Archivio del Tag ‘lungimiranza’
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Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
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Messora: bei tempi, quando esisteva il Movimento 5 Stelle
«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».Le riunioni a porte chiuse? Atra «eresia blasfema, perché contrarie alla trasparenza»: per definizione «ponevano nelle mani di pochi il potere di elaborare strategie nascoste». Democrazia diretta e strategie di palazzo? «Incompatibili a priori». Il titolo di “onorevole”, poi, «era una macchia indelebile da cancellare con lunghi pellegrinaggi nei MeetUp di origine». All’epoca, il capo politico non esisteva ancora: non lo era neppure Beppe Grillo. C’erano solo due garanti, Grillo e Casaleggio, «lungimiranti fondatori, che tenevano a freno le derive individualistiche di ragazzi catapultati all’improvviso nelle stanze del potere senza i necessari anticorpi, omaggiati e riveriti dai media e dalle associazioni di interessi». Erano i tempi in cui Casaleggio rimetteva alla rete ogni decisione, e la rete talvolta votava perfino contro a quello che avrebbe voluto lui, come nel caso della depenalizzazione del reato di clandestinità, continua Messora. «Il rispetto degli attivisti era non solo formale, ma sostanziale, e questo si traduceva in referendum online dagli esiti mai scontati e presentati con completezza di informazione. Anche perché gli attivisti di una volta, quelli che si erano scorticati la pelle delle mani nel corso di interminabili banchetti al freddo e al gelo, non avrebbero mai e poi mai accettato niente di meno».Erano i tempi in cui Grillo girava senza scorta per le strade di Roma, perché lui poteva permetterselo e se ne vantava. Oggi invece Di Maio «ha bisogno di girare circondato dalla security». Bei tempi, appunto, quando il Movimento 5 Stelle «provava a declinare in politica il suo retroterra antieuropeista e sovranista, antielitario e fieramente populista», come rivendicato dallo stesso Casaleggio, «il genio comunicativo» che spesso «stravolgeva ogni aspettativa e ribaltava la prospettiva». E lo stesso Grillo «scendeva a Roma chiamando il popolo in piazza Montecitorio, e i politici scappavano dal palazzo come topi in fuga, mentre le acque si facevano agitate e rombavano minacciose, facendo tremare i muri delle aule». Quelli, continua Messora, erano i tempi in cui il Movimento 5 Stelle era diverso da tutte le altre forze del sistema, da Bersani ai mostri di Bruxelles, «il peggio degli europeisti banchieri, artefici dell’austerity come l’Alde, in cui i 5 Stelle Europa volevano confluire sotto la sapiente guida di europarlamentari stimati da Mario Monti e ormai dimentichi della logica dei portavoce, ma sempre più calati nei panni del perfetto manovratore di palazzo».Quei tempi sono finiti, scrive Messora. «Oggi il Movimento 5 Stelle è un partito. Si comporta da partito. Ha i riti di un partito. Accentra il potere, come un partito. Ha i suoi servi, i suoi yes-men, i suoi adoratori, i suoi fan, la sua terminologia, i suoi giornalisti, come un partito. Ha perfino il culto della personalità del capo». E’ finita la spinta propulsiva, la voglia di rottura, «la narrazione dirompente, la creazione di un linguaggio differente, motivante, sferzante, con i suoi neologismi dissacranti». Si è esaurita «la componente di attivismo disinteressato e un po’ ingenuo, l’esaltazione dell’uguaglianza», che aveva attratto «intellettuali anticonvenzionali che rappresentavano visioni diverse e inascoltate sulla società, sulle tematiche ambientali, sul futuro». Tutto questo non esiste più, dice Messora: il Movimento 5 Stelle ha compiuto la sua metamorfosi. «Dal bozzolo è uscito un leader (termine che un tempo avrebbe procurato inguaribili allergie e insopportabili pruriti)», il quale «ha vinto primarie senza rivali, con risultati bulgari, che in ossequio all’era dei reality show hanno tuttavia beneficiato di una suspence artificiale, con tanto di musica da nomination del Grande Fratello». Poco seria, la faccenda: i vertici avevano già scelto Di Maio da tempo, «quindi la cosa più ragionevole da fare (e più onesta) sarebbe stata per il garante prendersi la responsabilità di proporre Di Maio e sottoporre il suo nome a una ratifica referendaria sul blog, da parte degli attivisti». Sempre meglio che una (finta) vittoria, senza concorrenti.Nel sogno della diversità, i primi “grillini” ci avevano creduto «quando tutti gli altri li prendevano in giro». E avevano combattuto contro qualunque pregiudizio perché erano davvero affascinati «dalla purezza cristallina di un’idea coraggiosa e sfrontata», ed erano riusciti a coinvolgere con il loro disinteressato entusiasmo ben 9 milioni di elettori «che nulla sapevano dei Cinque Stelle», ma avevano «interiorizzato solo un grande, immenso vaffanculo». Alla fine di questa metamorfosi, ecco dunque un partito in pole position nei sondaggi: un partito leaderistico, «nato pescando nelle ideologie di sinistra, così come nel serbatoio di elettori delusi a destra», ma che ora – rinnegato Farage con la sua Brexit e sfatato il mito dell’accoglienza tout court dei rifugiati – si è «riposizionato con nonchalance al centro, lontano dagli estremi e in corsa per Palazzo Chigi con il beneplacito della Chiesa, del potere transazionale della Trilaterale (Monti, Napolitano & Co), delle lobby, dell’establishment americano in cui il Cinque Stelle è di casa, dei circoli europeisti di Bruxelles, della finanza internazionale e dei mercati, cui Di Maio si è appellato personalmente».Ma attenzione, continua Messora: è un partito che non ha segreterie né strutture dirigenziali, non ha correnti ma neppure regole, non ha tempi certi per sostituire il capo politico, che può decidere candidature ed espulsioni. Un partito ibrido, «dove tutti sono d’accordo perché gli altri per definizione sono già stati espulsi», e molti di quelli che avevano remore e hanno pensato per lungo tempo di esternarle «ora sorridono sul palco dietro a Luigi che abbraccia Beppe, come se fossero tutti una grande famiglia da Mulino Bianco». Ma dov’è la democrazia, cioè la facoltà di dissentire? «Poi il risultato sono primarie che assomigliano più a un sorteggio di Champions, dove in un girone da una parte c’è la Juventus e dall’altra tre squadrette dell’oratorio». Di certo, concede Messora, «non ci troviamo di fronte a una forza politica peggiore del Pd, di Forza Italia, della Lega e di tanti altri soggetti che da lungo tempo calcano il palcoscenico istituzionale».Magra consolazione: questo nuovo partito «non ha ancora avuto modo di fare i danni che i vecchi partiti hanno certamente e incontestabilmente apportato al tessuto sociale, produttivo ed economico del paese». E’ vero, il nuovo “partito” 5 Stelle non ha un solido programma alternativo. Però «non lo si può accusare di essere responsabile delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, delle cessioni di sovranità, della sottomissione ai mercati, della distruzione del tessuto produttivo e della domanda interna, della ratifica del pareggio di bilancio, del Fiscal Compact, del Mes». Tutte «disgrazie», aggiunge Messora, che il partito ora capeggiato da Di Maio «ha finora dimostrato di non avere compreso e alle quali non sembra intenzionato a porre rimedio». E questo è l’aspetto di gran lunga più preoccupante: gli ex “ribelli” pentastellati non si impegnano contro il vero nemico, nemmeno lo vedono. O fingono di non vederlo, che è ancora peggio.«C’era una volta il Movimento 5 Stelle». Era fatto «di cittadini che prendevano decisioni tutti insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative, valutate attentamente una per una». La televisione «era considerata complice del sistema e artefice del decadimento civico e culturale», e i sondaggi «erano l’antitesi della buona politica», nemici della democrazia diretta. All’indomani dell’investitura di Luigi Di Maio, il blogger Claudio Messora, fondatore di ByoBlu e già comunicatore dei pentastellati, intona il de profundis del movimento grillino. Bei tempi, quando «la demoagogia ripugnava tutti» e i protagonismi «erano il peccato originale, da cui era necessario pentirsi», sublimandolo «nella retorica del “cittadino portavoce”». Tutto era trasmesso in streaming, due mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne «ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto impadronirsi di una poltrona e diventare inamovibile. Tanto, un portavoce era solo un segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era sostituibile».
