Archivio del Tag ‘Marcello Foa’
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Foa: Renzi come Hillary, solo i media gli credono ancora
Ma perché Renzi non piace più? Perché non riesce più a convincere gli italiani? Me lo ha chiesto un giornalista del sito “ilsussidiario.net”, Federico Ferraù, intervistandomi sulla campagna referendaria. Ne è uscita una bella intervista, che potete leggere integralmente qui. La mia tesi è che Renzi stia ripetendo gli errori di Hillary Clinton, puntando soprattutto al controllo dei media mainstream. Controlla la Rai, Mediaset lo aiuta, i principali giornali sono favorevoli o comunque non ostili al governo, eppure questo non basta più a convincere la gente. Il modo di informarsi della popolazione è molto più diversificato rispetto al passato e va di pari passo con una crescente sfiducia verso la grande informazione, percepita come poco autorevole e ancor meno indipendente. Esiste un problema di fiducia personale nei confronti del premier. Quando Oscar Farinetti, che per queste cose ha la vista lunga, dice «dobbiamo tornare ad essere simpatici» (“Corriere della Sera”, 6 novembre), tocca un nervo scoperto. Il problema è che il premier è vittima della sua stessa propaganda.Se chi sta al governo promette le riforme in cento giorni, dice che “l’Italia riparte” e fa ossessive accuse a gufi e rosiconi, ma poi la gente nella vita di tutti i giorni non vede un cambiamento reale, l’impressione che si genera nell’opinione pubblica è che chi sta al governo non dica la verità. E quello che Renzi paga, oggi, è proprio un fortissimo deficit di credibilità, che, combinato al fattore mediatico, spiega perché la propaganda messa in campo non riesce a suscitare quel consenso che invece sarebbe lecito aspettarsi. Con tutta l’energia che Renzi vi ha messo finora, il Sì dovrebbe essere al 70% e il No al 30. E invece non si schioda da percentuali deludenti e per ora minoritarie. La propaganda martellante diventa addirittura controproducente. Insomma, la gente non gli crede più.Quando c’era il monopolio dell’informazione la gente “beveva” tutto quello che diceva la tv; oggi la tv è vista in modo costante soprattutto dagli over 60-65. Il resto della popolazione si informa anche sui social media, sui blog, sui siti di informazione alternativa; integra da sola le fonti e i frammenti. Oggi il messaggio di propaganda pura, tradizionale, non è più efficace come prima. Le prove? Brexit, in cui tutti i media tradizionali erano schierati contro, in un clima di terrorismo psicologico. Poi il voto Usa: la stragrande maggioranza dei media era sicurissima del trionfo di Hillary e pronosticava sfracelli finanziari in caso di vittoria di Trump; e invece… Così anche gli italiani non credono più che il paese andrebbe a catafascio se il Sì dovesse perdere il 4 dicembre.La contro-informazione è molto più efficace di quanto si pensi, perché è “one to one”, e per questo viene percepita da un numero crescente di italiani disillusi come più personalizzata e credibile dell’informazione ufficiale, televisiva ma non solo. Non è un caso che oggi i giornali assistano a un crollo delle vendite. Renzi sa comunicare molto bene, però è vittima della sindrome del Palazzo, come capita a quasi tutti i leader politici al governo nell’arco di due-tre anni: entrano in una bolla e non riescono più a capire il paese, che si ribella, che diffida, che diventa impermeabile a ogni forma di propaganda.(Marcello Foa, “Renzi non sa più comunicare, l’avreste mai detto?”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 18 novembre 2016).Ma perché Renzi non piace più? Perché non riesce più a convincere gli italiani? Me lo ha chiesto un giornalista del sito “ilsussidiario.net”, Federico Ferraù, intervistandomi sulla campagna referendaria. Ne è uscita una bella intervista, che potete leggere integralmente qui. La mia tesi è che Renzi stia ripetendo gli errori di Hillary Clinton, puntando soprattutto al controllo dei media mainstream. Controlla la Rai, Mediaset lo aiuta, i principali giornali sono favorevoli o comunque non ostili al governo, eppure questo non basta più a convincere la gente. Il modo di informarsi della popolazione è molto più diversificato rispetto al passato e va di pari passo con una crescente sfiducia verso la grande informazione, percepita come poco autorevole e ancor meno indipendente. Esiste un problema di fiducia personale nei confronti del premier. Quando Oscar Farinetti, che per queste cose ha la vista lunga, dice «dobbiamo tornare ad essere simpatici» (“Corriere della Sera”, 6 novembre), tocca un nervo scoperto. Il problema è che il premier è vittima della sua stessa propaganda.
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Foa: solo i media si stupiscono della rivolta contro l’élite
«E’ troppo presto per dire che Trump sarà un pessimo presidente, così come era stato troppo presto affermare, otto anni fa, che Obama sarebbe stato un grande presidente. Lasciamoci sorprendere». Parola di Marcello Foa, uno dei pochissimi grandi osservatori italiani a potersi dichiarare nient’affatto stupito dalla clamorosa vittoria di Donald Trump. Un uomo, dice, da cui teoricamente l’Europa potrebbe aspettarsi solo vantaggi. Uno su tutti: la fine delle tensioni con la Russia, pericolose e per noi costosissime. L’establishment è nel panico? Anche qui, nessuna sorpresa: «I media sono i grandi sconfitti di queste elezioni, perché ancora una volta non avevano previsto nulla», dichiara Foa sulla sua pagina Facebook poco dopo l’ufficializzazione della vittoria di Trump. «Bastava andava a vedere l’andamento della campagna elettorale sui siti Internet e sui social media, osservando quanta gente andava ai comizi di Trump e quanta poca gente andava ai comizi di Hillary: appariva chiaro che in America c’era un malessere profondo, che aspettava solo l’occasione giusta per esplodere e per manifestarsi». Attenzione: «E’ lo stesso malessere che aveva indotto la maggior parte degli americani, otto anni fa, a dare fiducia a Barack Obama, quando prometteva speranza e cambiamento».Come sappiamo, «Obama non è stato all’altezza dell’aspettativa e ha prolungato le campagne politiche di Clinton e Bush. E questo ha deluso profondamente gli americani, impoverendo la classe media, la quale oggi ha dato fiducia all’unica persona che ha saputo capire le sue paure: Donald Trump». E’ un personaggio ideale? «La risposta ovviamente è no, perché – in un mondo normale – un personaggio come Trump», magari anche «simpatico» però «eccentrico, totalmente fuori dagli schemi, quasi clownesco» non avrebbe mai avuto la possibilità di diventare presidente. «Però, se lo è diventato, la colpa è fondamentalmente delle élite che hanno governato gli Stati Uniti, che sono diventate troppo autoreferenziali: non capiscono i problemi della popolazione normale, della gente, delle piccole e medie industrie». Le oligarchie di potere, continua Foa, «hanno rovinato il tessuto sociale degli Stati Uniti». Quello dato a Trump «è un voto contro la globalizzazione, contro l’anteporre interessi troppo ristretti rispetto a quelli della maggioranza – e questo è il segnale che è uscito anche dalla Brexit. Di certo, gli