto» delle comunicazioni strategiche, «più correttamente definito come “industria della propaganda”». La verità è che «viviamo in un’epoca in cui i media occidentali sono stati virtualmente fagocitati dagli interessi bancari e militari». E la Nato, che dovrebbe avere carattere difensivo, «grazie ai suoi eserciti ed ai suoi contractor privati (che fomentano carneficine in tutto il mondo)» è diventata una sorta di “Napoleone nucleare”, «che sta rendendo sempre più vicino il giorno in cui queste meravigliose armi potrebbero essere nuovamente utilizzate».La regola, aggiunge Gosling, è che «vanno bene solo i politici malleabili e “approvati” dalle multinazionali». Gli altri, vengono sabotati o addirittura eliminati fisicamente. «Per cominciare, sono stati assassinati i veri combattenti per la libertà, come ad esempio il congolese Patrice Lumumba». Un ufficiale dell’intelligence britannica in pensione, Daphne Park, ha ammesso solo nel 2013 che Lumumba fu quasi certamente assassinato dallo MI6, lo spionaggio inglese. Il laburista Robin Cook, ex ministro degli esteri britannico, si dimise subito prima dell’invasione militare dell’Iraq, nel marzo 2003. Negli anni successivi, preparandosi a guidare i laburisti nell’inevitabile dopo-Blair, aveva regolarmente condannato le azioni del premier e di Bush. Un giorno, nell’agosto 2005, mentre camminava con la moglie sulla montagna di Ben Stack, fu colpito da un “attacco di cuore”. Un elicottero militare che si esercitava in quella zona lo caricò a bordo per portarlo in ospedale. «Alla moglie Gaynor e ad un “misterioso soccorritore” che si trovava a passare da quelle parti non fu concesso di accompagnarlo», scrive Gosling. «Si dice che Cook sia morto in elicottero, nel volo verso l’ospedale».Il leader laburista predecessore di Blair, John Smith, morì anch’egli a causa d’un improvviso attacco di cuore. Molti – rileva il giornalista di “Rt” – sospettarono che la morte in realtà fu “indotta”, come sostenne ad esempio un fotografo che aveva parlato con le persone che erano in ospedale, quando Smith fu dichiarato morto. «I politici britannici tuttavia, restarono in silenzio, per timore di sconvolgere la sua famiglia». Dal Regno Unito al Medio Oriente: «E’ ormai chiaro che anche il leader palestinese Yasser Arafat fu avvelenato, probabilmente dagli israeliani, con il polonio radioattivo, proprio come la spia russa (e scrittore) Alexander Litvinenko». Uno studio di Frances Mossiker dimostra che l’uso segreto del polonio prova il ritorno in auge, negli ambienti elitari, di quelle azioni fuorilegge che, a titolo d’esempio, contribuirono a fomentare, a suo tempo, la Rivoluzione Francese. Altro caso, quello di Slobodan Milosevic: nel 2006, dopo aver cominciato a difendersi in modo determinato, anche l’ex presidente jugoslavo fu vittima di un “attacco di cuore”. Si sospetta però che sia morto a causa dell’avvelenamento del suo cibo, nella cella che occupava presso il Tpi, il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja, una corte che «dovrebbe costituire un esempio luminoso per tutto il mondo» ma invece «rappresenta solo una versione farsesca della giustizia», con verdetti che obbediscono ai diktat Nato. «Dopo l’esperienza di Milosevic, si può capire perché i detenuti potrebbero fare lo sciopero della fame, quando arrivano all’Aja».Altra situazione ricorrente, l’incidente stradale: «Con i computer di bordo a comando diretto, di cui sono dotati molti veicoli moderni, gli incidenti d’auto sono diventati terribilmente facili da creare», spiega Gosling. La principessa Diana era sopravvissuta al famoso incidente dell’agosto del 1997, visto che la relazione dell’ambulanza indicata uno stato di coma molto lieve, ma molti «ritengono che la sua scomparsa sia avvenuta a causa del viaggio in ambulanza verso l’ospedale, che fu particolarmente lento». Poi ci sono le “coincidenze” di tipo sanitario: «Hugo Chavez morì di cancro nel 2013, dopo che molti leader sudamericani si erano ammalati della stessa malattia, grossomodo nello stesso periodo. Tanto per