Archivio del Tag ‘Luigi Di Maio’
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L’ipocrita Di Maio e la sua cravatta, che resta alla Farnesina
Una smentita è una notizia data due volte; Luigi di Maio lo sa, e affermando a mezzo stampa che col termine “pugnalatore” non si riferisse minimamente ad Alessandro di Battista, ha voluto inviare un messaggio agli attivisti, “Di Battista uguale cattivo”, ed a lui: “Ti distruggo, stai attento”. Purtroppo per Di Maio, credo che a nessuna persona matura sia sfuggito che l’attuale ministro degli esteri si sia mosso concretizzando una vendicativa ed infantile scenata (la “rabbietta”), tipica di quei bimbi a cui per troppo tempo sono state date tutte le attenzioni! “Il partito è mio e ora parlo male di te e ti metto gli altri bimbi contro”; mi si perdoni l’ironia, ma penso che a questi livelli la cosa politica non fosse mai scesa Oddio, riguardo il volgo cui si rivolge Di Maio, non parlerei nemmeno di “attivisti”, perché uno dei risultati del biennio di Luigi è che, sul territorio, di veri attivisti non se ne vedono più; nessuno si riunisce più e sono rimasti solo gli amici degli amici, per cui è meglio definirli “aspiranti poltronai”. Il ministro degli esteri ha ricordato quelle strategie che i sedicenti progressisti (Pd, Leu) mettono in pratica, capillarmente, quando si fanno le scarpe tra di loro (anche nei posti di lavoro, come i lettori sapranno), ma in una forma più imbarazzante e prepuberale o, al massimo, adolescenziale.
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Usa e Israele ricattano l’Italia, pavida e disonesta con l’Iran
Dilaga la disonestà intellettuale. Per avventura ho partecipato a una trasmissione televisiva dove un invitato e la conduttrice non sapevano niente di Iran e delle sanzioni imposte dagli Usa alla Repubblica islamica, distorcendo i fatti e la realtà. In onda si perde tempo a correggere errori marchiani di gente che per ignoranza o evidenti motivi ideologici – demonizzare l’Iran e sostenere Usa e Israele – non sa neppure la sequenza degli eventi. È la propaganda del nostro regime mediatico, asservito a Washington e a Israele, sostenuto dai cosiddetti sovranisti con la complicità di una sinistra ufficiale inesistente. Soprattutto adesso che l’Europa – con Gran Bretagna, Francia e Germania – contesta agli iraniani la violazione dell’accordo sul nucleare del 2015 in seguito alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio che è seguita all’uccisione da parte di Trump del generale Qassem Soleimani. Riepiloghiamo i fatti. L’accordo, un trattato internazionale supervisionato dall’Onu, entra in vigore alla fine del 2015 e con molte difficoltà l’Iran rientra nel circuito degli scambi internazionali. In realtà neppure con Obama era facile: le banche occidentali erano costantemente bersaglio del Tesoro americano se aprivano linee di credito con Teheran.L’Italia che aveva 30 miliardi di euro di commesse con l’Iran dovette rinegoziare con il governo iraniano arrivando a un accordo per una linea di credito da 5 miliardi di euro, che doveva coprire le nostre esportazioni. Il governo Gentiloni aspettò la vigilia delle elezioni nel 2018 e non fece mai il decreto attuativo perché messo sotto pressione di Usa e Israele. Così abbiamo perso altri soldi e posti di lavoro. Nel 2018 Trump straccia l’accordo sul nucleare ma per un anno l’Iran non vìola nessuna delle regole del trattato e non arricchisce l’uranio. Il governo del moderato Hassan Rohani, tenendo a freno i falchi del regime, aspettava che l’Europa mettesse a punto un sistema, definito Instex, per l’aggiramento delle sanzioni. A questo sistema, voluto da Gran Bretagna, Francia e Germania, aderiscono oggi sei nazioni europee ma l’Italia non vi partecipa ancora. Ufficialmente perché lo sta studiando, in realtà in quanto ha subito nuove pressioni americane e israeliane, anche da parte dei sovranisti della Lega che al governo con i Cinquestelle sostenevano soprattutto Israele e non gli interessi nazionali. I Cinquestelle, prima ancora della rottura con la Lega, hanno adottato le stesse posizioni con Conte e Di Maio nonostante una parte del movimento fosse contrario.Il sistema Instex comunque non ha ancora funzionato e il governo iraniano si è così trovato strangolato da continue sanzioni: ecco perché Teheran, sotto attacco di Trump, ha ripreso l’arricchimento dell’uranio. Il presidente americano continua falsamente a dire di essere pronto a negoziare una nuova intesa con Teheran che comprenda anche i missili balistici, non solo il nucleare. Ma invece di incoraggiare il negoziato prima fa assassinare il vero numero 2 del regime poi impone altre sanzioni giugulatorie. Trump non vuole negoziare con Teheran ma strangolarla, e spingere se possibile verso un cambio di regime sfruttando le piazze e le laceranti divisioni interne. Senza naturalmente sapere bene chi mettere al posto degli ayatollah, magari aprendo altre voragini come è accaduto in Iraq o in Libia o come stava per accadere in Siria. È parso evidente che Trump in Medio Oriente ha a cuore soltanto le sorti di Israele e quelle dell’Arabia Saudita, il suo maggiore cliente di armi. Il prossimo G-20 a Riad sancirà la piena assoluzione del principe ereditario Mohammed bin Salman, mandante, anche secondo la Cia, dell’assassinio del giornalista Jamaal Kashoggi.In questo ultimo anno Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana di Gerusalemme e del Golan e sarebbe pronto a farlo anche per la Cisgiordania: contro tutte le risoluzioni Onu. Trump odia i trattati multilaterali e la legalità internazionale: li considera un impedimento all’uso della forza. Gli europei devono stare bene attenti. Ora Trump bastona arabi e iraniani, poi toccherà anche a noi europei. Anzi ha già iniziato, praticamente sciogliendo la vecchia Nato e consentendo a un suo membro, la Turchia, di acquistare armi dalla Russia, di fare una strage di curdi siriani, i nostri maggiori alleati contro il terrorismo e l’Isis, e di tentare l’avventura libica con soldati e mercenari jihadisti. La Nato gli serve soltanto per mettere i soldati italiani ed europei al posto dei marines in Iraq se gli americani se ne dovessero andare o ridurre le truppe: carne da cannone per avere mano libera nei raid con i droni. Ma la cieca propaganda dei media italiani e in parte europei fa sì che andremo al macello senza lamentarci. Non come agnelli sacrificali di biblica memoria ma come asini felici di essere bastonati. Anzi, meno ancora degli asini, perché ogni tanto pure loro si ribellano e mollano quale calcione. E i media dietro, a tirare il carro della propaganda. Che stampa, bellezza!(Alberto Negri, “Sull’Iran dilaga la disonestà intellettuale”, dal “Manifesto” del 17 gennaio 2020; articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).Dilaga la disonestà intellettuale. Per avventura ho partecipato a una trasmissione televisiva dove un invitato e la conduttrice non sapevano niente di Iran e delle sanzioni imposte dagli Usa alla Repubblica islamica, distorcendo i fatti e la realtà. In onda si perde tempo a correggere errori marchiani di gente che per ignoranza o evidenti motivi ideologici – demonizzare l’Iran e sostenere Usa e Israele – non sa neppure la sequenza degli eventi. È la propaganda del nostro regime mediatico, asservito a Washington e a Israele, sostenuto dai cosiddetti sovranisti con la complicità di una sinistra ufficiale inesistente. Soprattutto adesso che l’Europa – con Gran Bretagna, Francia e Germania – contesta agli iraniani la violazione dell’accordo sul nucleare del 2015 in seguito alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio che è seguita all’uccisione da parte di Trump del generale Qassem Soleimani. Riepiloghiamo i fatti. L’accordo, un trattato internazionale supervisionato dall’Onu, entra in vigore alla fine del 2015 e con molte difficoltà l’Iran rientra nel circuito degli scambi internazionali. In realtà neppure con Obama era facile: le banche occidentali erano costantemente bersaglio del Tesoro americano se aprivano linee di credito con Teheran.
