Archivio del Tag ‘Luca Lotti’
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Manovre: dimezzare Conte, con l’aiuto di Berlusconi
Dopo la risicata e grottesca fiducia ottenuta da Conte, sul Colle gli animi dei consiglieri di Mattarella sono titubanti, divisi e soprattutto in stato di allarme per le lamentele informali che arrivano da Bruxelles per i tempi italiani sul Recovery Plan e sul fatto, ancor più preoccupante, che la bozza che circola fa acqua da tutte le parti. Malgrado il can can dei giornaloni, Conte nel giro delle cancellerie europee è considerato lo Zelig della politica italiana, assolutamente non affidabile al punto che lo chiamano il “No-delivery guy”, il ragazzo che non mantiene le promesse. Alcuni consiglieri quirinalizi, poi, sono perplessi sul fatto che Mattarella sia poco incline a spingere Conte verso le dimissioni per procedere poi a un rimpasto (il premier lo chiama “rafforzamento di governo”) e varare quindi il Conter Ter. Il bisConte dimezzato, che alla parola “dimissioni” rischia un coccolone, sa che se dovesse mollare la poltrona si scatenerebbero le faide all’interno degli spappolatissimi 5 Stelle e teme di finire in mezzo a una strada con Casalino a carico.Intanto, le anime del Pd sono in movimento al punto che da tre sono diventate due: Zingaretti e Franceschini. La terza, quella riformista, si sta sgretolando. Luca Lotti, indagato per il caso Consip, si è acquattato dietro le quinte di Zingaretti e si è portato dietro Lorenzo Guerini, distanziandosi così da Marcucci. L’ambizioso Andrea Orlando si è posizionato invece a metà strada tra Franceschini e Zingaretti in vista di uno scranno ministeriale. Il corpaccione del Pd deve poi fare molta attenzione al potere dei governatori: ieri Bonaccini si è dichiarato a favore di una ricucitura con Renzi, idem il governatore della Toscana, Giani. De Luca invece è una anomalia che gioca in proprio ma sempre sarà grato a Lotti che ha portato il figlio in Parlamento. Il neo-indebolimento di Conte si è subito appalesato quando il Pd, su consiglio del capo della polizia Gabrielli, si è opposto al trasloco di Luciana Lamorgese dal Viminale. E sull’idea di consegnare la delega dei servizi al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Mario Turco (quota M5S), i malumori si sono sprecati.A questo punto, tutte le anime del Pd convergono unite su alcuni punti: si porti subito avanti la nuova legge elettorale proporzionale, si proceda al rimpasto e si faccia l’accordo di programma entro 3 settimane al massimo, a partire da ieri. Secondo il Conte Casalino, il rimpasto prevede la consegna dei due dicasteri ex renziani (Famiglia e Agricoltura) ai Volenterosi voltagabbana, Delrio andrebbe a sostituire l’inadeguata Paola De Micheli e Orlando andrebbe a capo di un nuovo ministero dedicato alla gestione del Recovery. Naturalmente si è incazzato Enzo Amendola, ministro degli affari europei. Conte, che era già pronto a un decreto legge per aumentare il numero dei ministeri, così da evitare il nefasto rimpasto con dimissioni, ha trovato però l’opposizione secca di Mattarella: i dicasteri sono già troppi.In queste ore sono in atto due trattative, ambedue a conoscenza del Quirinale, da concretizzare in vista della prossima primavera. La prima è in mano al duo Letta-Bettini che punta a imbarcare Forza Italia e ottenere così una maggioranza più ampia. La seconda, più sotterranea, mira a un ingresso organico di Berlusconi nell’alleanza di governo Pd-M5S-LeU ma con un cambio del premier e un accordo sul nome del successore di Mattarella. In Forza Italia la situazione è però caotica. Finora, con l’atteggiamento responsabile del Cav da europeista convinto, i sondaggi danno il partito nuovamente a due cifre (10%). Da un lato, Berlusconi smania per non essere vincolato a Meloni e Salvini, sempre ipnotizzati dal sovranismo comiziante. Dall’altro, il fu Banana sarebbe tentato di restare distaccato dal teatrino della politica. E nel caso in cui qualcosa andasse storto, la colpa sarebbe di Tajani e Letta…(”Il giorno dopo, come ti dimezzo Conte”, da “Dagospia” del 20 gennaio 2021).Dopo la risicata e grottesca fiducia ottenuta da Conte, sul Colle gli animi dei consiglieri di Mattarella sono titubanti, divisi e soprattutto in stato di allarme per le lamentele informali che arrivano da Bruxelles per i tempi italiani sul Recovery Plan e sul fatto, ancor più preoccupante, che la bozza che circola fa acqua da tutte le parti. Malgrado il can can dei giornaloni, Conte nel giro delle cancellerie europee è considerato lo Zelig della politica italiana, assolutamente non affidabile al punto che lo chiamano il “No-delivery guy”, il ragazzo che non mantiene le promesse. Alcuni consiglieri quirinalizi, poi, sono perplessi sul fatto che Mattarella sia poco incline a spingere Conte verso le dimissioni per procedere poi a un rimpasto (il premier lo chiama “rafforzamento di governo”) e varare quindi il Conter Ter. Il bisConte dimezzato, che alla parola “dimissioni” rischia un coccolone, sa che se dovesse mollare la poltrona si scatenerebbero le faide all’interno degli spappolatissimi 5 Stelle e teme di finire in mezzo a una strada con Casalino a carico.
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Giuseppe, stai sereno: Renzi, addio al Pd e avviso a Conte
Giuseppe, stai sereno: «Sosterrò convintamente il governo Conte-bis». Così Matteo Renzi, nell’annunciare al premier il divorzio dal Pd: «Formeremo due gruppi parlamentari, uno di 25 deputati alla Camera e un altro tra i 12-15 senatori a Palazzo Madama. Due nuovi soggetti che saranno decisivi per la maggioranza e per il governo», afferma l’ex rottamatore, decisivo – insieme a Grillo – per la nascita del governo giallorosso, e ora (più che mai) vero padrone dell’esecutivo. Un governo-mostro, voluto da Bruxelles e dell’establishment italiano per centrare tre obiettivi: fermare la corsa di Salvini, rinnovare le centinaia di super-cariche di Stato in scadenza nel 2020 e ipotecare il successore di Mattarella al Quirinale. Campane a morto per Zingaretti, e doccia fredda anche dai sondaggi. Mentre il nuovo partito di Renzi faticherebbe a raggiungere il 5%, secondo la Swg (rilevazione diffusa da Mentana su “La7”) la Lega “scippata” del voto sta dominando la scena (34%), con Fratelli d’Italia al 7% e Forza Italia poco sotto il 6%. Galleggia attorno al 20% il fantasma del Movimento 5 Stelle, mentre il Pd (al 21,5%) ora subirà il salasso renziano. «Solo chi è a digiuno di politica – dice Renzi – non capisce questa mia scelta». Nell’esecutivo ha alcuni dei suoi che molto probabilmente lo seguiranno: due ministre, Teresa Bellanova (agricoltura) e Elena Bonetti (famiglia), la viceministra Anna Ascani e il sottosegretario Ivan Scalfarotto.Secondo il “Fatto Quotidiano”, tra i deputati accreditati nel club renziani figura Roberto Giachetti, dimessosi dalla direzione Pd, che porterà con sé la Ascani insieme a Nicola Carè, Luciano Nobili, Gianfranco Librandi e Michele Anzaldi. Con Renzi la fedelissima Maria Elena Boschi insieme a Mattia Mor e Marco Di Maio. Poi Ettore Rosato, Luigi Marattin, Lucia Annibali, Silvia Fregolent, Mauro Del Barba e Gennario Migliore. Tra i senatori si parla di Francesco Bonifazi, Tommaso Cerno, Davide Faraone, Nadia Ginetti, Eugenio Comincini e Mauro Laus. «Nessun timore della concorrenza al centro di un’eventuale soggetto creato da Carlo Calenda insieme a Matteo Richetti». Dario Franceschini, tra i registi del Conte-bis, evoca i peggiori fantasmi del Novecento: «Negli anni Venti le divisioni dei partiti li resero deboli fino a far trionfare Mussolini, la storia dovrebbe insegnarci a non ripetere gli errori». Alcuni renziani, peraltro, resteranno nel Pd come spine nel fianco di Conte e Zingaretti: restano al loro posto Luca Lotti e Lorenzo Guerini, neo-ministro della difesa, insieme al sindaco fiorentino Dario Nardella. Secondo l’arcinemico Enrico Letta, la scissione è «una cosa non credibile», perché «non c’è alcuno spazio per una scissione a freddo». Per Luigi Zanda, lo strappo è «un trauma».Al “Times”, Renzi ha dichiarato: «Siamo 1 a 0 contro il populismo: è importante sconfiggere Salvini fra la gente, non solo politicamente». Operazione ampiamente annunciata, nelle scorse settimane, dal saggista Gianfranco Carpeoro: «Il grande potere massonico reazionario delle Ur-Lodges, a cui Renzi si era rivolto inutilmente quando era premier, gli aveva promesso di farlo finalmente entrare nel grande giro se fosse riuscito a sabotare il governo gialloverde». C’è riuscito mostrando straordinaria prontezza, aiutato dalla cinica disinvoltura del suo “socio”, Beppe Grillo, che ha “suicidato” i 5 Stelle nell’abbraccio col Pd. Ora siamo al secondo step: azzoppati i gialloverdi, Renzi passa a demolire il Pd zingarettiano. Messaggio rivelatore: le sue rassicurazioni a Conte. «Renzi è un fuoriclasse, nell’arte politica dell’imbroglio», ricorda Carpeoro: dopo aver giocato Bersani, Berlusconi e Letta, aveva giurato agli italiani che si sarebbe ritirato dalla politica dopo aver perso il referendum del 2016. Ora promette fedeltà a Conte. Capeoro rinnova il suo pronostico: il governo durera 90 giorni, al più tardi cadrà a gennaio. Su Palazzo Chigi incombe Mario Draghi, mentre Romano Prodi sogna il Quirinale. E intanto Salvini ha ripreso a volare nei sondaggi.Giuseppe, stai sereno: «Sosterrò convintamente il governo Conte-bis». Così Matteo Renzi, nell’annunciare al premier il divorzio dal Pd: «Formeremo due gruppi parlamentari, uno di 25 deputati alla Camera e un altro tra i 12-15 senatori a Palazzo Madama. Due nuovi soggetti che saranno decisivi per la maggioranza e per il governo», afferma l’ex rottamatore, determinante – insieme a Grillo – per la nascita del governo giallorosso, e ora (più che mai) vero padrone dell’esecutivo. Un governo-mostro, voluto da Bruxelles e dell’establishment italiano per centrare tre obiettivi: fermare la corsa di Salvini, rinnovare le centinaia di super-cariche di Stato in scadenza nel 2020 e ipotecare il successore di Mattarella al Quirinale. Campane a morto per Zingaretti, e doccia fredda anche dai sondaggi. Mentre il nuovo partito di Renzi faticherebbe a raggiungere il 5%, secondo la Swg (rilevazione diffusa da Mentana su “La7”) la Lega “scippata” del voto sta dominando la scena (34%), con Fratelli d’Italia al 7% e Forza Italia poco sotto il 6%. Galleggia attorno al 20% il fantasma del Movimento 5 Stelle, mentre il Pd (al 21,5%) ora subirà il salasso renziano. «Solo chi è a digiuno di politica – dice Renzi – non capisce questa mia scelta». Nell’esecutivo ha alcuni dei suoi che molto probabilmente lo seguiranno: due ministre, Teresa Bellanova (agricoltura) e Elena Bonetti (famiglia), la viceministra Anna Ascani e il sottosegretario Ivan Scalfarotto.