citarne qualcuno, il presidente argentino Cristina Fernandez de Kirchner, i presidenti brasiliani Lula e Dilma Rouseff e anche il presidente del Paraguay, Fernando Lugo». Facili sospetti, considerati «tutti i composti cancerogeni ben conosciuti dall’uomo di oggi, dalle sostanze radioattive alla diossina». Non ci vuole molta immaginazione per inventarsi un cocktail letale da somministrare all’ignara vittima. E non tutti sono coriacei come Fidel Castro, che si considera scampato a non meno di 600 attentati organizzati dalla Cia.Un capitolo sterminato riguarda la misteriosa morte delle rockstar, al culmine della loro (spesso brevissima) vita spericolata. Credevamo che se la fossero cercata, visto «il loro malsano appetito per le droghe e per la vita estrema», ma ora emergono anche motivazioni politiche, continua Gosling: Alex Constantine, nel libro “The Covert War Against Rock”, spiega che alcuni di loro – come la leggenda della chitarra Jimi Hendrix, veterano del Vietnam e contrario a quella guerra – furono visti come una minaccia per lo sforzo bellico». Si sospetta che Jim Morrison, il cui corpo fu spostato quasi certamente da una discoteca ad un bagno, sia stato assassinato nell’ambito di un preciso programma della Cia, conosciuto come “Cointelpro”. Con un seguito a livello mondiale, alla guida dei Doors, Morrison «era particolarmente pericoloso per l’establishment militare», anche perché suo padre George era un ammiraglio: «Comandante della flotta statunitense nel Golfo del Tonchino, era responsabile del progetto per gli attacchi “false flag” contro le navi americane, simulando che provenissero dal Vietnam del Nord». Le bugie dell’ammiraglio George Morrison, proposte in tutto il mondo, divennero la base per giustificare la guerra del Vietnam. Non era rassicurante che in famiglia ci fosse un figlio come Jim, strenuo oppositore di quel conflitto.L’affermazione “la polizia non considera questa morte come sospetta” sembra essere diventata la tipica firma inglese sugli omicidi del 21° secolo, una formula perfetta per sviare le indagini. E’ stata impiegata per “spiegare” la morte di un testimone-chiave, Sean Hoare, che doveva deporre nel luglio del 2011 contro Andy Coulson, portavoce del premier David Cameron. Il secondo testimone era David Smith, “suicidatosi” nell’ottobre del 2013. «Fu per anni l’autista di Jimmy Savile, forse il peggior pedofilo mai esistito in Gran Bretagna, molto amico del primo ministro conservatore Margaret Thatcher e del Principe Carlo». Per Gosling, «il fallimento della stampa, che ha mancato di interrogarsi su queste due morti, è pari solo all’indebolimento del sistema (una volta robusto) costituito dai coroner indipendenti, il cui lavoro, nell’ultimo millennio, è stato quello d’indagare su tutte le morti sospette. Ma, se sono onesti, i coroner vengono fermati». Il coroner di Bristol, Paul Forrest, dichiarò al “Bristol City Council” che i corpi si stessero “accumulando” negli obitori: fu prima sospeso e poi licenziato, sostituito da un collega più accomodante.Un’altra specializzazione dei killer-ombra consiste nel «seppellire per conto del Fmi i migliori documentaristi del mondo», continua Gosling, citando il caso della Libia: per vent’anni i media hanno ripetuto che Gheddafi doveva essere deposto, senza mai ricordare che, dopo aver liberato i libici dal debito con Fondo Monetario Internazionale, il Colonnello «stava guidando un movimento pan-africano per introdurre una moneta continentale, l’“African Gold Dinar”, che prometteva di liberare l’intero continente dal Fmi». Non mancarono testimonti attenti: nel 1996, “Channel 4 Dispatches” trasmise un documentario prodotto da “Fulcrum Tv”, e intitolato “Murder in St. James”. «Quel documentario – ricorda Gosling – dimostrava che la poliziotta londinese Yvonne Fletcher fu uccisa da un colpo che quasi certamente non proveniva dall’ambasciata libica, come invece sosteneva il governo britannico, ma da un edificio posto sull’altro lato della piazza, affittato dai servizi di sicurezza britannici».Allo stesso