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Di Maio e Grillo, al capolinea la grande farsa dei 5 Stelle
La notizia, in fondo, è che faccia notizia l’harakiri di Di Maio alla vigilia delle regionali emiliane e calabresi. Era il 27 maggio 2018: chiederemo l’impeachment per Mattarella, tuonava il cosiddetto capo politico dei 5 Stelle. Già l’indomani tornava sui suoi passi, preparandosi a salire a testa china al Quirinale, ingoiato in sole 24 ore il “niet” presidenziale sulla nomina strategica di Paolo Savona al dicastero dell’economia. Due anni prima, i 5 Stelle avevano tentato – a freddo, senza preavviso né spiegazioni – il clamoroso trasloco, a Strasburgo, nel gruppo europarlamentare dell’Alde, quello dei pasdaran ultra-euristi, amici di Mario Monti. L’abbaglio pentastellato si era già palesato in tutto il suo fulgore: un grandioso equivoco da 9 milioni di voti, in un’Italia stremata dalla finta alternanza tra berlusconiani e antiberlusconiani, tutti strettamente devoti alle direttive austeritarie del neoliberismo eurocratico e privatizzatore. Il ciclone Grillo si era abbattuto in modo spettacolare sulla palude italica, promettendo una rivoluzione nella governance. Ora Grillo (lo stesso che nel 2016 tentò di associare i pentastellati ai fanatici guardiani dell’euro) è l’uomo che ha imposto ai suoi sudditi l’alleanza sfacciata con il loro nemico storico, il Pd, il “partito del potere” contro cui si era gonfiato il consenso incautamente attribuito al MoVimento.L’eredità elettorale di Grillo è stata largamente acquisita da Matteo Salvini, che negli ultimi anni ha cavalcato l’onda contestataria dei 5 Stelle, facendo proprie molte delle parole d’ordine grilline. Esattamente come fino a ieri i pentastellati, Salvini – ora all’opposizione – può insistere nell’invocare un rovesciamento sostanziale della filosofia di governo, nel segno del recupero della sovranità italiana. E, proprio come i suoi ex sodali gialloverdi, nemmeno Salvini offre soluzioni praticabili, fondate su parole nette e su un disegno politico credibile, preciso e sostanziale. Non a caso, l’ex vicepremier leghista ha tirato a campare per un anno intero, insieme al suo socio grillino, senza nulla osare: il “governo del cambiamento”, infatti, non ha cambiato di una virgola le avvilenti condizioni della sudditanza italiana rispetto ai poteri forti che gestiscono privatisticamente l’Unione Europea, dentro il grande “frame” del neoliberismo universale dove lo Stato – ridotto in bolletta e ricattato dai “mercati” col giochino dello spread – viene neutralizzato come motore economico e ridotto al ruolo di spietato esattore. A differenza dei 5 Stelle, almeno Salvini si era impegnato sul fronte dell’alleggerimento fiscale: ma, proprio come i suoi ex compagni di viaggio, senza mai entrare davvero nel merito. Tante chiacchiere sulla Flat Tax di Armando Siri, ma mai una spiegazione su come trasformarla in realtà.In altre parole, il salvinismo barricadero edizione 2020, recitato comodamente dall’opposizione, ricorda in modo sinistro le roboanti promesse dei 5 Stelle alla vigilia del loro storico esordio al governo del paese. S’è visto come i grillini abbiano prontamente tradito tutti gli elettori, nel modo più sconcertante: Tap e Tav, vaccini, Ilva, armamenti, trivelle, euro e banche. Velo pietoso sullo sbandieratissimo reddito di cittadinanza, micro-elemosina vincolata a stringenti condizionalità. Inevitabile, peraltro, avendo evitato di affrontare il problema dei problemi: la liquidità a disposizione dello Stato per poter dispiegare vere politiche utili al paese, detassazioni e investimenti di lungo respiro. Sul Grande Nulla degli imbarazzanti 5 Stelle ha imperato solo e sempre il misterioso Grillo, giunto a umiliare Di Maio tentando di fargli credere di avere davvero il potere di decidere qualcosa. Il fatto che oggi Di Maio getti finalmente la spugna, aumentando ulteriormente il caos generale che regna tra i grillini, non dovrebbe avere la minima importanza per chi osserva lucidamente la politica italiana, i devastanti problemi del paese e l’assenza cosmica di soluzioni sul tappeto, da parte di tutti gli attori attualmente sulla scena.La notizia, in fondo, è che faccia notizia l’harakiri di Di Maio alla vigilia delle regionali emiliane e calabresi. Era il 27 maggio 2018: chiederemo l’impeachment per Mattarella, tuonava il cosiddetto capo politico dei 5 Stelle. Già l’indomani tornava sui suoi passi, preparandosi a salire a testa china al Quirinale, ingoiato in sole 24 ore il “niet” presidenziale sulla nomina strategica di Paolo Savona al dicastero dell’economia. Due anni prima, i 5 Stelle avevano tentato – a freddo, senza preavviso né spiegazioni – il clamoroso trasloco, a Strasburgo, nel gruppo europarlamentare dell’Alde, quello dei pasdaran ultra-euristi, amici di Mario Monti. L’abbaglio pentastellato si era già palesato in tutto il suo fulgore: un grandioso equivoco da 9 milioni di voti, in un’Italia stremata dalla finta alternanza tra berlusconiani e antiberlusconiani, tutti strettamente devoti alle direttive austeritarie del neoliberismo eurocratico e privatizzatore. Il ciclone Grillo si era abbattuto in modo spettacolare sulla palude italica, promettendo una rivoluzione nella governance. Ora Grillo (lo stesso che nel 2016 tentò di associare i pentastellati ai fanatici guardiani dell’euro) è l’uomo che ha imposto ai suoi sudditi l’alleanza sfacciata con il loro nemico storico, il Pd, il “partito del potere” contro cui si era gonfiato il consenso incautamente attribuito al MoVimento.
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La Cupola ha in mano il governo. Ma l’alternativa dov’è?
Ma davvero vi aspettavate che la Corte costituzionale desse il via libera al referendum promosso dalla Lega? Ma in che mondo vivete, conoscete le biografie dei giudici costituzionali, chi li ha voluti lì, e più in generale conoscete le leggi inesorabili del potere, il loro reciproco sostegno? E la stessa cosa vale per la decisione della Cassazione in merito alla questione Carola Rackete; pensavate davvero che accadesse il contrario? Per anni siamo stati abituati a considerare chi è al potere come la Casta. È tempo di fare un salto di qualità e considerare che il potere è oggi piuttosto la Cupola. La casta riguardava solo i privilegi, la Cupola è un assetto di potere interdipendente e non espugnabile in modo fortuito. La cupola è una struttura sovrastante che non accetta né immissioni di estranei, né circolazione delle classi dirigenti, né il minimo cedimento dei suoi assetti consolidati. I suoi metodi e i suoi scopi sono finalizzati alla pura conservazione del potere, allo scambio di favori tra poteri, all’associazione di scopo finalizzata al reciproco sostegno. Quello che il popolino al sud sintetizzava nella formula “mantienimi-che-ti-mantengo”, ossia uno regge l’altro ed ambedue impediscono l’accesso di estranei, outsider.
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Magaldi: bravo Salvini, si fa processare sfidando gli ipocriti
Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di fermare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato vent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.In video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi chiarisce la sua posizione: per i politici (almeno, fin che sono in carica) è necessaria la tutela dell’immunità parlamentare assicurata nel modo più forte, anche per salvaguardare la piena dignità della funzione politica. Quanto a Salvini, ben venga il salto di qualità della sua condotta: fino a ieri, di fronte ad analoghe contestazioni (nave Diciotti), il capo della Lega era passato dall’ostentare tranquillità al quasi-implorare l’immunità, fino a essere “salvato” da Conte e Di Maio. Oggi, con il quadro parlamentare ribaltato e i 5 Stelle al governo col Pd, il no” agli sbarchi diventa materia giudiziaria: un pretesto per cercare di indebolire il nuovo leader dell’opposizione. Eloquente il parere di Zingaretti, secondo cui Salvini (che starebbe esasperando la vicenda) agirebbe «per motivi personali». Il che la dice lunga sulla perdurante ipocrisia di un Pd che, in fondo, è l’erede diretto di quella “casta di maggiordomi” che accettò senza condizioni il vincolo esterno dell’Ue, pur di sedersi al governo dopo il crollo (giudiziario) della Prima Repubblica. Un Pd senza idee né identità, che strizza l’occhio al neo-ambientalismo propagandistico di Greta e all’imbarazzante exploit delle Sardine, che pretendono di imbavagliare i ministri negando loro accesso a Twitter.Salvini tira dritto: vuole andare a processo per la Gregoretti (spiazzando anche la Meloni e Forza Italia) e intanto si protegge le spalle omaggiando Trump e Netanyahu: clamoroso l’applauso del leghista per l’uccisione americana del generale iraniano Qasem Soleimani, temuto da Israele. E a proposito: Salvini è tornato sul tema mediorientale, tifando per la promozione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, dopo aver equiparato l’antisemitismo alle critiche al sionismo. In un recente convegno alla presenza dell’ambasciatore israeliano in Italia, l’ex vicepremier si è rammaricato dell’assenza di Liliana Segre: «Lei avrebbe tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha aggiunto, attaccando la “capitana” della Sea Watch che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Il fatto che una tragedia come la Shoah venga costretta a galleggiare nello stesso mare in cui nuotano i migranti descrive bene il tenore della speculazione politica corrente, mentre l’Italia perde i pezzi: vessato dalla Commissione Europea, il Belpaese non riesce a risolvere nessuna delle sue crisi industriali, e in più assiste impotente anche alla perdita della Libia, ormai “appaltata” al duopolio russo-turco senza che il fantasmatico Conte-bis riesca a battere un colpo per dimostrare di esistere.