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Carpeoro: magistratura politica, ipocrita chi si scandalizza
«Possibile che ci si scandalizzi per i collegamenti tra Palamara e il Pd? Quando la Procura di Roma era definita “il porto delle nebbie”, a nominarne il capo era Giulio Andreotti. E a Milano, Bettino Craxi tentò disperatamente di opporsi alla nomina, altrettanto “politica”, di Francesco Saverio Borrelli, futuro capo del pool Mani Pulite, messo lì apposta per distruggere il leader del Psi». L’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, si sfoga su YouTube in video-chat con Fabio Frabetti di “Border Nights” dopo la figuraccia di Luca Lotti, renziano di ferro messo in pista dall’ex rottamatore per tentare di influenzare i magistrati, tenendoli lontani da inchieste scomode su Matteo Renzi, suo padre Tiziano e lo stesso Lotti. «E’ giusto che gli italiani si indignino, di fronte a questo», premette Carpeoro. «Ma perché invece non si indignarono quando furono analoghe “conventicole” a fare di Borrelli il procuratore capo di Milano? La modalità è sempre la stessa». Protesta Carpeoro: «Siamo un paese ipocrita, in cui si finge di non sapere come funzionano, queste cose». Risultato: «In Italia non cade mai nessuno, per ragioni politiche. Possono anche crollare ponti, ma un politico viene fermato solo e sempre se a un certo punto gli si scatena contro la magistratura».Mesi fa, Carpeoro aveva “profetizzato” l’offensiva giudiziaria in arrivo contro la Lega. Obiettivo: disarcionare Salvini, scomodo per l’establishment italiano “consonante” coi poteri forti europei – che infatti anche oggi contestano, all’unisono, persino una misura innocua come i minibot: «Non presuppongono interessi e quindi non costituiscono debito aggiuntivo, checché ne pensi il “ragionier” Draghi», prontamente applaudito dal suo uomo in Bankitalia, il governatore Ignazio Visco. Recentissimo, peraltro, anche il taglio della testa di Armando Siri, disarcionato dalla carica di sottosegretario alla vigilia delle europee, su gentile richiesta dei 5 Stelle (in allarme, per i sondaggi sfavorevoli). Giustizialismo a orologeria? Certo, a vittima non è stata casuale: Siri era l’architetto della Flat Tax all’italiana, altra misura – come i minibot – concepita per alleggerire la situazione economica, dando ossigeno alle aziende e rilanciando occupazione e consumi. Per inciso: Siri ha ricevuto un semplice avviso di garanzia, neppure un rinvio a giudizio (l’ipotesi di accusa: potrebbe aver tentato di favorire, a pagamento, imprese del settore eolico). Non risultano esserci prove, per ora. Ma intanto l’indiziato – un cervello di rilievo strategico, nella Lega – ha dovuto abbandonare la poltrona.Per Carpeoro, è un quasi-attentato anche la richiesta, all’ex Carroccio, di “restituire” 49 milioni di euro: «Significa impedire a un partito di svolgere democraticamente l’attività politica». Non si tratta di un episodio isolato: non c’è settimana che non scattino le manette per qualche sindaco o assessore leghista. Giudiziario anche lo stop alla politica di Salvini si migranti, come dimostra il caso della nave “Sea Watch”: «L’hanno sequestrata per sottrarla al ministero dell’interno e far sbarcare i migranti», disse Carpeoro al momento del sequestro, «ma vedrete – annunciò – che poi la nave verrà dissequestrata». Detto fatto: altra “profezia” regolarmente confermata dai fatti. «Così hanno trovato il modo di fermare Salvini, e in questo modo l’Unione Europea potrà continuare a lasciarci soli di fronte agli immigrati, senza minimamente preoccuparsi – come chiede Salvini – che altri paesi, insieme a noi, se ne facciano carico». Anche qui: possibile che, dove non si riesce a fermare un leader per via politica, intervenga puntualmente un magistrato? Nel caso dei migranti, sull’Italia ricade il peso maggiore. E così per tutto: dai minibot agli sgravi fiscali, fino all’atteggiamento dell’opposizione – Pd e Forza Italia – che praticamente tifa per lo spread, cioè contro l’Italia, pur di veder cadere il governo. Autolesionismo: «Il guaio è che ci piace, farci del male da soli. E se non bastiamo – conclude Carpeoro – ci mettiamo d’accordo con gli stranieri, pur di affossare il nostro governo. Magari, con l’aiuto della magistratura».«Possibile che ci si scandalizzi per i collegamenti tra Palamara e il Pd? Quando la Procura di Roma era definita “il porto delle nebbie”, a nominarne il capo era Giulio Andreotti. E a Milano, Bettino Craxi tentò disperatamente di opporsi alla nomina, altrettanto “politica”, di Francesco Saverio Borrelli, futuro capo del pool Mani Pulite, messo lì apposta per distruggere il leader del Psi». L’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, si sfoga su YouTube in video-chat con Fabio Frabetti di “Border Nights” dopo la figuraccia di Luca Lotti, renziano di ferro messo in pista dall’ex rottamatore per tentare di influenzare i magistrati, tenendoli lontani da inchieste scomode su se stesso, su suo padre Tiziano Renzi e sullo stesso Lotti. «E’ giusto che gli italiani si indignino, di fronte a questo», premette Carpeoro. «Ma perché invece non si indignarono quando furono analoghe “conventicole” a fare di Borrelli il procuratore capo di Milano? La modalità è sempre la stessa». Protesta Carpeoro: «Siamo un paese ipocrita, in cui si finge di non sapere come funzionano, queste cose». Risultato: «In Italia non cade mai nessuno, per ragioni politiche. Possono anche crollare ponti, ma un politico viene fermato solo e sempre se a un certo punto gli si scatena contro la magistratura».
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Renzi nel Pd è finito, può fondare il Partito del Granducato
Ma cosa aspetta Matteo Renzi a uscire dal Pd e a fondare un nuovo partito? È stato cacciato dal governo, poi dalla guida del Pd, poi dal controllo politico del partito, i suoi supplenti al governo e al partito si sono ammutinati a lui, adesso non può nemmeno dichiarare per chi vota alla segreteria che i candidati si affrettano a smentire ogni intesa con lui, come se il suo voto fosse inquinante e controproducente. Così facevano un tempo per il voto dei fascisti… Se dice che lui vota Minniti, è Minniti stesso a precisare che lui corre per sé, per il partito e per la patria, mica per Renzi. Pussa via. A questo punto non gli resta che fare le valigie, raccogliere la sua roba, le sue boschi, i suoi lotti e andar via a fondare una Cosa Nuova. Peccato che lo faccia con due anni e più di ritardo; avrebbe dovuto fondare allora il partito della nazione, oggi può fare il partito del granducato fiorentino. Certo, è curiosa la storia di Renzi, e non solo a causa del protagonista. Il mistero buffo di Matteo. Diventò senza meriti speciali il Leader Massimo e Assoluto del Pd, del governo e d’Italia. Poi diventò senza demeriti speciali il più detestato e deriso bullo della sinistra, del governo e d’Italia. È un mistero come dal nulla sia sorto ed è un mistero come sia finito nel nulla. Solo da noi si può diventare premier e macchiette di Stato con questa velocità e con questa assoluta gratuità, destituita di ogni fondamento, in ambo i casi.Renzi è stato fino a due anni fa il leader assoluto d’Italia e del Pd. Poi dovette fare un passo indietro e lasciò che a governare fossero i suoi uomini di fiducia. Poi fece un altro passo indietro perché chi lo aveva sostituito al governo come al partito si mise in proprio e non volle più dipendere di lui. Poi si arrivò alle candidature congressuali e Renzi non solo ha dovuto fare un passo indietro come candidato ma ora deve ben guardarsi dal sostenere un candidato perché rischia di bruciarlo. E la prima cosa che ha detto Minniti è che lui è candidato motu proprio o per volere di 550 sindaci, mica di Renzi. Vive di rancori e di ripicche, era brioso e anche spiritoso è diventato acrimonioso, anche un po’ torvo e gufa, lui che era l’acchiappagufi. Sicuramente stranito per le troppe mazzate ricevute dopo troppe lusinghe, frutto di due indebite overdose, uguali e contrarie, Renzi non sa più che pesci pigliare. Aspetta sempre il turno successivo a quello che si gioca nel presente.Se fonderà un nuovo partito sarà un’impresa trovare i voti, una volta che ha perso le simpatie moderate e ha accresciuto le antipatie radicali, non piace più a destra e al centro e non lo sopportano più a sinistra e zone limitrofe. Gli è rimasto mezzo amico Berlusconi ma sono di quelle amicizie che ti fanno perdere la sorte più che aiutarti a trovare una strada. È sparito il giglio magico, la sera se si vedono piangeranno miseria e conteranno i traditori, facendo riti woodoo per augurare loro la morte. Renzi portò la sinistra più in alto possibile e poi la portò più in basso che sia mai accaduto. Però in Italia niente è impossibile, i grillini lavorano così bene allo sfascio che rischiano di rimettere in vita anche i più detestati capataz del passato. Per questo Renzi ci può provare. Forza Matteo, se vai via hai una probabilità su dieci di riprenderti, se stai nel Pd manco quella.(Marcello Veneziani, “Esci dal Pd, Matteo”, da “Il Tempo” del 21 novembre 2018, articolo ripreso dal bog di Veneziani).Ma cosa aspetta Matteo Renzi a uscire dal Pd e a fondare un nuovo partito? È stato cacciato dal governo, poi dalla guida del Pd, poi dal controllo politico del partito, i suoi supplenti al governo e al partito si sono ammutinati a lui, adesso non può nemmeno dichiarare per chi vota alla segreteria che i candidati si affrettano a smentire ogni intesa con lui, come se il suo voto fosse inquinante e controproducente. Così facevano un tempo per il voto dei fascisti… Se dice che lui vota Minniti, è Minniti stesso a precisare che lui corre per sé, per il partito e per la patria, mica per Renzi. Pussa via. A questo punto non gli resta che fare le valigie, raccogliere la sua roba, le sue boschi, i suoi lotti e andar via a fondare una Cosa Nuova. Peccato che lo faccia con due anni e più di ritardo; avrebbe dovuto fondare allora il partito della nazione, oggi può fare il partito del granducato fiorentino. Certo, è curiosa la storia di Renzi, e non solo a causa del protagonista. Il mistero buffo di Matteo. Diventò senza meriti speciali il Leader Massimo e Assoluto del Pd, del governo e d’Italia. Poi diventò senza demeriti speciali il più detestato e deriso bullo della sinistra, del governo e d’Italia. È un mistero come dal nulla sia sorto ed è un mistero come sia finito nel nulla. Solo da noi si può diventare premier e macchiette di Stato con questa velocità e con questa assoluta gratuità, destituita di ogni fondamento, in ambo i casi.