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A salvare la Russia è stato Andropov: il Kgb, cioè oggi Putin
Quando sta per arrivare la “fine del mondo”, c’è sempre qualcuno che la vede in anticipo. E in silenzio, dietro le quinte, prepara il “dopo”. Prendiamo l’Urss, crollata nel 1991. Colpa di Gorbaciov? No: la perestrojka fu un tentativo generoso ma tardivo, fuori tempo massimo. Tutti, al Cremlino, sapevano perfettamente che l’Unione Sovitica era finita: come sistema sociale non poteva più reggere. Il primo a saperlo era l’uomo che allevò Gorbaciov: Yurij Andropov, ininterrottamente a capo del Kgb dal lontano 1967. Proprio il potente servizio segreto era il migliore osservatorio della situazione: prima ancora che andasse a sostituire Breznev nel 1982 alla guida del paese, Andropov già sapeva che solo il Kgb avrebbe potuto impedire la catastrofe definitiva, il tracollo della Russia. Lo sostiene il filosofo Igor Sibaldi, di origine russa per parte di madre, autore di besteller come “I maestri invisibili”. Tre le sue fonti confidenziali anche un amico d’infanzia, ufficiale del Kgb. Non a caso, lo stesso Gorbaciov veniva dall’intelligence, ne era stato il direttore amministrativo. E chi è Vladimir Putin? Un ex colonnello del Kgb. «Ancora oggi, Putin rappresenta un potente network, di cui è il portavoce: è ancora l’ex Kgb a reggere il paese, dopo averne evitato il crollo».Lo ammette anche Giulietto Chiesa, autore di libri come “Roulette russa” e “Russia addio”, scritti durante la disastrosa epoca Eltsin, con la colossale svendita del paese a vantaggio del grande capitale americano, con la mediazione degli “oligarchi” cresciuti attorno al Cremlino. «Il vero iniziatore della perestrojka fu Jurij Andropov, cioè il Kgb, che era la parte più “informata dei fatti”», scrive Chiesa in una riflessione su “Megachip”. «Gorbaciov arrivò quando ormai la situazione era intenibile. Fece degli errori gravi? Sicuramente. Si fidò dell’Occidente, che non conosceva abbastanza? Sicuramente. Ma il fatto incontestabile (se si vuole essere onesti nei confronti della realtà) è che l’Impero del Bene di reaganiana memoria aveva già conquistato le menti della grande maggioranza dei russi. E di quasi tutta l’intelligencija sovietica». L’alternativa concreta che si pose davanti a Gorbaciov, continua Chiesa, fu semplice e tragica: «Continuare così, fino al collasso (con il rischio che i cretini di ambo le parti tentassero la soluzione di forza, e sarebbe stata la fine del genere umano), oppure avviare i cambiamenti necessari». Non ha funzionato, come sappiamo. Ma incolpare solo Gorbaciov «significa oscurare del tutto il progetto di dominio mondiale che cominciò ad attuarsi in quegli anni e che oggi strangola tutti noi».In una conversazione registrata su YouTube, Sibaldi traccia un parallelo tra la crisi terminale dell’Unione Sovietica e l’attuale collasso del nostro sistema, fondato sul consumo di merci superflue: «Le crepe sono evidentissime, la situazione sta crollando. Non sappiamo più neppure chi siamo e cosa ci piace: sappiamo solo cosa dobbiamo dire che ci piace». Nei momenti difficili, aggiunge Sibaldi, conta l’individuo consapevole, che ha coscienza di sé e sente che sta cambiando l’aria, in modo irreversibile. «La domanda da porsi è: come ci si organizza, per il dopo? La Russia sovietica già negli anni ‘70 non aveva più futuro, ma i cittadini non lo volevano accettare: pensavano che l’Unione Sovietica sarebbe durata per sempre. A capire la situazione, con largo anticipo, fu il Kgb. Che, con Andropov, si organizzò per il “dopo” con larghissimo anticipo». Insiste Sibaldi: «Già negli anni ‘60, Andropov si era accorto che l’impero russo sarebbe crollato, inevitabilmente: non aveva speranza, un paese che diceva di essere comunista ma in realtà andava verso il nazismo, di mese in mese, con atrocità intollerabili». Era lucido, il capo del Kgb: «Ha pensato: lo Stato crolla, salvarlo è impossibile. E allora bisogna preparare un edificio a parte, che resista. E ha fatto quello che Isaac Asimov aveva scritto nei suoi romanzi di fantascienza: solo che, anziché su un altro pianeta, l’ha fatto in una struttura statale».Uno Stato nello Stato, in assoluta segretezza. «Poi il crollo è avvenuto, e l’unica cosa che è rimasta in piedi è stato proprio il Kgb, cioè quello che Andropov era riuscito a costruire. Non per niente, Putin è un colonnello del Kgb, non un generale: non è “il dittatore”, è l’espressione visiva di una struttura che è dietro di lui, e che è rimasta solidissima». Il fenomeno dei “nuovi ricchi” russi? E’ la dimostrazione di «processi sociali avviati in quel periodo, accuratamente progettati: la diffusione di un nuovo sistema di ricchezza, dall’alto, per “tener su” un popolo mentre lo Stato crolla». Una visione che coincide in parte con quella di Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”, spesso molto critico di fronte agli entusiasmi dei “corifei” del nuovo Zar di Mosca. Magaldi rivela che Putin fu affiliato alla supermassoneria internazionale già nei primi anni ‘80, quando risiedeva in Germania Est: «Insieme ad Angela Merkel, che conosce personalmente da allora – ricorda Magaldi a “Colors Radio” – Putin fu accolto nella Ur-Lodge “Golden Eurasia”, non esattamente progressista». E’ al potere da troppo tempo e impedisce che la democrazia russia maturi pienamente? Vero. Ma, per contro – ammette Magaldi – Putin ha stabilizzato il paese, migliorando la vita dei russi. «E, altra cosa utile per l’equilibrio del mondo: è riuscito a riproporre la Russia come potenza». Nel segno del capostipite del network, il lungimirante Yurij Andropov.Quando sta per arrivare la “fine del mondo”, c’è sempre qualcuno che la vede in anticipo. E in silenzio, dietro le quinte, prepara il “dopo”. Prendiamo l’Urss, crollata nel 1991. Colpa di Gorbaciov? No: la perestrojka fu un tentativo generoso ma tardivo, fuori tempo massimo. Tutti, al Cremlino, sapevano perfettamente che l’Unione Sovitica era finita: come sistema sociale non poteva più reggere. Il primo a saperlo era l’uomo che allevò Gorbaciov: Yurij Andropov, ininterrottamente a capo del Kgb dal lontano 1967. Proprio il potente servizio segreto era il migliore osservatorio della situazione: prima ancora che andasse a sostituire Breznev nel 1982 alla guida del paese, Andropov già sapeva che solo il Kgb avrebbe potuto impedire la catastrofe definitiva, il tracollo della Russia. Lo sostiene il filosofo Igor Sibaldi, di origine russa per parte di madre, autore di besteller come “I maestri invisibili”. Tre le sue fonti confidenziali anche un amico d’infanzia, ufficiale del Kgb. Non a caso, lo stesso Gorbaciov veniva dall’intelligence, ne era stato il direttore amministrativo. E chi è Vladimir Putin? Un ex colonnello del Kgb. «Ancora oggi, Putin rappresenta un potente network, di cui è il portavoce: è ancora l’ex Kgb a reggere il paese, dopo averne evitato il crollo».