«Salvini sta studiando», disse Magaldi la scorsa estate, dopo la diserzione del Papeete e la fine del governo gialloverde, clamorosamente rimpiazzato da quello giallorosso. Per i detrattori (e i grandi media), si trattò di un autogoal: il capo della Lega sperava nelle elezioni anticipate, mai si sarebbe aspettato che i 5 Stelle si stringessero al Pd – e a Renzi – per giunta mantenendo Conte a Palazzo Chigi. Salvini fornisce una versione diversa: gli sarebbe stato impossibile giustificare ancora, presso l’elettorato leghista, un governo senza risultati. Non solo la problematica autonomia regionale per il Nord-Est, ma soprattutto il miraggio della Flat Tax, o comunque il sollievo fiscale promesso da Armando Siri. Ai gialloverdi, leghisti inclusi, Magaldi non ha mai fatto sconti: «Bravissimi ad abbaiare contro Bruxelles, e altrettanto bravi a prendere ceffoni, tornando a Roma con le pive nel sacco e senza neppure la magra consolazione del 2,4% di deficit». Erano i tempi in cui il campione sovranista Salvini flirtava con Marine Le Pen e l’ungherese Orban, insieme all’intero cartello di Visegrad ostile alle frontiere aperte. Poi è arrivata la bombetta-Moscopoli, con i silenzi imbarazzati sulla presenza di Savoini al Metropol, intercettato (da quale servizio segreto?) mentre discuteva di forniture energetiche, non si sa a che titolo, con oligarchi russi.Nella conversione atlantista di Salvini, peraltro anticipata già nella visita in Israele lo scorso anno, Magaldi vede il bicchiere mezzo pieno: «Salvini si sta schierando, dopo esser stato tacciato di essere inaffidabile in quanto filo-russo». Per la precisione, si sta allineando a Trump e Netanyahu. Magaldi apprezza: «Sono a favore della creazione di uno Stato palestinese e denuncio gli abusi della politica israeliana», premette, non senza aggiungere: «Israele resta pur sempre l’unica democrazia dell’area: se si vuole la pace, è più facile partire proprio dagli elementi israeliani progressisti, piuttosto che dai paesi – tutti autoritari – che circondano lo Stato ebraico». E cita il coraggioso tentativo di Yitzhak Rabin, «massone progressista» assassinato nel ‘95 da un colono ultra-sionista per aver tentato, davvero, di stringere una pace storica coi palestinesi. Nulla di simile è oggi all’orizzonte: era ancora vivo Arafat quando la scelta della pace fu pagata, dall’Olp, con la secessione di Gaza, finita sotto il controllo di Hamas, «una formazione fondamentalista sciita, vicina all’Iran, che nega tuttora a Israele il diritto di esistere». Mala tempora currunt: Medio Oriente nel caos, Libia contesa da potenze lontane dall’Ue, Europa inesistente, Italia paralizzata da una crisi che sembra senza vie d’uscita. E in mezzo a questo disastro, l’impresentabile Pd pretende di crocifiggere Salvini, per via giudiziaria, con il pretesto dell’opposizione agli sbarchi?A far salire la temperatura, ovviamente, sono le imminenti regionali in Emilia Romagna: una lunghissima campagna elettorale, punteggiata dai comizi casa per casa dell’onnipresente Salvini, cui si oppone – agitando addirittura l’antifascismo – l’ambigua ciurma delle Sardine prodiane. Per Magaldi, sono tappe della guerra tattica che, dietro le quinte, vede contrapposti due supermassoni occulti, «il “fratello” Romano Prodi e il “fratello” Mario Draghi, entrambi proiettati verso la conquista del Quirinale, dopo Mattarella». Quanto all’Emilia, si tratta di una Regione «ben governata dall’uscente Stefano Bonaccini». Se dovesse perdere, però, non sarebbe una tragedia: «E’ inconcepibile – dice Magaldi – la pretesa di mantenere al potere sempre la stessa parte politica, ininterrottamente, per mezzo secolo: non bisogna avere paura dell’alternanza, che è il sale della democrazia, e questo dovrebbe valere anche per la Lega». Nel frattempo, resta comunque inevasa la questione di fondo: «L’Italia – sintetizza Magaldi – ha bisogno di un cambio radicale nella governance dell’Ue, ottenendo il via libera a investimenti per 200 miliardi non computabili nel deficit. C’è un paese da ricostruire, facendolo uscire dall’incubo artificiale dell’austerity, progettata da un’élite reazionaria di cui sia Draghi che Prodi sono stati al servizio, con la differenza che oggi Draghi si dice pentito del suo operato, mentre Prodi se ne guarda bene».Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di neutralizzare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato trent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite, ai tempi in cui la Lega Nord, in Parlamento, agitava il cappio. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.
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Carpeoro: Craxi ucciso dai nostri nemici, complici gli italiani
Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” l’Italia, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».Avvocato per trent’anni, Carpeoro (Pecoraro, all’anagrafe) – massone, simbologo, saggista e romanziere – era cresciuto tra i giovani socialisti calabresi alla corte di Giacomo Mancini. A Milano, aveva seguito Bobo Craxi e ricoperto vari incarichi nel Psi. Poi, tra lui e il leader socialista c’erano stati dissapori, quando a Carlo Tognoli fu preferito Paolo Pilliteri come sindaco milanese: «Il problema, con Bettino, era che non accettava che gli si desse torto, né in pubblico né in privato». Si riconciliariono in piena tempesta Mani Pulite: «Gli scrissi, apprezzò le mie parole. Poi, quando riparò ad Hammamet, andai a trovarlo due volte». Beninteso: «Craxi non è semplicemente morto: è stato ucciso», sottolinea Carpeoro, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. L’accusa: gli fu impedito di essere curato in modo adeguato, in Italia, senza venire arrestato. Era piagato dal diabete, insidiato da un tumore. E Craxi preferì morire, piuttosto che affrontare il carcere. In un suo libro appena uscito, Fabio Martini ricorda: l’allora premier Massimo D’Alema chiese al procuratore Francesco Saverio Borrelli di attivare una procedura umanitaria, in modo che Craxi potesse essere operato a Milano, da uomo libero. Ma Borrelli rifiutò. A quel punto, D’Alema avrebbe potuto emanare un decreto, ma non osò farlo. E Craxi, poco dopo, morì. «In carcere, sarebbe sopravvissuto tre giorni», dice Carpeoro: «E per impedirgli di dire la sua, comunque, gli avevano minacciato i figli».Rivelazioni clamorose, anticipate da Carpeoro nel 2015 durante una conferenza dell’associazione “Salus Bellatrix” di Vittorio Veneto, guidata da Francesca Salvador. «Perché Craxi non si difese a viso aperto, contrattaccando, visto che si sentiva vittima di un complotto? Ci aveva provato, contattando Paolo Mieli, Giovanni Minoli e Giancarlo Santalmassi, cioè il “Corriere” e la televisione. Ma quella sera stessa lo raggiunse un avvertimento anonimo e minaccioso all’hotel Raphael, dove alloggiava a Roma». Messaggio esplicito: attento, se parli colpiremo i tuoi figli. «Nel giro di poche ore lo chiamarono Bobo e Stefania: lui aveva trovato la sua casa messa a soqquadro, mentre a lei avevano anche preso i vestiti dagli armadi e glieli avevano bruciati sul terrazzo». I figli erano spaventati, il padre pure: i responsabili della sicurezza di Craxi gli dissero che si trattava di minacce credibili, pericolose. Al che, continua Carpeoro, Bettino rinunciò alle interviste-bomba e passò al Piano-B: «Chiamò l’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, e lo incaricò di mediare coi giudici di Milano». L’offerta: siate “morbidi”, e io lascerò l’Italia. Detto fatto: «In molti notarono l’anomala mitezza di Di Pietro nell’interrogatorio di Craxi». Era il segnale atteso: Craxi lasciò il paese da uomo libero, come pattuito. «La Tunisia, l’estradizione non l’avrebbe mai concessa. Ma l’Italia non l’ha comunque mai chiesta».Ipocrisie colossali? E non è tutto: «Nell’archivio del tribunale di Milano – aggiunge Carpeoro – c’è una stanza inaccessibile dove sono tuttora tenuti sotto chiave i dossier riguardanti 6 anni di indagini condotte prima che si venisse a sapere di Mani Pulite». Indagini-fantasma? «A quanto pare, condotte con metodi non legali», cioè senza avvertire gli indagati. «Me ne parlò direttamente un magistrato», dichiara Carpeoro. «Riferii subito la cosa a Bettino, ma decise di non fare nulla: sottovalutò il pericolo. Io comunque sono pronto a testimoniare in aula, se si apre un’inchiesta su questo». Si riaprirà? Carpeoro ne dubita: «Troppi poteri forti non vogliono che se ne parli: dovranno passare altri dieci anni, prima che questo capitolo si possa riaprire». Ancora tanti, i protagonisti in circolazione. L’ex giustiziere Di Pietro? «Una figura interamente costruita per affondare l’Italia colpendo Craxi. Ogni giorno era a colazione con il console americano: al punto che, per l’imbarazzo, gli Usa furono costretti a liberarsi di quel diplomatico». Bruciava ancora la notte di Sigonella: quale altro leader europeo aveva mai osato far circondare i marines dalla propria polizia, per proteggere un commando palestinese? Gli americani volevano Abu Abbas, inviato da Arafat per risolvere la crisi della nave da crociera Achille Lauro. Craxi lo difese, in nome della sovranità nazionale, pagando per questo un prezzo altissimo.