modo, nel 1994 la “Hemar Enterprises” realizzò, per la stessa emittente, “The Maltese Double Cross”, che accusava la Cia di aver manomesso la scena del crimine, «con la seria possibilità che sia stata essa stessa ad aver posto la bomba a bordo del volo “Pan Am 103”, che esplose mentre transitava sul cielo di Lockerbie, in Scozia, nel 1988». Lo scopo possibile? Uccidere agenti che stavano tornando negli Stati Uniti e che dovevano riferire su operazioni relative al traffico illegale di droga. Hemar Allan Francovich, produttore e regista della “Hemar Enterprises”, realizzò una serie di documentari che svelava le operazioni “coperte” della Cia. Manco a dirlo, morì per un “attacco di cuore” in circostanze misteriose, nell’area doganale dell’aereoporto di Houston, nel 1997. Dunque non furono i libici, come pare ormai certo, a uccidere la poliziotta Yvonne Fletcher, né fu l’agente libico Abdelbaset al-Megrahi a posizionare la bomba a bordo del volo “Pan Am 103”, esploso a Lockerbie.«Nessuna di queste accuse è stata provata», e tutta la stampa di Londra «ha cancellato dalla memoria collettiva i due documentari della “Channel 4 Dispatches”, che dimostravano la veridicità delle versioni alternative». Così, «negando i fatti descritti in quei documentari e garantendo che niente di simile potrà mai essere nuovamente trasmesso, i media di Londra hanno posto il paese su un percorso verso il totalitarismo». E’ accaduto anche negli Usa dopo l’11 Settembre e in Gran Bretagna dopo gli attentati del 2005 a Londra: i documentari “Loose Change” e “Ludicrous Diversion” sono stati diffusi solo su Internet. Nel frattempo, il boia occulto è sempre all’opera, come dimostrano gli omicidi del biologo David Kelly, dipendente del Ministero della Difesa britannico e coinvolto nella questione delle armi biologiche in Iraq, e del crittografo Gareth Williams in forza al Government Communications Head-Quarters (Gchq). Omicidi «negati ai più alti livelli della politica, della polizia e della magistratura», grazie ai quali «si è diffuso un clima di paura, in cui chi pone troppe domande rappresenta una “minaccia” e può aspettarsi di essere “trattato allo stesso modo”».Le istituzioni elitarie e gli stessi media – accusa Gosling – sono farciti di codardi e fenomeni da baraccone: «Anche se non sanno come si fa a governare un paese, le élite occidentali sanno però benissimo come si fa ad uccidere». Conclude il giornalista di “Rt”: «La prossima volta che vedrete un politico, un musicista o un opinionista che sfida il “consensus” Nato-Israele e che cade nel fiore degli anni, ricordate a voi stessi che l’aspettativa di vita queste vittime era più lunga che mai, se non avessero lanciato la sfida. E non aspettatevi che la polizia o i media nazionali pongano tutte le domande del caso ai “poteri costituiti”: non è compreso nel loro stipendio». In compenso, ci sono i documentari su Internet, realizzati da autori coraggiosi e capaci di denunciare i peggiori crimini. Non ci resta che condividerli «con il resto del mondo, con i poliziotti onesti e con il meglio di ciò che resta del giornalismo investigativo».Cos’hanno in comune Olof Palme, Patrice Lumumba, la principessa Diana, il dottor David Kelly, Robin Cook, Yasser Arafat, Slobodan Milosevic e Hugo Chavez? E i musicisti che si sono opposti alla macchina da guerra occidentale, come ad esempio Jimi Hendrix, Jim Morrison, Bob Marley, John Lennon e Michael Jackson? Potrebbero essere stati uccisi anche per le loro teste, oltre che per le loro voci troppo indipendenti? Nonostante le prove indichino che sì, sarebbe possibile, pochissime persone sono disposte ad avventurarsi da quelle parti, compresi i tanti professionisti il cui compito sarebbe invece quello di farlo. E questo gli assassini lo sanno benissimo. Le prove (sia forensi che confidenziali) che sono state accumulate nel corso dei decenni, indicano che le morti di decine di influenti figure pubbliche occidentali, che si credeva fossero naturali o frutto di sfortunati incidenti, erano invece degli omicidi politici.