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Il volto della nuova élite che pilota il populismo gialloverde
Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.Pensiamo a quel novembre del 2011, in cui la destituzione di Berlusconi e l’insediamento di Monti alla presidenza del Consiglio segnarono la vittoria dell’élite tecnocratica, loden, austerity, Bruxelles e rigorismo, sull’élite berlusconiana – élite imprenditoriale, delle telecomunicazioni, del porno-divertentismo. Questa élite antipolitica («meno tasse per tutti») a sua volta aveva guerreggiato con l’élite post-comunista che dal Pci era approdata fino al Pd (passando per Psd e Ds), un’élite politica (con le sue scuole di formazione, la sua gavetta interna). Poi avvenne un altro scontro. Il Commissario Monti, e il suo successore Letta, fronteggiarono una nuova élite, diversa dalle precedenti. Si tratta di una banda di ruba galline proveniente da Firenze e dintorni: è il giglio magico (Carrai, Lotti, Boschi&family), è il dream team renziano. Dopo il loden, il risvoltino. La parola magica per spaccare la vecchia egemonia socialdemocratica (D’Alema, Prodi, Bersani) è quella di “rottamazione”.Ecco che questa élite di estrazione provinciale (spregiudicata, trasformista, ignorante, legata a banche di credito e a cooperative) ha sfruttato la debolezza della vecchia politica dei partitocrati, degli imprenditori e dei tecnocrati, a suon di un populismo che Revelli ha giustamente definito “ibrido”, dall’alto, né identitario né indignato, e crollato su se stesso perché incapace di sanare le sue contraddizioni interne: obbligato a giostrarsi tra le richieste di Draghi, la vecchia guardia del Pd, l’elettorato e il patto del Nazareno, tra le promesse fatte in sede europea e il calo dei consensi in casa propria. Le élites, come abbiamo visto, sono diverse fra loro, adottano formule, discorsi, narrazioni diverse. Ma perché oggi tutta quella élite che possiamo riconoscere nell’establishment politico è in crisi? Ce lo spiegava con anticipo qualche anno fa un sociologo americano, Christopher Lasch, nel suo saggio, “La ribellione dell’élite”. Lasch, sulla falsariga di Pareto, aveva intuito che un’élite, nel momento in cui si allontana oltremodo dalla collettività e dal territorio di cui dovrebbe difendere gli interessi, soffre una crisi di legittimità.Questa élite, spesso infiacchita dai privilegi e dagli onori, finisce per perdere le virtù civiche, per avere inclinazioni cosmopolite, atteggiamenti snobistici, e al buonsenso sostituisce un discorso sofisticato, subendo così l’«invasione di sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità» (Pareto) di cui il popolo non sente il bisogno concreto. Perde quindi quella facoltà di dominare le formule vincenti e quella di individuare un nemico, entrambi fattori che determinano il suo consenso tra la popolazione. Ecco che, inversamente a questa crisi, abbiamo vissuto l’ascesa del fenomeno populista – utilizziamo il termine in un’accezione neutra – coronato dal suo successo elettorale, e quindi conclusosi con la sua istituzionalizzazione. Quindi al momento in Italia la situazione è paradossale. C’è un élite senza popolo (e perciò in declino) che adotta pose populiste per recuperare i consensi perduti – si veda l’atteggiamento di tutti i partiti tradizionali nei confronti del nuovo governo, e insieme tutta la parabola renziana (inaugurata da un monito che se si fosse realizzato sarebbe risultato imprudente: «La mia scorta sarà la gente») contraltare dell’antipolitica berlusconiana e ultimo canto del cigno di una sinistra incapace di sintetizzare il malessere del paese.Poi abbiamo, dall’altro lato, un populismo che ha fondato la sua vittoria ideologica nella lotta contro l’élite politica e finanziaria e adesso si vede costretto a cercare le sue élite di governo proprio tra quella élite politica e finanziaria – si pensi alla scelta di Conte a premier, di Savona e poi di Tria all’economia, dell’ex montiano e atlantista Moavero Milanesi alla Farnesina. Come è possibile che da due entità populiste, le più populiste che l’Italia abbia conosciuto, sia venuto fuori il più tecnico dei governi politici? Questo elemento deve portarci a riflettere sulle contraddizioni del populismo. Può, un populismo che ha fatto protesta contro le élites, farsi istituzione senza diventare élite a sua volta? Senza élites la politica è impraticabile, perché la politica è gestione del potere, e il potere non è equamente divisibile, quindi, dobbiamo ammettere che anche il populismo gialloverde, nonostante abbia fondato la sua mitopoiesi sulla lotta contro le élites – la casta per i grillini, l’oligarchia europea per la Lega – rientra nel discorso di Pareto e di Michels: «Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia».Perciò, ci sembra chiaro, noi non stiamo assistendo a nessuna rivoluzione, a nessun cambiamento nello schema classico della circolazione delle élite. Tuttavia, dobbiamo notare le novità apportate dalle modalità populiste di conquista del potere, ossia negando, o occultando, la propria impostazione, fatalmente elitaria. Si legga quanto veniva scritto sul Blog di Beppe Grillo nel 2013: «Il MoVimento 5 stelle è un movimento senza. Senza contributi pubblici, senza sedi; senza strutture; senza giornali; senza televisioni; senza candidati pregiudicati; […] senza compromessi; senza inciuci; senza leader; senza politici di professione; […] senza ideologie; […] senza banche». Il M5S ha fatto di una pletora di giovani disoccupati la sua classe dirigente dall’oggi al domani. Privi di qualsiasi formazione politica, imbevuti di un corso accelerato di democrazia diretta, gli eletti dei Cinque Stelle ragionano con quelle 4 o 5 linee guida ricavate dal mito dell’onestà, dalla lotta alla casta e altre menate urlate da un capo carismatico Grillo, teorizzate da un capo occulto, Casaleggio, con una sana ma ridotta spruzzata di massimofinismo.Il M5S tuttavia nasce tra diversi chiaroscuri, ed effettivamente il suo non è solo populismo, non è solo adesione incondizionata alle istanze provenienti dalla sempre tirata in ballo “base”, non c’è solo l’interpretazione e la politicizzazione degli umori diffusi tra la popolazione, nel M5S c’è un sostrato ideologico architettato da un’élite che Pareto avrebbe annoverato tra le “élite non di governo”, quella della Casaleggio Associati, che ai temi cari al populismo tenta di conciliare in una versione New Age e un po’ strampalata – pensiamo al video Gaia – alcuni temi del neoliberismo (la smartnation, l’universalismo, la governance globale). Non sappiamo quanta influenza abbia sugli eletti del movimento, e non vogliamo scadere in dietrologie, ma ci sembra chiaro che, di fronte alle ambiguità elettorali della piattaforma di voto interna al movimento, di fronte allo scandalo delle esplusioni, anche il M5S non sia immune a una tendenza élitaria.La Lega ci offre invece un esempio di populismo per certi versi immacolato, intriso della retorica piccolo-borghese poujadista, dei toni provocatori del qualunquismo di Giannini, e nonostante le diverse esperienze di governo, è un partito ancora poco a suo agio all’interno delle istituzioni. La Lega infatti nasce come outsider della politica, è un partito arrembante, cresciuto anno dopo anno a Pontida, grazie alle abilità oratorie di un leader, Bossi, di una classe politica fuoriuscita dai margini dei partiti tradizionali, e di una classe amministrativa emanazione per lo più dalla piccola imprenditoria padana, un po’ parrocchiale, abituata a gestire la cosa pubblica come si fa con un’azienda agricola. Tuttavia anche la Lega pur rimanendo sempre affezionata ad una narrazione vernacolare, localistica, popolare, anti-élitista – ricordiamo Bossi che si reca nella villa di Berlusconi in canottiera, come per sottolineare la differenza tra lui, l’uomo qualunque, e l’arricchito prestato alla politica – rispetta, in quanto partito, la «legge ferra dell’oligarchia» di cui parlava Michels.Perciò, siamo tentati dal dire che il populismo come ideologia – la contrapposizione popolo/élites – è una truffa, o più semplicemente una strategia di conquista del potere che un’élite mette a frutto per ribaltare l’élite precedente e da forza di protesta diventare istituzione. La sua tattica è quella di dimostrarsi più sensibile nei confronti di un popolo di cui si impegna a sintetizzare meglio i discorsi, intuirne i problemi e le paure, origliarne i disagi, fino ad accaparrarsi il monopolio delle “formule” vincenti. Ma adesso che da movimento è diventato regime, vediamo la trasformazione (non priva di incognite) del populismo. Di fatto chi si scandalizza per l’inversione di rotta da parte dei grillini sulla questione dell’alleanza con Salvini, o sulla nomina di un premier non eletto dal popolo «è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato». Così come chi crede a quanto dice Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, ossia che «i Davos Man (le élite, NdR) hanno paura del populismo perché hanno paura che il potere arrivi al popolo. E che succeda quello che è successo in Italia» è un po’ ingenuo.Le élite possono aver paura di essere sostituite da altre élite, il che nella storia è avvenuto soltanto all’indomani di violente rivoluzioni, ma non dal popolo. Nella maggior parte dei casi, i meccanismi sono più complessi, e le nuove élites tendono ad essere assimilate. Il populismo, perciò, è stato gestito da un’élite che non era a-élitaria, ma solo nemica (e neanche troppo) delle élites precedenti, un’élite in via di formazione politica e ideologica che non sappiamo se stia facendo scouting tra altre élite da cooptare al suo interno per mantenere gli equilibri di potere con delle élite più forti (quelle sovranazionali, finanziarie, atlantiche) che ne possono determinare la caduta, oppure se stia venendo cooptata da queste ultime. Tutto il problema tempistico della scelta del governo è dipeso da questa contraddizione, dal difficile equilibrio tra i programmi della nuova élite populista nata dalle piazze e imbottita di protesta, ancora vicina al territorio, alle istanze e ai malumori del popolo, e i giochi di