«Quello che i cialtroni della nostra carta stampata continuano a non dire, e a far finta di non sapere – aggiunge Carpeoro – è che l’unica vittima dei sequestratori della nave, l’anziano paralitico Lion Klinghoffer, non era solo un pensionato ebreo con passaporto statunitense: era anche e soprattutto un alto esponente del B’nai B’rith», l’esclusiva massoneria ebraica che rappresenta il nerbo del Mossad, che in quegli anni si era reso responsabile di azioni sanguinose contro i palestinesi. Era il 1985: l’Italia, quinta potenza industriale del mondo, aveva ancora una politica estera (oltre che un vero governo). Bel problema: andava “risolto”. Aldo Moro era stato “sistemato” come sappiamo, dopo esser stato minacciato di morte da Henry Kissinger. Un anno dopo Sigonella, i killer colpirono Olof Palme a Stoccolma: «Era il leader carismatico dei socialisti europei», ricorda Carpeoro: «Lui vivo, non sarebbero mai riusciti a fare questo aborto di Ue». Per un po’ resistette la Francia, «ma lo stesso Mitterrand fu messo fuori gioco». Restava Craxi, e si sa com’è finita. «Se ti metti contro certi poteri, devi solo sperare di vincere», aggiunge Carpeoro: «Sai già in partenza che, se perdi, poi finisci ad Hammanet. E infine muori, assassinato – di fatto – dai nemici del tuo paese, e con la complicità dei tuoi stessi concittadini, che il potere ha messo contro di te».Carpeoro non fa sconti, agli italiani: si sono lasciati manipolare, come i topolini dal pifferaio di Hameln. Solo oggi, vent’anni dopo, molti di loro aprono gli occhi. «Craxi aveva un progetto ben preciso: voleva un’Europa unita, ma governata dai socialisti». Era stata la dottrina di Olof Palme: «Tagliare le unghie al capitalismo, frenarne gli eccessi». Peccato che il potere, in programma, avesse ben altro: neoliberismo assoluto e “totalitario”, svuotamento della democrazia e sottomissione della politica. Tagli alla spesa, crollo della classe media, rigore fiscale, mortificazione dell’economia reale a favore delle grandi concentrazioni finanziarie. In altre parole, l’attuale Disunione Europea: «Profetiche, in questo senso, le invettive di Craxi da Hammamet di fronte all’avvento dell’euro: ma ormai era un leader screditato in ogni modo, esiliato, latitante». Si era battuto per l’Italia, senza che gli italiani se ne accorgessero. La fine della scala mobile? Per Carpeoro, una concessione tattica al sistema. Il “serpente monetario” Sme? Una vittoria craxiana: uno stratagemma per proteggere la lira dalle speculazioni dei Soros. Dopo di lui, il diluvio: privaizzazioni selvagge, fine dello Stato. Oggi l’Italia è in ginocchio, col cappello in mano a mendicare elemosine a Bruxelles, e senza uno straccio di progetto politico – e men che meno, di statista – in grado di disegnare un futuro diverso.Ha stravinto il peggior potere, il neoliberismo finanziario che ci ha imposto l’austerity come dogma religioso. E l’Italia l’ha messa nel sacco nel solito modo, cooptando italiani “collaborazionisti”. «Siamo un paese così, fin dal Rinascimento: pur di sconfiggere la signoria rivale, ci si allea con gli stranieri». Ben lieti, i baroni dell’ex Pci, di accettare il “vincolo esterno” imposto dall’Ue alla politica italiana: caduta la Prima Repubblica arrivarono finalmente al governo, ma a patto di obbedire agli ordini della sovragestione internazionale. «Craxi fu tolto di mezzo perché, esattamente come Moro, una cosa simile non l’avrebbe mai accettata. Non c’era modo di piegarlo: bisognava eliminarlo». Il suo grande errore? «Si fidava degli italiani: immaginava che prima o poi capissero che lavorava per loro». E invece, gli hanno dato del ladro. Non cambiarono idea neppure il giorno che nessun parlamentare alzò la mano per contestarlo, quando in Parlamento chiese: qualcuno può dire di non aver mai percepito finanziamenti politici illegali? «Si evita sempre di ricordare che, in assenza di una legge adeguata per coprire i costi della politica, la Dc fu finanziata per decenni dagli Usa, e il Pci dall’Urss». Ma il ladro era “Bottino” Craxi, come lo chiama Travaglio, anche se persino Borrelli – prima di morire – si è domandato se Mani Pulite non abbia finito per favorire i grandi poteri che volevano depredare l’Italia.«E’ vero che i soldi servivano a finanziare il partito, ma qualcosa restava attaccato alle dita», dice a Craxi un personaggio del film “Hammamet”. «Di sicuro – replica Carpeoro – le dita non erano quelle di Craxi, che per sé non hai preteso una lira: del suo famoso “tesoro”, solo immaginario, non c’è traccia». Aveva tollerato personaggi discutibili, nel Psi? «Certo, ma era inevitabile: se avesse tagliato anche quelli, avrebbe dimezzato i voti. E il suo grande cruccio è sempre stato quello di non essere riuscito a superare il 15%. Già così, comunque, dava fastidio sia alla Dc che al Pci, che avrebbero preferito fingere in eterno di combattarsi, continuando a spartirsi il potere sottobanco in modo consociativo». Cos’è mancato, a Craxi? Gli italiani: il consenso del paese, nonostante gli enormi successi economici. «E il bello è che la parola “socialismo” riscuoteva generale simpatia». Il maggior merito di Craxi? «Aver sgombrato il campo, una volta per tutte, dalla lotta di classe: l’idea di poter raggiungere un socialismo vero con le riforme, cioè senza la violenza di una rivoluzione». Riforme per il popolo, non contro il popolo (come quelle neoliberiste). E com’è che il potenziale campione diventa un nemico pubblico? Pensiero magico: la fabbricazione dell’Uomo Nero. Carpeoro ne fa una teoria argomentata: si educa la gente a votare “contro”, se si vuole distruggere un paese. Caduto un avversario, eccone un altro. L’importante è non costruire mai niente di buono. Ed eccoci qua, con Salvini e le Sardine, Conte e Di Maio. E l’Italia – o quel che ne resta – divorata in un sol boccone dal pescecane di turno.Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere in crescita stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” il Belpaese, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».
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La Lega non ha idee, chiede le elezioni ma spera resti Conte
Conte regnerà tranquillo e indisturbato, perché l’opposizione non c’è. Lega e Fratelli d’Italia? Sembrano scalpitare, ma sperano che non si voti: una volta al governo, non saprebbero cosa fare. Lo afferma Calogero Mannino, ex ministro Dc. La tesi: questo sperare nell’eterno rinnvio dimostra che non c’è un progetto politico per l’Italia. Da nessuna parte: né da Salvini, né dalla sedicente sinistra. «Lo spettro che si agita – avverte Mannino, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario” – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine». Attenti: sarà lo stesso schieramento che eleggerà il nuovo capo dello Stato, per di più con la benedizione di Trump, nuovo involontario garante dello status quo. Il Conte-bis nel frattempo non cade, sostiene Mannino, per via della crisi politica generale: in Parlamento «non c’è un’opposizione che metta la pseudo-maggioranza di governo di fronte alle proprie responsabilità». E la Lega, dunque? «Soffre della disabilitazione operata dal sistema mediatico e dalla convergenza para-politica “al lupo al lupo”. Ma è piuttosto una tigre di carta: ha timore di risultare eccessivamente aggressiva, e al tempo stesso ha una debolezza organica, un deficit di consistenza politica. Non è un partito, sta ancora sull’onda lunga della protesta leghista del ‘92».Se non è un partito, l’ex Carroccio che cos’è? «Uno spazio aperto – secondo Mannino – dove si è imposta la leadership di Salvini in ragione