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Torino-Lione, ogni lavoratore Tav ci costa 1 milione di euro
Il road show di Telt si è conquistato i titoli e gli articoli dei giornali con facilità come purtroppo avviene solitamente. Eppure se il sistema dell’informazione verificasse le informazioni e i numeri dati dai comunicati stampa inviati nella propria email, si scoprirebbe che più che informazioni ci troviamo quasi sempre ad avere a anche fare con propaganda! Noi lo abbiamo fatto e al di là della retorica e della propaganda i numeri (veri!) sono impietosi: ogni singolo posto di lavoro che sarebbe creato dalla costruzione del Tav Torino Lione costerebbe alla collettività oltre un milione di euro, e sarebbe un posto di lavoro a termine, durerebbe i 10 anni della costruzione dell’opera. Prendiamo in esame le ricadute occupazionali previste dai proponenti e il costo a carico delle casse pubbliche italiane. Nel progetto definitivo della sezione compresa tra Bussoleno e il confine di Stato troviamo la stima della forza lavoro: nei primi due anni di anticipazione sono previsti circa 200 lavoratori; nell’ultimo anno e mezzo una cinquantina; negli otto anni e mezzo centrali di lavoro la media è di circa 900 lavoratori.Consideriamo anche i posti di lavoro indiretti, i proponenti affermano che sono due per ogni posto diretto. Diciamo quindi 800 posti diretti più 1600 indiretti. I costi a carico dell’Italia dell’intera sezione transfrontaliera li troviamo nella delibera Cipe 19 del 2015: se l’Europa erogasse il massimo contributo possibile l’opera graverebbe sulle finanze italiane per 3 miliardi di euro; da questa cifra si sale fino a 5 miliardi se il contributo Europeo venisse cancellato o ridotto. I conti sono presto fatti: considerando il massimo contributo europeo, per ogni posto di lavoro diretto il contribuente italiano pagherebbe oltre 3 milioni di euro, 30 posti di lavoro costerebbero alle casse pubbliche 100 milioni di euro! E… se consideriamo anche i posti di lavoro indiretti, ogni singolo posto di lavoro creato dal Tav costerebbe un milione e 250.000 euro, di soldi pubblici. Ciò significherebbe: 1 posto di lavoro = 1 milione e 250.000 euro (pagati con soldi pubblici); 8 posti di lavoro = 10 milioni di euro (pagati con soldi pubblici).Se però l’Europa dovesse tagliare – come già accaduto in passato – il suo contributo, si potrebbe arrivare all’incredibile rapporto di oltre due milioni di euro di investimento dalle casse pubbliche italiane per posto di lavoro creato lato Italia. Quindi: 1 lavoratore = 2 milioni di euro (pagati con soldi pubblici). Dato che questi non sono soldi di Virano o di Foietta ma soldi pubblici, soldi di tutti, non vengano a raccontarci la favola dei posti di lavoro. Le ricadute occupazionali di una simile opera sono minime rispetto all’investimento. La manutenzione delle opere esistenti, la cura del territorio: queste sono opere puntuali capaci di creare molto più posti di lavoro sicuri e duraturi, senza contare che a differenza della Torino-Lione sarebbero anche utili per tutti. Come è evidente, a differenza di quanto dice Foietta, che taccia il movimento notav di appartenere al passato, e di essere capace solo ad odiare, siamo noi NoTav a pensare al futuro del paese, con responsabilità e lungimiranza.(“Il Tav toglie lavoro: due calcoli sulle cifre sparate a caso da Telt”, dal blog “NoTav.info” del 23 maggio 2017, a cura del movimento NoTav che si oppone alla linea Tav Torino-Lione in valle di Susa. Telt è la società “Tunnel Euralpin Lyon Turin”, incaricata di realizzare il contestatissimo traforo ferroviario italo-francese, consisderato un inutile e costosissimo doppione dell’attuale Traforo del Fréjus, che già collega Italia e Francia in valle di Susa. I citati Mario Virano e Paolo Foietta operano nell’ambito dell’Osservatorio Tav creato per tentare di imbastire un dialogo col territorio, al quale però la valle di Susa e la stessa città di Torino si sono sottratte, ritenendo la Torino-Lione una grande opera “non negoziabile” in quanto faronica, costosissima, devastante per l’ambiente e, soprattutto, assolutamente inutile).Il road show di Telt si è conquistato i titoli e gli articoli dei giornali con facilità come purtroppo avviene solitamente. Eppure se il sistema dell’informazione verificasse le informazioni e i numeri dati dai comunicati stampa inviati nella propria email, si scoprirebbe che più che informazioni ci troviamo quasi sempre ad avere a anche fare con propaganda! Noi lo abbiamo fatto e al di là della retorica e della propaganda i numeri (veri!) sono impietosi: ogni singolo posto di lavoro che sarebbe creato dalla costruzione del Tav Torino Lione costerebbe alla collettività oltre un milione di euro, e sarebbe un posto di lavoro a termine, durerebbe i 10 anni della costruzione dell’opera. Prendiamo in esame le ricadute occupazionali previste dai proponenti e il costo a carico delle casse pubbliche italiane. Nel progetto definitivo della sezione compresa tra Bussoleno e il confine di Stato troviamo la stima della forza lavoro: nei primi due anni di anticipazione sono previsti circa 200 lavoratori; nell’ultimo anno e mezzo una cinquantina; negli otto anni e mezzo centrali di lavoro la media è di circa 900 lavoratori.