americani si sono riappropriati della loro democrazia».Il corollario è consueto: paura, allarme. «Il dollaro crolla, le Borse crolleranno, è uno scenario già visto altre volte – l’abbiamo visto con la Brexit». Dobbiamo dedurne che Trump sarà un cattivo presidente? Niente affatto, sostiene Foa: «La storia insegna che le oscillazioni dei mercati finanziari vanno prese per quello che sono, movimenti a corto termine. Quel che per noi è importante capire, invece, è quale sarà il programma di Donald Trump e quale sarà la sua squadra». In politica estera, «paradossalmente Trump è più rassicurante, meno pericoloso di quanto sarebbe stata Hillary Clinton, se fosse stata eletta alla Casa Bianca, perché Trump propone una distensione con la Russia e vede un ruolo dell’America meno aggressivo e meno destabilizzante di quanto sia stato fino ad oggi». E questo, aggiunge Foa, «per noi europei è perlomeno un’aspettativa senz’altro positiva: abbiamo bisogno di stabilità e distensione col nostro più grande vicino, che è la Russia».L’incognita principale è proprio la squadra del neopresidente: «Oggi non sappiamo chi siano gli uomini dietro a Trump, non sappiamo neanche se si sia costruito una squadra con sé». Questo sarà il grande tema dei prossimi due mesi, ovvero il tempo che ci separa dal momento in cui Trump verrà insediato ufficialmente alla Casa Bianca. Dobbiamo essere preoccupati? «Be’, in una certa misura sì: quando non si sa qual è la squadra, ovviamente c’è da farsi qualche domanda. Però, tradizionalmente, quando personaggi eccentrici e imprevedibili come Donald Trump arrivano al potere, di solito l’effetto è opposto a quello che la maggior parte dei media si aspetta». Ovvero: «Quando sei nella stanza dei bottoni, appena ti rendi conto di quanto potere hai, e che governare un grande paese democratico come gli Stati Uniti significa rispettare i “check and balances” e il rapporto col Congresso, di solito l’effetto è calmante, moderatore». Magari «tenterà alcune riforme», ma per diversi mesi, profetizza Foa, il neopresidente «risulterà più moderato e rassicurante di quanto non sia stato in campagna elettorale, dove come sappiamo si tende a esagerare». Aspettiamo e vediamo, conclude Foa. E soprattutto: non affrettiamo giudizi sbagliati, come fu per Obama.«E’ troppo presto per dire che Trump sarà un pessimo presidente, così come era stato troppo presto affermare, otto anni fa, che Obama sarebbe stato un grande presidente. Lasciamoci sorprendere». Parola di Marcello Foa, uno dei pochissimi grandi osservatori italiani a potersi dichiarare nient’affatto stupito dalla clamorosa vittoria di Donald Trump. Un uomo, dice, da cui teoricamente l’Europa potrebbe aspettarsi solo vantaggi. Uno su tutti: la fine delle tensioni con la Russia, pericolose e per noi costosissime. L’establishment è nel panico? Anche qui, nessuna sorpresa: «I media sono i grandi sconfitti di queste elezioni, perché ancora una volta non avevano previsto nulla», dichiara Foa sulla sua pagina Facebook poco dopo l’ufficializzazione della vittoria di Trump. «Bastava andava a vedere l’andamento della campagna elettorale sui siti Internet e sui social media, osservando quanta gente andava ai comizi di Trump e quanta poca gente andava ai comizi di Hillary: appariva chiaro che in America c’era un malessere profondo, che aspettava solo l’occasione giusta per esplodere e per manifestarsi». Attenzione: «E’ lo stesso malessere che aveva indotto la maggior parte degli americani, otto anni fa, a dare fiducia a Barack Obama, quando prometteva speranza e cambiamento».
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Media bugiardi, rottamati dal voto degli americani
Puoi imbrogliare qualcuno una volta, ma non puoi fregare sempre tutti. Un vecchio adagio, su cui ora sorride, imperscrutabile e beffarda, la parrucca dell’impresentabile Donald Trump, incidentalmente eletto presidente degli Stati Uniti d’America proprio il 9 novembre, anniversario del crollo del Muro di Berlino. L’uomo che tra stracciato la terribile Hillary, che ha reso patetica l’ultima recita di Obama, e che – soprattutto – ha smascherato la cialtroneria universale dei media mainstream, dalla “Cnn” al “New York Times”, tutti schierati – in modo plumbeo, come in un regime totalitario – con la signora Clinton. E’ uno smacco che getta nel ridicolo giornalisti, anchorman, editori, analisti, inviati, reporter, celebrati esperti. Tutti fuori strada, disastrosamente. E quasi tutti in palese malafede: hanno finto di non vedere cosa covava nel ventre profondo dell’America. Hanno ignorato le notizie principali: come i sondaggi pro-Hillary ampiamente truccati, secondo le email intercettate da Wikileaks. E le rilevazioni decisive, secondo cui il 70% del campione, sette americani su dieci, non si fida più della narrazione ufficiale, delle grandi testate. Bingo.Anche gli americani, nel loro piccolo, s’incazzano – se continui a raccontare frottole, mentre l’economia va a rotoli e la middle class scivola sempre più in basso. In attesa di vedere come se la caverà Trump, che ha promesso una svolta estremamente impegnativa, ai limiti della fantascienza (nuovo miracolo economico, fine della globalizzazione imperiale), gli elettori non vedevano l’ora, intanto, di punire i super-bugiardi al potere da troppo tempo, da Barack Obama (che nel 2011 raccontò alla nazione e al mondo, senza uno straccio di prova, di aver ucciso Osama Bin Laden) a Hillary Rodham, che voleva insediarsi alla Casa Bianca dopo aver definito il presidente russo “il nuovo Hitler” e aver accumulato, col marito Bill, qualcosa come 230 milioni di dollari in conferenze pagate dai colossi di Wall Street, Goldman Sachs in testa. L’elenco degli sconfitti è sterminato: da George W. Bush, che si è vantato di non appoggiare Trump, all’attore Robert De Niro, che l’ha definito “un cane, un maiale”, candidandosi a “prenderlo a pugni in faccia”.Lo spettacolo è finito, cala il sipario sulla campagna elettorale più “cattiva” della storia americana. Ha vinto Trump, hanno perso i media. Gli stessi che in Francia lavorano per oscurare Marine Le Pen, che in Gran Bretagna hanno presentato la Brexit come l’apocalisse. Gli stessi media che, nel 2013, in Italia davano Grillo al 12%, fino a poche prima che il Movimento 5 Stelle, col 25% del voi, diventasse il primo partito alla Camera. La sensazione è che stia davvero finendo un’epoca, nel cui ultimo frangente il sistema mainstream ha fatto da grancassa anche alla guerra, in tutto il mondo. La catastrofe in Libia, le menzogne sul golpe in Ucraina, le fiabe nere sulla Siria, la vera origine dell’Isis. Zero verità, sui grandi media. Ma i cittadini si sono informati lo stesso, racconta Marcello Foa, grazie a media indipendenti come “InfoWars”. E hanno misurato la distanza tra le breaking news e la verità vera, quella che l’establishment si è rifiutato di raccontare: per questo ora subisce una rottamazione storica, epocale.Fine dalla guerra fredda con la Russia? E’ quello che tutti si augurano, tranne i businessman del Pentagono e della Nato, e che lo stesso Trump lascia intravedere, già dal suo primo discorso da vincitore. Ma, ammesso che sia davvero solido il suo