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Die Zeit: Obama non ci conviene, molto meglio la Russia
Non ci conviene seguire Obama nella sua sfida a Putin, molto meglio – per noi europei – cercare una partnership stabile con la Russia. Lo afferma, clamorosamente, il settimanale tedesco “Die Zeit”, di orientamento liberale. Il più autorevole giornale tedesco fa parlare Chris Luenen, direttore del programma geopolitico del “Global Policy Institute” di Londra, che propone all’Ue di smetterla di sottomettersi alla strategia Usa e imparare piuttosto a difendere i propri interessi, specialità nella quale «l’Europa è stata debole da sempre». Luenen constata che l’Unione Europea segue la strategia unilaterale di Washington, trascurando i propri bisogni, che raccomanderebbero a Bruxelles di allearsi più strettamente con la Russia. Il giornale cita la dottrina dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che già nel ‘97 definiva l’Europa «irrinunicabile testa di ponte geopolitica» degli Usa, spiegando: con il controllo sull’Ucraina – i suoi 52 millioni di abitanti, importanti risorse naturali e l’accesso al Mar Nero – la Russia «otterrebbe automaticamente i mezzi per diventare un impero potente di estensione euro-asiatica».Per Chris Luenen, «sarebbe abbastanza facile assicurare gli interessi occidentali in fatto di energia e sicurezza tramite la costruzione di un partenariato con la Russia (e con l’Iran), pittosto che che continuare a mirare a sottomettere la Russia agli interessi e alle strutture occidentali». Come riferisce il newmagazine “Sinistra.Ch”, espressione della sinistra svizzera ticinese, sullo “Zeit” l’editorialista sostiene che «la decisione di allargare la zona di influsso occidentale verso Est, tramite una progressiva espansione dell’Ue e della Nato» è praticamente «il più grave errore strategico dell’Occidente sin dalla fine della guerra fredda». Solitamente, aggiunge la rivista elvetica, “Die Zeit” «difende concetti e posizioni che sono rappresentati anche nell’establishment della politica tedesca». Finora, nel conflitto dell’Ucrania, il settimane si era allineato nel giustificare «il regime golpista di Kiev», attaccando la Russia di Putin e i russi d’Ucraina, definiti “separatisti”. Se oggi invece quel giornale ribalta la sua posizione, significa che «siamo di fronte senza dubbio a qualcosa di sensazionale».Niente però di così inatteso, in fondo, secondo “Sinistra.Ch”: «Importanti settori dell’industria tedesca, infatti, si sono nettamente opposti alla tendenza di seguire ciecamente il diktat di Obama, relativo alle sanzioni economiche contro la Russia». E il recente affare di spionaggio da parte della Nsa «si rivolge non a caso in prima linea contro la Germania», colpendo anche la sfera privata della cancelliera Merkel. Inoltre, in Germania, «la tendenza fortemente anti-russa dei media tedeschi viene fortemente contestata dai lettori: da mesi, i blogger si rivoltano in massa contro le direttive informative delle maggiori redazioni». La maggior parte dei commenti dei lettori contestano la politica occidentale. Per moltissimi di loro, quindi, l’apertura dello “Zeit” è «un vero raggio di luce nell’oscurità». Per Massimiliano Ay, segretario del partito comunista della Svizzera italiana, la crisi ucraina «si è scatenata per la esplicita volontà degli Usa di bloccare il rifornimento energetico russo all’Europa, inchiodando così in modo ancora più vincolante il vecchio continente al petrolio e al gas nordamericano: un passo necessario per evitare lo sviluppo dell’asse Berlino-Mosca-Pechino che potrebbe accerchiare Washington». Che ora lo sostenga anche “Die Zeit”, lascia sperare che Berlino potrebbe tentare di frenare la pericolosa guerra fredda di Obama.Non ci conviene seguire Obama nella sua sfida a Putin, molto meglio – per noi europei – cercare una partnership stabile con la Russia. Lo afferma, clamorosamente, il settimanale tedesco “Die Zeit”, di orientamento liberale. Il più autorevole giornale tedesco fa parlare Chris Luenen, direttore del programma geopolitico del “Global Policy Institute” di Londra, che propone all’Ue di smetterla di sottomettersi alla strategia Usa e imparare piuttosto a difendere i propri interessi, specialità nella quale «l’Europa è stata debole da sempre». Luenen constata che l’Unione Europea segue la strategia unilaterale di Washington, trascurando i propri bisogni, che raccomanderebbero a Bruxelles di allearsi più strettamente con la Russia. Il giornale cita la dottrina dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che già nel ‘97 definiva l’Europa «irrinunicabile testa di ponte geopolitica» degli Usa, spiegando: con il controllo sull’Ucraina – i suoi 52 millioni di abitanti, importanti risorse naturali e l’accesso al Mar Nero – la Russia «otterrebbe automaticamente i mezzi per diventare un impero potente di estensione euro-asiatica».