Palazzo in cui deve giostrarsi.La nostra fortuna, che è insieme la nostra disgrazia, è l’inadeguatezza di questa nuova élite, ancora inconsapevole di esserlo. Livellando il discorso verso il basso – privi di un laboratorio culturale, dotati solo di una leadership carismatica – questi populismi non hanno fatto altro che appaltare molta della propria elaborazione ideologica al popolo del web, a tante piccole realtà intellettuali – testate, blog, singoli influencer – che hanno animato il dibattito politico, hanno sabotato l’informazione mainstream, hanno diffuso notizie diverse tra la popolazione, hanno creato una narrazione alternativa dei fatti, e hanno anche inquinato molti temi, hanno diffuso rabbia, malcontento, frustrazione, confusione, hanno dato via libera a troll e fanatici, complottismi e dietrologie, analisti improvvisati, studenti impreparati, incompetenti di buona volontà, animatori nerd di pagine facebook che hanno agitato il basso ventre del web a suon di Meme, ma anche a tanti think thank preparati, professori universitari non allineati, giornalisti e reporter seri, associazioni che hanno fatto un buon lavoro culturale sul proprio territorio occupando quegli spazi disimpegnati dalle sedi di partito.Questa élite è ancora legata alla base da cui proviene, ed è perciò in una fase di assestamento. Non è un’élite da salotto, da club del golf, da circolo della caccia, non è un’élite ripiegata su sé stessa, chiusa, ma può dimostrarsi permeabile e sensibile a talune istanze popolari di cui si è fatta latrice. Eppure, se questa sostanziale inadeguatezza è il risultato di una politica nata dalla piazza, dalla protesta, e perciò davvero vicina agli appelli della cittadinanza, è sempre questa inadeguatezza – l’idea grillina di fare politica in base al criterio dell’onestà (criterio etico, ma non politico), le antinomie di una Lega identitaria ma liberista – che ha obbligato l’élite populista ad aggregare dei tecnici e dei membri dell’élite precedente nel proprio governo, e a fare una serie di compromessi che ne sconfessano, da subito, i motivi della propria elezione. Asseconda di come si risolverà questa contraddizione potremo giudicare l’operato di questa élite.Contraddizione che trabocca da ovunque, dalle dichiarazioni di Tria, per esempio, del prima e dopo G7, laddove inizialmente parlava di «un vasto programma di investimenti pubblici infrastrutturali attuato e finanziato in deficit senza creare un problema di sostenibilità dei debiti pubblici», oggi afferma che «non puntiamo al rilancio della crescita tramite deficit spending». A chi guarda l’attuale governo – a questo ibrido concentrato di socio-securitarismo, liberista in economia e conservatore nel costume, euroscettico senza essere sovranista, russofilo ma atlantista – con ottimismo, con la convinzione che abbia vinto il popolo, chi pensa a un governo del cambiamento, a tutti costoro consigliamo di rileggere Pareto, ma anche Tomasi di Lampedusa. A Freccero e Magris che fanno l’elogio del populismo, e che Pareto lo hanno letto bene e che di un’élite intellettuale fanno parte, chiediamo se abbiano già cominciato a circolare.(Lorenzo Vitelli, “Il volto elitario del populismo”, da “L’Intellettuale Dissidente” dell’11 giugno 2018).Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.
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#MattonellaDimettiti, lesa maestà e fake news istituzionali
Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.Il bello è che i fabbricanti di complotti un tanto al chilo sono gli stessi che accusano i populisti sovranisti di complottismo. Dopodiché anche i loro complotti, alla prova dei fatti, si rivelano quello che sono: balle, bufale, patacche, fake news (al cubo). Memorabile il caso di “Beatrice Di Maio”, il nickname di Fb additato dalla “Stampa” come il Grande Vecchio grillin-casaleggiano delle fake news contro Renzi, Boschi, Lotti & C.: peccato fosse la moglie di Brunetta. Una storia da manuale del boomerang, che fa il paio con le accuse di razzismo lanciate dal Pd al governo Conte perché un gruppo di giovinastri aveva lanciato un uovo a un’atleta di colore, poi frettolosamente ritirate dopo la scoperta che un lanciatore era il figlio di un consigliere comunale Pd. Ora ci risiamo. I giornaloni non riescono proprio a digerire che il 27 maggio, quando Mattarella rispedì a casa Conte per via di Savona, molti italiani si siano incazzati da soli: se i social tracimavano di commenti critici o insultanti, non era perché chi aveva appena votato M5S e Lega si sentisse defraudato e invocasse le dimissioni del capo dello Stato; ma perché c’era dietro Putin con la sua fabbrica di troll a San Pietroburgo. Infatti, per un’intera settimana, ci hanno ammorbati con una cascata di articoloni e titoloni.Tutti ispirati dal Colle (bastava leggere le firme: quelle dei quirinalisti), finché il pool Antiterrorismo della Procura di Roma (non è uno scherzo: è tutto vero), la Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir non hanno aperto inchieste per vilipendio al capo dello Stato e attentato alla sua libertà. Roba da 20 anni di galera, come minimo. Poi i servizi hanno subito detto che non c’è una sola prova sui famosi troll russi. E chi aveva titolato “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”, “Interventi sulla politica italiana dai troll russi che spinsero Trump”, (“Corriere”), “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Interferenze russe sul voto del 4 marzo” (“La Stampa”), “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi” (“Repubblica”), che ha fatto? Ha chiesto scusa per tutte le balle raccontate e lasciato perdere? Macché: fischiettando con grande nonchalance, ha infilato un paio di righette qua e là negli articoli – non più nei titoli – per dire che i russi non c’entrano nulla, o non c’è alcuna prova che c’entrino. Cioè: le critiche al presidente italiano erano tutte italiane. Dunque su chi si indaga, e per quale reato? Sui cittadini che, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione, postano sui social il loro legittimo dissenso sulla massima carica, manco fossimo nella Russia di Putin?Mentre il boomerang volteggia all’indietro su chi l’aveva lanciato – cioè il Quirinale sempre più simile al Cremlino – i quirinalisti ispirati dall’alto tentano di intercettarlo in tempo con le nude mani: «Si cerca – scrive ieri il “Corriere” – di far passare Mattarella come un uomo permaloso che, credendosi un semidio, vorrebbe rianimare almeno il reato di lesa maestà». Già, l’impressione è proprio questa. «Manca solo che accusino il Quirinale di istigare i magistrati a recuperare la cultura greca del delitto di hybris» per «veder marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui». Già, la sensazione è proprio questa. Invece no: Egli, «nella sua imperturbabilità zen» e immensa bontà, adora chi lo critica, ma solo «in una dialettica accettabile in democrazia, ciò che esclude insulti e minacce». Resta da capire dove siano insulti e minacce nell’hashtag #MattarellaDimettiti dei tweet sotto inchiesta, prima made in Russia e ora rientrati nella cinta daziaria (lo “snodo di Milano”). Ma tutto è bene quel che finisce bene, o quasi.“Repubblica”, mentre autosmentisce una settimana di titoli sulla Russia con una sola frasina («gli account utilizzati per le campagne di influenza dei russi della Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno cessato di operare nell’autunno scorso», dunque solo «mani italiane»), monta un’intera pagina su una notizia sensazionale: in Italia i siti dei 5Stelle rilanciano i messaggi di Di Maio e degli altri 5Stelle. Roba forte. Non solo: le critiche a Mattarella furono «un assalto squadrista» (tipo quelli di “Repubblica” a Leone e Cossiga) finalizzato nientepopodimenoché a «eccitare la coscienza del paese». Accipicchia. E chi è stato? «Consolidati network di condivisione di contenuti para-giornalistici di segno sovranista, piuttosto che populisti». Mecojoni. E non è mica finita: «Sono evidenti le stimmate e la regia politica». Perbacco: le pagine Fb di «quelli che si dicono 5S» chiedevano l’impeachment di Mattarella. Chi l’avrebbe mai detto? Una addirittura postava una domanda dal chiaro contenuto eversivo: «Siete d’accordo con Di Maio che invoca la messa in stato d’accusa di Mattarella?». E qualcuno osò financo rispondere, non so se mi spiego. Seguono i nomi dei putribondi mandanti: «Tale Piergiorgio, alias ‘Pierre’ Cantagallo», «Grande Cocomero classic» (il nostro preferito), «tale Francesco Camillo Soro» da Las Palmas. E ho detto tutto. Che si aspetta ad arrestarli, fustigarli, convertirli in appositi campi di rieducazione? L’Antiterrorismo non ponga altro tempo in mezzo.E, già che c’è, non trascuri le indagini sulla leggendaria «fabbrica delle fake news» e sull’inquietante «fiume di denaro che porta a Londra, a Mosca, in Albania», smascherati mesi fa dai segugi di “Repubblica”, che ne inseguirono le tracce fino al covo operativo: «Una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni». Lì, «in una sera gelida di novembre, durante una pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema». Roba grossa, di cui però non si seppe più nulla. Se non che – fu sempre “Repubblica” a rivelarlo, con grave sprezzo del pericolo – «Leonardo di cognome fa Piastrella», ma quando diventa un «cavaliere nero dell’intossicazione online», si fa chiamare “Ermes Maiolica”, molto ricercato dai «broker pubblicitari». Perché voi non ci crederete, ma «più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità». Strano, eh? Infatti «in Rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia». Sono mesi che tratteniamo il fiato, in attesa che qualcuno sveli l’arcano – se non “Repubblica”, che abbandonò la pista proprio sul più bello, almeno l’Antiterrorismo. Se il sor Piastrella c’entra col sor Maiolica, c’entrerà anche col sor Ceramica? E non è che l’hashtag eversivo #MattarellaDimettiti era un messaggio in codice per il sor Mattonella?(Marco Travaglio, “#MattonellaDimettiti”, dal “Fatto Quotidiano” del 9 agosto 2018, ripreso da “Il bene comune newsletter”).Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.