programma geopolitico, bisogna capire se e quanto potrà attuarlo: nel suo staff si è insinuato un super-falco come Michael Ledeen, uno specialista della strategia della tensione, come anche il neo-vicepresidente, Mike Pence, l’uomo che gestì la montatura dell’antrace come falso alibi per poter invadere l’Iraq di Saddam. All’inizio delle primarie, “The Donald” era dato al 6%. «In realtà – svela Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni” – è stato segretamente appoggiato dalla super-massoneria progressista per sbarrare la strada al candidato repubblicano più pericoloso, Jeb Bush, esponente della superloggia “Hathor Pentalpha”, implicata negli attentati dell’11 Settembre e nella “fabbricazione” dell’Isis». Trump però è andato molto oltre, sbaragliando anche la Clinton. «Comunque sia – sottolineava lo stesso Magaldi, alla vigilia dell’election-day – l’esito del voto americano non potrà che “svegliare” chi ha dormito per così tanto tempo, gettando finalmente le basi per la rinascita di una autorevole leadership progressista per gli Stati Uniti, assente dalla scena dai tempi dei Kennedy e di Martin Luther King».Puoi imbrogliare qualcuno una volta, ma non puoi fregare sempre tutti. Un vecchio adagio, su cui ora sorride, imperscrutabile e beffarda, la parrucca dell’impresentabile Donald Trump, incidentalmente eletto presidente degli Stati Uniti d’America proprio il 9 novembre, anniversario del crollo del Muro di Berlino. L’uomo che ha stracciato la terribile Hillary, che ha reso patetica l’ultima recita di Obama, e che – soprattutto – ha smascherato la cialtroneria universale dei media mainstream, dalla “Cnn” al “New York Times”, tutti schierati – in modo plumbeo, come in un regime totalitario – con la signora Clinton. E’ uno smacco che getta nel ridicolo giornalisti, anchorman, editori, analisti, inviati, reporter, celebrati esperti. Tutti fuori strada, disastrosamente. E quasi tutti in palese malafede: hanno finto di non vedere cosa covava nel ventre profondo dell’America. Hanno ignorato le notizie principali: come i sondaggi pro-Hillary ampiamente truccati, secondo le email intercettate da Wikileaks. E le rilevazioni decisive, secondo cui il 70% del campione, sette americani su dieci, non si fida più della narrazione ufficiale, delle grandi testate. Bingo.
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Crisi e guerra, la grande paura. E l’Fbi azzoppa la Clinton
Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è così strano, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia. E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.L’escalation a Kiev fu decisa in risposta alla decisione di Putin di schierarsi in difesa della Siria: un cambio di rotta radicale, dopo che il Cremlino aveva assistito passivamente all’ultima puntata della “guerra infinita”, la demolizione della Libia. Dietro le quinte, a Washington, a fare la prima mossa sono sempre loro, gli uomini del Pnac, quelli del “nuovo secolo americano”, protagonisti delle guerre di Bush innescate dall’11 Settembre. E’ il famigerato super-vertice globalizzatore, finanziario e militare, “l’Impero”. Non tollera l’idea che gli Stati Uniti possano perdere i propri immensi privilegi, che sorreggono il tenore di vita (e i clamorosi profitti dell’élite), e per questo è pronto a tutto – anche una Terza Guerra Mondiale, nucleare? Ne è convinto l’ex viceministro di Reagan, Paul Craig Roberts, secondo cui i grandi media – sotto Obama – hanno coperto una sostanziale “dittatura” instauratasi alla Casa Bianca, dove il presidente non è il che il terminale, sempre più opaco, di micidiali gruppi di interesse, completamente irresponsabili e ormai anche in preda al panico, ossessionati dalla paura di perdere il loro immenso potere. Recenti sondaggi, dice Marcello Foa, rivelano che il 70% degli elettori statunitensi non credono più ai grandi media, dai network televisivi al “New York Times”, tutti schierati con la Clinton e ridotti a mero strumento di propaganda dell’establishment, di cui Trump è visto come antagonista.«Illusionismo, puro gioco delle parti», sostiene Fausto Carotenuto, analista internazionale, ai microfoni di “Border Nights”: «Si scontrano due gruppi di potere, sempre gli stessi: uno è definito conservatore, quello che appoggia la Clinton, e l’altro si definisce progressista ma è ancora più ipocrita del primo». Super-massoneria occulta: quella che Gioele Magaldi, progressista, ha messo in piazza tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere). Un altro esponente della cultura massonica italiana, Gianfranco Carpeoro, autore del recentissimo saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori), avverte: «La novità è che il vertice di quel potere è spaccato, come dimostra l’appoggio dato a un candidato come Sanders». Grandi defezioni, nelle alte sfere, avrebbero propiziato la stessa candidatura Trump. Diserzioni così preoccupanti, secondo Carpeoro, da spingere “l’ala destra” del super-potere a ricorrere in modo sistematico anche alla strategia della tensione, come si deduce dal moltiplicarsi di sanguinosi attentati in Europa, organizzati da quella che Carpeoro chiama “sovragestione”, ovvero: elementi di vertice che si avvalgono di settori dei servizi segreti, che all’occorenza reclutano kamikaze jihadisti.Il vertice della piramide è diviso? Lo dimostra il testa a testa fra Hillary e Trump. E una delle massime eminenze grigie del super-potere massonico, Zbigniew Brezinzki, qualche settimana fa aveva avvertito: ora basta con la guerra fredda, è tempo di sedersi attorno a un tavolo con Putin e coi cinesi, perché questa escalation porta solo al rischio di una catastrofe. Attenzione: Brzezinski è stato uno dei massimi architetti della globalizzazione “imperiale”. Il pericolo di un collasso è concreto, sostiene Giulietto Chiesa: «I padroni universali sanno quello che sta succedendo, e più o meno – tra di loro – se lo dicono». Chiesa cita dichiarazioni recenti, molto inquietanti: da Rockefeller, secondo cui «la Terza Guerra Mondiale è inevitabile: dovremmo metterci d’accordo coi russi, ma temo che non ce la faremo», a Rotschild, che avverte: «Sta per terminare il più grande esperimento finanziario mai realizzato nella storia», la finanza monetarista svincolata dall’economia reale, «e adesso stiamo entrando in acque inesplorate». E Larry Summers, ex segretario al Tesoro, aveva profetizzato: la crescita del Pil mondiale si fermerà attorno al 2005. «Ci stanno dicendo che si sta avvicinando una catastrofe, la fine di questo capitalismo finanziario. Non c’è da stupirsi, quindi, dei preparativi di guerra cui stiamo assistendo».Tra i nuovi “catastrofisti” si iscrive anche il finanziere Carlo De Benedetti, che al “Corriere della Sera” dichiara: «Sta arrivando una crisi gigantesca, che metterà in forse tutta la democrazia nel mondo». Giulietto Chiesa è pessimista: «Tutti quelli che pensano che non succederà niente, perché alla fine ci si metterà d’accordo, si sbagliano. Non sono “i cattivi” che vogliono la guerra, è la situazione che non è sanabile: siamo governati da imbecilli, in un mondo totalmente diviso tra ricchi e poveri come mai nella storia dell’umanità». Lo