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Tribunale dei Popoli, la valle di Susa si appella al mondo
Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?A firmare l’esposto è Livio Pepino, già alto magistrato italiano, insieme a Sandro Plano, presidente della Comunità Montana, appena rieletto primo cittadino di Susa. Con loro i sindaci dei principali centri della valle, da Avigliana a Bussoleno. Tra i firmatari, celebrità internazionali come l’economista Riccardo Petrella e l’archeologo Salvatore Settis, combattenti per i diritti come Alex Zanotelli, grandi giornalisti del calibro di Paolo Rumiz. Insieme a nomi da sempre accanto alla battaglia civile della valle di Susa – dal professor Marco Revelli al climatologo Luca Mercalli – condividono l’appello al Tribunale dei Popoli la presidente di Emergency Cecilia Strada e popolari vignettisti come Ellekappa e Sergio Staino. Con la valle di Susa si schierano l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici (avvocato Roberto Lamacchia), l’omologa International Association of Democratic Lawyers e la European Association of Lawyers for Democracy & World Human Rights. Aderiscono autorevolissimi magistrati: Domenico Gallo, consigliere presso la Corte di Cassazione, e Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale. Firma anche il giurista Giovanni Palombarini, già procuratore generale aggiunto della Cassazione.Mentre il movimento No-Tav è alla sbarra in seguito agli scontri con la polizia susseguitisi a partire dal 2011 a Chiomonte, sito dell’unico mini-cantiere finora attivato (solo una galleria esplorativa, nulla a che vedere con l’ipotetico traforo ferroviario), i media mainstream e la politica al potere evitano accuratamente, da vent’anni, di accettare la sfida democratica ingaggiata dai valsusini. I tecnici universitari scesi in campo accanto al movimento – centinaia di professori e ingegneri – dimostrano che la grande opera in progettazione è un attentato alla salute (rischio tumori, a causa delle polveri di amianto e uranio), una garanzia di devastazione del territorio (catastrofe abitativa e idrogeologica), un bagno di sangue per il debito pubblico italiano (almeno 20 miliardi di euro, mentre l’Ue ha appena dimezzato il già irrisorio contributo europeo). Sacrifici ritenuti intollerabili, soprattutto per una ragione: la linea Tav italo-francese, destinata alle merci, sarebbe completamente inutile.Il traffico lungo l’asse est-ovest è infatti crollato, e l’attuale linea internazionale valsusina che già collega Torino a Lione è praticamente deserta, nonostante l’Italia abbia recentemente speso 400 milioni di euro per migliorare la capacità del traforo del Fréjus. Il tunnel, tra Bardonecchia e Modane, oggi è in grado di accogliere treni con a bordo Tir e grandi container navali. Secondo la Svizzera, cui Bruxelles ha affidato il monitoraggio dei trasporti alpini, oggi la valle di Susa potrebbe incrementare del 900% il trasporto Italia-Francia. Perché costruire un inutile doppione, costosissimo e da vent’anni avversato dalla popolazione? A rendere particolarmente odiosa la grande opera più contestata d’Italia, il sospetto che l’ombra della mafia si allunghi sulle operazioni di cantiere: i No-Tav hanno inutilmente sottoposto al tribunale di Torino il corposo dossier del Ros inerente l’indagine “Minotauro” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. In base al lavoro antimafia dei carabinieri, i militanti denunciano collegamenti pericolosi tra le cosche del Canavese e alcune imprese coinvolte nei lavori di movimento terra in valle di Susa.Molti aspetti della crisi scoppiata attorno alla Torino-Lione vanno ben oltre la valle di Susa, sostengono i firmatari, che denunciano «questioni di evidente rilevanza