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Magaldi: meglio Renzi dei vecchi babbioni del club Pisapia
Può diventare anche divertente, il cabaret offerto dalla carta stampata. Ne ho avuto conferma leggendo di “Insieme”, questa cosa di Pisapia: i giornali si sono tutti eccitati di fronte a questa grande novità rappresentata dall’ex sindaco di Milano. Dietro il fumo, si stagliano le grandi novità della proposta politica, interpretate da figure come D’Alema, come Bersani: sono questi gli architrave su cui si regge la “casa” di Pisapia, che porta se stesso e va a unirsi con costoro. Stringendo sul programma, viene fuori tutto quell’armamentario di ferrivecchi, classici, di certa pseudo-sinistra italica. Per cui: in un momento in cui la classe media versa in pessime acque, questo bel tomo di Pisapia parla di patrimoniale, propone il ritorno dell’Imu sulla prima casa, parla di tassazione da aumentare per favorire la soliderietà. E’ un po’ indietro con gli studi, Pisapia. Io credo che, se avrà la bontà – lui e i suoi cattivi consiglieri – di studiare meglio il dibattito economico contemporaneo, capirà che non c’è bisogno di questo, c’è bisogno di riscoprire un filone keynesiano.Non per caso non ne parlano mai, di Keynes, costoro, in termini adeguati. Si tratta cioè di riscoprire l’idea che, forse, non si esce dalla crisi andando a punire la presunta ricchezza di chi magari s’è comprato una casa e magari la deve pagare cento volte e in mille modi; non è tornando a quella triste e fasulla contrapposizione per cui la destra è quella che abbassa le tasse e la sinistra è quella che le alza – che poi è un modo (per la sinistra immaginata da Pisapia) per perdere da qui all’eternità, e giustamente. No, qui si tratta di immaginare scenari in cui le istituzioni pubbliche hanno la forza, la visione e la lungimiranza di investire nelle giuste direzioni, per rianimare il sistema economico privato, favorendo l’occupazione.Da parte di questi santoni del presunto nuovo centrosinistra, ormai malamente invecchiati, non ho sentito una parola sull’occupazione: Meglio Renzi, rispetto a questi babbioni. Non ho sentito una parola su nuove regole d’ingaggio per come stare in Europa, non una parola neppure sul problema di una Costituzione per l’Europa. Non ho sentito una parola su quello che riguarda anche, se vogliamo, il ritorno a una sostanzialità dei processi democratici. No, questi vengono, si presentano e fanno il gioco del Risiko, del Monopoli, pensando: siccome Renzi è antipatico a tutti e ci toglie spazio, noi ci coalizziamo. D’Alema parlava della sua associazione, “Consenso”, e quest’altro parla di “Insieme”; ma alla fine il consenso che questi metteranno insieme sarà veramente ridicolo, e quindi credo che la loro sia una parata di perdenti di vecchia data, che non hanno nulla da dire (e nulla da dare) al paese.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli il 3 luglio 2017 nella diretta radiofonica “Massoneria on Air”, su “Colors Radio”).Può diventare anche divertente, il cabaret offerto dalla carta stampata. Ne ho avuto conferma leggendo di “Insieme”, questa cosa di Pisapia: i giornali si sono tutti eccitati di fronte a questa grande novità rappresentata dall’ex sindaco di Milano. Dietro il fumo, si stagliano le grandi novità della proposta politica, interpretate da figure come D’Alema, come Bersani: sono questi gli architrave su cui si regge la “casa” di Pisapia, che porta se stesso e va a unirsi con costoro. Stringendo sul programma, viene fuori tutto quell’armamentario di ferrivecchi, classici, di certa pseudo-sinistra italica. Per cui: in un momento in cui la classe media versa in pessime acque, questo bel tomo di Pisapia parla di patrimoniale, propone il ritorno dell’Imu sulla prima casa, parla di tassazione da aumentare per favorire la soliderietà. E’ un po’ indietro con gli studi, Pisapia. Io credo che, se avrà la bontà – lui e i suoi cattivi consiglieri – di studiare meglio il dibattito economico contemporaneo, capirà che non c’è bisogno di questo, c’è bisogno di riscoprire un filone keynesiano.
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Magaldi: legge elettorale affondata, ma siamo in una palude
Affondata la legge elettorale alla tedesca? Per ora sì, per fortuna. «E, in parte, anche grazie a me», racconta Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «Il back-office del potere, di cui ho parlato nel libro “Massoni”, vale anche per le vicende nazionali», premette. «E quindi, senza mai cercare influenze indebite ma operando legittimamente nel back-office, dando qualche consiglio richiesto a parlamentari dubbiosi sulla legge elettorale che stava per essere approvata, qualche contributo al suo fallimento l’ho dato». Palla al centro, ma senza farsi illusioni: lo scenario politico italiano resta «una palude», dalla quale nessuno sembra in grado di uscire. Nemmeno il Movimento 5 Stelle, che come si è visto alle amministrative non affonda né sfonda: «Campa di rendita, ma la sua mancanza di un programma e di una strutturazione ideologica lungimirante lo mette nella condizione di esser percepito da molti come la grande delusione, non più come la grande speranza». Anche per questo, Magaldi preferisce scommettere su un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista) magari guidato da Nino Galloni con un obiettivo chiaro: afferrare il toro per le corna e costringere Bruxelles a stracciare il Fiscal Compact e gli altri trattati-capestro che inguaiano l’Italia.Pd e 5 Stelle in affanno? Senz’altro, ma la verità è che nessuno è in forma, nell’Italia politica di oggi. «Il Pd è in difficoltà perché lo è il suo segretario», Matteo Renzi, che «naviga in bruttissime acque» dopo la “vittoria di Pirro” della rielezione. Alla sua sinistra, per così dire, si aggirano veri e propri fantasmi, come Bersani, che vorrebbe rappresentare istanze popolari dopo essersi piegato all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione, votando senza fiatare tutte le peggiori misure antipopolari del governo Monti, incluso il massacro sociale della legge Fornero sulle pensioni. Bersani, peraltro, ha l’impudenza di paventare il ritorno della “destra”, cioè il centrodestra insieme al quale lui stesso aveva sorretto il governo Monti. Destra, cioè Salvini e l’anziano Silvio? «La Lega non è in grado, da sola, di rappresentare un’alternativa, e del resto ha anch’essa le sue zone grigie», dichiara Gioele Magaldi. «C’è una freschezza politica in alcune istanze di Salvini, anche benemerite, ma ci sono moltissimi limiti nell’impostazione di fondo». Un po’ come per Marine Le Pen in Francia: obiettivamente, nonostante il coraggio e l’impegno, non poteva vincere contro Macron. Sicché, tolto Salvini, resta solo Silvio. E c’è chi vede nella “macchina del fango” prontamente riattivata dal “Fatto Quotidiano” (il boss Giuseppe Graviano intercettato in carcere) il segnale che il Cavaliere stia per tornare in campo.