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L’Italia frana e il Pd le ha offerto solo la mistica del Jobs Act
«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.La cifra del tenore politico in casa Pd, dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, la offrono le meste esternazioni dei renziani Orfini, Lotti, Martina, «non a caso incolori e privi di qualsiasi carisma, come tutti quelli del Giglio Magico», assolutamente anonimi, fatta eccezione per la Boschi (che si fa notare per «la notevole avvenenza e l’astuzia nella cura del suo “particulare”») e per il misterioso Carrai, «personaggio scaltro, che appare e scompare». Sconfitti, i renziani ripetono: «Lasciateci perdere, per il governo vedetevela voi. Noi abbiamo perso, non vogliamo governare: lo faccia chi ha vinto, cioè 5 Stelle e Lega, con o senza Forza Italia al seguito». Peccato, si rammarica Magaldi: «E’ una posizione formalistica», sterile, ma certo non inaspettata. «In tutta questa storia del renzismo prevale sempre il lato formale», rileva Magaldi. «Hanno prevalso gli slogan, le propagande, le affermazioni altisonanti che dovevano sostituire la realtà: la mistica del Jobs Act, la mistica della crescita del paese. Ho ascoltato esterrefatto Alessandra Moretti, l’ex “lady like”, dire che loro pensavano che la ripresa avrebbe premiato il Pd, invece il paese reale ha una percezione diversa».«Non è questione di percezione», obietta Magaldi: «E’ che sono stronzate quelle che vengono dichiarate a reti unificate sulla ripresa: gli indicatori economici utilizzati sono fasulli (ma finiscono per convincere anche i loro propagatori), mentre il paese continua a essere in ginocchio da troppi anni, la disoccupazione galoppa e l’economia gira poco e male». E anziché aprire gli occhi e ammettere i suoi errori (evidentissimi agli elettori) il Pd «continua la sua triste narrativa renziana, dove quello che conta non è la sostanza». Ben diverso, aggiunge Magaldi, se Renzi dicesse: «Ho capito dove ho sbagliato, quindi offro un supporto al governo 5 Stelle (o a un altro governo) sulla base di alcuni progetti, che sono nostri. Non li vogliono? Pazienza, ma noi facciamo politica perché vogliamo fare delle cose, abbiamo questi progetti che avremmo attuato se avessimo vinto, e quindi se qualcuno li vuole sostenere andiamo avanti insieme». Questo, conclude Magaldi, «sarebbe un ragionamento di sostanzialità politica, e cioè: tu testimoni quello che è il tuo progetto politico – sia che perdi, sia che vinci. E invece siamo al tatticismo. Si dice: abbiamo perso, ci lecchiamo le ferite».In più, aggiunge, dopo la Caporetto del 4 marzo, «nel Pd prevale ancora un’identificazione fortissima con il sentire personale di Renzi», l’ex rottamatore arrivato al capolinea. In realtà, secondo Magaldi, dovrebbe essere rottamato l’intero centrosinistra italiano: di fatto, ha consegnato l’Italia a poteri oligarchici privati, coronando il sogno antidemocratico dell’ultimo Kalergi, adottato da Jean Monnet e dagli altri padrini storici di quest’Europa “antieuropeista”, che rema contro i propri popoli mettendoli l’uno contro l’altro a colpi di mercantilismo e culto del rigore. Finisce nei guai un paese come l’Italia, che oggi – tra le altre cose – si ritrova senza una politica all’altezza della situazione «e senza uno straccio di ideologia, tranne l’unica rimasta in piedi: quella neoliberista». Tatticismi, appunto: «Compreso il peggiore in assoluto, ipotesi di cui nessuno parla: la possibilità teorica che il centrodestra, in silenzio, possa “pescare” seggi tra i tanti grillini neo-eletti, come auspicato dallo stesso Berlusconi». Niente male, come inizio, per l’ipotetica Terza Repubblica fondata sugli equivoci, mentre il paese continua a crollare.«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.
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Centrodestra e Pd, lo squadrone dei candidati impresentabili
Chiuse le liste delle convocazioni dei partiti, dopo notti di lotte all’arma bianca nelle segrete stanze di Arcore e del Nazareno, in attesa di conoscere l’allenatore, ecco la formazione titolare con cui il centrodestra si schiera in campo. Con la fascia di capitano, candidato capolista al Senato in Campania, Luigi Cesaro, detto “Giggino a’ purpetta”, indagato per voto di scambio in riferimento alle ultime elezioni regionali e per minacce a pubblico ufficiale aggravato dalla finalità mafiosa: avrebbe fatto pressioni su una funzionaria del Comune di Marano, che si occupava dei controlli su opere costruite dall’impresa di Aniello e Raffaele Cesaro, suoi fratelli. Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani “Libero” e “Il Riformista”; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio.Ugo Cappellacci, capolista in Sardegna, ex governatore, per lui chiesta condanna per abuso d’ufficio nel processo scaturito nell’inchiesta sulla cosiddetta P3; condannato in secondo grado a restituire alla Regione Sardegna circa 220 mila euro. Condannato a due anni e mezzo di reclusione per il crac milionario della Sept Italia, società fallita nel 2010. Fresco di sentenza Michele Iorio, candidato al Senato in Molise, è stato condannato qualche giorno fa dalla corte d’appello di Campobasso a 6 mesi di reclusione per abuso d’ufficio e a un anno di interdizione dai pubblici uffici. In Puglia rispunta una vecchia conoscenza: Domenico Scilipoti. E’ stato condannato a versare 200 mila euro più spese legali per un vecchio debito non pagato. Ma è noto ai più per il suo triplo salto carpiato da Idv all’allora maggioranza, per salvare il governo Berlusconi nel 2010, dando addirittura vita a un neologismo: “scilipotismo”. In Sicilia continua la “dinastia Genovese”. Stavolta tocca a una donna di fiducia dell’ex deputato condannato Francantonio Genovese, Mariella Gullo. Anche lei raggiungerà quota 20mila come toccò prima al cognato e poi al nipote Luigi Genovese alle scorse regionali? Con lei, Urania Papatheu, candidata nel Catanese, con una condanna in primo grado per gli sperperi dell’ex Ente fiera di Messina.La nuove generazione delle Lega marca la sua presenza con Edoardo Rixi, assessore regionale in Liguria e imputato per le spese pazze in Regione Liguria: si sarebbe fatto rimborsare spese private con soldi pubblici. Facce nuove ma vecchi vizi. La Lega infatti candida anche tale Umberto Bossi, condannato a 2 anni e 3 mesi per aver usato i soldi del partito, quindi “provenienti dalle casse dello Stato” a fini privati. Sulla stessa onda, troviamo il redivivo Roberto Formigoni, condannato per corruzione a sei anni e imputato in altri processi: è candidato al Senato come capolista nella formazione del centrodestra ‘Noi con l’Italia’ in Lombardia. Nella stessa formazione, Raffaele Fitto alla Camera in Puglia, la Cassazione ha disposto che sarà un giudice civile a stabilire se, da presidente della Regione Puglia, Raffaele Fitto ha generato danno d’immagine all’ente, dopo che la corte d’appello di Bari l’aveva dichiarato prescritto ma lo condannava al risarcimento nei confronti della Regione.Il Pd, allenato da Renzi con Gentiloni pronto a sostituirlo a seconda dello scenario che si prospetterà, schiera invece in campo. Maria Elena Boschi, il capitano. Aveva promesso di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum e non l’ha fatto. Da ministro per le Riforme si è interessata della sorte di Banca Etruria, l’istituto bancario del padre. Ha sostenuto di averlo fatto per il territorio, infatti si candida a Bolzano nell’uninominale ed è stata piazzata in altri cinque collegi-paracadute: Cremona-Mantova, Lazio 3, Sicilia 1-02, Sicilia 2-03 e Sicilia 2-01. Tutto pur di non farle mollare la poltrona. In Campania c’è Piero De Luca, figlio del governatore della Campania, Vincenzo, capolista alla Camera ovviamente in Campania e candidato all’uninominale di Salerno, il “feudo” del padre. È imputato di bancarotta fraudolenta per il crac della società immobiliare “Ifil”, società satellite degli appalti del ‘sistema Salerno’ quando il padre era sindaco della città. Ma De Luca raddoppia, con la candidatura del suo ex capo staff, Franco Alfieri. Il “signore delle fritture” elogiato dal governatore campano perché sa fare le “clientele come Cristo comanda”, già condannato in appello a restituire 40.000 euro al Comune di Agropoli e imputato per omissione in atti d’ufficio e sottrazione di beni alla loro destinazione: avrebbe lasciato dei beni sequestrati alla camorra, e destinati al Comune di Agropoli, nella disponibilità dei vecchi proprietari. Per i pm non per dimenticanza, ma per ingraziarsi il “clan degli zingari”.In Campania c’è anche Umberto Del Basso De Caro, già sottosegretario ai Trasporti del governo Gentiloni, è indagato per tentata concussione e voto di scambio. In alcune conversazioni intercettate si evincerebbero, per l’accusa, le sue pressioni al dirigente generale di un ospedale per la rimozione o il trasferimento di alcuni funzionari “non graditi” alla moglie, dirigente amministrativo nello stesso nosocomio. In Abruzzo corre Luciano D’Alfonso, governatore in carica, indagato dalla procura de L’Aquila per corruzione, abuso d’ufficio e turbata libertà degli incanti per interventi di manutenzione di case popolari a Pescara e Penne. E’ stato scelto per meriti sul campo da Renzi come capolista del listino al Senato in Abruzzo. Nel Lazio schierati Claudio Mancini e Bruno Astorre, premiati per il rinvio a giudizio nell’inchiesta sui rimborsi e le spese di rappresentanza del gruppo Pd alla Pisana fra il 2010 e il 2012.Stesso criterio usato per le candidature nelle Marche, con Francesco Comi e Paolo Petrini, coinvolti nello scandalo sulle spese pazze in Regione, procedimento ancora aperto dopo che la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere disposto dal gup. Anche in Calabria premiati Ferdinando Aiello, Brunello Censore e Antonio Scalzo per il processo disposto a loro carico nell’ambito dell’inchiesta “Rimborsopoli”. Scalzo, in più, ha visto di recente arrestato il suo capostruttura nell’operazione contro la ‘ndrangheta denominata “Stige”, in quanto accusato di concorso esterno alla potente cosca dei Farao-Marincola. Punta di diamante della formazione renziana, Luca Lotti, attuale ministro dello Sport, è indagato nella vicenda Consip, insieme a Renzi Senior e a gran parte del “giglio magico”, per favoreggiamento e rivelazione di segreto. E’ candidato in Toscana, nel collegio di Empoli 8.(“Lo squadrone di candidati impresentabili del centrodestra” e “Figli di e fritture di, gli impresentabili del Pd”, dal “Blog delle Stelle” del 3 febbraio 2018).Chiuse le liste delle convocazioni dei partiti, dopo notti di lotte all’arma bianca nelle segrete stanze di Arcore e del Nazareno, in attesa di conoscere l’allenatore, ecco la formazione titolare con cui il centrodestra si schiera in campo. Con la fascia di capitano, candidato capolista al Senato in Campania, Luigi Cesaro, detto “Giggino a’ purpetta”, indagato per voto di scambio in riferimento alle ultime elezioni regionali e per minacce a pubblico ufficiale aggravato dalla finalità mafiosa: avrebbe fatto pressioni su una funzionaria del Comune di Marano, che si occupava dei controlli su opere costruite dall’impresa di Aniello e Raffaele Cesaro, suoi fratelli. Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani “Libero” e “Il Riformista”; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio.