generale»: dalle crescenti devastazioni ambientali, «lesive dei diritti fondamentali dei cittadini attuali e delle generazioni future», fino alla «drastica estromissione dalle relative scelte delle popolazioni», anche in violazione di trrattati internazionali come la Convenzione di Aarhus del 1998. Ecco il punto: la valle di Susa è «espressione e simbolo» del grande male odierno, cioè l’esproprio antidemocratico del futuro, sotto forma di «trasferimento a poteri economici e finanziari nazionali e internazionali di decisioni di primaria importanza per la vita di intere popolazioni». I firmatari segnalano «situazioni in cui la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale», che si è occupato delle maggiori tragedie umanitarie, da Timor Est all’Afghanistan. Ma la valle di Susa segna «la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta».Ne sono convinti attivisti internazionali di prima grandezza: dal boliviano Oscar Olivera, paladino dell’acqua di Cochabamba, premio Goldman per l’ambiente, alla canadese Laura Westra, presidente dell’Ecological Integrity Group. Con la valle di Susa anche l’olandese Rembrandt Zegers di Greepeace International, lo statunitense David Bollier (Commons Strategy Group per i beni comuni) e il messicano Gustavo Esteva, economista, fondatore dell’Universidad de la Tierra a Oaxaca. Imponente il parterre universitario italiano: Marco Aime (Genova), Gaetano Azzariti, Piero Bevilacqua e Gianni Ferrara (Roma), Luciano Gallino e Angelo Tartaglia (Torino), Tomaso Montanari (Napoli) e Danilo Zolo (Firenze). E poi universitari di mezzo mondo, uniti per la causa valsusina: Weston Burns (Iowa, Usa), Fritjof Capra e Herbert Walther (Vienna), Vito De Lucia (Norvegia), Ugo Mattei (California), Laura Nader (Berkeley), Simon Read (Londra) e Anna Grear (Waikato, Nuova Zelanda). Fortissima anche la presenza dei cattolici latinoamericani, che come Leonardo Boff si sono riavvicinati al Vaticano con il pontificato di Papa Francesco: firmano per la valle di Susa il domenicano brasiliano Frei Betto, il connazionale benedettino Marcelo Barros, celebre biblista e scrittore, e il teologo Waldemar Boff che in Brasile dirige “Água Doce Serviços Populares”.Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?
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Jp Morgan ringrazia Renzi e gli ingenui elettori italiani
In nessun altro paese europeo il ceto politico soffre di una particolare condizione di debolezza che invece registriamo in Italia, ossia la dipendenza strutturale dalle sorti di una sola persona: Matteo Renzi. «Se Renzi fosse risultato sconfitto alle urne – scrive Claudio Martini – il ceto politico sarebbe rimasto decapitato, diffondendo il caos nelle file della classe politica e minando alle fondamenta il complesso dell’euro». Si era aperta anche in Italia una finestra di opportunità per sbarazzarsi della casta politica, ma quella finestra ora si è bruscamente chiusa: «L’Europa si trovava ad un bivio, il 25 maggio: in Italia avrebbe trovato il proprio rilancio o la propria crisi. Sappiamo come è andata». I primi a festeggiare, manco a dirlo, sono gli analisti dell’ufficio studi della Jp Morgan, quelli secondo cui la nostra Costituzione antifascista che difende il lavoro è da buttare via. Ha vinto il loro uomo: dicono che il trionfo di Matteo renderà l’Italia più forte a livello europeo, e più stabile l’Unione nel suo complesso.