«Oggi Berlusconi non è un pericolo per nessuno», taglia corto Magaldi, che gli indirizzò una celebre lettera aperta. «Lo dico con autoironia: non sta seguendo i benevoli e “fraterni” consigli che il sottoscritto continua a lanciargli. Gli ripropongo di fare il padre nobile di un nuovo centrodestra, non di fare il grottesco imitatore di se stesso, che arranca dietro a una Forza Italia che non sarà mai più come prima». La leggenda delle origini “mafiose” del capitale all’origine delle fortune del Cavaliere? «Dev’essere chiaro che questa storia è intenzionale: Graviano sapeva di essere intercettato, e quindi ha detto delle cose su Berlusconi. Queste non sono prove di alcunché», insiste Magaldi: «Sono messaggi», da parte di «qualcuno, che magari ha qualche rancore nei confronti di Berlusconi, e lo sputtana». Questo, aggiunge Magaldi, «non significa non porsi sul piano storico il problema delle origini delle iniziative economiche di Berlusconi, ma va fatto con ben altra serietà e rigore. E naturalmente con un timing che è quello della storia, non quello della politica spicciola o del desiderio di screditare un personaggio a vantaggio di qualcun altro». Meglio stare alla larga da «dubbi e illazioni, laddove non regna certezza».Quanto a Berlusconi, Magaldi esprime un giudizio netto: un grande imprenditore e un pessimo politico, ancorché ingiustamente maltrattato. «Ha fallito politicamente, ma non è stata giusta tutta quella filiera di attacchi sul piano della sua vita privata o su quello della delegittimazione aprioristica», da parte di chi lo ha presentato «come personaggio immorale, indegno per ciò stesso di fare politica». Come imprenditore televisivo ha introdotto in Italia una nuova voce, la Tv commerciale. Si appoggiava a politici? Non era il solo: lo facevano anche i suoi concorrenti. Berlusconi è stato abile, magari non impeccabile, ma certo non il mostro dipinto dai suoi detrattori. «Non è stata colpa sua se non è stata fatta una legge sul conflitto d’interessi: la colpa non è mai della tigre che ti sbrana se la lasci libera, ci vuole il domatore e ci vogliono istituzioni che sappiano creare il pluralismo adeguato», ribadisce Magaldi. «Quindi l’incapacità di contenere le esigenze di profitto e di espansione di Berlusconi deve ricadere su quella classe politica che non è stata in grado (talvolta per interesse, vedi D’Alema) di arginare l’oligopolio berlusconiano». Ma adesso sarebbe meglio che Silvio si facesse da parte, il suo tempo è scaduto. E se Berlusconi sta maluccio, nemmeno gli altri si sentono bene, nella stagnante palude italiana, che contro la crisi non sa trovare credibile un Piano-B.Affondata la legge elettorale alla tedesca? Per ora sì, per fortuna. «E, in parte, anche grazie a me», racconta Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «Il back-office del potere, di cui ho parlato nel libro “Massoni”, vale anche per le vicende nazionali», premette. «E quindi, senza mai cercare influenze indebite ma operando legittimamente nel back-office, dando qualche consiglio richiesto a parlamentari dubbiosi sulla legge elettorale che stava per essere approvata, qualche contributo al suo fallimento l’ho dato». Palla al centro, ma senza farsi illusioni: lo scenario politico italiano resta «una palude», dalla quale nessuno sembra in grado di uscire. Nemmeno il Movimento 5 Stelle, che come si è visto alle amministrative non affonda né sfonda: «Campa di rendita, ma la sua mancanza di un programma e di una strutturazione ideologica lungimirante lo mette nella condizione di esser percepito da molti come la grande delusione, non più come la grande speranza». Anche per questo, Magaldi preferisce scommettere su un nuovo soggetto politico, il Pdp (Partito Democratico Progressista) magari guidato da Nino Galloni con un obiettivo chiaro: afferrare il toro per le corna e costringere Bruxelles a stracciare il Fiscal Compact e gli altri trattati-capestro che inguaiano l’Italia.
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Com’era bella l’Italia quando non eravamo ancora liberisti
Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.Erano gli anni 80, i jeans si portavano ancora sopra il livello delle mutande, nessuno si sarebbe mai arrischiato a mangiare pesce crudo in un ristorante cinese e Mani Pulite non ci aveva ancora privato di una classe politica paurosamente incline alle tangenti ma anche fieramente impermeabile al capitalismo liberista. Dai grandi sentivo dire che avevamo un sacco di guai, che oggi scopro essere gli stessi di sempre; anzi, gli stessi di tutti i paesi. In quell’Italia però l’ascensore sociale funzionava. Coi suoi tempi, scalino dopo scalino, ma funzionava. La prima cosa che ricordo è che in classe l’appello contava una trentina di nomi. Le famiglie erano più numerose di oggi e a scuola ci mischiavamo tutti: i figli dei ricchi coi figli dei poveri coi figli della classe media. Al di là di qualche accessorio più scintillante, tuttavia, lo stile di vita non era poi così differente. Con diecimila lire trascorrevamo, tutti insieme, la serata in pizzeria.Non ricordo problemi di disoccupazione. Chi non aveva voglia di studiare, se ne andava a fare il muratore, l’operaio o l’artigiano e a 18 anni riuscivi pure ad invidiarlo perché si era già potuto comprare una macchina burina che piaceva alle ragazze burine. Ma allora nessuno sembrava burino, forse perché lo eravamo tutti. Una cosa che proprio non esisteva era Equitalia. Fatta eccezione per l’acquisto della casa e dell’automobile, non ci si indebitava per i beni voluttuari. Nessuno faceva un finanziamento per andare in vacanza, comprare un motorino e tantomeno un televisore da 42 pollici. Nemmeno te lo proponevano. Le cose, molto semplicemente, si compravano quando si avevano i soldi per comprarle. Altrimenti, si aspettava. In famiglia, ma più in generale nella società, c’era una cultura condivisa del risparmio. Il denaro non era il presente, il denaro era il futuro. Lo insegnavano i nonni, dotandoci di salvadanai nei quali accumulare gli spiccioli delle mance e regalandoci buoni postali che avremmo riscosso una volta maggiorenni, toccando con mano, e con anni di ritardo, tutta la concreta lungimiranza del loro affetto.Insieme al risparmio, l’altro grande valore era lo studio. Ricordo padri e madri fieri di poter mandare i propri figli, miei compagni, al liceo anziché alla scuola professionale e poi commossi fino alle lacrime per il primo laureato della casa. Nessuno allora parlava in modo sprezzante del “pezzo di carta”. La laurea era la garanzia di una promozione sociale che nessuno avrebbe più retrocesso e che diventava una conquista collettiva dell’intera famiglia. Non solo dello studente; anche di chi, con sacrificio, gli aveva consentito di studiare. L’istruzione, tuttavia, non era l’unico trampolino sociale. Tanti operai, dopo qualche anno di apprendistato e specializzazione, riuscivano a coronare il sogno di “mettersi in proprio”. Si diceva così e lo si diceva con orgoglio perché aprire una partita Iva, allora, era ancora una libera scelta. Andavi in banca, spiegavi il tuo progetto, ti davano un prestito e cominciava l’avventura che segnava la vita: da operaio a padrone. Quelli però erano padroni diversi dai grandi industriali di ieri e dai piccoli manager di oggi. Quelli erano padroni che, dentro, continuavano a sentirsi operai. Padroni che usavano le mani, che parlavano in dialetto e che conservavano un’intima diffidenza per i saputelli anglofili che poi avrebbero rovinato tutto.Com’era bella quell’Italia. Provinciale, ombelicale, modesta, furbacchiona, eppure così solida, generosa e vitale. Scrivere è terapeutico. Così mi accorgo solo ora del motivo profondo per cui ho scritto questo articolo senza capo né coda. L’ho scritto perché non riesco a perdonare chi mi ha portato via quel paese. Non perdono chi ci ha abituato a fare debiti per tv ultrapiatte, chi ci ha venduto come modernità i co.co.co, i co.co.pro e i voucher e chi ha inchiodato i giovani ad un telefonino per distrarli da un oggi senza domani. Più di tutto, però, io non riesco a perdonare chi non ha soccorso quei piccoli eroi dalle mani callose che, piuttosto di abbassare la saracinesca di una fabbrica, hanno scelto di abbassare la saracinesca di una vita. Padroni perché padroni di loro stessi. Operai perché operosi.(Alessandro Montanari, “Com’era bella l’Italia quando non eravamo liberisti”, da “Interesse Nazionale” dell’8 giugno 2017. Giornalista e autore televisivo, Montanari ha lavorato in Rai a “L’ultima parola” e ora, sempre con Gianluigi Paragone, lavora a “La Gabbia Open”, su La7).Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.