stesso Carpeoro, nei mesi scorsi, è tornato più volte sul tema: «Il nuovo ordine mondiale è fatalmente incompiuto, provano sempre a realizzarlo ma non ci riescono mai fino in fondo, perché litigano tra loro». Una rissa pericolosa, che può anche esplodere – sotto forma di terrorismo e bombe, domani anche atomiche? Difficile credere che tutto sia appeso, davvero, al solo parrucchino di Trump: non può essere un caso che un super-potente come James Comey, capo dell’Fbi, scenda in campo – a due passi dal voto – per tentare di sbarrare la strada della Casa Bianca ai “padroni” di Hillary Clinton, i “signori della guerra”. Zero fair-play, dicono i commentatori mainstream: la campagna più brutta della storia delle elezioni Usa. Forse anche la più drammatica, cruciale, pericolosa.Non è strano che, a una settimana dal voto, l’Fbi riapra le indagini sullo staff di Hillary Clinton, terremotando inevitabilmente i sondaggi, già in fibrillazione? Non è strano che il direttore della prestigiosa polizia federale osi un gesto simile, alla vigilia dell’election day, come se non ne temesse le conseguenze? Forse non è poi così sorprendente, se si rileggono – oggi, a qualche mese di distanza – alcune ricostruzioni provenienti dall’Italia: Trump non è (solo) la “bomba a mano” incontrollabile descritta dai media mainstream, ma è anche e soprattutto una “scommessa coperta”, un Cavallo di Troia abilmente lanciato nel campo repubblicano alla stessa élite super-massonica “progressista” che, nel campo opposto, aveva appoggiato il socialista Bernie Sanders. Trump doveva servire a fermare Jeb Bush, Sanders a ostacolare l’ascesa della Clinton. Oggi questo ruolo è stato ereditato dallo stesso Trump, ma il copione non cambia. E il “pericolo” non è Hillary, ma i poteri fortissimi che l’hanno scelta come esecutrice del loro volere, così come scelsero personaggi “neocon” come Victoria Nuland, introdotta nel team di Obama con l’obiettivo di destabilizzare la Russia attraverso la sfida alle frontiere, cominciando dal golpe in Ucraina travestito da rivoluzione.
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Se gli americani ora scoprono chi è davvero Hillary Clinton
Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.«Attenzione, si profila uno scenario imprevedibile fino a poche ore fa: il sorpasso di Trump su Hillary nell’ultima settimana della campagna elettorale», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”. «L’emailgate è devastante per l’immagine della Clinton, perché alimenta il sospetto che non sia affidabile, che abbia qualcosa da nascondere, che sia una mentitrice seriale». Ovvero: «Rafforza la diffidenza nei confronti della sua persona, che è stato il suo principale handicap in questi mesi». I contorni della vicenda sono da film: l’Fbi ha trovato le email di Hillary indagando su Anthony Weiner, ex politico emergente del partito democratico ed ex marito della sua assistente personale, la giovane e fidatissima Huma Abedin, il quale «è stato denunciato per molestie nei confronti di ragazzine minorenni, a cui inviava sue foto in costume adamitico». Osserva Foa: «Forse è il karma che colpisce i Clinton: pensavano di aver fatto fuori Trump pubblicando gli audio dei suoi commenti sulle donne e ora proprio uno scandalo sessuale rischia di rovinare la carriera dell’ex first-lady».Ma anche senza il colpo di coda dell’emailgate, aggiunge Foa, Hillary sarebbe stata in difficoltà. Motivo: ormai «la maggior parte degli americani diffida dei cosiddetti media mainstream (grandi tv e grandi giornali) e molti di loro preferiscono informarsi su siti di informazione che sono letteralmente esplosi in quei mesi come “Breitbart”, “Drudge Report”, “Infowars”, quasi tutti filorepubblicani e gli unici ad aver dato conto regolarmente dell’altro enorme scandalo ignorato dai grandi organi di informazione: quello di Wikileaks con la pubblicazione di migliaia di email del capo della campagna democratica, John Podesta, e di altri collaboratori, che sono stati hackerati». Dalla lettura di quelle email «emerge il doppio linguaggio dell’ex first lady su temi fondamentali con evidenti contraddizioni tra quanto promette agli elettori e quel che dice a prete chiuse alle lobby più influenti». Ed emergono «gli “inciuci” con una stampa servile e quella che appare come una corruzione implicita, multimilionaria, tramite la sua Fondazione anche con governi stranieri», come Qatar e Arabia Saudita (Isis e Fondazione Clinton, stessi sponsor). Emerge insomma «il vero volto del mondo della Clinton e, in genere, del potere di Washington, che provoca disgusto e rabbia negli americani».Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.
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Foa: Hillary ci trascina in guerra con Putin. Renzi? Esegue
Fra Donald Trump e Hillary Clinton io non mi chiedo chi è il migliore dei due, ma chi è il meno peggio, il meno pericoloso. Paradossalmente, conoscendo bene Hillary e vedendo i disastri che ha fatto in Libia, nel mondo arabo e in Siria all’inizio della guerra, quando era segretario di Stato, e sapendo che Hillary Clinton in realtà è una “neocon”, ovvero una rappresentante degli orientamenti del neo-conservatorismo estremo che ha guidato la politica Usa dal 2011 a oggi coi risultati disastrosi che vediamo, ebbene io dico che tra i due è molto meno rischioso Trump, non foss’altro perché vuole una distensione con la Russia, mentre Hillary – come Obama – preme per un conflitto con la Russia. E io rabbrividisco al solo pensiero di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, in Europa, con il rischio che vengano usate le armi atomiche. E’ veramente una follia, e per questo penso che Trump sarebbe meno pericoloso di Hillary.I soldati italiani che saranno inviati al confine con la Russia? E’ gravissimo, ma purtroppo non è sorprendente. Renzi, che fa le sue sparate pubbliche contro l’Unione Europea e qualche tempo fa, anche con un certo coraggio, si era schierato con posizioni favorevoli o simpatizzanti nei confronti della Russia, poi quando l’America ti dice (tramite la Nato) che bisogna mandare soldati in Lituania, Estonia, al confine con la Russia, non ha il coraggio di opporsi, perché alla fine chi comanda sono gli Stati Uniti – e nessun leader europeo, tranne poche eccezioni, ha il coraggio di dire no, di anteporre gli interessi nazionali. Questo è un altro aspetto che non viene dibattuto, e invece è molto significativo: per me questa decisione è scandalosa, perché ci espone al rischio di una rappresaglia diretta da parte della Russia, rischio che non possiamo permetteci di correre, e soprattutto lancia un messaggio sbagliatissimo: l’Italia è amica della Russia e deve evitare queste forme di provocazione. Purtroppo, invece, l’evidenzia dimostra che, se Washington dice “bisogna che voi mandiate i soldati”, l’Italia poi china la testa e manda i soldati. Dovremmo veramente chiederci se tutto questo è davvero nel nostro interesse.La Russia non ha fatto nulla per provocare gli Stati Uniti. Ma gli americani, nei loro disegni strategici, sono convinti che la Russia debba essere controllata. Sono convinti che, controllando lo spazio eurasiatico, possano