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Giannini: e se adesso le riforme salva-Italia le fa Gentiloni?
«Ha ragione, Paolo Gentiloni: i governi non fanno miracoli. Ma se non ci prova lui, cosa ci sta a fare a Palazzo Chigi fino al 2018? Cos’ha da perdere questo governo nato sulle macerie del renzismo, tra Gigli Magici appassiti e schizzi fetidi di fango, insanabili scissioni tafazziane e improbabili lezioni californiane?». Ora vogliamo tagliare le tasse sul lavoro, annuncia il premier. È un buon inizio, per Massimo Giannini: «La stagione dei bonus, inutili e costosi, è finita». Ed è anche “un buon indizio”: il governo non vuole limitarsi a galleggiare. «Ma per curare le “cicatrici della crisi” serve una vera e propria terapia d’urto, potente e sorprendente». Può sembrare un paradosso, scrive l’editorialista di “Repubblica”, ma Gentiloni «ha un’occasione irripetibile per osare l’inosabile», nonostante siamo tutti distratti perché «troppo immersi nella torbida “Saga dei Romeo’s” (le polizze vita di Salvatore e le mazzette Consip di Alfredo)». La prima ragione nasce dalla politica monetaria. «Se in questi tre anni l’Italia non ha rivissuto il novembre nero berlusconiano del 2011, questo si deve solo a Mario Draghi», sostiene Giannini. «Dal 2013 al 2016 gli acquisti di titoli di Stato effettuati da Bankitalia e Bce sono passati da 95 a 266 miliardi. Quelli compiuti dalle banche sono cresciuti da 275 a 415 miliardi. I tassi di interesse a quota zero e il Quantitative easing ci hanno salvato. Ora tutto questo sta per finire».Spinto dalle pressioni tedesche e da un’inflazione appena risalita al 2% nell’Eurozona, Draghi a breve aumenterà i tassi. E da ottobre avvierà il cosiddetto “tapering”: cioè ridurrà gradualmente gli acquisti di bond sovrani sui mercati secondari, fino a interromperli del tutto a marzo 2018. «A quel punto l’Italia sarà senza rete: qualunque shock politico-finanziario ci esporrà alla sindrome greca». Dunque, secondo Giannini, questa “finestra” temporale Gentiloni deve usarla subito, prima che si richiuda per sempre. La seconda ragione per un clamorso cambio di passo nascerebbe dalla politica economica: «Il paese ha davanti a sé una micidiale corsa in tre tappe: manovra aggiuntiva, Documento di Economia e Finanza, Legge di stabilità. Se ci illudiamo di poterla affrontare in “surplace”, ci condanniamo a una caduta rovinosa». Per Giannini, «al punto in cui siamo serve uno scatto, che deve passare da un’ammissione e da un’ambizione. L’ammissione riguarda la manovrina da 3,4 miliardi: ammettiamo di aver sbagliato (Renzi ha scommesso “contro” Bruxelles e ha perso) e facciamola subito. L’ambizione riguarda il Def e la manovra d’autunno». Gentiloni sembra aver chiari i problemi da aggredire: tasse sul lavoro e investimenti. «Ora si tratta di intendersi sulla qualità e sulla quantità degli interventi».Secondo il giornalista, «abbattere il cuneo fiscale, a vantaggio delle imprese e dei lavoratori, è la via maestra sulla quale concentrare tutti gli sforzi». Ma attenzione: «Se il taglio sarà solo di 3-5 punti si rischia un nuovo flop (in stile 80 euro)». Un taglio magari utile sul piano statistico, «perché riavvicinerà il nostro costo del lavoro (esploso dal 36,8 al 49% tra il 2000 e il 2016) a quello della Germania», ma nei portafogli delle imprese e nelle tasche dei lavoratori il beneficio sarà modesto, quasi nullo. «Lo dimostrano gli esperimenti degli ultimi 16 anni, dal governo D’Alema nel 2000 al governo Prodi nel 2007 (che fu proprio di 5 punti, pari a 7 miliardi)». No, serve uno sforzo molto maggiore. E la stessa cosa vale per gli investimenti. «La vera sfida, adesso, non riguarda più solo gli investimenti privati (cresciuti del 2,9% nel 2016), ma quelli pubblici (crollati del 5,4%)». Questa, scrive Giannini, è la prova più dolorosa del fallimento delle politiche economiche di questi anni: «Abbiamo “estorto” all’Europa 19 miliardi di flessibilità, e siamo riusciti a sprecarli senza aumentare di un euro la domanda pubblica, e riducendola addirittura di altri 2 miliardi».Non solo: «Il Jobs Act era stato “venduto” come volano per l’arrivo di enormi flussi di capitali dall’estero (Renzi disse in tv che aveva già la lista delle multinazionali pronte ad entrare) ma purtroppo nel primo semestre 2015 è successo il contrario: gli investimenti diretti esteri sono scesi a 7,8 miliardi, con un crollo del 40,6%». Se questo è il quadro generale, osserva l’analista di “Repubblica”, Gentiloni avrebbe «una chance formidabile». Addirittura «un’operazione storica e, finalmente, davvero strutturale». Ovvero: «Un grande piano di riduzione del cuneo fiscale di almeno 10 punti, e un grande programma di rilancio degli investimenti pubblici (dalle infrastrutture di rete alla banda larga)». Per Giannini, «su un progetto del genere può valere la pena di giocarsi l’osso del collo. In Parlamento a Roma, e in Commissione a Bruxelles». Del resto, «qual è l’alternativa? Continuare a ballare sotto il Vulcano?». Per come siamo messi, conclude Giannini, «la vecchia morale andreottiana può funzionare solo al contrario: piuttosto che tirare a campare, meglio tirare le cuoia».«Ha ragione, Paolo Gentiloni: i governi non fanno miracoli. Ma se non ci prova lui, cosa ci sta a fare a Palazzo Chigi fino al 2018? Cos’ha da perdere questo governo nato sulle macerie del renzismo, tra Gigli Magici appassiti e schizzi fetidi di fango, insanabili scissioni tafazziane e improbabili lezioni californiane?». Ora vogliamo tagliare le tasse sul lavoro, annuncia il premier. È un buon inizio, per Massimo Giannini: «La stagione dei bonus, inutili e costosi, è finita». Ed è anche “un buon indizio”: il governo non vuole limitarsi a galleggiare. «Ma per curare le “cicatrici della crisi” serve una vera e propria terapia d’urto, potente e sorprendente». Può sembrare un paradosso, scrive l’editorialista di “Repubblica”, ma Gentiloni «ha un’occasione irripetibile per osare l’inosabile», nonostante siamo tutti distratti perché «troppo immersi nella torbida “Saga dei Romeo’s” (le polizze vita di Salvatore e le mazzette Consip di Alfredo)». La prima ragione nasce dalla politica monetaria. «Se in questi tre anni l’Italia non ha rivissuto il novembre nero berlusconiano del 2011, questo si deve solo a Mario Draghi», sostiene Giannini. «Dal 2013 al 2016 gli acquisti di titoli di Stato effettuati da Bankitalia e Bce sono passati da 95 a 266 miliardi. Quelli compiuti dalle banche sono cresciuti da 275 a 415 miliardi. I tassi di interesse a quota zero e il Quantitative easing ci hanno salvato. Ora tutto questo sta per finire».