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Magaldi: piango, per questa miserabile politica italiana
Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.No, viene proposto questo perché, evidentemente, è un sistema che – come qualcuno ha già detto – in Germania ha prodotto “grosse coalizioni” quasi sempre, mettendo in difficoltà il singolo partito o una colazione netta di governo. Dunque non produce vere alternanze, ingessa il sistema politico e forse è proprio questo il punto: qualcuno pensa che questo ingessamento sia necessario per neutralizzare il Movimento 5 Stelle. D’altra parte, si osserva che lo stesso Grillo, insieme a qualcuno dei pentastellati, potrebbe auspicare questo sistema, perché favorirebbe il nuovo abbraccio tra Berlusconi, Renzi e tutti quanti. Ma stanno già tremando, i “tutti quanti”: perché i vari Alfano e gli pseudo-progressisti di D’Alema, Bersani e Speranza sanno che non arrivano al 5% e quindi dovrebbero trovare prima un modo di ricevere una qualche elemosina dai rispettivi partiti di cui sono satelliti. Grillo sarebbe favorevole perché così, da quell’abbraccio, lui prenderebbe il via, poi, per una stagione in cui trionferebbe, dopo aver visto l’ennesima coalizione degli “impuri” e dei “corrotti”.Io piango, su questa miseria. Piango e rido insieme, come avrebbe detto Giordano Bruno: non saprei se divertirmi o disgustarmi, perché questo è un altro atto di una stagione veramente miserabile della politica italiana, che non ragiona in termini di regole del gioco lungimiranti per tutti, per il bene comune, ma fa calcoli di bottega, di corto respiro. Quindi credo che sia sempre più necessaria l’entrata in campo del “partito che non c’è”, di cui si parlerà il 10 giugno con tanti amici, a partire da quelli di “Pandora.Tv” e Giulietto Chiesa. Parlo del Partito Democratico Progressista. Anche perché, intanto, siamo ancora e sempre alle prese con una serie di saltimbanchi della politica italiana, che anche in questa occasione della legge elettorale non hanno mancato di evidenziare la propria mediocrità e la propria pochezza. Io vedrei con favore, in teoria, qualunque governo che fosse una soluzione di continuità rispetto al recente passato, che ha visto centrodestra, centrosinistra e “grossa coalizione” governare, tutti, male. Discorso di metodo, fatto anche per Roma: nella capitale, centrodestra e centrosinistra avevano mal governato e quindi era giusto dire “avanti la Raggi”. Più saggio e lungimirante sarebbe stato che il gruppo Raggi mettesse al primo posto il benessere di Roma, accettando la nostra proposta di collaborare con Nino Galloni e altre figure del Movimento Roosevelt. Risultato? Il “nuovo che avanza” non governa meglio del “vecchio” che sta là a gufare.E se Roma non è ben governata, il rischio c’è anche per l’Italia, sebbene in uno scenario che non mi sembra imminente: perché questa legge elettorale con lo sbarramento al 5%, che magari ha anche l’appoggio mefistofelico di Grillo e di alcuni pentastellati, non è fatta per far vincere, ora, il Movimento 5 Stelle; è per farlo vincere non domani, ma dopodomani. Però il punto è: su quale programma il Movimento 5 Stelle vuole governare l’Italia? Io ancora non l’ho capito. Forse non è pronto. Da un lato non lo sarà mai, se non si dà una ristrutturazione ideologica. E dall’altro potrebbe esserlo molto presto, se non si pone più soltanto il problema di raccogliere il consenso, ma anche di governare, sia le città che il paese. E non vale l’esempio della Appendino che governerebbe bene Torino, perché quella città si governa bene da sé: è amministrata abbastanza bene da molti anni, a prescindere da chi siede sulla poltrona di primo cittadino. Intendiamoci: ad oggi, il Movimento 5 Stelle ha tutto il diritto di chiedere per sé il governo del paese, per dimostrare di poter fare meglio degli altri, ma non si è ancora strutturato con un programma adeguato allo scopo. Per questo immagino sia ormai davvero inevitabile pensare al “partito che non c’è”.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli il 29 maggio 2017 nella diretta radiofonica “Massoneria on Air” su “Colors Radio”. Non è la prima volta che Magaldi accenna all’ipotetico Partito Democratico Progressista, che imposterebbe una politica di completa rottura col passato, partendo da un punto fondamentale: dire “no” a questa Ue, al Fiscal Compact, al pareggio di bilancio nella Costituzione).Legge elettorale col sistema tedesco? C’è un’invasione di personaggi e culture politiche tedesche: l’Italia sembra tornata a prima della Seconda Guerra Mondiale, quando l’influenza tedesca è stata sinistramente egemone. Oggi, al posto del truculento argomentare di Hitler abbiamo questa apparente pacioccona, questa ragazzotta tedesca ormai invecchiata, che però mette insieme il cinismo di alcuni ambienti dell’ex Germania Est con il peggio delle tendenze imperialiste di lungo corso della Germania, che precedono anche Hitler e la stagione del nazismo. Dopo aver mutuato l’austerità e avere introiettato tutte le “frescacce” che ci sono state propinate, in termini di dottrine economiche disutili per il popolo italiano e per l’Europa, utili solo per una Germania fattasi tramite di poteri sovranazionali, adesso ci viene proposta anche una legge elettorale simile a quella tedesca, proporzionale, con sbarramento al 5%. Quindi non sarebbe un proporzionale vero, che fotografi le articolazioni politiche come fu nella nostra Prima Repubblica, con partiti dignitosissimi con una storia culturale e ideologica importante, magari sotto il 5% ma che fecero cose anche egregie.