«Il Pd di Renzi è stato il soggetto politico più votato in Europa, in termini assoluti», ricorda Martini in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: il partito già di Veltroni, D’Alema e Bersani ha avuto 11 milioni e centomila suffragi contro i 10 milioni e trecentomila della portaerei di Angela Merkel, la Cdu-Csu. In termini percentuali è stato superato solo dall’ungherese “Fidesz” di Viktor Orbàn (51%), ultra-nazionalista e non certo europeista. In perfetta controtendenza rispetto al resto d’Europa, il Pd stravince pur essendo pro-Bruxelles e trovandosi al governo. «Le forze politiche “sistemiche”, in primo luogo quelle riconducibili alle famiglie del Pse e del Ppe, sono naufragate in molti importanti contesti nazionali», aggiunge Martini. Si ritrovano sotto shock in Grecia, in Francia, nel Regno Unito e in Spagna. Ovunque raccolgono consenso liste anti-euro o almeno euroscettiche.«Apparentemente si è trattato di una generale débacle dei partiti socialisti – e il desolante risultato elettorale del Ps di Hollande sembra eloquente in tal senso». Eppure, a ben vedere, il risultato europeo potrebbe rivelarsi una grande vittoria del programma politico della socialdemocrazia europeista, forte del nuovo asse tra la Spd tedesca e il nuovo Pd renziano. «Entrambi i soggetti avevano e hanno una reciproca convenienza a collaborare: Martin Schulz contava molto sul successo elettorale del Pd per ottenere un buon risultato del Pse all’Europarlamento; a Renzi serviva un alleato a Berlino per assicurarsi che la Germania avrebbe dato il proprio consenso ad un allentamento dei parametri europei. Tutti e due condividevano il medesimo progetto politico: salvare l’euro e l’Unione Europea mediante un progressivo smantellamento dell’austerità sul piano continentale, e proseguire lungo il percorso dell’accentramento di poteri e competenze presso le istituzioni europee (essenzialmente Commissione e Bce). E ora hanno vinto», per la gioia dei super-banchieri mondiali, tifosi delle grandi privatizzazioni.«Già nel corso del 2011-2012 – continua Martini – il ceto politico-tecnocratico italiano, con Draghi e Monti, riuscì nell’impresa di salvare l’Eurozona dalla dissoluzione. Facendo sudare sangue agli italiani, questo ceto riuscì a imporre una propria leadership nello scenario europeo. L’esito delle elezioni del 2013 mandò all’aria molti piani, e per circa un anno l’Italia non ha preso iniziative importanti in ambito Ue». Dopo le elezioni europee, «considerando che Londra ha già un piede fuori dall’Unione (e Hollande li ha entrambi nell’immondezzaio della storia)», c’è già chi parla di nuovo asse Roma-Berlino, mentre Draghi promette una svolta monetaria espansiva e anti-deflazione, suggellata dalla presidenza italiana del “semestre europeo”. Vecchia storia: «Il ceto politico italiano è intimamente convinto di non poter esercitare alcuna influenza, a livello globale, al di fuori del perimetro del progetto europeista. Questa è la grande differenza con gli establishment degli altri paesi dell’Europa Occidentale».In nessun altro paese europeo il ceto politico soffre di una particolare condizione di debolezza che invece registriamo in Italia, ossia la dipendenza strutturale dalle sorti di una sola persona: Matteo Renzi. «Se Renzi fosse risultato sconfitto alle urne – scrive Claudio Martini – il ceto politico sarebbe rimasto decapitato, diffondendo il caos nelle file della classe politica e minando alle fondamenta il complesso dell’euro». Si era aperta anche in Italia una finestra di opportunità per sbarazzarsi della casta politica, ma quella finestra ora si è bruscamente chiusa: «L’Europa si trovava ad un bivio, il 25 maggio: in Italia avrebbe trovato il proprio rilancio o la propria crisi. Sappiamo come è andata». I primi a festeggiare, manco a dirlo, sono gli analisti dell’ufficio studi della Jp Morgan, quelli secondo cui la nostra Costituzione antifascista che difende il lavoro è da buttare via. Ha vinto il loro uomo: dicono che il trionfo di Matteo renderà l’Italia più forte a livello europeo, e più stabile l’Unione nel suo complesso.