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Se l’Italia cambia padrone, qualcuno la sta “sovragestendo”
«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».Cambiano i musicisi, non la musica. Renzi? «Pur dicendosi “di sinistra” ha bussato per anni, inutilmente, alle porte della super-massoneria conservatrice», afferma Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Non gli è stato aperto: «Persino Napolitano si è rifiutato di fargli da garante». Ora, sembra arrivato l’avviso di sfratto: per via giudiziaria, tanto per cambiare. «Via Renzi, è già pronto Di Maio», diceva Carpeoro, mesi fa. Alla luce degli ultimi sviluppi, in effetti, suona meno “strano” l’improvviso voltafaccia di Grillo al Parlamento Europeo, con il rocambolesco abbandono di Farage dopo la vittoria sulla Brexit per tentare di approdare al gruppo centrista pro-euro, in cui milita Mario Monti. Come se il capo dei 5 Stelle avesse voluto inviare un segnale chiarissimo di “affidabilità”, rispetto al vero potere che gestisce l’Europa, l’economia, la finanza. Altro dettaglio, fondamentale: nel “MoVimento”, chi dissente è perduto: condannato alla pubblica esecrazione, e persino – se cambia casacca – invitato a pagare una penale.Impossibile coltivare idee diverse da quelle del Capo: è dunque un esercito di terracotta, quello che domani – tramontato Gentiloni – potrebbe prendere in mano il governo del paese? Tiene ancora banco il refrain dell’“uno vale uno”, ma – beninteso – ammesso che sia allineato con l’unico, vero Numero Uno. In libri come “Il golpe inglese”, scritto con Mario Josè Cereghino, il giornalista Mario Fasanella sostiene che l’Italia sia sempre stata “sovragestita” da poteri esterni, stranieri, economici e finanziari. Lo stesso Jobs Act, rivela Paolo Barnard, è stato scritto – due anni prima dell’adozione, da parte di Renzi – dalla potentissima “Business Europe”, think-tank che “detta le leggi” alla Commissione Europea. L’Italia politica è nel caos: il Pd si spappola, Renzi è sotto attacco (il padre indagato, nell’inchiesta che sta coinvolgendo il ministro Lotti e altri renziani) e i 5 Stelle che serrano i ranghi, dichirando guerra al dissenso interno: come se si stesse avvicinando una grande burrasca (le elezioni francesi, la Le Pen, l’euro che vacilla insieme all’Ue). Serviranno “soldati”, addestrati a obbedire? E nel caso, a chi? Chi sta “sovragestendo”, oggi, la palude italiana?«Renzi finirà asfaltato dai No, e il suo successore lo stabilirà il Vaticano», disse, mesi prima del referendum, il “profeta” Rino Formica, già ministro socialista nella Prima Repubblica. Bingo: Paolo Gentiloni è discendente della famiglia dei conti Gentiloni Silveri, “nobili di Filottrano, Cingoli e Macerata”, storicamente al servizio della Santa Sede. Dai media mainstream, sempre lontani anni luce dalle “fake news” (leggasi: notizie scomode) contro cui si sta abbattendo l’offensiva di Laura Boldrini (una legge speciale per imbavagliare il web, come se già non esistessero leggi a tutela dei cittadini diffamati), è impossibile ricavare analisi di scenario, oltre alla piccola agenda tattica di partiti e leader. Chi sta “sovragestendo” il paese, oggi, a parte il Vaticano che sicuramente “apprezza” Gentiloni? Carpeoro è pessimista: «Non emerge un piano-B che contesti l’attuale sistema, in base al quale, perché noi si stia meglio, qualcuno deve per forza stare peggio». Unico spiraglio: «La base elettorale dei 5 Stelle, animata da forti motivazioni etiche».Più ottimista invece Magaldi, che dopo aver segnalato (mai smentito da nessuno) la presenza di D’Alema, Napolitano, Monti e Padoan nella super-massoneria oligarchica, responsabile della globalizzazione antidemocratica, privatizzatrice e mercantilista, oggi scommette sul collasso del Pd, che «darebbe fiato a nuove istanze progressiste e democratiche finalmente autentiche», archiviata la “finta sinistra” che ha svenduto il paese ai potentati economici stranieri precipitando l’Italia in questa crisi senza fine. Troppo ottimista, Magaldi? Da più parti si fa notare il ritorno della “giustizia a orologeria” denunciata per anni da Berlusconi: l’inchiesta che lambisce Renzi coincide alla perfezione con il calendario della condanna in primo grado dell’alleato Verdini. Sembra un messaggio all’ex premier, mai accolto nel “salotto buono” in cui siedono molti altri italiani, da Mario Draghi a Emma Marcegaglia. Il caos cresce, e del Piano-B (restituire sovranità finanziaria a un governo finalmente eletto, autorizzato a investire denaro pubblico per produrre occupazione) non c’è neppure l’ombra.«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».
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Sfratto a Renzi, per via giudiziaria. Il potere vuole i 5 Stelle?
Le vicende giudiziarie che stanno sfiorando Matteo Renzi «sembrano essere lo specchio di una ristrutturazione in corso dei poteri del paese», sostiene “Infoaut”. «Dopo la batosta del 4 dicembre, su cui aveva puntato tutte le sue fiches, Renzi parrebbe essere giudicato sempre più inservibile da ampie parti dell’establishment». Settori di vertice che, «per destabilizzarne la tenuta», ormai «iniziano ad utilizzare lo strumento della magistratura e delle inchieste», strumento «da sempre orientato all’azione politica nell’ottica del riequilibrio del sistema, il più utile a questo genere di operazioni». Renzi rischia di essere toccato dall’inchiesta Consip? «Se ciò accadesse sarebbe davvero difficile reggere ad un colpo del genere», osserva “Infoaut”. «Ma anche se non dovessero emergere relazioni dirette tra padre e figlio, le parole di Marroni (ad di Consip nominato dallo stesso premier) che tirano in ballo l’imprenditore Alfredo Romeo, Tiziano Renzi padre di Matteo e l’imprenditore Carlo Russo riguardo a pressioni indebite sui dirigenti Consip per indirizzare o ottenere appalti lucrosi, sembrano essere un colpo molto duro da incassare».Quantomeno a livello mediatico, continua il newsmagazine dell’area “antagonista” torinese, che dichiara di fornire “informazione di parte”, i piani dell’ex premier impegnato nella corsa del consenso verso le elezioni del 2018 sembrano essere scompaginati. «Mentre nuovi interrogatori dovranno definire la portata reale dei fatti contestati, sembra esserci il caos nelle fila del cosiddetto Giglio Magico, il gruppo di potere che ruota intorno a Renzi. Le sedi di Rignano e Scandicci del Pd sono chiuse, Renzi addirittura effettua un viaggio in Puglia senza avvertire il Pd locale per evitare contestazioni, mentre il fedelissimo Lotti, tirato in ballo nelle carte, frettolosamente si affanna a ribadire la sua onestà e la sua estraneità ai fatti». Intanto, Renzi «viene abbandonato via via da sempre più big del Pd, che dichiarano il proprio appoggio ad Emiliano o Orlando nelle primarie fissate per il prossimo 30 aprile». E se la minoranza del Pd è riuscita finalmente a scindersi, forse «più che indirizzati da motivazioni etico-politiche» Bersani e compagni «sembrano voler scendere dalla nave che affonda, prima che sia troppo tardi».Strano tempismo: «Forse c’è chi aveva fiutato, o sapeva tramite vecchi amici, che dopo il No referendario l’aria che tirava non era delle migliori e ha preso la balla al balzo». A pesare è anche «lo stesso scandalo delle decine di migliaia di nuove tessere in Campania», che aggiunge ombre al «rapporto morboso tra il Pd renziano e ambiti di potere quantomeno oscuri di quei territori». Osserva “Infoaut”: «È interessante notare che l’attacco al sistema Renzi avviene nello stesso momento in cui la giunta Raggi su Roma ha ceduto – perchè di questo si tratta, al di là di come i 5 Stelle stanno abbellendo la vicenda – sulla questione stadio, dopo la messa da parte di Berdini che suonava già come una avances ai palazzinari e agli speculatori locali». Dopo il “no” alle Olimpiadi, e mesi di clamore su ogni minuzia della giunta Raggi, «ora la sindaca romana è praticamente sparita dalla scena, mentre lo scandalo Consip emerge con un timing preciso. Che nel gotha dei poteri economici si stia iniziando ad apprezzare la prospettiva pentastellata, non fosse altro per manifesta inesistenza di alternative credibili?». Ormai le sorprese sono all’ordine del giorno, «e l’attacco giudiziario non sembra essere casuale».Di fronte alla peggiore delle ipotesi dell’accusa (corruzione e nepotismo, con il padre di Renzi che farebbe il “lavoro sporco” per il figlio, pressando il vertice della Consip, l’ente che dispensa i lucrosi appalti pubblici) «la retorica renziana della meritocrazia e della rottamazione si scioglie come neve al sole», conclude “Infoaut”, che traccia un parallelo tra quello che chiama “il sistema Renzi”, le polemiche sul ministro Giuliano Poletti e i torbidi retroscena di Mafia Capitale alle spalle della giunta Marino. Lo stesso Renzi, «pur di assicurarsi la stabilità», non ha esitato a scendere a patti con Denis Verdini, condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino. «Anche questa sentenza arriva a suo modo con un timing preciso, e sembra squalificare dal gioco uno dei potenziali neo-alleati, quantomeno a livello di spostamento di voti e prebende varie, del Pd a guida assoluta renziana». Traduzione: «Un sistema di potere sembra andare in pezzi, quali altri emergeranno?».Le vicende giudiziarie che stanno sfiorando Matteo Renzi «sembrano essere lo specchio di una ristrutturazione in corso dei poteri del paese», sostiene “Infoaut”. «Dopo la batosta del 4 dicembre, su cui aveva puntato tutte le sue fiches, Renzi parrebbe essere giudicato sempre più inservibile da ampie parti dell’establishment». Settori di vertice che, «per destabilizzarne la tenuta», ormai «iniziano ad utilizzare lo strumento della magistratura e delle inchieste», strumento «da sempre orientato all’azione politica nell’ottica del riequilibrio del sistema, il più utile a questo genere di operazioni». Renzi rischia di essere toccato dall’inchiesta Consip? «Se ciò accadesse sarebbe davvero difficile reggere ad un colpo del genere», osserva “Infoaut”. «Ma anche se non dovessero emergere relazioni dirette tra padre e figlio, le parole di Marroni (ad di Consip nominato dallo stesso premier) che tirano in ballo l’imprenditore Alfredo Romeo, Tiziano Renzi padre di Matteo e l’imprenditore Carlo Russo riguardo a pressioni indebite sui dirigenti Consip per indirizzare o ottenere appalti lucrosi, sembrano essere un colpo molto duro da incassare».