mantenere la leadership nel mondo e mettere in un angolo la Cina. Putin non è un leader allineato. Inizialmente lo era; ma poi, quando l’America ha iniziato a occuparsi dell’Ucraina, si è reso conto che non poteva fidarsi degli americani ed è cominciata questa schermaglia, inizialmente verbale, e poi sfociata nelle sanzioni. Il vero obiettivo degli Stati Uniti è provocare l’uscita di scena di Putin: sostituirlo con un leader russo che sia in realtà molto amico degli Usa, come peraltro era Eltsin. E per far questo sono disposti a tutto: l’arma delle sanzioni, l’arma delle minacce.Ma attenzione: i russi non sono un piccolo paese come l’Iraq, o un paese che può essere facilmente messo sotto pressione come qualunque piccolo paese occidentale. La Russia resta una grande potenza, dotata di una certa intelligenza e di un servizio di intelligence raffinato. E infatti le risposte che vediamo sono veramente fuori dagli schemi. Il problema è che questo disegno degli americani rischia di portare il mondo a una nuova guerra mondiale, a una guerra nucleare. Il rischio, purtroppo, è molto concreto. E io sono davvero preoccupato: se fino a oggi non ci siamo arrivati è perché la Russia è riuscita a mantenere i nervi molto saldi. Ma, mi chiedo: c’è davvero bisogno di spingerci fino a questo punto? La risposta, ovviamente, potere immaginarla.(Marcello Foa, dichiarazioni rilasciate alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 18 ottobre 2016, condotta da Fabio Frabetti in collaborazione con Stefania Nicoletti – un lungo colloquio radiofonico, in cui Foa si è espresso in modo approfondito e circostanziato sulla scandalosa reticenza dei media mainstream soprattutto in relazione ai gravissimi abusi commessi da Hillary Clinton).Fra Donald Trump e Hillary Clinton io non mi chiedo chi è il migliore dei due, ma chi è il meno peggio, il meno pericoloso. Paradossalmente, conoscendo bene Hillary e vedendo i disastri che ha fatto in Libia, nel mondo arabo e in Siria all’inizio della guerra, quando era segretario di Stato, e sapendo che Hillary Clinton in realtà è una “neocon”, ovvero una rappresentante degli orientamenti del neo-conservatorismo estremo che ha guidato la politica Usa dal 2011 a oggi coi risultati disastrosi che vediamo, ebbene io dico che tra i due è molto meno rischioso Trump, non foss’altro perché vuole una distensione con la Russia, mentre Hillary – come Obama – preme per un conflitto con la Russia. E io rabbrividisco al solo pensiero di un conflitto tra Stati Uniti e Russia, in Europa, con il rischio che vengano usate le armi atomiche. E’ veramente una follia, e per questo penso che Trump sarebbe meno pericoloso di Hillary, che attraverso la Fondazione Clinton si è fatta finanziare dall’Arabia Saudita e dal Qatar, i due paesi arabi accusati di sostenere l’Isis.
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Via dall’euro o è la fine, ormai lo ammette anche Zingales
E’ un’intervista destinata a far scalpore, secondo Marcello Foa, sebbene il quotidiano che l’ha pubblicata, “Repubblica”, abbia cercato di annacquarla. «Il vero titolo era “Via dall’euro, con l’austerità non c’è futuro”», invece «hanno preferito un più neutrale “Quella contro l’austerity è una battaglia persa”». Resta però la sostanza. Luigi Zingales, economista della University of Chicago, stronca i tentativi di Renzi di strappare qualche decimale di flessibilità per la semplice ragione che il vero nodo è strutturale. Le schermaglie non servono a nulla: «Il problema non è qualche punto decimale di flessibilità, ma la vera struttura dell’unione monetaria», dice Zingales. «Senza una politica fiscale comune, l’euro non è sostenibile: o si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi». Cosa dovrebbe fare l’Italia per sbloccare l’austerità di marca tedesca? «Di certo smetterla di elemosinare decimali da spendere a scopi elettorali rendendosi poco credibile. Dovrebbe invece iniziare una battaglia politica a livello europeo. Dire chiaramente che alle condizioni attuali l’euro è insostenibile».«O introduciamo una politica fiscale comune che aiuti i paesi in difficoltà o dobbiamo recuperare la nostra flessibilità di cambio. Tertium non datur», sostiene – oggi – l’economista, che fu tra i più robusti sostenitori del governo Monti, massima espressione dell’euro-rigore imposto all’Italia, senza anestesia, nel 2011. «Il rischio per gli italiani è quello di finire come la rana in pentola: se la temperatura aumenta lentamente non ha la forza per saltare fuori e finisce bollita», continua Zingales su “Repubbica”. «Il nostro paese non cresce da vent’ anni: quanto ancora possiamo andare avanti?». Certo, annota Marcello Foa sul “Giornale”, Zingales continua a credere che una politica fiscale europea potrebbe risolvere i problemi di molti paesi europei. Ma il professore, «realisticamente, sa che la Germania non si scosterà dall’attuale linea». A Berlino, dichiara ancora l’economista, «conviene che questa situazione continui all’infinito». E spiega: «È difficile che qualcuno cambi idea se non gli conviene, a meno che non sia costretto a farlo. I tedeschi temono di pagare il conto delle spese altrui e su questo non hanno tutti i torti».«Dunque, nulla cambierà», conclude Foa. «E l’Italia deve scegliere: se non vuole morire dissanguata lentamente deve trovare altre soluzioni. Ne resta una sola: uscire dall’euro, come sostengono da tempo Alberto Bagnai e gli economisti che gravitano attorno ad “Asimmetrie”». E se Renzi «fosse davvero il premier di rottura che pretende di essere», secondo Foa «coglierebbe l’occasione per avanzare con forza la questione, anzi per porla al primo posto nell’agenda del paese». Altro che Olimpiadi, altro che riforma costituzionale: tutto è inutile se prima non si riesce a riattivare l’economia reale. Cambio di rotta: dire all’Unione Europea che l’Italia, nell’euro, non regge più? Esattamente. «Ma questo coraggio, Renzi non ce l’ha», sottolinea Foa. «Preferisce, al solito, la propaganda e le schermaglie verbali: come se bastasse parlare bene, per salvare un paese».E’ un’intervista destinata a far scalpore, secondo Marcello Foa, sebbene il quotidiano che l’ha pubblicata, “Repubblica”, abbia cercato di annacquarla. «Il vero titolo era “Via dall’euro, con l’austerità non c’è futuro”», invece «hanno preferito un più neutrale “Quella contro l’austerity è una battaglia persa”». Resta però la sostanza. Luigi Zingales, economista della University of Chicago, stronca i tentativi di Renzi di strappare qualche decimale di flessibilità per la semplice ragione che il vero nodo è strutturale. Le schermaglie non servono a nulla: «Il problema non è qualche punto decimale di flessibilità, ma la vera struttura dell’unione monetaria», dice Zingales. «Senza una politica fiscale comune, l’euro non è sostenibile: o si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi». Cosa dovrebbe fare l’Italia per sbloccare l’austerità di marca tedesca? «Di certo smetterla di elemosinare decimali da spendere a scopi elettorali rendendosi poco credibile. Dovrebbe invece iniziare una battaglia politica a livello europeo. Dire chiaramente che alle condizioni attuali l’euro è insostenibile».