della sua esuberanza». Ma ecco il suo limite: «Salvini non ha né una strategia, né un progetto politico preciso». Quanto a Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia – annota Ferraù – oggi viene accreditata di simpatie atlantiche, indispensabili per andare al governo. «La coerenza con la quale pratica il verbo sovran-nazionalista la rende gradita al giro di Trump», conferma Mannino. Il vero problema è questo: molti osservatori – scrive Ferraù – cominciano a supporre che Salvini e Meloni non facciano vera opposizione perché, se domani andassero al governo, non saprebbero cosa fare. L’ex ministro democristiano conferma: devono “minacciare” di voler andare al governo, ma si augurano che la scadenza elettorale sia la più lontana possibile. La verità è che «temono di vincere», e così «offrono a questa maggioranza l’alibi-pretesto per rimanere in sella, peraltro ben utilizzato dal trasformismo di Conte». L’unico serio problema per la tenuta della maggioranza sembra dunque venire dalla possibile dissoluzione dei 5 Stelle? «Sembra, ma è un’eventualità lontana dai fatti», dice Mannino: «Ogni giorno si accentua la polemica, ma al momento decisivo Di Maio si guarda bene dal rompere, perché non ha alternativa al restare al governo».Oggi, sempre secondo Mannino, nella sostanza i 5 Stelle seguono la linea Grillo-Fico. Obiettivo? Controllare i grillini, una volta che saranno diventati «una corrente nel Pd». Niente male, come orizzonte: «Lo spettro che si agita – aggiunge Mannino – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine. Un rassemblement radicale di massa, con dentro la componente chic». A legittimare questo scenario, secondo Mannino è il ruolo del Pd: «Ha rinunciato anch’esso a essere un partito politico di garanzia democratica per porsi sul terreno movimentistico della resistenza alla Lega». In questa veste, il partito di Zingaretti «ha aperto in tutte le direzioni», in questo non si è accorto di una costante fondamentale: inseguendo i movimenti, i partiti spariscono. «Ogni superamento della forma-partito postula una cangiante versione del populismo», sostiene Mannino: «Anche Berlusconi fu un movimento populista: così si oppose all’armata partitica di brancaleoniana memoria assoldata nel 1994 da Achille Occhetto». Ci risiamo? «Assistiamo a qualcosa di simile nei maggiori paesi», dice Mannino. «I partiti pretendono di intercettare i movimenti, ma in questa operazione diventano instabili, mobili qual piuma al vento. Vale per Trump, per Spd e Cdu in Germania, per il Ps francese messo in crisi da Macron».Domanda Ferraù: sarà dunque questa legislatura a votare nel 2022 il nuovo capo dello Stato? «Al momento attuale – risponde l’ex ministro – questa legislatura è intatta e intangibile, quindi pronta per quella scadenza». E cosa pensare dello strano intreccio tra nuova ipotesi di proporzionale, referendum Calderoli per il maggioritario e referendum contro il taglio dei parlamentari? «Alla fine – afferma Mannino – nessuno vuole il proporzionale, tranne i più piccoli. Ma questi vorrebbero anche essere garantiti, e non potendo esserlo con il proporzionale, un sistema in parte maggioritario e in parte proporzionale come l’attuale rende loro possibile un’alleanza (a sinistra con il Pd, e a destra con la Lega)». La Consulta dirà se il referendum Calderoli è ammissibile. Intanto, Salvini e Meloni hanno detto sì al Mattarellum. Perché? «Siamo alle mosse tattiche: o facciamo la legge nuova insieme o insieme lasciamo l’attuale». Secondo Mannino, questo «significa che la filosofia dominante, nell’attuale confusione temporale e spaziale, è “hic manebimus optime”. Tutti ragionano così: mi tengo quello che ho e sto bene dove sono».Mannino non crede che in Italia possa irrompere un fattore imprevisto che possa mettere in discussione questo status quo, che «dipende dal superamento della linea strategica rooseveltiana che l’America ha costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale». E’ un fatto: «Oggi l’impero è in crisi e le province sono nel caos». Ovvero: «Gli Stati Uniti hanno organizzato l’impero per comparti. Uno è l’Europa: Italia, Francia e Germania facciano pure la Ceca, l’Euratom e tutto il resto, cioè l’Europa unita. Io – gli Usa – però ne dispongo, perché la Nato tiene l’Europa». Ed ecco l’effetto-Donald: «Il sovranismo confusionario di Trump, inserito come elemento di contraddizione nell’attuale sgretolamento dell’assetto politico mondiale, ha un risultato sorprendente: non è avversario dello status quo, ne diviene causa e condizione». Allora sarà Washington, ancora una volta, a dirci chi eleggere al Quirinale? «Assisteremo a un aggiustamento all’interno della maggioranza Pd-M5S», scommette Mattino. Tradotto: Conte al Colle e Zingaretti al governo? «Non riesco a seguire questo giochino di figurine», chiosa Mannino. «Vince chi soffia più forte».Conte regnerà tranquillo e indisturbato, perché l’opposizione non c’è. Lega e Fratelli d’Italia? Sembrano scalpitare, ma sperano che non si voti: una volta al governo, non saprebbero cosa fare. Lo afferma Calogero Mannino, ex ministro Dc. La tesi: questo sperare nell’eterno rinnvio dimostra che non c’è un progetto politico per l’Italia. Da nessuna parte: né da Salvini, né dalla sedicente sinistra. «Lo spettro che si agita – avverte Mannino, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario” – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine». Attenti: sarà lo stesso schieramento che eleggerà il nuovo capo dello Stato, per di più con la benedizione di Trump, nuovo involontario garante dello status quo. Il Conte-bis nel frattempo non cade, sostiene Mannino, per via della crisi politica generale: in Parlamento «non c’è un’opposizione che metta la pseudo-maggioranza di governo di fronte alle proprie responsabilità». E la Lega, dunque? «Soffre della disabilitazione operata dal sistema mediatico e dalla convergenza para-politica “al lupo al lupo”. Ma è piuttosto una tigre di carta: ha timore di risultare eccessivamente aggressiva, e al tempo stesso ha una debolezza organica, un deficit di consistenza politica. Non è un partito, sta ancora sull’onda lunga della protesta leghista del ‘92».
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Billi: Travaglio ha “normalizzato” i 5 Stelle, ora globalisti
Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.Qualche illuso continua ad aggrapparsi all’idea del “torniamo al M5S delle origini”: ebbene, questo è impossibile. Il M5S delle origini rappresentava una sintesi di posizioni possibile in tempo di pace, a globalismo imperante. Questo momento storico, piaccia o no, impone invece di schierarsi: pro, o contro. Succede ovunque, in tutti i paesi, in tutti i continenti, e il M5S non può pretendere di starsene fuori dalla storia per rimanere aggrappato a un purismo ultras partes che avrà sì rappresentato in passato un successo politico, ma che ormai non è più quello che gli stessi elettori chiedono. Per questo perde voti (#stacce, direbbero su Twitter). Il dibattito interno del M5S è completamente fuori sintonia: dito e luna, in due parole. Questo è ciò che succede quando ci si fa orientare la discussione dai giornali, d’altronde. Il “Fatto”, in primis, sta schiacciando l’acceleratore: mi spiace per Luca De Carolis, persona perbene e giornalista serio (uno dei pochi), ma il suo “scoop” su Di Maio contribuirà a dare il colpo di grazia al M5S e normalizzarlo nella direzione voluta dal potere, ovvero l’allineamento al paradigma dominante.Ma soprattutto, lo scopo di tutta l’operazione in corso da mesi è scongiurare il coagularsi di una formazione antiglobalista in Italia: quindi distruzione dell’anima M5S statalista, pro-lavoratori, contro l’arroganza Ue, della finanza, delle banche, le ingerenze e i ricatti delle potenze straniere, via insomma quell’anima ribelle che non avrebbe potuto fare altro che appunto ribellarsi alla prepotenza di un potere che, messo in discussione ovunque, vuole ora imporsi in modo più aggressivo che mai. Tutto il panorama politico italiano va normalizzato, e la scheggia imprevedibile messa sotto controllo (così come è ancora sotto controllo la Lega, tante volte qualcuno si illuda). Non si possono correre rischi di Gilet Gialli nelle strade o peggio, che spunti qualche leader alla Johnson in Parlamento… non che se ne intravedano all’orizzonte del M5S, ma non si sa mai. Di Maio, seppur moderatissimo (ahimé, e questo è il suo errore) dovrà essere asportato in quanto rappresentante del vecchio M5S incontrollabile, e sostituito con qualche figura dal carisma zingarettiano che assicuri la transizione verso la soporifera reincarnazione piddina. Conte il liquidatore farà il resto, come sta peraltro già attivamente facendo.(Debora Billi, “La normalizzazione globalista del M5S”, dalla pagina Facebook della Billi dell’11 gennaio 2020).Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.