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Asse Londra-Pechino: ciao Usa e Ue, godetevi la Merkel
Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.«Com’è noto – scrive Sapelli sul “Sussidiario” – queste tre istituzioni sono dominate dagli Usa e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei». In una sua relazione del 2010, la Banca Asiatica di Sviluppo sosteneva che, per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica, si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. «Finora nulla è stato fatto, ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca». In breve, racconta Sapelli, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della nuova banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, paesi come Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh e Brunei, insieme a Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, e persino Uzbekistan e Mongolia. «Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar, a cui si aggiunsero nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam». Ma attenzione: nel 2015 hanno aderito anche Nuova Zelanda e Inghilterra.Sapelli considera «straordinaria» già la notizia dell’adesione della Nuova Zelanda, «che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia», che non a caso nel contesto del “Trans-Pacific Pact” ha firmato con gli Stati Uniti un accordo militare in funzione anti-cinese e dichiaratamente pro-giapponese. «Ma la notizia bomba – sottolinea Sapelli – è quella dell’adesione dell’Inghilterra». Cameron e Osborne, primo ministro e titolare degli esteri, sono stati chiari fin da subito, anche sul “Telegraph”, dichiarando che «il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali». Il problema, avverte Sapelli, ha gà avuto i suoi risvolti nel contesto della Nato, in cui «il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare». Il Regno Unito? Non si sta affatto “isolando”. Al contrario: «Si sta sempre più allontanando dall’Europa», e quindi «guarda sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa».Quello a cui Londra sta voltando le spalle è «l’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa». Per Sapelli, questo è «il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco». Secondo l’analista, questa decisione inglese «avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania». Quanto all’Europa del Sud, «è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista, che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco». Di fatto, «il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale». E per far questo, «sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo», ampliando così il solco apertosi con la crisi di Suez del ‘56, quando gli Usa (e l’Urss) si opposero all’invasione inglese dell’Egitto non-allineato di Nasser, mettendo fine al monopolio britannico sul Mediterraneo. Alla nascita del clamoroso asse Londra-Pechino, gli Stati Uniti hanno reagito «in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica». In ogni caso, continua Sapelli, è indubbio che «la ferita è profonda». E l’incapacità egemonica degli Usa «in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico». Infatti, «tutte le famiglie politiche degli Usa sono in preda al caos».La divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna «non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia, con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo». Nella nuova super-banca cinese, infatti, sono presenti anche Giordania, Arabia Saudita, Oman e Qatar: «Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli Usa, impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran». Inutile aggiungere, conclude Sapelli, che le conseguenze saranno «drammatiche» anche per l’Italia, «paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli Usa la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata della Regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano», evento che Sapelli definisce «caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica». Tra le ombre che gravano sul nostro paese, anche l’influenza israeliana nell’eventuale dopo-Netanyahu e i rivolgimenti in Libia per mano dell’Isis. Tutto questo, anche alla luce della svolta inglese: chi condizionerà le decisioni strategiche italiane nel Mediterraneo?Sullo sfondo, naturalmente, l’impressionante iniziativa della Cina di Xi Jingping, che «ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli Usa». In particolare, Pechino «sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli Usa e dai suoi alleati europei». Si è iniziato con la Brics Bank, che oltre ai cinesi raccoglie Brasile, Russia e India, e si è continuato con la “New Silk Road”, «che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni». Dinanzi a queste iniziative, «l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli Usa», dove «l’isterico ometto» Netanyahu, invitato dai repubblicani, ha potuto parlare al Congresso sfidando «l’inconsapevole povero Obama». Insomma, «il disordine sta diventando caos». E in questo caos, la Cina avanza. Reclutando addittura l’Inghilterra.Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.
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Matteo, le elezioni e quella scocciatura chiamata democrazia
«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».Su “Micromega”, Barberis punta il dito anche contro «il fallimento delle Regioni, che da cardine del federalismo all’italiana si sono trasformate in carrozzoni costosi e inefficienti», un fardello ben più gravoso di quello delle Province, da poco “rottamate a metà” (eliminate le elezioni, non gli enti). Oggi, secondo Barberis, le Regioni volute con forza dal Pci di Berlinguer per distribire territorialmente e democratizzare il governo dello Stato «non le difende più nessuno, neppure la Lega di Matteo Salvini, ormai convertita in un partito nazionalista alla Le Pen». Le Regioni sono state travolte dagli scandali? «Ma lo sono state ancor più dalla crisi finanziaria», sottolinea l’analista di “Micromega”: gli enti locali, da cui dipende la delicatissima gestione di un servizio-chiave come quello sanitario, sono state letteralmente prese al laccio dalla politica di austerity, che impone un drammatico ridimensionamento della protezione sociale, a scapito in primo luogo dei cittadini più bisognosi, quelli che non possono permettersi cliniche private.L’altra grande ragione del dilagante astensionismo, secondo Barberis, è «la liquefazione dei grandi partiti radicati sul territorio, ormai sostituiti da comitati elettorali all’americana che però non mobilitano gli elettori». Quale che sia il risultato del voto, il discorso riguarda soprattutto l’ultimo partito rimasto, il Pd renziano, che «nonostante gli infuocati comizi del leader in Emilia, porta al voto percentuali di elettori minori che in Calabria». Al di là dell’analisi dei flussi elettorali contingenti, compreso il “boicottaggio” ispirato dalla Cgil presa a schiaffi dal premier, «l’impressione è che quanto Renzi perde a sinistra, attaccando i sindacati, non lo riguadagna a destra, abbracciando la Confindustria». Triste risultato della politica-spettacolo, che Bernard Manin chiama “democrazia del pubblico”: «Proporre slogan cool, o smart, o trendy, al solo fine di mantenere il potere o di conquistarlo, senza uno straccio di progetto per il futuro». Strada segnata? Declino elettorale per tutte le democrazie occidentali? Non proprio: «C’è un abisso di cultura e di lungimiranza politica fra Renzi che attacca l’articolo 18 per racimolare qualche voto di destra e Obama che, imparando da una sconfitta, regolarizza cinque milioni di immigrati pensando al futuro del proprio paese».«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».
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Foa: posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi
C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.C’è un vincolo sociale, o se preferite morale, che porta i dirigenti delle imprese a usare con buon senso e nelle giuste proporzioni un diritto in sé molto potente. La cultura prevalente tende a biasimare chi scade nell’abuso o nello sfruttamento e, sebbene ci siano dei casi disdicevoli, pochi violano questa legge non scritta. Inoltre, come noto, la Svizzera primeggia nelle classifiche mondiali sull’imprenditoria. La Svizzera è business friendly: le aziende nascono, crescono, si sviluppano e restano sul territorio. Risultato: la disoccupazione è bassissima e la Confederazione elvetica continua ad assumere lavoratori dall’estero, a riprova di un mercato dinamico. Ma in Italia? Purtroppo in Italia non si può dire lo stesso. La cultura sociale non è basata sul rispetto, ma sulla sfiducia sociale, sull’elusione della legge, sui rapporti di forza con le controparti sociali.A fronte di molti imprenditori seri che hanno un rapporto corretto, spesso esemplare, con i propri dipendenti, ne esistono altri – sovente nei servizi – che scadono nello sfruttamento; quegli imprenditori (ammesso che possano essere considerati tali) che assumono in nero o vanno avanti con contratti a tempo determinato senza mai trasformarli in contratti a tempo indeterminato, insomma che sfruttano i lavoratori, che speculano sulla loro disperazione sociale. Sono questi figuri che alla fine legittimano e rafforzano il sindacato. E c’è l’Italia di oggi: un’Italia ormai quasi deindustrializzata non per demerito dei suoi imprenditori ma a causa degli effetti delle politiche irresponsabili, vessatorie e ingiuste volute dall’establishment europeo e portate a termine con solerzia da Mario Monti ed Enrico Letta, con la benedizione del pontefice di Francoforte Mario Draghi.Nell’Italia di oggi il problema non è il posto fisso, bensì che il posto non c’è più. Coloro che hanno provocato questa desertificazione economica sono gli stessi che da 15 anni promettono di anno in anno riprese che non arrivano mai, paradisi che non si materializzano mai, vaticinano di economia di mercato e di flessibilità ma promuovono la burocratizzazione dell’economia europea, avallando rigidità strutturali insostenibili. E fino a quando Matteo Renzi non avrà affrontato questo problema, trovando il coraggio di distanziarsi dal pensiero unico dominante e di mettere di nuovo le aziende nelle condizioni di crescere in libertà, nulla verrà risolto. La riforma dell’articolo 18 rischia di non produrre gli effetti virtuosi sperati ma, paradossalmente, di far aumentare la disoccupazione o di comprimere ancor di più verso il basso i salari. Da sola non basta. Ci vorrebbero un progetto, un’idea del paese, fiducia nel genio imprenditoriale degli italiani e il coraggio di liberare le imprese e l’Italia dai vincoli burocratici ed esterni che ne inibiscono la creatività. Ci vorrebbe un leader concreto, coraggioso e lungimirante. Qualcuno di ben diverso da Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 ottobre 2014).C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.