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Ce l’hai con Matteo? Ti spezzano le gambe, su Internet
Bene, ora lo sappiamo: Matteo Renzi e Filippo Sensi possono contare su un esercito invisibile. Che c’è per loro ma non c’è per il pubblico. Un esercito composto da un numero imprecisato di blogger incaricato di battere il web per sostenere le posizioni del premier e denigrare quelle degli oppositori. Il tutto sotto mentite spoglie. Già perché i guerrieri del web , ma sarebbe meglio chiamarli i “picchiatori del web”, mica dichiarano la propria appartenenza politica. Si presentano come normali internauti, appassionati di politica che passano ore su Facebook, su Twitter, sui blog a duellare con foga, per creare l’onda pro Renzi o spezzare quella anti Renzi. Roba da professionisti. La notizia del “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa, in cui si narra che Filippo Sensi ha invitato a “menare Di Battista sulla Libia” non è un fatto di colore, non è un colpo di sole estivo come è stato trattato dai giornali, che hanno evidenziato come il portavoce si sia sbagliato di chat, scrivendo il messaggio su quella usata per mandare comunicati ufficiali ai giornalisti. E’ ben più grave.Benché Sensi si sia premurato di fornire una spiegazione, che peraltro non ha convinto nessuno, è evidente che pensava di scrivere su un’altra chat, molto riservata, molto verosimilmente quella in cui i finti blogger aspettano il messaggio del giorno per poi colpire sul web. Costruire ma soprattutto distruggere. Senza pietà. Idee, ma anche persone. In questo caso Di Battista. Fino a pochi mesi fa Casaleggio. Da sempre Salvini. E occasionalmente Berlusconi. In ogni caso chi si oppone alla volontà del Narciso di Rignano. Dirige il Maestro Sensi. Ma come, penserete voi, il portavoce di un primo ministro fa queste cose? Non dovrebbe rappresentare tutti gli italiani, nel rispetto di un mandato che è comunque istituzionale? Certo che dovrebbe. Ma quando ci sono di mezzo gli spin doctor tutto diventa relativo e opinabile. Quel che conta è l’obiettivo, che va raggiunto ad ogni costo. Sia chiaro: lo fanno anche altrove, in Francia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, paesi imbevuti di spin, ma dove si cerca di salvaguardare le apparenze, anche solo per tutelare il presidente o il premier.A occuparsi di queste utilissime ma poco presentabili attività non è mai direttamente il portavoce del presidente o del premier, bensì qualcuno che fa da filtro e che, nell’improbabile ipotesi che la stampa se ne accorga, possa essere sacrificato. Quel che colpisce di Renzi e del suo spin doctor Sensi è l’arroganza, è la sfacciataggine, è la certezza di non essere denunciati dai giornalisti. Altrove nessun premier si permetterebbe di minacciare direttori di giornali con frasi del tipo “ti spezzo le gambe”, di inviare sms intimidatori, di occupare la Rai per spegnere qualunque voce di dissenso e, a quanto pare, persino la libertà di satira. Nessun portavoce riuscirebbe a rimediare alla gaffe della chat con una battuta, peraltro poco riuscita e per nulla credibile. In Italia, nell’Italia di Renzi, invece è pratica corrente. Sanno, Matteuccio e il suo abile propagandista, che la maggior parte dei giornalisti, con poche lodevoli eccezioni, preferirà tacere, per convenienza, anziché battere i pugni sul tavolo. Solo dopo, solo quando Renzi, nonostante l’overdose di spin, sarà finito, tuoneranno. Dopo, quando non c’è nulla da rischiare.(Marcello Foa, “Renzi e i picchiatori del web, una verità imbarazzante”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” dell’11 agosto 2016).Bene, ora lo sappiamo: Matteo Renzi e Filippo Sensi possono contare su un esercito invisibile. Che c’è per loro ma non c’è per il pubblico. Un esercito composto da un numero imprecisato di blogger incaricato di battere il web per sostenere le posizioni del premier e denigrare quelle degli oppositori. Il tutto sotto mentite spoglie. Già perché i guerrieri del web , ma sarebbe meglio chiamarli i “picchiatori del web”, mica dichiarano la propria appartenenza politica. Si presentano come normali internauti, appassionati di politica che passano ore su Facebook, su Twitter, sui blog a duellare con foga, per creare l’onda pro Renzi o spezzare quella anti Renzi. Roba da professionisti. La notizia del “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa, in cui si narra che Filippo Sensi ha invitato a “menare Di Battista sulla Libia” non è un fatto di colore, non è un colpo di sole estivo come è stato trattato dai giornali, che hanno evidenziato come il portavoce si sia sbagliato di chat, scrivendo il messaggio su quella usata per mandare comunicati ufficiali ai giornalisti. E’ ben più grave.
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Pazzesco, a Nizza si ordina di cancellare le prove della strage
La magistratura francese ha ordinato al Comune di Nizza di distruggere tutte le immagini registrate dalle telecamere di sicurezza la notte dell’attentato. Come? Non è possibile… E’ stata la mia prima reazione. Ma è tutto vero. Parola del “Figaro”, che ne dà notizia e pubblicando un documento che è autentico è stato confermato dalla magistratura, che ha giustificato il provvedimento sostenendo che si devono evitare diffusioni incontrollate di immagini che possano ledere la dignità delle vittime o che possano essere usate a fini propagandistici dai terroristi. Una giustificazione risibile: quelle immagini non sono pubbliche. Da notare che subito dopo l’attentato la direzione dell’antiterrorismo Sdat aveva inviato inviato dei server supplementari per archiviare le 30mila ore di filmati registrati quel giorno. E’ lo stesso Sdat che però ora ne sollecita la distruzione.Il Figaro scrive che «il giorno dopo il dramma sulla Promenade des Anglais alcuni ufficiali della polizia giudiziaria erano venuti per identificare la posizione delle telecamere. Un primo rapporto era stato inviato al ministero dell’interno. Curiosamente proprio queste telecamere sono oggetto della richiesta dello Sdat». Gli inquirenti sono sconcertati. Cito ancora il “Figaro”: «E’ la prima volta che ci chiedono di distruggere delle prove, precisa una fonte vicina all’inchiesta». Già, stanno distruggendo delle prove. Perché? L’ottimo Pino Cabras su “Gli Occhi della Guerra” ne parla evidenziando anomalie anche riguardo l’inchiesta del Bataclan. Ma rimaniamo a Nizza. Mettete in fila le ultime rivelazioni di stampa: “Paris Match” rivela che in quella zona il divieto di circolazione è assoluto e permanente ma il camion ha potuto girare liberamemte, compiendo anche manovre strane tali da attirare l’attenzione. Nessuno lo ha fermato né multato.“Libèration”, come scritto ieri ha dimostrato le bugie del governo sui posti di controllo all’inizio della zona pedonale. Ora la rivelazione del “Figaro”, la più clamorosa e incomprensibile. Davvero incomprensibile. Troppo incomprensibile. Aggiornamento importante: il quotidiano “Nice Matin” scrive che il Comune di Nizza si rifiuta di cancellare le immagini. L’avvocato del Comune, Philippe Blanchetier, annuncia che il Comune non solo denuncerà il decreto ingiuntivo che ha ricevuto, ma che si appresta anche a chiedere al procuratore di Nizza di sequestrare queste immagini “al fine di non compromettere eventuali altre procedure che possano emergere al di là delle indagini anti-terrorismo attuali”. Una città si rivolta contro lo Stato centrale. Dice no a un’ingiustizia. Senza precedenti!(Marcello Foa, “Sconcertante: a Nizza si distruggono le prove. Su ordine della magistratura”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 22 luglio 2016).La magistratura francese ha ordinato al Comune di Nizza di distruggere tutte le immagini registrate dalle telecamere di sicurezza la notte dell’attentato. Come? Non è possibile… E’ stata la mia prima reazione. Ma è tutto vero. Parola del “Figaro”, che ne dà notizia e pubblicando un documento che è autentico è stato confermato dalla magistratura, che ha giustificato il provvedimento sostenendo che si devono evitare diffusioni incontrollate di immagini che possano ledere la dignità delle vittime o che possano essere usate a fini propagandistici dai terroristi. Una giustificazione risibile: quelle immagini non sono pubbliche. Da notare che subito dopo l’attentato la direzione dell’antiterrorismo Sdat aveva inviato inviato dei server supplementari per archiviare le 30mila ore di filmati registrati quel giorno. E’ lo stesso Sdat che però ora ne sollecita la distruzione.