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Casca il mondo, l’Italia sparisce. E nessuno dice la verità
“La guerra infinita”, “Il più grande crimine”, “Massoni”. Tre libri – italiani – senza precedenti nel mondo, quando uscirono. Nel primo, edito da Feltrinelli nel 2003, Giulietto Chiesa svelava la drammatica inconsistenza della versione ufficiale sull’11 Settembre, oggi conclamata: i tremila architetti e ingegneri dell’associazione 9/11 Thruth (e i pompieri di New York) dimostrano la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle, certo non abbattute da aerei dirottati. Otto anni dopo, archiviato l’inferno dell’Iraq e neutralizzato il supertestimone Julian Assange, di fronte alla crisi finanziaria globale e alla micidiale austerity europea è stato Paolo Barnard ad afferrare il torno per le corna, con un instant-book diffuso sul web e ora pubblicato da Andromeda: il golpe tecnocratico dell’Eurozona riletto in chiave criminologica, dalle sue premesse (la svendita dell’Italia affidata a Prodi e Draghi) fino all’estrema conseguenza del devastante “economicidio” eseguito da Monti. Infine, nel 2014, è stato il massone progressista Gioele Magaldi ad aggiungere una spiegazione decisiva, facendo luce sul missing link che separa la cronaca dalla verità del potere: il ruolo delle superlogge sovranazionali, presentate per la prima volta con nomi e cognomi.Che fine hanno fatto, questi tre autori che il mainstream continua a ignorare? Due di loro – Chiesa e Magaldi – presidiano canali di informazione critica, mentre il terzo (Barnard) ha abbandonato anche il web, deluso dall’immobilismo italiano: cittadini ipnotizzati da un’offerta politica demenziale o cialtrona, come quella dei 5 Stelle, e “leoni da tastiera” incapaci di strutturarsi in opinione pubblica militante, in grado di impegnarsi politicamente per cambiare qualcosa. Giulietto Chiesa è passato per l’esperimento deludente della “Lista del Popolo” con Antonio Ingroia e ora segue da vicino Vox Italia, la formazione di Diego Fusaro. Soprattutto, anima le trasmissioni web di “Pandora Tv” e quelle nuovissime di “Contro Tv”, emittente fondata con Massimo Mazzucco, il cui esplosivo documentario “11 Settembre, inganno globale” fu trasmesso in prima serata nel 2006 su Canale 5 da “Matrix”, talkshow allora condotto da Mentana. Magaldi, dal canto suo, ha fondato il Movimento Roosevelt, entità trasversale meta-partitica: missione, inoculare il virus del risveglio democratico nei partiti italiani. E’ anche tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, piattaforma politica keynesiana, e partecipa a trasmissioni web-tv sui canali YouTube di “Border Nights” che ospitano lo stesso Mazzucco.A che punto è la notte? Difficile dirlo, data la nebbia che avvolge l’Italia: buio pesto, là fuori. A Palazzo Chigi siede il prestanome Giuseppe Conte, ottimamente relazionato con il Vaticano (nel frattempo divenuto socio di Lapo Elkann tramite il fondo Centurion basato a Malta), mentre le cosiddette Sardine fanno la guerra all’opposizione ignorando le eroiche imprese del governo più imbarazzante di sempre, attorno a cui ronzano statisti del calibro di Renzi, Di Maio e Zingaretti. L’Italia nel frattempo cade a pezzi: il crollo del viadotto Morandi e l’oscena vicenda del Tav Torino-Lione ne emblematizzano il declino, causa morte civile della politica, insieme all’agonia dell’Ilva, all’ignobile silenzio ufficiale sulla rete 5G, alla scandalosa gestione dell’obbligo vaccinale che nel 2019, per la prima volta, ha escluso 130.000 bambini da nidi e asili. Nel frattempo, la Exor di John Elkann si compra “Repubblica” e “L’Espresso”, cede ai francesi il timone dell’ex Fiat e non concede alcuna garanzia sul futuro degli stabilimenti italiani. In compenso ne aprirà uno in Marocco e si prepara a intascare altri 136 milioni di euro, stavolta dal governo Conte (che dichiara guerra al contante e ai micro-evasori, mentre la Fca continua a pagare le tasse in Olanda anziché in Italia).Argomenti caldi, sui media: gli sbarchi dei migranti e il malvagio Salvini. In compenso si lascia credere che il mondo verrà salvato da Greta Thunberg, cioè dai mega-investitori planetari alle spalle della ragazzina, Goldman Sachs e BlackRock in testa, che si apprestano a riverniciare di “green” i fondi-pensione da vendere a centinaia di milioni di persone, una torta da oltre 100 trilioni di dollari. Riassunto delle puntate precedenti? Non disponibile: i media non se ne occupano. Magari pontificano sulle altrui “fake news” sorvolando sulle proprie, ma si sono ben guardati dal recensire “La guerra infinita”, “Il più grande crimine” e “Massoni”, tre volumi risultati preziosissimi per gli italiani desiderosi di capire almeno qualcosa dello smisurato caos nel quale sembra finito il mondo, senza più distinzione tra destra e sinistra, buoni e cattivi, progressisti e conservatori. Si è appena celebrato l’anniversario della caduta del Muro di Berlino: poteva essere l’anno zero, l’avvento dell’epoca di pace sognata da Gorbaciov? Errore: Wall Street si gettò subito sulla Russia per spolparla, mentre alla Cina fu permesso di entrare nel grande giro mondiale del Wto ma in modo selvaggio, senza tutele per gli operai e per l’ambiente. Risultato: globalizzazione feroce e lavoratori occidentali nei guai, alle prese con la sciagura delle delocalizzazioni e la competizione impossibile con prodotti a bassissimo costo.Riassume Barnard: fu l’avvocato Lewis Powell, nel lontano 1971, a dettare il vademecum con cui l’élite “feudale” si sarebbe ripresa il pianeta, privatizzandolo. Con il libraccio “La crisi della democrazia” (di Gianni Agnelli la prefazione all’edizione italiana), la Trilaterale di Kissinger e soci spiegò che “l’eccesso di democrazia” si cura solo tagliando la democrazia. In Europa, gli oligarchi crearono un’Unione Europea concepita come il Sacro Romano Impero, fatta di sudditi da ridurre all’obbedienza. Bersaglio numero uno: gli Stati, pericolosi “competitor” del grande capitale. Vittima illustre: la ricchissima Italia dell’economia mista, supportata dall’Iri. Utili leggende fabbricate dal neoliberismo: il debito pubblico come malattia, come colpa (come se il governo avesse dovuto prima “risparmiare”, per poter poi finanziare le infrastrutture strategiche che permisero all’Italia del boom economico di uscire dall’età della pietra in cui l’aveva sprofondata la guerra fascista). Ora siamo agli sgoccioli: dopo la cura Monti il paese è a pezzi, ma i partiti pensano alle poltrone (e le Sardine a Salvini). Nel frattempo, la guerra – quella che Gorbaciov avrebbe voluto cancellare dalla faccia della Terra – è ridiventata una prassi ordinaria, fisiologica, a cui non si fa più neppure caso. Afghanistan e Iraq, Yemen, Somalia, Libia e Siria. Normalissimo, spararsi addosso per conto terzi: gli americani con le portaerei, i russi con i missili.Spiega Chiesa: l’11 Settembre fu creato a tavolino come casus belli per attuare il Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano redatto dai neocon, i signori del Deep State. Guerra planetaria, per terremotare l’economia e ridare fiato agli Stati Uniti, la superpotenza con il maggior debito estero del globo. A peggiorare ulteriormente il quadro provvede Magaldi: quei signori erano e sono massoni, che militano nelle superlogge reazionarie (che, attenzione: sono diffuse in tutto il pianeta, reclutando politici di ogni grande paese). Riletta così, la geopolitica si riduce a una serie di spaventosi regolamenti di conti, a guerre per bande. L’11 Settembre? E’ stata l’abominevole trovata di una Ur-Lodge terroristica, la Hathor Pentalpha dei Bush, per accelerare – manu militari, con la guerra innescata dal terrorismo “false flag” – questa folle globalizzazione neoliberista e mercantile, questa guerra mondiale dei super-ricchi contro il resto del mondo. I cocci, ovviamente, ci stanno cadendo addosso. C’è il sangue del terrorismo “domestico”, targato Al-Qaeda e poi Isis, e c’è lo sfacelo delle economie nazionali, dove neppure il Pil corrisponde più al benessere medio: più cresce, e più la maggioranza soffre, data la forbice ormai mostruosa tra produttori e rendita finanziaria.Era il 2010 quando Barnard cominciò a diffondere il suo contro-Vangelo sulla dominazione dell’euro, la moneta “privatizzata” per schiavizzare il 99% degli europei. Rimase lettera morta il clamoroso meeeting di economia promosso nel 2012 a Rimini con le migliori menti finaziarie dell’economia keynesiana. Inutile anche il viaggio di Warren Mosler in Italia, i consigli dispensati al governo romano. Tesi elementare: se si recupera sovranità monetaria si può tornare a investire nel mercato interno, battendo la crisi creata dalla globalizzazione. E i media nazionali? Silenzio, su tutta la linea. Non c’è pericolo che ai vari Floris, Formigli e Gruber venga in mente di sfiorare l’argomento: mutismo assoluto, anche ora che persino sua maestà Mario Draghi ha osato evocare la Modern Money Theory di Mosler. Da “La guerra infinita” sono passati 16 anni. Chi ha letto anche “Il più grande crimine”, e poi “Massoni”, si domanderà cosa mai potrà scuotere i dormienti, oggi lobotomizzati da Facebook, Twitter e WhatsApp. Si apre il 2020, e l’oscurità è fittissima. Julian Assange resta in prigione, anche se 80 medici raccomandano che sia ricoverato, essendo in pericolo di vita. L’Italia è in via di estinzione anche in Libia, ma quel che importa sono le regionali in Emilia. Qualcuno spieghi alle Sardine che l’Italia era un grande paese: c’èra giusto bisogno di innocue e appetitose Sardine per finire di divorarlo in santa pace.“La guerra infinita”, “Il più grande crimine”, “Massoni”. Tre libri – italiani – senza precedenti nel mondo, quando uscirono. Nel primo, edito da Feltrinelli nel 2003, Giulietto Chiesa svelava la drammatica inconsistenza della versione ufficiale sull’11 Settembre, oggi conclamata: i tremila architetti e ingegneri dell’associazione 9/11 Thruth (e i pompieri di New York) dimostrano la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle, certo non abbattute da aerei dirottati. Otto anni dopo, archiviato l’inferno dell’Iraq e neutralizzato il supertestimone Julian Assange, di fronte alla crisi finanziaria globale e alla micidiale austerity europea è stato Paolo Barnard ad afferrare il torno per le corna, con un instant-book diffuso sul web e ora pubblicato da Andromeda: il golpe tecnocratico dell’Eurozona riletto in chiave criminologica, dalle sue premesse (la svendita dell’Italia affidata a Prodi e Draghi) fino all’estrema conseguenza del devastante “economicidio” eseguito da Monti. Infine, nel 2014, è stato il massone progressista Gioele Magaldi ad aggiungere una spiegazione decisiva, facendo luce sul missing link che separa la cronaca dalla verità del potere: il ruolo delle superlogge sovranazionali, presentate per la prima volta con nomi e cognomi.