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Ripresa Usa? Tutte bugie: le statistiche sono truccate
Ci raccontano che l’America di Obama ha superato la crisi del 2008 crescendo del 4,6% all’anno? Falso: ricalcolando i dati senza i filtri convenzionali delle statistiche, dice Giuseppe Masala, scopriamo che anche gli Usa sono in recessione costante: il loro prodotto interno lordo arretra ogni anno di oltre ol 2%. Idem l’occupazione: un’analisi accurata rivela che dal 2007 gli Stati Uniti hanno creato oltre un milione di posti di lavoro, ma al tempo stesso hanno espulso dalla forza lavoro oltre 13 milioni di individui. «Veramente troppi per credere che si siano tutti ritirati dal mercato perché diventati milionari e dunque possano godersi la vita in qualche isola caraibica per ricchi». Il trucco? Negli Usa, resta ufficialmente “disoccupato” solo chi ha perso il lavoro e ne cerca un altro nelle successive quattro settimane. Trascorse le quali, l’ex lavoratore semplicemente scompare dai radar: non viene più conteggiato in nessuna statistica.«Molti commentatori si esercitano nell’illustrazione della tesi secondo la quale gli Usa sarebbero usciti dalle secche della crisi esplosa nel 2008 grazie a una politica monetaria molto più lungimirante di quella europea», scrive Masala su “Zeroconsensus”. Le cifre ufficiali raccontano che la disoccupazione di sarebbe ridotta al 5,9%, mentre il Pil avanzerebbe a vele spiegate verso il 5% su base annua. L’errore ottico? Sta nei cosiddetti “filtri”, come il cosiddetto U3 che calcola solo i disoccupati ufficiali, quelli che si mettono subito alla ricerca di un nuovo lavoro e trascura tutti gli altri. «L’esclusione dall’insieme dei disoccupati – come è facilmente intuibile – comporta anche l’esclusione dall’insieme delle persone che vanno a formare la cosiddetta forza lavoro e dunque la base sulla quale viene calcolata la percentuale dei disoccupati. Infatti, secondo le fonti ufficiali come il “Federal Boureau of Labor Statistics”, «la forza lavoro americana continua a restringersi». Molto più credibile, rileva Masala, l’ipotesi che il “filtro” utilizzato sia a maglie troppo strette, e quindi «non adatto a descrivere la profondità della crisi sociale americana».Anche le vere stime sul Pil smentiscono «i corifei della bruciante “ripartenza” americana». Infondato, per “Zeroconsensus”, l’incremento del 4,6%: «La crescita del Pil annuale per raggiungere questo dato deve essere costante e uniforme per tutto l’anno. Infatti questa cifra è calcolata prendendo il dato calcolato sul trimestre precedente e moltiplicato per 4 (quattro sono i trimestri in un anno). Dunque una crescita sul trimestre precedente dell’1,15% diventa del 4,6% una volta annualizzata (ripeto, nell’ipotesi assolutamente non credibile che nei seguenti tre trimestri la crescita sia costante e uniforme). Non basta. Se andiamo a vedere cosa accadde nel trimestre precedente vediamo che il dato diventa ancora più bizzarro e incredibile. Infatti nel secondo trimestre del 2014 la crescita americana non è stata una crescita, ma una decrescita: -2,9% annuo. In altri termini, il Pil del primo trimestre Usa (calcolato a sua volta sul Pil del quarto trimestre del 2013) era pari a -0,725%, che moltiplicato a sua volta per quattro era pari – appunto – a -2,9%».«Chiunque può comprendere che un calcolo del Pil di questo genere è un puro gioco di prestigio», aggiunge Masala. Le innovazioni sul metodo di calcolo del Pil (Sec 2010) non riguardano solo la facoltà di introdurre nel computo lo spaccio di droga, la prostituzione e il contrabbando, ma anche la riclassificazione delle spese in ricerca e sviluppo, nonché le spese militari (che passano da “consumi intermedi” a “investimenti fissi”) e una nuova definizione di “scambi con l’estero”. Solo a quel punto – cioè inserendo fatturato criminale e guerra, e spacciando le spese per investimenti – si può arrivare a un incremento teorico del 3%. Pura distorsione ottica: «Sembra di essere di fronte ad una enorme manipolazione dei dati, al fine di far credere che il sistema Usa (e dunque la sua peculiare forma di capitalismo) sia in buona salute quando in realtà ha ancora di fronte a sé un enorme crisi tutta da risolvere». Citazione manzoniana: «“Troncare, sopire e manipolare”, direbbe oggi il Conte Zio». Tutto questo, probabimente, contribisce a spiegare anche la gigantesca proiezione degli Usa verso quella che i più pessimisti chiamano Terza Guerra Mondiale.Ci raccontano che l’America di Obama ha superato la crisi del 2008 crescendo del 4,6% all’anno? Falso: ricalcolando i dati senza i filtri convenzionali delle statistiche, dice Giuseppe Masala, scopriamo che anche gli Usa sono in recessione costante: il loro prodotto interno lordo arretra ogni anno di oltre ol 2%. Idem l’occupazione: un’analisi accurata rivela che dal 2007 gli Stati Uniti hanno creato oltre un milione di posti di lavoro, ma al tempo stesso hanno espulso dalla forza lavoro oltre 13 milioni di individui. «Veramente troppi per credere che si siano tutti ritirati dal mercato perché diventati milionari e dunque possano godersi la vita in qualche isola caraibica per ricchi». Il trucco? Negli Usa, resta ufficialmente “disoccupato” solo chi ha perso il lavoro e ne cerca un altro nelle successive quattro settimane. Trascorse le quali, l’ex lavoratore semplicemente scompare dai radar: non viene più conteggiato in nessuna statistica.