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Foa: battuta l’élite, ora sappiamo che dall’Ue si può evadere
E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.La tempra di un paese ha prevalso sull’emozione e sul cordoglio. La Gran Bretagna fiera della propria autonomia, convinta della propria unicità, capace di scegliere da sola nei momenti topici della propria storia è risorta, dando ragione a Nigel Farage – un ex uomo d’affari che dal nulla ha creato un partito e trascinato un paese a una svolta storica – e a Boris Johnson, il sindaco di Londra uscente, che non ha esitato a schierarsi contro l’establishment del proprio Paese, dando forza e autorevolezza al movimento anti-Ue. Molti diranno che nei britannici ha prevalso la paura di un’immigrazione ed è innegabile che questo sia stato uno dei temi forti della campagna, ma non è stato un voto razzista; semmai la prova che l’immigrazione è salutare e bene accetta se regolata, ma provoca comprensibili reazioni di rigetto quando diventa impetuosa e di massa.C’era di più, però, in questo referendum: c’era la volontà di difendere l’autenticità delle proprie istituzioni, della sovranità del voto popolare e dunque della propria democrazia. Di dire basta a un’Unione Europea i cui meccanismi decisionali sono opachi, in cui il processo di integrazione viene portato avanti da un’élite transnazionale, vero potere dominante dell’Europa e non solo, tramite un processo caratterizzato da un persistente “deficit democratico”, che li ha portati ad ignorare o ad aggirare la volontà dei popoli, ogni volta che si è opposta ai loro disegni. Talvolta persino a calpestare, come accadde un anno fa, quando la Troika costrinse Atene a rinnegare l’esito schiacciante di un referendum. Lo stesso potrebbe avvenire oggi a Londra, considerato che il referendum era consultivo, ma sarebbe una scelta gravissima, al momento improbabile.Ora si apre una fase di incertezza: i mercati la faranno pagare alla Gran Bretagna, e quell’establishment non si arrenderà facilmente. Vedremo. Quella di ieri è stata, però, una giornata davvero storica. E’ la rivincita della sovranità nazionale. Per la prima volta un paese ha dimostrato che il processo di unificazione europea non è ineluttabile, che dalla Ue si può uscire, rendendo concreta la possibilità che altri paesi seguano l’esempio britannico. Un voto che costringerà l’Unione Europea a gettare la maschera di fronte a un’Europa diversa, autentica, che molti pensavano defunta e che invece è forte e vitale, quella dei popoli. Alla faccia delle élite.(Marcello Foa, “Incredibili britannici, rinasce l’Europa dei popoli”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 24 giugno 2016).E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.
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Siamo pronti a morire per Erdogan? Ce lo chiede la Nato
So che il titolo di questo post apparirà ad alcuni paradossale ma in realtà non lo è. La Turchia è membro della Nato e l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede solidarietà e assistenza militare tra i suoi membri, secondo questi termini: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’articolo 5 pareva di fatto in disuso, venendo a mancare un nemico del calibro dell’Unione Sovietica, ma i recenti avvenimenti nel Vicino Oriente e, soprattutto, la follia di Erdogan lo rende di nuovo, se non attuale, perlomeno plausibile.Qualche mese fa la Turchia si è spinta a un passo dalla guerra con la Russia, scongiurata solo dal sangue freddo di Putin, mentre negli ultimi tempi l’ambiguo attivismo di Ankara in Siria fa aumentare le possibilità di una nuova escalation militare nella regione. Non è assurdo ipotizzare che la Turchia entri in guerra e, presentandosi (naturalmente) quale vittima, invochi la solidarietà atlantica. Dunque i soldati italiani, così come quelli francesi o spagnoli, potrebbero essere chiamati a morire per Erdogan. Ne deduco due riflessioni, anzi due domande. La prima: è accettabile che la Nato abbia tra i suoi membri un leader come Erdogan, che promuove l’islamizzazione della Turchia, ha sostenuto l’Isis e sta trasformando il suo paese in una dittatura? La mia risposta potete facilmente intuirla. La seconda riguarda la natura stessa della Nato. Di solito a interrogarsi sulla necessità del Patto Atlantico sono pensatori o partiti di sinistra, ma da qualche tempo anche alcuni osservatori liberali davvero indipendenti, avanzano più di un dubbio.In tal senso mi ha colpito la riflessione di Michele Moor, che nella Confederazione elvetica ha i gradi di colonnello ed è ex presidente della Società Svizzera degli Ufficiali. Un conservatore, insomma; il quale in un articolo pubblicato qualche giorno fa sul “Corriere del Ticino” affermava: «A 67 anni dalla sua fondazione (4 aprile 1949), il patto militare che aveva l’obiettivo di arrestare l’avanzata del comunismo sovietico e di garantire la difesa dei paesi aderenti, ha progressivamente mutato la propria strategia, rendendola sempre più aggressiva e offensiva. Non è un caso che gli Stati Uniti detengano la sovranità assoluta dell’organizzazione – le più alte cariche militari della Nato sono sempre riservate a ufficiali statunitensi – e che i cosiddetti paesi alleati offrano supinamente le proprie basi territoriali, nel Mediterraneo e nell’Est europeo, agli interessi strategici della superpotenza».E ancora: «Nello scacchiere geopolitico del Sud, la guerra contro l’Isis è diventata lo specchietto per le allodole, destinato a garantire agli Usa l’espansione nell’Egeo e sulla Libia, territorio nel quale si è pensato di avviare un’operazione militare, ufficialmente guidata dall’Italia. Questa avanzata potrebbe coinvolgere prima o poi anche i paesi dell’asse asiatico, in primis la Cina, per evitare che diventino partner economici della Russia. Dietro l’intenzione, più volte dichiarata, di voler difendere l’Europa dalle aggressioni della Russia, si cela in realtà la volontà di espansionismo interventista che ha provocato la crisi in Ucraina». Parole durissime che vanno dritto al punto. La Nato ha cambiato pelle e da quando intervenne in Kosovo da associazione prettamente difensiva è diventata anche offensiva – vedi Afghanistan e Libia – assecondando i disegni strategici di Washington. Da qui la seconda domanda: la Nato ha ancora senso? Questa Nato è davvero nell’interesse degli europei?(Marcello Foa, “Italiani, siete disposti a morire per Erdogan? Ve lo chiede la Nato”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 1° maggio 2016).So che il titolo di questo post apparirà ad alcuni paradossale ma in realtà non lo è. La Turchia è membro della Nato e l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede solidarietà e assistenza militare tra i suoi membri, secondo questi termini: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’articolo 5 pareva di fatto in disuso, venendo a mancare un nemico del calibro dell’Unione Sovietica, ma i recenti avvenimenti nel Vicino Oriente e, soprattutto, la follia di Erdogan lo rende di nuovo, se non attuale, perlomeno plausibile.