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Un bell’oroscopo fai da te, in un questa Italia paranormale
Al prossimo che vi fa l’oroscopo minacciate di fargli la rettoscopia, con strumenti improvvisati. Così la smette. Non se ne può più di questi, e soprattutto queste, milioni di veggenti che non veggono un tubo ma si avventano sulla tua mano, sulla tua tazza di caffè, sui tuoi occhi e cercano di leggerti come sarà questo ventiventi. Ma fatevi gli astri vostri. Ti chiedono di che segno sei, se non lo sanno già, e cominciano a fare una previsione trionfale, invasiva e personalizzata, valevole per circa seicento milioni di viventi, ossia l’otto per cento dell’umanità, almeno se la dividiamo equamente per i dodici segni zodiacali. Questi oroscopi finto-personali, in realtà fondati sullo stoccaggio zodiacale, hanno la stessa affidabilità dei sorteggi. Fingono di conoscere i dettagli ma sono grossisti dell’astrologia. Cominciano a pontificare: voi leoni, voi tori e voi scorpioni… ma voi pappagalli che ne sapete? Denunciateli per razzismo, perché credono alla razza dei segni e discriminano sulla base delle etnie zodiacali. Questo non è un paese normale, ma paranormale, diffida delle leggi ma non degli oroscopi.Se siete esasperati da quest’ossessione degli oroscopi, in tv e sui giornali, nei salotti e nelle tavole, passate all’offensiva. In un primo tempo esibite l’articolo 231 del testo unico delle leggi di Pubblica sicurezza e recitate ai primi tentativi di veggenza: “Sotto la denominazione di mestiere di ciarlatano si comprende ogni attività diretta a speculare sull’altrui credulità o a sfruttare o alimentare l’altrui pregiudizio, come gli indovini, gli interpreti dei sogni, i cartomanti, coloro che esercitano giochi di sortilegio, incantesimi, esorcismi o millantano o affettano in pubblico grande arte… ecc.” Poi, per non essere pedanti, cambiate strategia. Così, anziché farvi abusare dalle veggenti e subire passivamente operazioni zodiacali alle vostre spalle, bruciate sul tempo le maghette e spacciatevi voi per grandi conoscitori di astri, influssi e ascendenti. Forte della mia carnagione tropicale, io per esempio mi sono spacciato per Fidel Astro, mago affidabile, come dice il nome, e competente, come indica il cognome. Un vero lìder maximo dell’astrologia. Predite l’anno che verrà ai meravigliati astanti e alle affascinate, azzodiacate ascoltatrici a cui offrite oroscopate indimenticabili.Gli ingredienti per un oroscopo di successo sono facili: partite dall’autostima sconfinata delle persone, considerateli speciali, e predite un anno eccezionale, ricco di eventi e novità. Poi alludete a qualche inevitabile travaglio, qualche trauma infantile e qualche aspettativa covata dentro di loro. Andate sul sicuro. Dite poi che qualcuno gli vuole male perché tutti sono convinti che c’è qualcuno che gliela tira e se una cosa non gli riesce è perché qualcuno gufa. Persino i più sfigati si sentono vittime dell’invidia mentre fanno solo pena. Ma aggiungete che lui è protetto in alto, alludendo ai suoi cari scomparsi, così si commuoverà pensando a nonna o a papà che sorveglia dall’alto dei cieli. Alludete poi a tensioni sul lavoro, a incomprensioni in famiglia e a un superiore che ce l’ha con lui. Coglierete comunque nel segno. E poi dite che deve avere più fiducia nelle sue doti, che deve esplicitare i suoi sentimenti, e non farsi mai scavalcare nelle file dai soliti furbi perchè questo è un popolo di furbi ma vittimisti, dal capricorno al sagittario.Poi sfiziatevi sull’amore, i tradimenti e i nuovi incontri, perché tutti li temono o li aspettano, e promettete soldi con l’anno nuovo, tanto voi non ci rimettete niente. E vaticinate una grande svolta dopo luglio: crea momentanea attesa ma poi se la scordano. Miscelate in modo diverso questi ingredienti con varianti più lessicali che sostanziali adattando l’oroscopo alla faccia e alla mente del fesso; vi prenderanno per mago. I più fessi chiederanno dopo la predizione anche la raccomandazione astrologica; vediamo cosa posso fare. Intanto, per ingraziarsi gli astri, lasciate in questa improvvisata urna che i profani chiamano tasca, trecento euro per sacrificare un agnello, compiendo riti propiziatori… Morale della favola? Giocate con gli oroscopi, scherzate pure, non fanno male a nessuno se restano un modo frivolo per passare una mezza serata. Se vi fa bene, se vi dà sicurezza, sentirvi appartenenti a un partito zodiacale, fate pure, ma non imponete agli altri le vostre debolezze. Però poi non avete il diritto di considerare arretrati, rozzi e superstiziosi quelli che vanno da Padre Pio a chiedere i miracoli. E non avete il diritto di definirvi laici: chi non è credente così diventa credulone e pratica una religione infima, più primitiva e infantile delle antiche fedi.Personalmente sono pronto a riconoscere dignità alla sapienza di caldei, sciamani e di coloro che videro armonie nell’universo tra micro e macrocosmo. E sono convinto con Vico che le superstizioni, come gli oroscopi, siano estreme tracce superstiti di verità perdute nel tempo e ultimi tentativi di dare un senso al futuro. Lo dice la parola stessa superstizione. Gli oroscopi non sono menzogne ma parodie smemorate di scampoli di verità. Ma distinguete la luce dai fuochi fatui, la verità dalle sue contraffazioni, la grandezza dei sapienti dalla furbizia dei saccenti. Ci vorrebbe una sana ondata di miscredenza popolare contro la fede negli oroscopi. Un’ondata atea, iconoclasta e anticlericale verso i segni zodiacali e gli astrologi. Un mago pugliese una volta mi indovinò il passato, anziché il futuro; non so se si era prima documentato, ma fu bravo. Il suo nome d’arte è Juppiter, con due p, perché il mago conosce gli astri, ma non il latino. Gli avrei dato volentieri una mano, non per farmela leggere semmai per aiutarlo. Comunque niente contro i maghi e le megere. Se Conte è premier e Di Maio è ministro degli esteri, chiunque può passare per veggente, taumaturgo e astrivendolo.(Marcello Veneziani, “Consigli per un oroscopo faidate”, da “La Verità” del 2 gennaio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Al prossimo che vi fa l’oroscopo minacciate di fargli la rettoscopia, con strumenti improvvisati. Così la smette. Non se ne può più di questi, e soprattutto queste, milioni di veggenti che non veggono un tubo ma si avventano sulla tua mano, sulla tua tazza di caffè, sui tuoi occhi e cercano di leggerti come sarà questo ventiventi. Ma fatevi gli astri vostri. Ti chiedono di che segno sei, se non lo sanno già, e cominciano a fare una previsione trionfale, invasiva e personalizzata, valevole per circa seicento milioni di viventi, ossia l’otto per cento dell’umanità, almeno se la dividiamo equamente per i dodici segni zodiacali. Questi oroscopi finto-personali, in realtà fondati sullo stoccaggio zodiacale, hanno la stessa affidabilità dei sorteggi. Fingono di conoscere i dettagli ma sono grossisti dell’astrologia. Cominciano a pontificare: voi leoni, voi tori e voi scorpioni… ma voi pappagalli che ne sapete? Denunciateli per razzismo, perché credono alla razza dei segni e discriminano sulla base delle etnie zodiacali. Questo non è un paese normale, ma paranormale, diffida delle leggi ma non degli oroscopi.