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Nuova Tangentopoli, ci risiamo? Ma stavolta senza Piano-B
Vincenzo De Luca indagato per voto di scambio, Beppe Sala per l’Expo, la romana Paola Muraro per reati ambientali, Raffaele Marra per corruzione, Luca Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sotto tiro un po’ tutti, da Renzi alla Raggi. «In meno di una settimana piovono avvisi di garanzia, arresti, interrogatori fiume: sembrano tornati i tempi di Mani Pulite», scrive Aldo Giannuli, che osserva: si tratta di casi non esattamente “freschi”, lasciati dormire per mesi e fatti esplodere solo dopo il referendum: «E’ come se il 4 dicembre sia scattato il via libera», così adesso «piovono sberle», con alcuni giornali che lasciano capire che «dopo Lotti seguirebbe il padre di Renzi, poi Renzi stesso». In attesa che emergano elementi certi, aggiunge Giannuli, «non possiamo non notare questa nuova somiglianza con il 1992-93: allora fu una ondata di inchieste giudiziarie che precedette un referendum chiave», quello sulla legge elettorale maggioritaria. «Ora sembra il contrario: un referendum che apre la strada ad una valanga giudiziaria». E se all’inizio degli anni ‘90 lo tsunami di Tangentopoli aiutò ad affermarsi «un nuovo ordine mondiale monopolare, in piena espansione finanziaria e con classi dirigenti che godevano di un sufficiente (se non ampio) consenso popolare», oggi è l’esatto contrario: «L’ordine mondiale monopolare è franato, ma non è stato sostituito da un diverso ordine mondiale multipolare».Gli Usa, scrive Giannuli sul suo blog, conservano ancora consistenti residui dell’ordine monopolare: il controllo della moneta di riferimento internazionale, una supremazia militare scossa dalle sconfitte mediorientali ma che ne fa ancora la maggiore potenza mondiale, militare e finanziaria, con peso preponderante negli organismi internazionali. Ma gli Stati Uniti «non hanno più la forza di imporre unilateralmente le decisioni della comunità internazionale, non riescono ad avere un colpo d’ala che li trascini fuori dalla crisi, e questo determina un malessere interno che si è espresso nell’elezione di Trump». D’altra parte, i Brics sono fortemente cresciuti: paesi emergenti come Messico, Indonesia e Corea si stanno affermando sul piano economico, India e Cina stanno diventando anche potenze militari, mentre la Russia lo sta ridiventando. Tuttavia «iniziano a risentire della crisi euro-americana», quindi «hanno perso lo slancio economico di otto anni fa», e ancora «non riescono a sovvertire la preponderanza americana». In altre parole, «gli Usa non hanno più la forza imperiale di vent’anni fa, ma hanno la forza per impedire che si affermi un equilibrio multipolare basato su grandi potenze regionali». A loro volta, «i Brics hanno la forza per impedire l’ordine monopolare, ma non quella per ricacciare gli Usa entro la rispettiva area regionale».Per di più, continua Giannuli, «c’è una profonda asimmetria fra i paesi occidentali, a regime liberaldemocratico e ad economia liberista, nei quali la finanza ha un forte potere condizionante, ed i paesi emergenti, in particolare Russia e Cina, dove il potere politico ha assai meno condizionamenti ed in cui sussistono molti elementi di capitalismo di Stato». E così «non abbiamo due ipotesi di ordine mondiale» ma, di fatto, «nessun ordine mondiale vigente», mentre i vari “attori” si sfidano indirettamente in tante crisi locali sempre più numerose: Ucraina, Siria, Iran, Oceano Pacifico, Oceano Indiano. Crisi che, «per ora, scaricano la tensione che si va accumulando», in una situazione di “stallo instabile”. A monte, s’è inceppato il motore dell’Occidente, «investito da una crisi finanziaria che è man mano divenuta economica, con i tassi occupazionali più bassi dell’ultimo trentennio, una massiccia erosione dei salari e una conseguente caduta dei consumi». Il suo eccezionale prolungamento – di fatto, questa è l’unica crisi paragonabile alla Grande Depressione del 1929 – sta ora ripercuotendosi sui paesi fornitori di materie prime (Brasile in primo luogo, ma anche Russia ) e sui paesi in cui era stata delocalizzata la manifattura (in particolare la Cina, che resiste in parte grazie alla tenuta del mercato interno).Di fronte a questo andamento economico-finanziario, continua il politologo dell’ateneo milanese, le banche centrali e quelle di investimento «non hanno trovato altro rimedio che continue ondate di liquidità che hanno avuto soprattutto l’effetto di ingigantire il debito grazie al meccanismo degli interessi». La sostanza è che «le classi dirigenti rifiutano di prendere atto dell’origine della crisi», cioè «la strutturazione iper-finanziaria dei mercati, che ha trovato sfogo prima nel crollo dei mutui sub-prime e dopo nello scoppio delle successive bolle delle materie prime e nel gonfiamento dei debiti pubblici». Dell’enorme massa di liquidità emessa, ben poco è andato all’economia reale (forse neppure il 10%) mentre il resto ha trovato re-impieghi finanziari: «Si è affermato un modello di “produzione di denaro a mezzo denaro” saltando il passaggio della merce che nessuno ha messo o mette in discussione». Allo stesso modo, nessuno ha contestato «l’assurdo ordinamento tributario punitivo nei confronti dei ceti medi e delle classi subalterne», che premia «le grandi centrali finanziarie».Globalizzazione finanziaria: «La mobilità incontrollata dei capitali ha di fatto concesso al grande capitale privato di scegliersi lo Stato cui pagare le tasse». L’inevitabile risultato «è stata una fortissima pressione fiscale dei paesi più indebitati (come Grecia, Portogallo e Italia) che sta soffocando ogni possibilità di ripresa di quei paesi». Non è strano che non ci siano stati ravvedimenti: «Rivedere le regole dell’ordinamento neoliberista implicherebbe una secca perdita di potere delle classi capitalistiche». D’altra parte, «la persistenza del sistema di potere neoliberista è anche prodotta dalla assenza di una opposizione interna al sistema politico: la completa omologazione delle socialdemocrazie al neoliberismo, di cui, ormai, sono solo una piccola variante, ha privato il sistema di ogni possibilità ai autocorrezione». E questo, conclude Giannuli, è il principale motivo dell’ondata neoliberista che si è scatenata tanto in Europa, quanto negli Usa. «La crisi continua a mordere, e non c’è una ipotesi riformista». Risultato: «L’elettorato vota partiti neo-populisti, prevalentemente di destra», protestando contro l’immigrazione di massa e contro un ordinamento che, «minando il principio di sovranità nazionale, svuota di significato il principio della sovranità popolare e, di conseguenza, la democrazia».Il fenomeno dell’immigrazione? «Un comodo nemico su cui scaricare la colpa di tutto, un po’ come con gli ebrei nella crisi degli anni Trenta», con l’aggravante che, oggi, «la coincidenza con il terrorismo jihadista fornisce alimento all’industria della paura». La sinistra non-liberista? Non pervenuta: sulla questione migranti, la sinistra europea – dalla Linke a “Podemos” – non va oltre «un genericissimo internazionalismo venato di buonismo», senza riuscire a prospettare «una concreta politica di accoglienza e integrazione». Silenzio anche su globalizzazione, Ue e euro: la sinistra «teme ogni presa di distanza», leggendola come «un ritorno al nazionalismo, di cui diffida». Il risultato è «una sostanziale paralisi, che rende irrilevante la sinistra che non vuole i tecnocrati di Bruxelles e le politiche di austerità, ma difende l’euro (come se le due cose fossero estranee l’una all’altra), e si accontenta di favoleggiare su “un nuovo euro” che nei fatti non può esistere». Così la piccola trincea della sinista diventa «irrilevante, nello scontro fra l’ondata populista e l’establishment». Per troppo tempo questa sinistra «ha smesso di studiare», di capire la crisi. E ora subisce anch’essa «una ondata di protesta che delegittima le classi dirigenti dall’interno», creando «una condizione favorevole al crollo del sistema politico italiano ancora più spiccata che nel 1992-93».Vincenzo De Luca indagato per voto di scambio, Beppe Sala per l’Expo, la romana Paola Muraro per reati ambientali, Raffaele Marra per corruzione, Luca Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio. Sotto tiro un po’ tutti, da Renzi alla Raggi. «In meno di una settimana piovono avvisi di garanzia, arresti, interrogatori fiume: sembrano tornati i tempi di Mani Pulite», scrive Aldo Giannuli, che osserva: si tratta di casi non esattamente “freschi”, lasciati dormire per mesi e fatti esplodere solo dopo il referendum: «E’ come se il 4 dicembre sia scattato il via libera», così adesso «piovono sberle», con alcuni giornali che lasciano capire che «dopo Lotti seguirebbe il padre di Renzi, poi Renzi stesso». In attesa che emergano elementi certi, aggiunge Giannuli, «non possiamo non notare questa nuova somiglianza con il 1992-93: allora fu una ondata di inchieste giudiziarie che precedette un referendum chiave», quello sulla legge elettorale maggioritaria. «Ora sembra il contrario: un referendum che apre la strada ad una valanga giudiziaria». E se all’inizio degli anni ‘90 lo tsunami di Tangentopoli aiutò ad affermarsi «un nuovo ordine mondiale monopolare, in piena espansione finanziaria e con classi dirigenti che godevano di un sufficiente (se non ampio) consenso popolare», oggi è l’esatto contrario: «L’ordine mondiale monopolare è franato, ma non è stato sostituito da un diverso ordine mondiale multipolare».