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Cina e Brexit, perché Cameron non è più l’amico degli Usa
Cos’è successo a David Cameron? O meglio: perché è caduto in disgrazia con gli Stati Uniti? Il mutamento è tanto inaspettato quanto rilevante eppure è stato colto solo in parte dai media. Il primo segnale che il rapporto tra Londra e Washington non era più saldo come un tempo, è emerso un mese fa, l’11 marzo, quando Barack Obama accusò Cameron e Sarkozy di essere responsabili della destabilizzazione della Libia. «Il paese oggi è nel caos per l’incapacità di Londra e di Parigi di gestire il dopo-Gheddafi», disse il presidente americano un un’intervista all’“Atlantic Magazine”. A parte il fatto che il rimprovero in sé è inelegante, visti i precedenti in Irak e in Afghanistan (da quale pulpito, Mr President…), a suonare davvero strana era la critica diretta non tanto a Sarkozy (che non è più al potere), quanto a un premier ancora in carica e leader di un paese, la Gran Bretagna, che da sempre è il primo alleato agli Stati Uniti. Un colpo basso, improvviso, che per 24 ore ha fatto sensazione sulla stampa, ma che gli analisti più raffinati hanno colto nella sua dimensione diplomatica. Le dichiarazioni rilasciate durante un’intervista programmata sono pianificate e pertanto lasciano sottintendere problemi più seri tra i due paesi.Tre settimane dopo è esploso lo scandalo dei Panama Papers. Uno scandalo, come si è già avuto modo di rilevare, tutt’altro che casuale, per le modalità estremamente sofisticate e per la precisione dei bersagli. Il cattivo dei cattivi è risultato, come al solito, Putin, ma l’altro nome finito in prima pagina è stato quello di David Cameron, con gli effetti disastrosi sulla sua autorevolezza. E il sospetto di una crisi profonda, sebbene non dichiarata, tra Londra è Washington è diventato ancor più fondato. Probabilmente non sapremo mai chi è la gola profonda che ha violato l’archivio della Mossack Fonseca, scaricando 11 milioni di documenti, ma non è azzardato intravvedere la manina – o magari solo il beneplacito – degli Stati Uniti, che, come ha rivelato Snowden, tramite la Nsa hanno poteri di controllo e di intrusione informatica quasi assoluti, in proporzioni inimmaginabili per il grande pubblico e degne del grande fratello orwelliano.Fateci caso, peraltro: gli Usa emergono come gli unici grandi vincitori dello scandalo panamense. Nessun grande nome statunitense appare nella lista dei peccatori, semplicemente perché Panama, che di fatto è un protettorato di Washington, non viene usata dalle società americane come centro off-shore. E la vicenda Mossack Fonseca non fa che avvalorare il segreto bancario garantito dagli Usa, che non sono tenuti a rispettare le implacabili regole dell’Ocse e dove i controlli sull’identità e sulla provenienza dei fondi sono così blandi da risultare quasi inesistenti. L’America che dà lezioni di morale al mondo è rimasto l’unico paradiso fiscale al mondo. Ma perché prendersela con Cameron? E’ possibile che paghi il recente, forte avvicinamento di Londra alla Cina. Lo scorso ottobre il presidente cinese Xi Jinping dopo aver incontrato lo stesso Cameron salutò pubblicamente «la scelta visionaria e strategica della Gran Bretagna di diventare il miglior amico di Pechino in Occidente».Un’apertura che evidentemente non era stata concordata con la Casa Bianca, come nemmeno probabilmente, la decisione di indire il referendum sul Brexit. Cameron verosimilmente ha fatto di testa propria, ascoltando più le pressioni interne che i consigli di Washington, desiderosa di preservare il processo di unificazione europea e conscia dell’effetto domino in caso di una vittoria del sì. Che poi proprio i siluri americani a Cameron finiscano per rafforzare gli euroscettici, dunque a rendere più plausibile lo scenario temuto, non meraviglia più di tanto: la politica non è sempre razionale e i fattori umani producono, nella storia, conseguenze imprevedibili e autolesioniste. Quale siano le ragioni, resta il fatto che il premier di un paese fondamentale come la Gran Bretagna non è più il migliore amico dell’America. E non è una svolta di poco conto.(Marcello Foa, “Svolta storica, Cameron non è più il miglior amico degli Usa”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 20 aprile 2016).Cos’è successo a David Cameron? O meglio: perché è caduto in disgrazia con gli Stati Uniti? Il mutamento è tanto inaspettato quanto rilevante eppure è stato colto solo in parte dai media. Il primo segnale che il rapporto tra Londra e Washington non era più saldo come un tempo, è emerso un mese fa, l’11 marzo, quando Barack Obama accusò Cameron e Sarkozy di essere responsabili della destabilizzazione della Libia. «Il paese oggi è nel caos per l’incapacità di Londra e di Parigi di gestire il dopo-Gheddafi», disse il presidente americano un un’intervista all’“Atlantic Magazine”. A parte il fatto che il rimprovero in sé è inelegante, visti i precedenti in Irak e in Afghanistan (da quale pulpito, Mr President…), a suonare davvero strana era la critica diretta non tanto a Sarkozy (che non è più al potere), quanto a un premier ancora in carica e leader di un paese, la Gran Bretagna, che da sempre è il primo alleato agli Stati Uniti. Un colpo basso, improvviso, che per 24 ore ha fatto sensazione sulla stampa, ma che gli analisti più raffinati hanno colto nella sua dimensione diplomatica. Le dichiarazioni rilasciate durante un’intervista programmata sono pianificate e pertanto lasciano sottintendere problemi più seri tra i due paesi.