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L’Iran e la Guerra di Israele, cui Rabin avrebbe posto fine
Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa, infatti: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.Due anni prima, a Oslo, il progressista Rabin si era accordato con Arafat per gettare le basi, per la prima volta, di un patto che avrebbe portato alla nascita dello Stato di Palestina. Sarebbe stato la fine dell’alibi che per mezzo secolo aveva sorretto le peggiori oligarchie musulmane, sotterraneamente alleate delle oligarchie ebraiche del sionismo: la tensione permanente, per giustificare il rispettivo potere. Neutralizzato l’Egitto come paese leader del panarabismo storico, letteralmente distrutto l’Iraq di Saddam e invasa la Siria degli Assad, sono emerse in modo sempre più vistoso le due nuove potenze regionali, Ankara e Teheran. La Turchia di Erdogan salì alla ribalta nel 2010 denunciando il martirio di Gaza e l’aggressione alla Freedom Flotilla, carica di aiuti umanitari. L’Iran degli ayatollah si è proteso verso la maggioranza sciita degli iracheni, ben deciso a fortificare gli altri suoi caposaldi attorno a Israele, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. Ancora una volta, il fronte che si proclama anti-israeliano ha giocato in difesa: e proprio il generale Soleimani si era appena distinto, in Siria, accanto ai russi e ai libanesi di Hezbollah, per liberare il paese dalle milizie terroriste protette dall’Occidente. Quando infine la coalizione anti-Isis (iraniani e russi, siriani e curdi) ha sconfitto sul campo l’esercito dei tagliagole, lo stesso Trump si è preso il lusso di eliminare la pedina dell’intelligence atlantica, il “califfo” Al-Bahdadi, anch’esso (ufficialmente, almeno) ucciso con un raid dal cielo.La tragedia si colora di farsa non appena si dà un’occhiata all’Italia, dove la Rai si è rifiutata di trasmettere l’intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Bashar Assad, la prima dopo un decennio di guerra. La notizia stava nelle accuse di Assad verso i protettori occulti dell’Isis, le potenze occidentali (Francia in primis) e i loro satelliti mediorientali, incluso Israele. Nel 2015, Matteo Renzi non osò schierare truppe italiane in Libia, nonostante la protezione promessa da Obama. Oggi, assente l’Italia, sarà la Turchia a dislocare 9.000 soldati a guardia di Tripoli, a due passi dai terminali strategici dell’Eni. Silenzio di tomba da Conte e Di Maio, stavolta persino battuti – se possibile – da Salvini, che non trova di meglio che esultare per l’assassinio del generale Soleimani, impegnato a sollevare gli iracheni contro il governo coloniale della superpotenza che ha distrutto l’Iraq, facendone il vivaio dell’Isis. Il film dell’orrore che stiamo vivendo, letteralmente esploso insieme alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001, non sarebbe nemmeno cominciato se, nell’autunno del ‘95, non fossero andati a segno i colpi del fanatico sionista Yigal Amir, colono ebreo di estrema destra, terrorizzato dall’idea che Israele potesse convivere, alla pari, con gli “scarafaggi” palestinesi. Con la sua Beretta, Amir esplose due colpi calibro 380: sparò alla schiena di Rabin, e di milioni di persone che speravano davvero nel miracolo della pace.Dieci anni prima, in una capitale del Nord Europa – la remotissima Stoccolma – aveva fatto la stessa fine il grande leader socialdemocratico Olof Palme, grande sostenitore della causa palestinese. Quei colpi di pistola – dalla Svezia a Tel Aviv – è come se avessero centrato il cuore del mondo, paralizzandolo per decenni. Fino ad allora, il terrorismo era stato qualcosa di vagamente collegabile a una guerra tra oppressi e oppressori: i Fedayin palestinesi colpivano obiettivi precisi, entità ritenute responsabili di crimini. Non erano stragisti mercenari come l’oscura manovalanza di Al-Qaeda e dell’Isis. Erano guerriglieri spesso orfani, con alle spalle una catena di sofferenze e lutti famigliari. Sia pure in modo sanguinoso, avevano contribuito a mobilitare la comunità internazionale verso una soluzione storica, che mettesse fine al disastro innescato da confini di carta, disegnati nel deserto dopo il crollo dell’Impero Ottomano e poi con la creazione in Palestina del solo Stato ebraico. La stessa popolazione di Israele è stata costretta a convivere con l’incubo permanente della strage. Oggi, gli impresari del terrore sono tornati all’opera: finito il lavoro in Siria, ricominciano dall’Iraq e dalla Libia mettendo nel mirino l’Iran. Rispetto a ieri, se non altro, nel Medio Oriente è ricomparsa la forza stabilizzatrice della Russia. Dove porteranno, ora, i nuovissimi incendi innescati nella regione? Sembra continuare un gioco antico: opposti estremismi, nemici apparenti e alleati sotterranei. Dalla politica, buio pesto. Solo ipocrisia, e sangue.Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.
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Onore a Paragone, espulso. Ma che ci faceva tra i 5 Stelle?
Gianluigi Paragone in rotta coi 5 Stelle? Ovvio, data la caratura politica del personaggio. E’ stato l’unico giornalista italiano (televisivo, per giunta) ad aver osato dare spazio a un ultra-eretico come Paolo Barnard, il primo a denunciare l’euro come strumento di dominazione finanziaria post-democratica, dopo essersi speso – con larghissimo anticipo su chiunque altro – nel divulgare in termini popolari, per i non addetti, i fondamentali della materia oscura (economica, finanziaria) che si è impossessata della politica, trasformando i partiti in semplici passacarte, meri esecutori – per lo più ignoranti – di decisioni altrui. Fa decisamente onore, a Paragone, il fatto di venir finalmente espulso dalla congrega grillina che fa da stampella al Pd e tiene in vita l’orrendo governo Conte, protetto dalle cancellerie europee anti-italiane e mantenuto insieme solo dal terrore delle elezioni anticipate, cioè la fine dei privilegi per le centinaia di signori-nessuno che Beppe Grillo ha miracolato, trasformandoli provvisoriamente in parlamentari. A sconcertare, semmai, è la scelta compiuta da Paragone due anni fa, quando decise di candidarsi proprio con loro, i grillini, che avevano già cominciato a gettare la maschera: risale infatti al 2016 il tentato trasloco, a Strasburgo, tra le file dell’Alde iper-eurista, fierissimo dell’infame austerity imposta agli europei.Stupisce che un sincero democratico come Paragone abbia potuto accettare di subire, fin dall’inizio del suo mandato, il ménage finto-democratico che domina l’impostura politica grillina, scandita dal più vuoto degli slogan – uno vale uno – e smentita ogni giorno dalla prassi di bottega, il movimento “detenuto” privatamente da Casaleggio e rappresentato altrettanto privatamente, nei momenti decisivi, dal solo Grillo. Che ci faceva, l’ottimo Paragone, in così pessima compagnia? Cosa sperava di ottenere, impuntandosi nel denunciare gli scempi e i tradimenti del Conte-bis? Come immaginare di ottenere un rigurgito di coscienza dai grillini imbullonati alle poltrone, pronti a smentire oggi e domani quello che solo ieri promettevano? E’ sterminato l’elenco delle vergogne che giustamente Paragone richiama, con l’unico effetto di riscuotere la stima, il rispetto e il consenso dei milioni di elettori che ancora si domandano come abbiano potuto gettare il loro voto nella spazzatura, nel 2018, dando fiducia a Di Maio e soci, credendo davvero che dicessero sul serio quando assicuravano la svolta democratica che il paese attende da trent’anni. Come si può sperare che il riscatto democratico venga da un gregge sottomesso, che in dieci anni non si è mai confrontato democraticamente nemmeno per sbaglio, in un regolare congresso?Proprio l’illustre ospite di Paragone – Paolo Barnard – fu il primo a lanciare l’allarme, in tempi non sospetti: che razza di democrazia ci si può aspettare da una setta politica fanatizzata a comando da due privati cittadini, Grillo e Casaleggio, con potere di vita e di morte su chiunque osi esprimere il benché minimo dissenso? Oggi, gli ometti parcheggiati in Parlamento sanno perfettamente di perdere la faccia, oltre che i voti ingiustamente ottenuti, ma restano dove sono – incollati allo scranno – ben consapevoli del fatto che, alla prossima tornata elettorale, di loro non resterà più nulla. In compenso, ai sommi poteri hanno offerto uno spettacolo memorabile: la rabbia degli italiani elusa e tradita, gli elettori raggirati, gli impegni disattesi. Una colossale presa in giro: all’amo hanno abboccato milioni di elettori, nel paese che più di ogni altro aveva motivo per reclamare una radicale inversione di rotta nella governance europea. Gli eurocrati si saranno divertiti in mondo, nel vedere che un grande paese come l’Italia si è lasciato buggerare dal signor Grillo e dai suoi rivoluzionari all’amatriciana. Non ci voleva molto a capire, fin dall’inizio, che la partita era truccata: il Movimento 5 Stelle non ha mai proposto niente di serio. Zero: non un’idea per cambiare le regole. Solo fumo: le auto blu, i vitalizi e altre stupidaggini. Possibile che non se ne fosse accorto, un giornalista coraggioso e acuto come Gianluigi Paragone?(Giorgio Cattaneo, “Onore a Paragone, espulso: ma che ci faceva, uno come lui, nei 5 Stelle?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 3 gennaio 2019).Gianluigi Paragone in rotta coi 5 Stelle? Ovvio, data la caratura politica del personaggio. E’ stato l’unico giornalista italiano (televisivo, per giunta) ad aver osato dare spazio a un ultra-eretico come Paolo Barnard, il primo a denunciare l’euro come strumento di dominazione finanziaria post-democratica, dopo essersi speso – con larghissimo anticipo su chiunque altro – nel divulgare in termini popolari, per i non addetti, i fondamentali della materia oscura (economica, finanziaria) che si è impossessata della politica, trasformando i partiti in semplici passacarte, meri esecutori – per lo più ignoranti – di decisioni altrui. Fa decisamente onore, a Paragone, il fatto di venir finalmente espulso dalla congrega grillina che fa da stampella al Pd e tiene in vita l’orrendo governo Conte, protetto dalle cancellerie europee anti-italiane e mantenuto insieme solo dal terrore delle elezioni anticipate, cioè la fine dei privilegi per le centinaia di signori-nessuno che Beppe Grillo ha miracolato, trasformandoli provvisoriamente in parlamentari. A sconcertare, semmai, è la scelta compiuta da Paragone due anni fa, quando decise di candidarsi proprio con loro, i grillini, che avevano già cominciato a gettare la maschera: risale infatti al 2016 il tentato trasloco, a Strasburgo, tra le file dell’Alde iper-eurista, fierissimo dell’infame austerity imposta agli europei.